IV.

Ma gli alti iddii anco mi fur benigni.

Un bel pastore dalla barba d’oro

mi raccolse. Ed all’ombra d’un alloro

mi lavorò con suoi sottili ordigni.

Quattro di bosso ei fecemi cannelle

ineguali, e assai bene le polí.

La piú corta alla spalla m’inserí

e strinse con cerate funicelle.

In bocca tre l’artiere me ne messe,

l’una piú lunga, l’altre due minori;

nella piú lunga numerosi fóri

praticò, che diverse voci desse.

Le due brevi, di largo cerchio e stretto,

aperte in giuso a mo’ di padiglione,

servir di grande e piccolo bordone

dovean come le frondi all’augelletto.

Oh meraviglia, quando per la corta

canna eglio enfiò la nova cornamusa!

Tutta di pia felicità soffusa

giovine donna venne in su la porta,

nuda le belle braccia, e disse: «O caro

marito, o barbadoro, ecco che nasce

ricchezza ingente nelle nostre case;

ed i granai si rempiono di grano,

gli alveari si rempiono di miele,

d’aurei pomi si rempiono i frutteti,

di rose citerèe tutti i verzieri,

e di cervi e di damme le mie selve;

e avrò tra i muri miei variodipinti

un talamo con quattro alte colonne

e vestimenta avrò d’ogni colore

e per cignermi d’ogni sorta cinti;

e avrò e avrò nelle mie veglie ancora

per filar la mia lana mille ancelle

mariterò le mie dolci sorelle

ai satrapi dell’Asia spaziosa!»

Questo fecero grande incantamento

l’otre e il pastore con un poco d’aria,

o uom che m’odi, con un poco d’aria

e col nume di Cintio arco-d’-argento;

però che il faretrato Citaredo,

il qual pur trasse Marsia di vagina,

sia largo della sua virtú divina

all’inculto pastore e al dotto aedo,

al calamo forato e alla testudine

tricorde se lui prieghi un puro cuore.

Noi come greggi i vesperi e l’aurore

pascemmo nella verde solitudine.

Il pino irsuto diede il molle fico,

i narcissi fioriron su i ginepri,

danzò il veltro armillato con le lepri,

e l’antico fu novo e il novo antico.

Oh maraviglia! Come l’elitropio

al Sol, volgeasi al suono la soave

donna dalla sua porta. E l’architrave

parea sculto da Dedalo il Cecropio

e lo stipite rozzo una colonna

del Palagio di Pelope l’Eburno,

quando il pastor dicea: «Come l’alburno,

intorno al cuore mi biancheggi, o donna!»

Divenuta piú candida nel suono

ell’era, come il lin nell’acqua infuso.

Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso,

la spola e i licci erano in abbandono.

Pe’ capegli repente l’abbrancò,

pe’ suoi capegli come l’uva nera,

come il folto giacinto a primavera,

come dell’edera il corimbo forte,

pe’ capegli repente l’abbrancò

la Morte, l’abbattè, pel calle oscuro

la trascinò: di là dal fiume curvo,

nel regno buio la portò la Morte.

E nessuno e nessuno piú la scorse.

Cupo silenzio fu dentro le case.

L’ombra lunga occupò la soglia, invase

il talamo. E l’aurora piú non sorse.

Ma pianto non sonò dentro le case:

erano il cuore e gli occhi opache selci.

E fuggí la lucertola dall’embrice,

anche fuggí la rondine, anche l’ape.

Io pendea tristo, presso il focolare.

Ed infine il pastore si sovvenne

dell’otre. Mi guatò gran tratto. Venne,

mi tolse, muto, senza lacrimare.

Io mi credeva ancora esser premuto

contra il fianco dal cubito leggero

e disciogliere in me, rivolto al nero

Ade, l’ingombro del dolore muto.

«Sposa, ch’io venga su le tue vestigia!»

E da me svelse i calami con cruda

mano, li infranse. L’anima sua nuda

e noi profferse alla gran Notte stigia.

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