La spica

Laudata sia la spica nel meriggio!

Ella s’inclina al Sole che la cuoce,

verso la terra onde umida erba nacque;

s’inclina e piú s’inclinerà domane

verso la terra ove sarà colcata

col gioglio ch’è il malvagio suo fratello,

con la vena selvaggia

col cíano cilestro

col papavero ardente

cui l’uom non seminò, in un mannello.

È di tal purità che pare immune,

sol nata perché l’occhio uman la miri;

di sí bella ordinanza che par forte.

Le sue granella sono ripartite

con la bella ordinanza che c’insegna

il velo della nostra madre Vesta.

Tre son per banda alterne;

minore è il granel medio;

ciascuno ha la sua pula;

d’una squammetta nasce la sua resta.

Matura anco non è. Verde è la resta

dove ha il suo nascimento dalla squamma,

però tutt’oro ha la pungente cima.

E verdi lembi ha la già secca spoglia

ove il granello a poco a poco indura

ed assume il color della focaia.

E verdeggia il fistuco

di pallido verdore

ma la stípula è bionda.

S’odon le bestie rassodare l’aia.

Dice il veglio: «Nè luoghi maremmani

già gli uomini cominciano segare.

E in alcuna contrada hanno abbicato.

Tu non comincerai, se tu non veda

tutto il popolo eguale della mèsse

egualmente risplender di rossore».

E la spica s’arrossa.

Brilla il fil della falce,

negreggia il rimanente,

di stoppia incenerita è il suo colore.

E prima la sudata mano e poi

il ferro sentirà nel suo fistuco

la spica; e in lei saran le sue granella,

in lei sarà la candida farina

che la pasta farà molto tegnente

e farà pane che molto ricresce.

Ma la vena selvaggia

ma il cíano cilestro

ma il papavero ardente

con lei cadranno, ahi, vani su le secce.

E la vena pilosa, or quasi bianca,

è tutta lume e levità di grazia;

e il cíano rassembra santamente

gli occhi cesii di Palla madre nostra;

e il papavero è come il giovenile

sangue che per ispada spiccia forte;

e tutti sono belli

belli sono e felici

e nel giorno innocenti;

e l’uom non si dorrà di loro sorte.

E saranno calpesti e della dolce

suora, che tanto amarono vicina,

che sonar per le reste quasi esigua

cítara al vento udirono, disgiunti;

e sparsi moriran senza compianto

perché non dànno il pane che nutrica.

Ma la vena selvaggia

e il cíano cilestro

e il papavero ardente

laudati sien da noi come la spica!

(Romena, 25 luglio 1902)

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