LA FELICITÀ NELLE SCARPE

Sempre sulla spiaggia del mare, quando è deserta prima che sorga il sole, io facevo i più belli incontri. Una volta trovai due scarpe in buonissimo stato, il che mi destò non poca meraviglia, tanto più che non appartenevano allo stesso paio, sebbene fossero entrambe gialle di colore. E non erano neanche dello stesso sesso. L’una era da uomo, l’altra da donna.

Se mi avessero in quel momento risolto il problema dell’anima, se mi avessero presentato l’elefante bianco del Siam da portare a passeggio, o se un servitore in livrea mi avesse recato, sopra un piatto d’argento, un nuovo peccato mortale, non mi sarei stupito come mi stupii alla vista di quelle due derelitte, di cui ciascuna aveva smarrito la compagna.

Per fortuna io non avevo l’anima di un giudice istruttore, nè di un detective: altrimenti avrei subodorato il delitto. Subodorai bensì il peccato, ma di qual natura esso fosse non pensai nè dissi a me stesso. Quando un uomo va solo per la strada o per la spiaggia deserta pare che dica sempre grandi cose a se stesso. Io per mio conto dicevo poco o niente, e invece mi piaceva moltissimo ascoltare. Tanto è vero che le più belle storie a me le hanno raccontate i granchi, i cavallucci marini, le sirene, gli uccelli, le farfalle e i calabroni. Che cosa avrei potuto raccontare io a questi esseri privilegiati? Nulla, o – tutt’al più – le solite storie degli uomini. E a me, poi, che cosa avrei potuto dire che già non sapessi a memoria da mille anni? Che un uomo sia annoiato dal suo prossimo, pazienza: ma che egli stesso si affanni per darsi noia, mi sembra enorme. Ecco perchè facevo a meno di rivolgere la parola a me stesso e gradivo di più quel che per avventura poteva degnarsi di raccontarmi una libellula.

Armate di riflettori blù, le libellule fanno un servizio di messaggeria (per le campagne) che non ha l’eguale in tutto il mondo. Col loro aeroplano perfetto possono sorvolare i ruscelli, fermarsi a saccheggiare le piante acquatiche, volteggiare con ogni sorta di acrobatismi presso le case degli uomini e divulgare le notizie. Questo è il loro còmpito. Così le civette sanno verso sera, prima di iniziare le loro macabre scorrerie, dove abita qualche moribondo; le farfalle notturne sanno dove si festeggiano le sagre con luminarie di lucciole, e gli àtropi luttuosi, che portano il saio della Misericordia, sono informati del luogo preciso dov’è possibile saccheggiare un alveare.

A furia di vivere in grande dimestichezza con loro, io avevo per amiche queste creature dell’aria che per solito rifuggono da ogni confidenza con la razza umana. Sono amiche esemplari che, se possono rendervi un favore, lo fanno volentieri senza pretendere in cambio un monumento di gratitudine, alla maniera degli uomini.

Passeggiando sulla spiaggia, com’era mio costume, io dimenticavo di appartenere ad un alveare di uomini. La mia stessa possibilità di comunicare con altri esseri di cui io solo sapevo apprezzare la felicità e la grazia, concorreva a darmi quella sensazione di distacco e di gaudio propria di chi vive lontano dall’umanità.

Ecco perchè, avendo trovato due scarpe di diverso sesso sulla spiaggia del mare, rimasi stupito e perplesso: perchè erano vestigia di una storia di uomini, mentre io amavo associarmi alle gioiose scorribande e alle avventure di tutto altro genere.

Eccomi dunque ancóra inchiodato alla realtà umana da quelle due scarpe: due scarpe legate insieme con un filo e portate a passeggiare per la spiaggia; due scarpe nuovissime, che non potevano essere state buttate via e potevano soltanto essere state smarrite o trafugate.

Guidato da questa prima scoperta, mi proposi di riuscire a sapere a chi appartenevano, con la onesta e pedestre intenzione di restituirle ai legittimi proprietari. E non saprei dire veramente per quale strano destino io prendessi a cuore una faccenda simile, io che non mi occupo mai di niente, nè dei fatti miei nè di quelli altrui, e le notizie che m’interessano le vado solo a cercare nei boschi.

Ma volli, come si dice, andare in fondo. Io mi ero sempre proposto, nella vita, problemi più ardui. Più d’una volta ero andato nella luna. Avevo anche costretto le stelle ad abbassarsi per cogliere le sommità dei cipressi che circondano la mia casa. Un’altra volta ero andato all’isola di Giava col solo proposito di fare il solletico a un pappagallo. Questa volta avevo due scarpe da restituire a due sconosciuti! Pazienza. Forse cominciavo a invecchiare. Ebbi il presentimento che una grande felicità sarebbe per me derivata da quell’avventura. E andai avanti.

Era la stagione dei bagni. Buon tratto della spiaggia era deturpata dalle baracche di legno variopinto con cui la gente per bene si crede in diritto di offendere il paesaggio, precludere la vista del mare, contaminare la sabbia. E tutto questo perchè deve farsi il bagno!

Tornai sùbito a casa e nascosi accuratamente la scarpa da uomo in un cassetto del mio scrittoio. E con quella da donna mi proposi di avvicinarmi a tutte le baracche (senza farmi troppo notare e dando l’impressione di uno scherzo) e chiedere alle signore: «Scusi, è sua questa scarpina?». E seguitare così finchè avessi ritrovato il piede fatato di Cenerentola. Sapevo bensì di avventurarmi in una impresa idiota: ma ho già detto che qualche solenne destino presiedeva a tutto questo, per fini imperscrutabili.

È inutile dire che non riuscii a trovar nulla. Le signore sorrisero, stringendo ai fianchi i loro accappatoi variopinti. Una di esse, che aveva il sole trapunto davanti e la luna di dietro, come la veste delle fate, guardò la scarpina con la stessa curiosità circospetta con cui avrebbe guardato un piccolo coccodrillo imbalsamato, e rispose con dolce voce:

— Non mi pare... E, del resto, sono così nuda!... Come faccio a sapere?

Infatti era appena uscita dall’acqua e qualche goccia le imperlava il viso. Una goccia sotto l’occhio sinistro fingeva di essere una lagrima, ma io non le credetti. La donna mi sorrise e se ne andò stringendosi l’accappatoio che rabbrividì di piacere. Il sole e la luna fluttuarono sulla bella persona che fluttuava tuttavia. Fluttuava anche il mare. Io seguitai le mie indagini, pur avendo la persuasione che quella donna fosse la legittima proprietaria della scarpina.

Sicuro ormai del fatto mio, e ripromettendomi da quell’avventura le più dilettose conseguenze, tornai a casa soddisfatto. E fu il mio torto. Non bisogna mai tornare alla propria casa soddisfatti. Bisogna tornarvi nell’ansiosa attesa di un disastro. Se poi trovate tutti sorridenti – la moglie, la suocera, la scimmia – tanto meglio. Ma bisogna mettersi in mente che la propria casa è una trappola per dispiaceri. Se poi non ne è rimasto imprigionato alcuno durante la mattina, è un caso straordinario che dovrebbe essere convenientemente apprezzato da chi non vuol macchiarsi di nera ingratitudine verso il destino.

La mia amica, che era dolce di carattere, Bianca di nome, e rossa di capelli, mi vide e mi sorrise dalla finestra. Ragione per cui non giudicai ragionevole nascondere la scarpina che recavo in mano con leggiadria. Cercai solo di assumere un portamento disinvolto: ma nessun uomo con una scarpina da donna in mano può esimersi dall’apparire ridicolo; specialmente se va scalzo, come andavo io, con addosso un pigiama scarlatto.

— Che hai in mano?

— C’è bisogno di chiedermelo? Una scarpa. Se invece di essere una scarpa fosse un elefante, si vedrebbe lo stesso.

— Hai ragione – rispose la mia amica spalancando gli occhi e fissandoli su di me con quello sguardo febbricitante che è caratteristico delle donne rosse. – Ma mi sarei meno stupita se tu avessi recato in mano un elefante. Quella scarpina, è mia, e son ventiquattr’ore che la cerco! Dov’era?

Si crede comunemente che nei casi solenni della vita, di fronte all’irreparabile, uno debba svenire, gettare un urlo, saltare una finestra, o per lo meno impallidire mortalmente. Io non feci nulla di tutto questo (forse perchè ero in pigiama) sebbene in realtà sentissi dentro di me crollare qualche cosa. Anzi risposi con buona grazia, semplicemente:

— L’ho trovata sulla spiaggia. Ecco.

E le porsi la scarpetta, che era sua.

— Sulla spiaggia? È strano! – E stava per aggiungere qualche cosa. Ma si contenne. Mormorò ancóra: – È strano! — E corse nella stanza da letto, tornò indietro con le due scarpe appaiate, le alzò con la mano dinanzi ai miei occhi. A me parvero felicissime di trovarsi ancóra insieme...

Non poteva dunque esserci alcun dubbio: la mia amica mi tradiva. Con chi? Con la scarpa che era nel cassetto. Per tre o quattro giorni fui ossessionato dalla ricostruzione del delitto. Lei e lui dovevano essersi dato convegno sulla spiaggia, di sera o di notte (infatti io ero stato assente alcuni giorni), e per il piacere di camminare scalzi sulla riva e sentirsi bagnare i piedi dalle onde, entrambi si erano tolti le scarpe. Era la abitudine di tutti. In quella spiaggia regnava la massima libertà. In quel momento forse un ragazzo era passato, aveva preso a caso le due scarpe e le aveva trascinate dopo averle legate con un filo... Oplà! Oplà! Lui aveva fatto da cavallino e il carretto dietro... E in realtà il più nero dei tradimenti l’innocenza aveva trascinato per le vie del mare...

Certo la mia amica si avvide del mio pessimo umore, e il suo silenzio ebbe per me il valore della più aperta delle confessioni. Non avevamo nient’altro da dirci. Dovevamo soltanto andarcene per due strade opposte. C’era di mezzo la nostra bambina di tre anni. Ostacolo grave, che ella forse giudicava insormontabile; ma io ero fermamente deciso a lasciare al suo destino quella perfida donna che avevo tanto amata e che – parrà inverosimile – amavo tuttavia con tutti i tormenti e i rimorsi e le vigliaccherie dell’uomo geloso che non sa nè andarsene nè restare. Ero quasi deciso a rapire la bambina e a fuggirmene chi sa dove...

Una mattina, prima che sorgesse il sole, ripresi le mie scorribande sulla riva del mare. Sùbito i miei amici mi vennero incontro per farmi aspri rimproveri: calabroni, farfalle, cavallucci marini, uccelli, fitte siepi di tamerici e tutta la pineta gesticolante e protesa da una parte come se volesse correre: e non vi dico quante libellule! Pareva una gara di aviazione preparata in mio onore...

— Hai visto che cosa vuol dire abbandonare noi per ingolfarsi in una storia di uomini?

Io avrei voluto osservare che quando si ama una donna e si ha una bambina è quasi impossibile rinunziare alla propria storia, ma fu un gambero che mi distrasse coi suoi rimbrotti da buon crostaceo:

— Tu ti dibatti tra l’avvenire e il passato. Ecco il male. Io non ho avvenire e perciò cammino a ritroso. E rimastico, rimastico, e non perdo di vista la mia infanzia. Il tuo destino invece ha due facce. Troppe per un uomo solo!

Col cuore gonfio di avvilimento me ne tornai a casa. Sentivo che tutta la mia vita ormai era là, circoscritta dal mio piccolo dramma, impoverita dalla mia piccola ansietà. La mia parentela con gli esseri privilegiati era spezzata per sempre. Mentre me ne andavo quasi di corsa, il sole nasceva in alto mare, simile a una marmitta di rame infuocato. Pareva che stentasse a staccarsi e a salire con la dovuta dignità. Poi fu come un balzo nel cielo, fulmineo, con cui riprese la sua divinità e la sua gloria. Il che dimostrava che anche lui s’era lasciato distrarre e trattenere da qualche vecchia storia con la terra...

Salii le scale assai preoccupato di non avere più in tasca le chiavi dello scrittoio. La mia amica aveva lasciato per me alcune parole sopra un foglio di carta. Era quello il mezzo da noi adottato per comunicarci le cose urgenti, ogni altra conversazione essendo stata abolita.

C’era scritto:

«Si può sapere perchè nascondi accuratamente nel cassetto la tua scarpa che io vado cercando da un mese?».

Numi del cielo! Cavalli marini! Sirene del mare! Io li chiamai tutti a partecipare alla mia gioia dentro il mio cuore. Non bastò. Mi misi a correre per la spiaggia come un pazzo. La felicità in una piccola stanza mi avrebbe asfissiato. Pure, risposi con un altro biglietto che diceva così:

«E tu si può sapere perchè vai rovistando i miei cassetti?».

Il giorno dopo calzai vittoriosamente le mie lucidissime scarpe gialle. Non ne avevo mai viste altre più felici di stare insieme!

Mi presi in braccio la mia bambina (che non si è ancóra tolto il vizio di attaccare col filo e far penzolare dal balcone tutto quello che trova per casa) e me la portai lungo la spiaggia.

— Ah! Tu fai penzolare le scarpe dal balcone e le fai cadere, e un altro bambino le trascina poi sulla sabbia? Ah! Tu fai questo? E che cosa dirà il gambero?

Mi sovvenni dei suoi ammonimenti di buon crostaceo e mi misi a ridere. Non avrei venduta la mia piccola gioia per tutti i tesori del mare. Ritrovai sulla sabbia tutte le mie orme del giorno innanzi e le confusi con le nuove. Le sconvolsi, le distrussi. Mi parve così di calpestare per sempre la mia passata angoscia.

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