«O Glauco», disse Berenice «ho sete.
Dov’è la fonte? dove sono i frutti?
Dov’è Cyane azzurra come l’aria?
Dove coglierai tu con le tue mani
l’arancia aurata nella cupa fronda?
Come ci dissetammo! E tanto era soave
il dissetarsi che desiderammo
l’ardente sete. Al par di noi chi seppe
distinguere il sapore d’ogni frutto
e la maturità dal suo colore?
distinguere d’ogni acqua la freschezza
e ritrovar la sua piú fredda vena?
e regolar le labbra al vario bere
e il sorso modular come una nota?
L’imagine di me nell’acque amavi.
Dell’amore di me arsi inclinata,
sí bella nel ninfale specchio fui.
Io fui Cyane azzurra come l’aria.
Tu mi ghermisti fra natanti foglie.
L’ombra divina mi trasfigurò.
Un fiore subitaneo s’aperse
tra i miei ginocchi. Vincolata fui
da verdi intrichi, fra radici pallide
come i miei piedi, con segreto gelo.
Il sol divino mi trasfigurò.
Anelli innumerevoli alle dita
furonmi i raggi, pettini ai capelli,
monili al collo, e veste tutta d’oro.
O Aretusa, perché non ho il tuo nome?
Nascesti tu nell’isola di Ortigia
come l’amor del violento fiume?
La sirena scagliosa abbeveravi,
già fatto il vespero, al tacer dei flauti.
Diedi io le canne ai flauti dei pastori.
Io fui Cyane azzurra come l’aria.
L’acqua sorgiva mi restò negli occhi;
la lenta correntia mi levigò.
O Glauco, ti sovvien della Sicilia
bella?» Ed io piú non vidi la grande Alpe,
il bianco mare. Io dissi: «Andiamo, andiamo!»
«Ti sovvien della bella Doriese
nomata Siracusa nell’effigie
d’oro co’ suoi delfini e i suoi cavalli,
serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,
stando su l’Acradina, la triere
che recava da Ceo l’Ode novella
di Bacchilide al re vittorioso.
Udivasi nel vento il suon del flauto
che regolava l’impeto dei remi,
or sí or no s’udiva il canto roco
del celeúste; ma silenziosa
l’Ode, foggiata di parole eterne,
piú lieve che corona d’oleastro,
onerava di gloria la carena.
Scendemmo al porto. Ti sovvien dell’ora?
Un rogo era l’Acropoli in Ortigia;
ardevano le nubi su ’l Plemmirio
belle come le statue su ’l fronte
dei templi; parea teso dalla forza
di Siracusa il grande arco marino.
E noi gridammo, e un súbito clamore
corse lungo le stoe quando la nave
piena d’eternità giunse all’approdo.
Portatrice di gloria, ella vivea
magnanima, sublime. Giú pè trasti
anelava l’anelito servile;
s’intravedean su’ banchi sovrapposti
i remiganti ignudi unti d’oliva:
la lor fatica ansava dai portelli;
il giglione del remo ai raggi obliqui
lucea come la scapula; un ferigno
odore si spandea, quasi di belve.
E non di quell’anelito servile
era viva la nave, non del sangue
e dell’ossa pesanti ne’ suoi fianchi;
ma sí vivea divinamente d’una
cosa ch’ella recava d’oltremare,
piú lieve che corona d’oleastro:
l’Ode, foggiata di parole eterne».
«E’ vero, è vero!» io dissi. «Mi sovviene».
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
«Mi sovviene. Era l’Ode trionfale:
Canta Demetra che regna i feraci
campi siciliani, e la sua figlia
cinta di violette! Canta, o Clio,
dispensatrice della dolce fama,
la corsa dei cavalli di Ierone!
Nike ed Aglaia eran con essi quando
trasvolavano...» E l’anima invelata
di sogni andava per le lontananze
dei tempi verso i gloriosi approdi
piena d’eternità come la nave
di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,
l’isole, gli arcipelaghi, le sirti:
riverimmo le foci dei paterni
fiumi, pregammo i promontorii sacri,
salutammo le bianche cittadelle
custodite da Pallade rupestri;
varcammo l’Istmo pel diolco. Quivi
eroi vedemmo e Pindaro con loro.
Ed obliammo l’usignuol di Ceo
per l’aquila tebana. Era la tua
mitica luce sul Tirreno, o madre
Ellade, ed era bella come i tuoi
monti la nuda Alpe di Luni, o madre
Ellade, come i tuoi monti bellissima
era, onde a te discesero le stirpi
degli Immortali che incedeano al fianco
degli Efimeri sopra il dominato
dolore, e quelli e questi erano eguali,
e tutti erano Ellèni ed una lingua
parlavano divina, uomini e iddii».
In silenzio guardammo i grandi miti
come le nubi sorgere dall’Alpe
ed inclinarsi verso il bianco mare.
Io vidi allora Pègaso pontare
su gli altissimi marmi i piè di vento
e balzar nell’azzurro con aperte
le immense penne, senza cavaliere;
e per il petto e per il ventre vasti
trasparia come fiamma palpitante
la potenza del sangue gorgonèo.
Ardi gridò: «Ecco il teschio d’Orfeo,
che vien dall’Ebro!» Ed il solenne lido
parve attendere il fato dopo il grido.
La sua bellezza s’aggradí d’orrore.
Il flutto nell’insolito splendore
era meravigliosamente puro.
Splendea sul mondo un giorno imperituro.