L’opere e i giorni

O sposo della Terra venerando,

è bello a sera noverare l’opre

della dimane e misurar nel cuore

meditabondo la durabil forza.

Veglio, la tua parola su me piove

candida come il fior del melo allora

che già comincia ad allegare il frutto.

Parlami, e dimmi quali sieno l’opre.

«Di questo mese m’apparecchio l’aia.

La mondo e sarchiellata lievemente

la concio con la pula e con la morchia

sicché difenda la biada da topi

e da formiche e d’altra gente infesta.

E poi la piano con la pietra tonda,

o con legno; o pur suvvi spargo l’acqua

e suvvi metto le mie bestie, e bene

co’ piedi lor la faccio rassodare;

e poi si secca al sole» il veglio dice.

E sta su la sua soglia rinnovata

di quella pietra ch’è detta serena

(nasce del Monte Céceri in gran copia)

schietta pietra, pendente nell’azzurro

alquanto, di color d’acqua piovana

ove cotta la foglia sia del glastro.

E dietro la sua faccia, che la grande

etade arò con invisibil vomere

sí che raggia di curvi e retti solchi

qual iugero già pronto alla sementa,

sale su per lo stipite di pietra

il bianco gelsomin grato alle pecchie,

eguale di candore al crin canuto.

«Di questo mese nel solstizio, quando

il Sol non puote piú salire, semino

le brasche; le qua’ poi di mezzo agosto

trapiantar mi bisogna in luogo irriguo.

E la bietola e l’appio e il coriandro

e la lattuga semino, ed innacquo.

Colgo la veccia, e sego per pastura

il fien greco. La fava anzi la luce

vello, scemante la luna; la fava,

anzi che compia lo scemar la luna,

batto; e refrigerata la ripongo.

Di questo mese inocchio il pesco, impiastro

il fico, vòto l’arnia, il condottiero

eleggo nel gomitolo dell’api.

E prossima si fa la mietitura

dell’orzo, la qual compiere mi giova

anzi che mi comincino a cascare

le spighe, imperocché non son vestite

sue granella di foglie, come il grano.

Da giovine sei moggia il dí potei

segarne!» sorridendo il veglio dice.

Ancora armata è la gengiva, salda

nel suo sorriso e nella sua favella.

E non pur gli vacillano i ginocchi,

se ben la falce nell’oprare gli abbia

a simiglianza del suo ferro istesso

curve le gambe. E sopra il santo petto

il lin rude, che l’indaco fe’ quasi

celeste, crea misteriosamente

l’imagine di Pan duce degli astri,

cui nel torace si rispecchia il Cielo.

(Collocabile tra il 10 e il 16 luglio 1902)

Share on Twitter Share on Facebook