Data la nostra dimestichezza e – potrei quasi dire – la nostra parentela (parentela e dimestichezza dovute alla mia profonda conoscenza degli alberi), appena tornato alla Pineta, andai subito a cercarli.
Erano tutti e due miei vecchi amici sin dalla infanzia.
In verità io dell’infanzia loro non mi ero accorto: ma ho sempre pensato e creduto che avessero vigilata e seguìta con interesse la mia.
In compenso mi ero sempre molto appassionato alle vicende amorose del loro coniugamento vegetale.
Si sa che gli alberi amano come noi, più profondamente di noi, senza la possibilità di poter sfuggire, come possiamo far noi, alle contingenze statiche della loro infelicità.
Noi possiamo, in ogni circostanza, preparare una valigia.
Le piante devono sopportare la tragedia del loro amor fisico stazionario sotto il loro eterno cielo coniugale.
Questo è terribile.
Avere un cielo, e non poterlo mai cambiare, è quasi peggio che mutare l’inferno tutta la vita.
Io dunque ho conosciuto questi due pini fin da ragazzo e li ho sempre cercati tutti gli anni quando uscivo dal collegio per le vacanze. Quando finivano le vacanze, senza nemmeno salutarli, tornavo al collegio. E quando ero in collegio non pensavo mai ai due pini.
Fu soltanto allorchè s’iniziarono i miei dissapori coniugali che mi appassionai alla loro sorte. Si sa che gli uomini hanno per abitudine di credersi centro dell’universo. Appena si sentono infelici si guardano intorno per vedere se tutto crolla intorno a loro. E la loro vanità non li fa mai persuasi che gli alberi continuano a fiorire, che i galli continuano a cantare e le stelle a risplendere. La prima cosa che fanno quando hanno un dispiacere intimo, è di affacciarsi alla finestra per osservare se il mondo è irrimediabilmente diminuito di valore.
Si ricollega dunque al primo sentore della mia infelicità domestica l’intima conoscenza che io feci dei due pini che in quella tragica mattina di marzo facevano a gara, in mezzo alla pineta, per alzarsi sulle punte dei piedi a cogliere i primi raggi del sole.
Gli alberi hanno questo vantaggio sugli uomini: che assistono tutte le mattine al sorgere del sole con modestia, e quasi con compunzione. E intorno a questo fenomeno, che i poeti chiamano grandioso, non esprimono affatto le loro idee personali. Questa loro superiorità non è riconosciuta dai poeti, ma è vivamente apprezzata dagli alberi.
Severamente io chiesi a me stesso – essendo quella mattina animato da idee vereconde – se quella era la maniera di stare abbracciati.
Infatti quei due pini si trovavano in una positura tale che, se il mondo degli alberi fosse anche esso beneficiato dai censori del buon costume, avrebbero pagata una grossa contravvenzione per inverecondia.
Non soltanto erano abbracciati col loro tronco, ad altezza d’uomo, ma a un certo punto si distaccavano come per contemplarsi meglio, e poi di nuovo con le alte cime si ricongiungevano.
Questo non solo era civetteria, ma significava amarsi sfacciatamente all’aperto.
Or dunque io ero preso da queste considerazioni morigerate quando una luce divina aprì un varco nel mio spirito, e io fui subitamente in grado di comunicare con gli alberi.
E così appresi dai due pini una cosa che non mi aspettavo in quella mattina di marzo: che cioè essi erano assolutamente felici, e che la loro unione era legittima.
I loro genitori avevano fatto germogliare due pianticine confondendone le radici, e in tal modo era cresciuto e aveva prosperato al sole quella sorta di fenomeno di amore, di fedeltà e di costanza.
Raramente i genitori, quando si mettono in mente di coniugare due ragazzi, hanno la mano, diciamo pure, così felice.
— La nostra gioia è perfetta – mi dissero. – Così perfetta che bisogna possedere la nostra eterna ansietà verso i cieli, per capirla. Non è la gioia delle passioni umane, perchè non conosce l’ebbrezza, che è un segno di caducità: ma raggiunge i vertici dell’estasi, che soltanto può dare l’innocenza. Inoltre possiede il dono di obliarsi al punto che l’uno gode, come se fossero suoi, dei doni che il cielo prodiga all’altro: come, per esempio, il canto degli uccelli. E se a primavera qualche cosa di nuovo trepida tra i rami di uno di noi, perchè un tepore nuovo, un pigolìo lieve è nato – così lieve che non c’è nulla di abbastanza soffice per accoglierlo – un brivido corre fino alle estreme radici di entrambi. E questo noi consideriamo il segno più alto della nostra comunione: essendo quasi una maternità solennizzata senza gelosia: il che vuol dire un miracolo! E se talvolta il vento, così capriccioso coi suoi rabbuffi, viene a sconvolgerci con l’idea di piegarci, esso aiuta le nostre cime a confondersi un poco, e così abbiamo l’aria di tentennare il capo con indulgenza...
Udendo queste parole, io pensai a buon diritto che la Saggezza aveva disertato gli uomini per rifugiarsi in mezzo alle piante. E mentre me ne rammaricavo pel mio prossimo, mi consolavo pensando che, se non altro, il giorno in cui ne avessi avuto bisogno, avrei saputo dove trovarla: dal momento che la saggezza è quella tal sapienza che nessuno sente la necessità di professare, ma a cui tutti riconoscono la necessità di un domicilio: nei cimiteri, o nei libri, o nel cuore dei profeti.
Con questi pensieri nella testa, tornai a casa per riprendere in braccio il mio dispiacere domestico, il quale invero, dopo l’ammonimento delle piante, mi parve meno duro.
Un altro giorno della mia vita mi ritenni il più felice degli uomini, perchè avevo trovato per avventura in mezzo al giardino di casa mia un uovo di gallina, come se fosse stato in un nido. E allora cercai nella mia testa un luogo dove andare a espandere la mia allegrezza. Da mia suocera no, perchè avrei ritrovate le solite lamentele; dal mio libraio no, perchè avrei ritrovato i soliti libri; dal mio amico intimo neppure, perchè avrei ritrovato le solite confessioni. Mio dio, dove andare quando si ha nel cuore una gioia così improvvisamente mattutina e illegittima, che un uovo forse non fecondato può esagerare fino al delitto?
Io me ne andai alla mia pineta a ritrovare i due vecchi pini.
— Quelli almeno – pensai – sono felici, e non amareggeranno la mia giornata.
Li ritrovai infatti al solito posto (la felicità degli alberi non è randagia) e mi preparai in cuor mio ad ascoltare nuovi particolari svenevoli della loro felicità vegetale. Ma un disinganno mi attendeva. E se il disinganno degli uomini è grave, quello degli alberi trafigge il cuore!...
Non riuscii a capire da che parte venisse la voce: ma certo uno dei due parlò. Del resto quando una voce angosciosa si esprime, non importa da che parte venga: rientra nella dolorante umanità.
— Sai perchè la nostra felicità è spezzata? Per questa semplice ragione: perchè «lei» crede che io la tradisca! Come possa fare a tradirla, dal momento che non posso muovermi d’un centimetro dal mio posto, lo sa il buon Dio. E poi sotto la sua continua vigilanza!
(Capii sùbito di che natura fosse il dramma. Quando due creature dissentono tra loro per ragioni profonde ne attribuiscono sempre la causa a cose di nessuna importanza).
— Sai che è diventata una vita impossibile? Figùrati che, se guardo per aria, lei è gelosa delle nuvole o delle stelle. Se appena appena mi prende vaghezza di succhiare qualche cosa con una delle mie radici eccentriche, dice che cerco d’insinuarmi nel cuore della pianta vicina. Se sospiro, è perchè ho dei grilli per la testa. Immagini tu dei grilli a questa altezza? Se infine piango da qualche parte le mie solite lacrime di pino (non potrei lacrimare diversamente) lo faccio per dare spettacolo della mia infelicità domestica... Ecco perchè in verità ti dico che medito il suicidio...
Io mi guardai intorno esterrefatto.
— Ma come! – pensai. – Una pianta così robusta!
— Io medito il suicidio. Ma c’è anche, per fortuna, il guardiano della pineta che ha messo gli occhi su noi due, e ha già espresso il suo parere al fattore. Lo farà, immagino, per ricavarne un profitto personale, ma ha dichiarato che due piante non possono vivere così vicine senza danneggiarsi reciprocamente. Il brav’uomo non sa fino a qual punto ha detto una cosa giusta. Comunque, uno dei due cadrà sotto la sua scure e, se Dio vuole, sarà finita.
Me ne andai con l’animo in tumulto.
— Possibile? – pensai. – E tutto questo per una stupida bizza di donna? Ah! ma il mondo è guasto fin nei suoi alberi più sani, è corrotto fino alle radici dei pini, e allora dove, Dio mio, cercare un rifugio? Che il dramma della convivenza, questo terribile e fatale dramma umano, eserciti il suo peso d’insopportabilità anche nei boschi?
Ora avvenne che per molti mesi cercai un rifugio nel mio spirito. Poi un’altra mattina della mia vita, in cui non mi sentii nè più felice nè più infelice degli altri uomini, avendo di nuovo aspirato alla Saggezza, volli ancóra tornare alla pineta a ricercare la morale di quel vecchio dramma di famiglia che avevo lasciato in sospeso.
Credetti a tutta prima di aver sbagliato strada. Ma poi, guardando bene in terra, mi accorsi di una mutilazione quasi ancor fresca, che mi mise i brividi. Dei due pini non restava che uno! L’altro era stato abbattuto miseramente!
— Tu lo vedi – gemè la voce. – Tu lo vedi: «lui» non c’è più!
— Naturalmente – dissi tra me – quello che ha finito per essere accoppato è stato «lui».
— Non c’è più – seguitò la voce – e non era cattivo! Io lo amavo non ostante i suoi difetti... Ahimè! Se potessi farlo rivivere! Mi ha tenuto una così affettuosa compagnia! Io, si sa, lo tormentavo un poco. Ma quale anima innamorata non tormenta mai l’altra anima vicina al suo cuore? Ora non sento più la sua testa che picchia contro la mia quando infuria il vento. Altre teste si protendono verso di me, ma io sono in lutto. Potrei forse ascoltarle? Io sono in lutto. E sento le sue radici ancóra quasi vive. Esse mi vigilano. Esse mi premono. Esse mi dicono: «Sono ancóra qui!»... E io penso che era proprio buono! Un usignolo viene a cantare tutti i giorni il suo elogio funebre sopra di me e i miei vicini mi consigliano di non ascoltarlo e di distrarmi un poco. Ma io sono in lutto...
Fuggii disgustato.
E non già perchè quella storia mi stupisse.
Dio mio, era la solita storia... Infatti esclamai: — Per Bacco! Ma allora è come in mezzo agli uomini!...
Ma più di tutto mi umiliò il fatto che ancóra una volta mi conveniva cambiare domicilio alla Saggezza.