I.

Erigone, Aretusa, Berenice,

quale di voi accompagnò la notte

d’estate con piú dolce melodia

tra gli oleandri lungo il bianco mare?

Sedean con noi le donne presso il mare

e avea ciascuna la sua melodia

entro il suo cuore per l’amica notte;

e ciascuna di lor parea contenta.

E sedevamo su la riva, esciti

dalle chiare acque, con beato il sangue

del fresco sale; e gli oleandri ambigui

intrecciavan le rose al regio alloro

su ’l nostro capo; e il giorno di sí grandi

beni ci avea ricolmi che noi paghi

sorridevamo di riconoscenza

indicibile al suo divin morire.

«Il giorno» disse pianamente Erigone

verso la luce «non potrà morire.

Mai la sua faccia parve tanto pura,

non ebbe mai tanta soavità».

Era la sua parola come il vento

d’estate quando ci disseta a sorsi

e nella pausa noi pensiamo i fonti

dei remoti giardini ov’egli errò.

L’udii come s’io fossi ancor sommerso

e la sua voce avesse umido velo.

Ma reclinai la gota, e d’improvviso

tiepida come sangue dalla conca

dell’udito sgorgò l’acqua marina.

Pur, profondando nella sabbia i nudi

piedi, io sentia partirsi lentamente

il buon calor del tramontato sole.

E chi recise all’oleandro un ramo?

Io non mi volsi, ma l’amarulenta

fragranza della linfa della fresca

piaga mi giunse alle narici, vinse

l’odor muschiato dei vermigli fiori.

«O Glauco» disse Berenice «ho sete».

Ed Aretusa disse: «O Derbe, quando

fiorí di rose il lauro trionfale?»

Ella ben sapea quando, ma non Derbe

inesperto in foggiar lucidi miti.

Ed il cuore profondo mi tremò,

tremò della divina poesia.

Ond’io pregava: «O desiderii miei,

stirpe vorace e vigile, dormite!

E voi lasciate che nel vostro sonno

io mi cinga del lauro trionfale!»

Tutto allora fu grande, anche il mio cuore.

Oh poesia, divina libertà!

Ergevasi con mille cime l’Alpe

grande, quasi con volo di mille aquile,

per il salir d’impetuosa forza

dalle sue dure viscere di marmo

onde l’uom che non volle umana prole

trasse i suoi muti figli imperituri.

E le curve propaggini dell’Alpe

si protendeano ad abbracciare il mare;

ed il mare splendeva di candore

meraviglioso nel lunato golfo

con la bellezza delle donne nostre.

E quella luce un rinascente mito

fece di voi sull’irraggiato mondo,

Erigone, Aretusa, Berenice!

Cosí ci parve riudire il canto

delle Sirene, dalla nave concava

di prora azzurra, fornita di ponti,

veloce, in un doloroso ritorno

spinta dal vento al frangente del mare,

né ci difese Odisseo dal periglio

con la sua cera; ma il cuore, non piú

libero, novellamente anelava.

Share on Twitter Share on Facebook