Batavia

WELTEVREDEN, 14 gennaio.

Il lavaggio della «passeggiata» mi sveglia con uno spruzzo di pulviscolo fresco nella sedia a sdraio, in cui mi sono addormentato senza volerlo stanotte, dopo aver ammirato per ore ed ore una indescrivibile notte di fosforescenza nel mar della Sonda.

Benché sia appena mattino, il sole è già alto sull’orizzonte ed ha incominciato il quotidiano, silenzioso bombardamento dell’Equatore. Mare calmo, piatto, incandescente; cielo di cristallo, quasi incolore per la troppa luce; aria tiepida, dolcissima, piena di carezze e di profumi.

Ancora deserti i ponti di classe; quattro inglesi in pigiama di seta cruda che vanno avanti indietro a passo di ginnastica; tutto sveglio invece il ponte di coperta con un formicolio di malesi e di celesti. Sulla soglia della cambusa il nostromo sorseggia il caffè. Due sguatteri spennano galline.

Un gran barbaglio d’argento tremola sull’acqua chiara in direzione del sole. Uccellacci bianchi svolazzano sullo smeraldo pallido del mare. Un salvagente galleggiante fa pensare a tante cose....

Dove stanno guardando gli ufficiali coi binocoli mi par d’intravedere ad occhio nudo una macchia scura, come una pennellata opaca sul cristallo.

— Cos’è? — chiedo ad un marinaio che passa coi pennelli ed un bidone di pittura.

— Giava!

La parola magica empie per me di fascino esotico l’orizzonte acceso. Quante volte ho desiderato questo giorno! Quante volte ho sognato d’arrivare così, in un mattino di sole, all’isola incantata! Quante volte, leggendo un libro di Kipling, di Conrad, o di Coscience, ho socchiuso gli occhi per ascoltare dentro di me il sussurro immaginario della lontanissima jungla!

The air most sweet, fertile the isle....

Pian piano, dov’era la macchia opaca, due monti precisano la loro sagoma violetta, due monti impennacchiati, con un non so che di Vesuvio nella forma conica e tronca delle cime.

— Giava? — ridomando ad un ufficiale, pel piacere di sentir ripetere la bella parola.

— Sì, ecco il Sàlak ed il Ghede, i primi vulcani dell’isola. Fra due ore s’è in porto.

I due monti sono come campati in aria, coi coni nettamente delineati nel grande ardore del cielo, scuri, precisi, come intagliati nel bagliore, mentre le basi non si vedono, nascoste dai vapori rosati del mattino. E questi due cappucci di montagna, sospesi nello spazio, col mistero dell’isola invisibile, sembrano un fantastico baldacchino sotto il quale si nascondano mille promesse.

Il tempo di scendere in cabina per chiudere alla svelta le valigie e rieccomi sul ponte. La sirena saluta la terra di Giava che s’avvicina... una fuga di palme-cocco su una spiaggia bassa, quasi a fior d’acqua, due giganteschi bracci di scogliera artificiali che s’inoltrano in mare oltre un chilometro dalla costa. Ed imbocchiamo l’avamporto di Batavia, formidabile opera dell’ingegneria olandese, alla quale valenti tecnici italiani e magnifici operai nostri apportarono, per poco pane, il contributo della loro insuperabile maestria, come ad Alessandria, come a Rio de Janeiro, come a Capo di Buona Speranza, come a Sidney, come in tanti e tanti altri porti dei cinque continenti.

Veramente la Patria dovrebbe illustrare in un’opera monumentale tutte le maggiori affermazioni del lavoro italiano nel mondo, prima che il tempo ne cancelli il ricordo. Un volume di così alto interesse nazionale, edito dallo Stato, in una veste tipografica degna delle tradizioni italiche, dovrebbe essere regalato dall’Italia imperiale a tutte le maggiori biblioteche del mondo, affinchè resti immortalata ed inoppugnabilmente documentata per gli studi storici dell’avvenire, la nazionalità degli ingegneri che hanno concepito e degli artefici che hanno eseguito, in tutte le terre ed in tutti i mari, tanti ciclopici monumenti della civiltà moderna. È probabile altrimenti che i posteri ricorderanno solamente l’ardua fatica di chi ha dato ad una Banca l’ordine di pagare!

Vecchia Batavia – Un canale.
Nuova Batavia – Una strada.
Buitenzorg – Una strada centrale.
Giava – Vulcano e lago Klakak.

Il vecchio porto di Batavia, costruito dagli olandesi nel 1600, è ora riservato alle giunche celesti ed alle barche indigene, a causa del continuo interro dei fondali per i forti detriti alluvionali dell’isola. La stessa Batavia, che era stata edificata in origine sul mare, ne dista, attualmente circa un chilometro e la terra continua ad avanzare sensibilmente d’anno in anno. Dal nuovo porto – il Tangiong Priok – alla città, vi sono circa tre leghe. Una bella strada automobilistica ed un eccellente servizio ferroviario disimpegnano il traffico intenso fra i moli e la capitale.

Dogana cortesissima e spicciativa, la più compita del mondo.

Ancora non si sono perse di vista dal finestrino del treno le alberature delle navi, che già l’isola magnifica offre al viaggiatore un piccolo saggio della sua equatoriale opulenza. Il convoglio corre per tre chilometri in mezzo ad una meravigliosa serra di palme, di fenici, di cocchi, di guttaperche, di banani, tutta una gran magnificenza verde da far impallidire il ricordo di Ceylan. Fiori e fiori, a mazzi, a cespi, a ciuffi, a pergolati, a tappeti. E nel fogliame trasvolano svelti colonnati di verande, occhieggiano villette nane, sorridono tetti ricurvi, fasciati di porcellana. È un incanto, ma s’ha appena il tempo di guardare, che già il vagone è sotto la tettoia di Riskiw.

Quando s’è fuori della stazione, si cerca la città che non c’è. Verde e verde. Ancora piante, aiuole e giardini. L’automobile del Grand Hôtel des Indes fila in mezzo ad un altro parco. Invece di case, alberi; invece di strade, vialoni; invece di magazzini, chioschi di foglie. Ma dov’è Batavia?

Il mio vicino – scialbo biondone biancovestito – mi risponde con un sorriso dei denti d’oro:

Diesen ist Batavia, Konigin van het Osten!

Questa è Batavia, regina dell’Oriente!

E si frega le mani, evidentemente divertito della nostra meraviglia.

Table d’hôte equatoriale: uomini vestiti di tela bianca, signore.... svestite, con un minimo di mussola trasparente. Fa caldo a Batavia ed il bel sesso ne approfitta per ridurre il metraggio dei tessuti. Servi malesi che non capiscono nessuna lingua, eccettuata la loro, femminei, scalzi, con un sorrisetto a molla meccanica che continuamente scatta sotto il naso appiattito; direttore di sala europeo che ha l’aria di conoscere tutte le lingue, ma che tradisce l’idioma fondamentale con un «accidenti!» che è uno schiocco di Trastevere.

Seduto al mio posto, aspetto che arrivino gli immancabili antipasti di tutti gli alberghi dell’universo. Il menu in olando-giavanese è muto per me come un geroglifico faraonico. Però leggo in caratteri a macchina tanto di Ristaffel e traduco per conto mio «antipasti», a meno che non voglia dire «buon appetito».

Quando tutti sono a tavola il maestro batte con dignità due volte le mani e pronunzia solennemente: – Ristaffel, come dicesse: Arriva il Re! Ancora l’elle finale tremola su le sue labbra rasate d’olandese di Roma, che da una porta laterale sbucano di volata, uno dietro l’altro, a dir poco una trentina di malesi in tunica bianca, ognuno con un’enorme ciotola di riso fumante, che depongono innanzi ad ogni convitato. Poi scompaiono, per riapparire un secondo dopo, con una dozzina di piattelli, e via di nuovo di corsa, e dentro di nuovo con altri piattelli, e così cinque o sei volte, a passo di bersagliere, finché tutta la mia porzione di tovaglia e quella dei miei compagni di ristaffel è tappezzata da una moltitudine di piattini e tazzerelle che fanno cerchio intorno al monumento del riso, come microscopiche pagode intorno al cupolone d’un gran tempio buddista.

Faccio così conoscenza col ristaffel, piatto forte dell’isola di Giava.

Osservo dinanzi a me una non languida matrona che ha l’aria d’essere esperta in materia e faccio come lei. Incominciamo col riempire il piatto di riso, poi s’inizia la pizzicatura dei piattelli. Dio, che pasticcio! Giù un’ala di pollo, due sottaceti, un radicchio, diverse conserve di frutta, mezzo uovo sodo, banane fritte, fegatini di chissà che provenienza, polpette non meglio identificate, foglie verdi, cetrioli, una fetta di limone, due di cocomero, una salsa grigia, un impiastro rosso, una broda gialla, un cerotto nero, due pescetti salati, un altro pescetto che è morto di convulsione, un cucchiaio di farina e ancora, ancora... poi una gran rimescolata e s’assaggia. Mica cattiva, come porcheria!

Dopo il ristaffel, frutta e v’assicuro che ce n’è d’avanzo. Non pere, nè mele, nè aranci; tutto un cesto di grazia di Dio equatoriale: ananas, lamunte, che sono cocomerini scarlatti con la polpa fitta e la buccia spinosa, dukù, che hanno l’aria di susine e sapore d’aranci, manghi alla trementina, mangostani alla china Migone, rambotani al dentifricio, viringhe, con un profumo acutissimo di gelsomini ed un saporino acidulo di nespola, papaje, cacciari, pamplemusy d’un bel violetto carnoso, sàggli, che sanno di patata ed altre varietà esotiche, tutte più o meno mangiabili, alcune anche gustose, ma senza pericolo di concorrenza per l’incontestabile primato d’una nostra pesca maturata a puntino dal bel sole d’Italia.

Anche il caffè è discutibile: tre cucchiaini d’essenza concentrata, in una mezza chicchera di panna. Buono, ma preferisco il moka alla turca.

Fatta così amicizia con l’alimentazione olando-giavanese, s’esce alla ricerca della città. Il pus-pus a trazione umana non esiste a Giava. Benché gli indigeni disimpegnino l’ufficio di uomo-cavallo in tutte le colonie europee d’Estremo Oriente, gli olandesi hanno proibito, nei loro possedimenti, questo sistema di locomozione, giudicandolo troppo degradante pel genere umano. Per essere in un paese colonizzato da una razza germanica – les barbares – la constatazione non è priva d’un certo piccante!

Il veicolo giavanese è il sado, parola che, tradotta letteralmente, significa «dorso contro dorso». Sì tratta infatti d’un biroccio tirato da piccoli poney con due sediolini messi schiena contro schiena. Quando s’è in due, ci si dà le spalle e s’ammortiscono fraternamente gli scossoni.

Il romano di Batavia mi schizza una carta topografica all’italiana, che vale tutte le guide:

— Veda, di qua si va alla vecchia Batavia, di là alla nuova; questo è il centro della città e si chiama Weltevreden. Té alle quattro, pranzo alle nove. Le farò dare una delle camere verso nord, che sono più fresche. Stia tranquillo, penserò io a tutto, doccia, ventilatore, la moglie....

— Come sarebbe a dire la, moglie?

— Sì, sì, vedrà stasera, sarà contentissimo.

— Dica.... è compresa nel prezzo?

— Naturalmente. Buona passeggiata!

Mentre il sado infila al trotto serrato dei piccoli cavalli malesi, un bel viale di tamarindi, non posso trattenermi dal pensare un istante alla «moglie» giavanese che stasera aspetterà nella mia stanza il ritorno del suo signore. C’è da avere delle brutte sorprese! In ogni modo non m’aspettavo dagli olandesi, protestanti, non conformisti, puritani, la trovata parigina della pensione completa.

Il quartiere di Weltevreden (la pace del mondo) è il centro di Batavia, ma non vi sono nè strade nè palazzi. È una foresta equatoriale di palme, di banani e di tamarindi, intersecata da placidi canali e da lunghi viali pieni d’ombra, con qua e là un padiglione rannicchiato in mezzo al verde, un pezzo di casa che fa capolino tra gli alberi, un tetto a punta che si vede e non si vede nel fogliame. La piazza reale, Konigsplein, è un immenso prato di cento ettari, bordato di giganteschi varinghi d’alto fusto, i quali danno l’impressione d’un giardino pensile costruito su alberi di piroscafo.

Tutte le abitazioni della capitale sono a pian terreno, precauzione utilissima per il caldo, ma ancor più per i terremoti che scuotono con frequenza il sottosuolo di Giava. Centocinquantamila abitanti popolano Batavia, ma non si vedono. Col sistema d’una piccola casa fornita di un grande giardino, le distanze sono naturalmente enormi. Dalla vecchia Batavia al quartiere signorile di Cornelis, vi sono ben diciotto chilometri.

Nella piazza di Waterloo, altro gigantesco prato, sorge il palazzo del Governo, costruito da un architetto veneziano all’epoca del famoso maresciallo Daendel, che è come il lord Kitchener degli olandesi. Una colonna, con un modesto leone, ricorda ai malesi di Giava il crollo del grande Italiano che fu imperatore dei francesi.

Un tram elettrico a carrozze distinte per nazionalità (bianchi, cinesi ed indigeni), conduce in mezz’ora da Weltevreden alla vecchia Batavia, il che è come dire dall’Equatore al Mare del Nord. La magnificenza del parco equinoziale di Weltevreden, lo splendore tropicale delle avenues fiancheggiate d’alte palme e di maestosi fichi babilonici, con ogni tanto la mole gigantesca d’una varinga dai cento tronchi, la grazia suggestiva, delle strade minori incassate in mezzo al verde ed ai fiori, tutta la spettacolosa opulenza di questo giardino incantato dell’Asia ardente, nel quale letteralmente scompare la capitale dell’impero olandese delle Indie coi suoi centocinquantamila abitanti, fanno parere ancor più triste e più nordica la vecchia Batavia del 1600.

Quando il tram arriva all’Herengracht, l’occhio non crede a sé stesso, tanto è fuori posto questa piccola Amsterdam dell’Equatore, con le sue case olandesi addossate una all’altra, colla sua fisonomia di ghetto, coi palazzotti settecenteschi, le mura feudali, i ponti levatoi, i fossati, i merli, la torre dell’orologio e la porta del castello. Melanconici canali specchiano, nella loro chiarezza senz’ombra, questo paradossale scenario di un mondo lontano. Certe strade fanno pensare ad una Venezia di cartapesta, costruita da gente di cattivo gusto per un’esposizione europea di macchine agricole in Estremo Oriente.

Intorno agli avanzi secolari del castello stanno umilmente accovacciati vecchi cannoni portoghesi e britannici, conquistati dai soldati della Compagnia delle Indie in lontane battaglie. Palazzi, che furono splendide dimore di capitani e d’ammiragli, sono ora adibiti ad uffici o depositi della Handelmatchappy. L’occhio rileva sui muri traccie di stemmi e scudi gentilizi, avanzi di dorature, impronte di bassorilievi, mezz’aquila, un giglio, una barbuta da cavaliere, un rostro di galeone, un’insegna di scabino: grandezza e decadenza delle cose! In questi ambienti, nei quali un tempo brillava il fasto coloniale degli statolder, sono ora ammucchiati i sacchi di riso, di zucchero e di tè dei cresi internazionali di Weltevreden.

Una cancellata di ferro circonda la microscopica chiesa dello Stadskerk, quasi a proteggerla dall’ingiuria inesorabile degli anni, la prima chiesa di Batavia, tutta piena di trofei guerreschi e di voti di mare come un reliquiario di battaglie e di naufragi.

Poco distante, un’epigrafe di marmo, sormontata da una testa mozza, ricorda il tradimento di Pietro Eberfeld, olandese, che, d’accordo coi mussulmani fanatici dell’isola, complottò nel 1722 una specie di notte di San Bartolomeo, nella quale dovevano essere trucidati tutti gli europei. Ma una fanciulla giavanese che amava un ufficiale del castello, avvertì il suo amante. Il piccolo gesto d’amore, degno d’un canto pucciniano, salvò l’impero olandese delle Indie. Eberfeld fu torturato per tre giorni e per tre notti sulla pubblica piazza, le sue carni furono strappate a brandelli con tenaglie infuocate e la testa, inchiodata sul frontone della chiesa, fu lasciata in ludibrio ai falchi del mare perchè «il cervello che aveva concepito il tradimento contro la Patria, non potesse dissolversi nel grembo della madre terra».

Il guardiano meticcio che rievoca per me il fosco episodio di storia coloniale, ha imparato evidentemente a memoria la filastrocca e la chiusa. Io penso alla mescolanza del sangue ed all’ironia del destino che affida a questo vecchio malese la quotidiana condanna della rivolta con cui i suoi padri tentarono assicurargli la libertà.

Subito dopo la vecchia città olandese, incomincia il «Kampong Tin» quartiere cinese, nel quale sono agglomerati quarantamila sudditi della Repubblica Celeste. Cambiamento di scenario a vista. Siamo a Canton: magazzini dorati, draghi, Buddha, facciate di porcellana, tetti a gondola, brulichìo chiassoso di gialli, birocci e venditori ambulanti, parasoli, ventagli, marionette di cartapecora, bambole di cera, la Cina!

Quando dagli arroyo cinesi s’entra nel quartiere malese, altro cambiamento di scenario: palizzate di stuoie, caserelle di bambù col tetto di stoppia, banani, tamarindi, palme-cocco, una folla silenziosa, umile e seminuda, nella quale sono mescolate tutte le razze dell’isola e dell’arcipelago: forse tutte le stirpi dell’Asia calda.

In mezzo alla grande miseria dei corpi umani ed agli aborti dell’incrocio equatoriale, ogni tanto una porta di graticci incornicia una bellezza superba, magnifico fiore di chissà quali complicati innesti. Il «sarrong» a colori vivaci serrato alla vita, modella un corpo felino, una mussola bianca inguanta il torso, lascia nude le spalle, comprime l’impeto del seno. L’opaco della pelle ricorda il velluto di certe pesche. Negli occhi neri, grandi, cerchiati di malva, la mansueta dolcezza dell’antilope si fonde stranamente col tagliente metallico delle iridi della tigre.

In fondo al villaggio malese un intraprendente suddito del mikado ha sfruttato un rialzo del terreno per un tea-room ad uso dei touristes. Sui pavimenti di porcellana rossa le stuoie di cocco mettono una nota di freschezza. L’occhio spazia sul mare di Giava indorato dal tramonto. I lunghi moli dell’avamporto sembrano tentacoli d’un grande polipo grigio protesi verso l’infinito marino, a ghermire le navi che passano.

Solo la vecchia Batavia del 1600 profila la sua cartolina illustrata di piccola Amsterdam nello sfondo luminoso. La nuova Batavia, Weltevreden, Riskiw, Norwik, Cornelis, il quartiere cinese, il «kampong» malese, tutto il resto insomma della capitale, è invisibile, nascosto dall’immenso tappeto verde. Piazza del Re e Piazza di Waterloo, coi loro prati, paiono, di lontano, le rovine di due incendi nella foresta vergine.

Il vento che spira dal largo a soffi placidi e regolari, agita l’immensità verde. È tutto un ondular di cimieri e di piumaggi vegetali. Quando il soffio è più forte, un principio di rivoluzione sconvolge il mondo delle foglie, poi il grande fremito s’acqueta ed il ritmo ondeggiante riprende la sua maestosa cadenza.

L’atmosfera è velata dai vapori che salgono dalla terra umida e potente, quotidianamente fecondata da violenti temporali, perennemente bruciata da un sole d’inferno, arsa nelle sue viscere profonde dal fuoco misterioso di cinquanta vulcani attivi e di cento crateri spenti.

Il sole, morendo, mitraglia il mare, la città-foresta, i monti, i coni tragici del Sàlak e del Ghede.

Non s’ha coraggio di andar via, tanto l’agonia del giorno equatoriale è piena d’incanto. Si segue il lento infittirsi del crepuscolo che pian piano appanna la visione, il progressivo venir della notte che avanza dalle lontananze del mare e scende dalle voragini del cielo, l’accensione magica del firmamento con la Gran Croce del Sud, l’apparire dei lumi di Batavia che si accendono in mezzo agli alberi celati dal fogliame come palloni veneziani di carta e lampade cinesi di seta.

L’aria è dolce assai, tiepida, profumata, tutta carezze....

Sono le dieci quando ritorno all’albergo. Il boy malese m’attende sulla soglia della stanza. Cerco subito con gli occhi la compagna della notte, ma oltre al letto e la zanzariera, non vedo altro.

Domando notizie di mia «moglie» al giallo, in inglese, in francese. Il boy non capisce. Ricorro al dizionario olandese tascabile. È tempo perso, il ragazzo non sa che il malese.

Corro nell’atrio in cerca dell’amico romano.

— Dica, non trovo la «moglie».

— Impossibile, l’ho vista mettere io stesso a letto!

— Allora è scappata....

Due minuti dopo l’incidente è chiuso. Sapete un po’ che cosa intendono per dutch wife (moglie olandese) questi burloni di Nederlandia? Un lungo cuscino, confezionato come un budello, col quale a Batavia ed in tutte le città della Sonda si dorme abbracciati per evitare alle braccia e alle gambe il contatto della pelle madida di sudore e relative complicazioni dell’epidermide.

Anch’io mi rassegno a stringere fra le braccia questo materasso-burattino, ma sono sicuro che durante la notte mi perseguiteranno in sogno i grandi occhi cerchiati di malva delle belle giavanesi del «Kampong-malà».

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