II.

«O Glauco», disse Berenice «ho sete.

Dov’è la fonte? dove sono i frutti?

Dov’è Cyane azzurra come l’aria?

Dove coglierai tu con le tue mani

l’arancia aurata nella cupa fronda?

Come ci dissetammo! E tanto era soave

il dissetarsi che desiderammo

l’ardente sete. Al par di noi chi seppe

distinguere il sapore d’ogni frutto

e la maturità dal suo colore?

distinguere d’ogni acqua la freschezza

e ritrovar la sua piú fredda vena?

e regolar le labbra al vario bere

e il sorso modular come una nota?

L’imagine di me nell’acque amavi.

Dell’amore di me arsi inclinata,

sí bella nel ninfale specchio fui.

Io fui Cyane azzurra come l’aria.

Tu mi ghermisti fra natanti foglie.

L’ombra divina mi trasfigurò.

Un fiore subitaneo s’aperse

tra i miei ginocchi. Vincolata fui

da verdi intrichi, fra radici pallide

come i miei piedi, con segreto gelo.

Il sol divino mi trasfigurò.

Anelli innumerevoli alle dita

furonmi i raggi, pettini ai capelli,

monili al collo, e veste tutta d’oro.

O Aretusa, perché non ho il tuo nome?

Nascesti tu nell’isola di Ortigia

come l’amor del violento fiume?

La sirena scagliosa abbeveravi,

già fatto il vespero, al tacer dei flauti.

Diedi io le canne ai flauti dei pastori.

Io fui Cyane azzurra come l’aria.

L’acqua sorgiva mi restò negli occhi;

la lenta correntia mi levigò.

O Glauco, ti sovvien della Sicilia

bella?» Ed io piú non vidi la grande Alpe,

il bianco mare. Io dissi: «Andiamo, andiamo!»

«Ti sovvien della bella Doriese

nomata Siracusa nell’effigie

d’oro co’ suoi delfini e i suoi cavalli,

serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,

stando su l’Acradina, la triere

che recava da Ceo l’Ode novella

di Bacchilide al re vittorioso.

Udivasi nel vento il suon del flauto

che regolava l’impeto dei remi,

or sí or no s’udiva il canto roco

del celeúste; ma silenziosa

l’Ode, foggiata di parole eterne,

piú lieve che corona d’oleastro,

onerava di gloria la carena.

Scendemmo al porto. Ti sovvien dell’ora?

Un rogo era l’Acropoli in Ortigia;

ardevano le nubi su ’l Plemmirio

belle come le statue su ’l fronte

dei templi; parea teso dalla forza

di Siracusa il grande arco marino.

E noi gridammo, e un súbito clamore

corse lungo le stoe quando la nave

piena d’eternità giunse all’approdo.

Portatrice di gloria, ella vivea

magnanima, sublime. Giú pè trasti

anelava l’anelito servile;

s’intravedean su’ banchi sovrapposti

i remiganti ignudi unti d’oliva:

la lor fatica ansava dai portelli;

il giglione del remo ai raggi obliqui

lucea come la scapula; un ferigno

odore si spandea, quasi di belve.

E non di quell’anelito servile

era viva la nave, non del sangue

e dell’ossa pesanti ne’ suoi fianchi;

ma sí vivea divinamente d’una

cosa ch’ella recava d’oltremare,

piú lieve che corona d’oleastro:

l’Ode, foggiata di parole eterne».

«E’ vero, è vero!» io dissi. «Mi sovviene».

Ed il cuore profondo mi tremò,

tremò della divina poesia.

«Mi sovviene. Era l’Ode trionfale:

Canta Demetra che regna i feraci

campi siciliani, e la sua figlia

cinta di violette! Canta, o Clio,

dispensatrice della dolce fama,

la corsa dei cavalli di Ierone!

Nike ed Aglaia eran con essi quando

trasvolavano...» E l’anima invelata

di sogni andava per le lontananze

dei tempi verso i gloriosi approdi

piena d’eternità come la nave

di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,

l’isole, gli arcipelaghi, le sirti:

riverimmo le foci dei paterni

fiumi, pregammo i promontorii sacri,

salutammo le bianche cittadelle

custodite da Pallade rupestri;

varcammo l’Istmo pel diolco. Quivi

eroi vedemmo e Pindaro con loro.

Ed obliammo l’usignuol di Ceo

per l’aquila tebana. Era la tua

mitica luce sul Tirreno, o madre

Ellade, ed era bella come i tuoi

monti la nuda Alpe di Luni, o madre

Ellade, come i tuoi monti bellissima

era, onde a te discesero le stirpi

degli Immortali che incedeano al fianco

degli Efimeri sopra il dominato

dolore, e quelli e questi erano eguali,

e tutti erano Ellèni ed una lingua

parlavano divina, uomini e iddii».

In silenzio guardammo i grandi miti

come le nubi sorgere dall’Alpe

ed inclinarsi verso il bianco mare.

Io vidi allora Pègaso pontare

su gli altissimi marmi i piè di vento

e balzar nell’azzurro con aperte

le immense penne, senza cavaliere;

e per il petto e per il ventre vasti

trasparia come fiamma palpitante

la potenza del sangue gorgonèo.

Ardi gridò: «Ecco il teschio d’Orfeo,

che vien dall’Ebro!» Ed il solenne lido

parve attendere il fato dopo il grido.

La sua bellezza s’aggradí d’orrore.

Il flutto nell’insolito splendore

era meravigliosamente puro.

Splendea sul mondo un giorno imperituro.

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