Aristocrazia coloniale

BUITENZORG, 22 gennaio.

Cinquanta chilometri di strada ferrata separano Batavia da Buitenzorg, dove risiede il Governatore Generale delle Indie Olandesi, il quale esercita la sua sovranità non solamente sull’isola di Giava, ma anche su Sumatra, su tre quarti di Borneo, Celebes, Sumbava, Kupang, le Molucche, l’arcipelago di Banda, le isole di Sud-Owest, Tenimber, tutto un blocco d’importanti e ricchissimi possedimenti coloniali di cui Giava è il centro burocratico, economico e politico.

Gli olandesi sono giustamente orgogliosi del loro dominio d’oltre mare che la piccola madre patria seppe crearsi nel periodo delle prime avventurose conquiste coloniali e che ha saputo poi difendere con tenace accortezza in mezzo alle burrasche europee contro gli appetiti britannici, francesi e tedeschi.

Giava stessa, strappata all’Olanda nel 1811 dagli inglesi, le fu restituita dopo Waterloo in segno di riconoscenza per l’aiuto contro Napoleone. Erano quelli gli anni tragici dell’implacabile duello fra il gigante di Ajaccio ed il leone britannico. Londra, assorbita dalle vicende del titanico scontro, non s’era resa conto, durante i cinque anni di permanenza a Giava, del reale valore economico e politico della grande isola australe che restava all’Olanda. Solo più tardi gli economisti inglesi riconobbero lo sbaglio di aver ceduto senza necessità «la più bella colonia del mondo». Per una volta che gli inglesi sono stati generosi, hanno dovuto poi pentirsene!

In Italia molti non si rendono esattamente conto della vastità territoriale e della potenza economica dell’impero coloniale neerlandese, grande sessantasette volte l’Olanda, che coi suoi cinquanta milioni di sudditi in continuo aumento e le sue formidabili ricchezze pone l’Olanda al terzo posto fra le grandi potenze coloniali, subito dopo l’Inghilterra e la Francia, prima dell’Italia, del Portogallo e del Giappone. Le statistiche fissano a ben sedici miliardi il commercio delle Indie Olandesi ed a oltre cinque miliardi il bilancio interno della colonia.

Durante la conflagrazione europea l’Olanda, presa fra due fuochi, sollecitata ad entrare nella mischia dall’Inghilterra e dalla Germania che mal celavano entrambe la loro ingordigia per la perla dell’Insulinda, seppe barcamenarsi, con l’abituale abilità batava, fra i due gruppi belligeranti, dando un colpo alla botte ed uno al cerchio. Se noi italiani, impegnati a fondo nella ciclopica partita senza riserve con tutte le nostre risorse spirituali e materiali, abbiamo subito le conseguenze indirette dell’attività commerciale olandese, non possiamo fare a meno di riconoscere che la situazione dell’Olanda era straordinariamente difficile, fra l’Inghilterra che ne dominava le colonie e la Germania che poteva invaderne il territorio nazionale. Certi retroscena del contrabbando olandese di guerra sono straordinariamente romanzeschi ed istruttivi. L’intervento degli Stati Uniti a fianco degli Alleati, costituì per l’Olanda una buona garanzia contro eventuali complicazioni dell’appetito britannico, in quanto fino alla dichiarazione di guerra della Casa Bianca, il contrabbando via Olanda fu in notevole parte esercitato appunto dai cittadini e dai capitali nord-americani, con la protezione ufficiale del Governo di Washington. Sono note in proposito le lunghe e complicate vertenze anglo-americane sull’interpretazione della libertà dei mari, sull’applicazione del blocco e sul diritto di polizia oceanica.

Un nababbo armeno di Giava, uno dei colossi del commercio mondiale dello zucchero, m’ha fornito giusto ieri sul fantastico arricchimento degli Stati Uniti durante la guerra, particolari interessantissimi.

Il Governatore Generale delle Indie Olandesi ha scelto per residenza un orto botanico. Infatti il Palazzo del Governo sorge in mezzo al famoso S’ Lands Plantetium, meraviglia delle meraviglie, che fa impallidire lo stesso ricordo del Perademja Garden di Ceylon. Se il palazzo di Sua Eccellenza, costretto dal regolamento contro i terremoti a contentarsi del solo pian terreno, non ha un aspetto molto imponente, nonostante un colonnato dorico e lo strappo d’un cupolotto centrale che ha l’aria d’un cappello d’arlecchino, la medesima Eccellenza può vantarsi d’avere un parco quale nessun re al mondo possiede.

Cortesemente invitato per stasera dall’Ufficio politico come giornalista italiano di passaggio ad un ricevimento ufficiale del Governo, sono venuto a Buitenzorg di buona mattina per poter visitare il Plantetium in pieno giorno.

Son arrivato alla stazione sotto un furibondo temporale, scoppiato a mezza strada, quando nessuno se lo aspettava, com’è consuetudine in questi paraggi. Buitenzorg, che è considerato uno dei luoghi più salubri di Giava, deve questa sua caratteristica un po’ allo splendido giardino, un po’ alla sua situazione elevata (250 metri sul mare) e molto ai suoi temporali, che durante tutto l’anno, scrosciano regolarmente due o tre volte al giorno, con pioggia a cateratte. S’ha l’impressione del finimondo tanto piove a rovesci, con abbondanza di lampi, di tuoni e di saette, poi, d’un tratto, l’acqua cessa come se lassù abbiano cessato di vuotare i catini dell’infinito, le nubi si lacerano, il sole irrompe nello squarcio a colpi di mitraglia, quattro sbuffi di vento spazzano le nubi ed il più limpido degli azzurri equatoriali incanta l’orizzonte. Il potente sole dell’Equinozio asciuga rapidamente la terra e ricomincia a pompare furiosamente i vapori del suolo, preparando il materiale liquido e pirotecnico del successivo cataclisma. Frattanto l’aria s’è rinfrescata, le strade si sono lavate e s’ha l’impressione d’essere sugli Appennini in uno scorcio di primavera.

Il secondo temporale della giornata m’ha sorpreso nel Plantetium. Ho avuto appena il tempo di rifugiarmi sotto un chiosco di proprietà dei giardinieri, che è subito incominciata la grande sinfonia equatoriale degli elementi: prima due, tre colpi secchi sul fogliame come battute d’attacco d’una magica bacchetta direttoriale, poi il tambureggiamento delle goccie grosse e pesanti che via via s’infittisce, incalza, tempesta sullo sterminato mondo delle foglie, cadenzato dai tamburi maggiori dei tuoni che rombano senza requie; ogni tanto lo scroscio formidabile d’una saetta come una tonante gran cassa di «gong».

Sotto la violenza delle cateratte celesti, i grandi alberi curvano i loro caschi piumati, le palme annaspano con le braccia nel vento, pare che le varinghe dai cento tronchi puntino contro terra tutti i loro sostegni per resistere alla collera della bufera, i bambù giganti si piegano e si drizzano con schiocchi di frustata, mille briciole vegetali battagliano vertiginosamente nell’aria sconvolta, i rampicanti strappati dai tronchi roteano nel vuoto, si spiumano con un frullo di farfalloni verdi, scudisciano rabbiosamente i viali, finché s’incappiano ad un ramo, s’annodano, spariscono nell’ammasso vegetale. I lampi empiono di bagliori l’oceano di verdura.

Quando i tamburi hanno preso un’andatura frenetica, e tutti gli strumenti suonano la carica, quando le raffiche investono a tromba i viali e acciuffano i tronchi per le chiome, scuotendoli con furia dannata, e le saette folgorano, una dietro l’altra, con fragore di terremoto, la solita bacchetta magica dà il segnale della fine. Il crescendo australe si spezza. I venti scompaiono. Ed esce il sole a liquidare l’orchestra!

Il Plantetium si mostra allora in tutta la sua magnificenza, irrorato di diamanti. Nel cielo l’arcobaleno sorride allo sgomento degli animali e degli uomini. Il mare ritira i tendoni grigi che nascondevano il suo immenso smeraldo. Il sereno dopo la tempesta è una festa dell’anima.

Il giardino di Buitenzorg ha il vantaggio, su tutti gli altri orti botanici del mondo, compresi i celeberrimi di Ceylon, di Singapore e di Cuba, di non essere troppo pettinato dalla mano dell’uomo. Se intorno al Palazzo del Governo le aiuole geometriche, i bossi squadrati, i praterelli tosati, gli alberi agghindati pel garden-party, i rampicanti sforbiciati come cartoni scenici, i rami costretti a far da ombrelli e le palme obbligate ad essere nane, forniscono alla foresta equatoriale di Buitenzorg il maquillage d’ordinanza di tutte le esposizioni botaniche del globo, appena ci si allontana cinquecento metri dal padiglione di Sua Eccellenza, la Natura riprende la sua libertà d’azione e sfoggia con prodigalità sovrana la sua opulenza.

La feracità eccezionale di questa terra bruciata dall’ardore di cento vulcani, il formidabile mitragliamento del sole, le potenti inaffiate dell’Equinozio, danno vita ad una vegetazione di magnificenza superiore alla stessa flora spettacolosa delle foreste vergini del Madagascar. Non si sa se più ammirare le dimensioni degli alberi o l’arditezza dei fusti o l’intensità decorativa del verde o la colorazione magnifica dei fiori, il groviglio mastodontico delle liane, il rosso sanguigno del suolo, la forza espansiva dei parassiti, gli arabeschi mirabili delle muffe sulle corteccie e sui muschi, i ricami delle resine e delle gomme che sprizzano dalle scorze a smaltare i rami e le foglie, il lavorìo immane delle radici che sforacchiano la terra e popolano certi tratti di foresta, di polipi, di mostri e di serpi.

Ho la fortuna d’essere accompagnato da un funzionario del Servizio Botanico il quale è certamente dottissimo, ma limita l’intervento della sua sapienza a zero, lasciandomi ammirare e godere. Non speravo tanto quando ho visto il suo naso a polpetta e gli occhiali con le stanghette di tartaruga! Solo di quando in quando, dinanzi ad un gigante che sembra sostenere con le sue travate massiccie tutto un pezzo di bosco, o dinanzi ad un grande fiore di porcellana screziato coi colori dell’iride, faccio involontariamente appello alla scienza pel desiderio di dare un nome a quella bellezza, l’uomo mi risponde con due parole latine che carezzano dolcemente la mia anima italiana, quasi che la Natura, per bocca d’uno dei suoi sacerdoti, voglia dire che solo il linguaggio immortale di Roma è degno di tanta maestà!

Abbondano soprattutto le palme: fusti lisci, fusti nodosi, fusti a scaglie, a squame, a bitorzoli: palmizi altissimi, completamente spogli, che si slanciano adusti e dritti come antenne d’acciaio e poi sbocciano in una corolla verde sotto la quale i grappoli scarlatti dei datteri sembrano mammelle sanguinolente, palme-fenici, col fusto scalettato e le fronde spioventi a giuoco d’acqua, palme di Cuba, palme nane del Giappone, palme a raggiera delle Filippine, palmizi smilzi delle Molucche col fusto largo verso la cima e affusolato alla base, palme-cocco, palme-sago, elais della Guinea, maurizie del Brasile, palme spinose, rampicanti, serpentine, tutte a nodi e legacci, palme-aeree coi mazzi delle noci, palme-spiga con le foglie a pannocchia ed una gran piuma bianca sulla punta, tutto un fantastico scenario di ventagli e parasoli equatoriali che ondeggia maestosamente al soffio placido del vento, con un ritmo sonante di risacca.

Le canne giavanesi, riunite a covoni dal capriccio delle liane, punteggiano di strani fasci littorii l’immensità verde. I bambù, allineati a filari paralleli con le lunghe foglie svolazzanti, sembrano formazioni di lancieri in agguato nella foresta. Qua e là il blocco vegetale s’allarga per lasciar posto ad una colossale varinga o ad un’enorme bania. Dove due giganti delle Canarie sono vicini, il tetto della foresta s’alza a cattedrale e la vegetazione lascia libero il vuoto di un tempio. Dai rami massicci precipitano agglomerazioni paurose di biscie, capigliature assalonniche di draghi, mandibole e tentacoli di medusa, a volte come un rovesciamento d’ossame marcio che resta sospeso nel vuoto con strane propaggini di fuliggine. Sono gli scherzi delle liane e delle muffe potenti dell’Insulinda.

La grandiosità della foresta di Buitenzorg supera qualsiasi descrizione, là dove venti bania moltiplicatori del Bengala (ficus religiosa) si sono sviluppati uno accanto all’altro. I loro rami-radice giunti al suolo vi si sono affondati e, trasformati così in tronchi, hanno generato altri rami, i quali, compiendo il medesimo ciclo, sono diventati anch’essi fusti, per cui ogni albero ha cinquanta tronchi e venti alberi messi insieme formano un mausoleo babilonico di colonne, di piloni, di travate.

Tutta la parte bassa di questa basilica vegetale è nuda, scheletrica, senza foglie, con un non so che di metallo greggio nella rudezza delle scorze. In cima alle colonne sta l’ammasso del fogliame, carico d’ombra, come un bosco aereo sostenuto da un’impalcatura di ciclopiche palafitte.

Fra tronco e tronco i rotanghi parassiti hanno gettato fasci di corde, i solonghi di Giava hanno teso i loro canapi marini.

Sotto, invece, i muschi hanno tessuto uno sfarzoso tappeto di verdi cupi e di velluti profondi, sul quale i disegni dei funghi hanno l’aria di decorazioni di terracotta.

Una fila di globi elettrici guida le automobili e le vetture degli invitati attraverso i cento ettari del Plantetium, fino al Palazzo del Governo. I fari dei veicoli violano il segreto notturno del bosco incantato e frugano tra i rami negli amori delle foglie. I saloni arredati con eleganza severa, sono aperti sul giardino. Le verande, piene di palme ornamentali e di fiori, sembrano una continuazione del Plantetium.

Sulle pareti del grande vestibolo, sono allineati i ritratti ad olio di tutti i Governatori Generali, burocraticamente dotati di una identica cornice. Solo l’effige di Daendel – il maresciallo di ferro – più grande delle altre, ha una larga cornice di bronzo. La testa maschia dell’impeccabile proconsole napoleonico è trattata con rara potenza nel riflesso rossastro d’una lucerna, secondo la tecnica di Rembrandt. Pare che gli occhi taglienti del maresciallo, fissino sullo scalone i funzionari ed i mercanti che si affollano verso la sala da ballo, quasi a ricordar loro che se egli non avesse impiccato senza misericordia, non sarebbero qui carichi di galloni e di commende.

I funzionari in «smoking» ed in «frac», hanno qualche cosa di militaresco nei gesti e nel portamento. Il colpo dei tacchi nell’inchino, ricorda, a chi lo dimenticasse, che siamo in una società mondana di razza germanica. Gli ufficiali di terra e di mare indossano la grande uniforme, con decorazioni e spalline. In marsina ad arabeschi d’argento i direttori generali, in marsina ad arabeschi d’oro i Residenti delle provincie. Due principi indigeni, uno della casa di Vesterlanden, l’altro della famiglia imperiale di Soerakarta, sembrano mannequins d’una ditta di galloni e dorature tanto sono carichi di fronzoli dalla punta del colletto ai risvolti dei pantaloni. Le signore seguono i capricci onnipotenti di Parigi, con quel tanto d’indipendenza che permette la distanza. Nello chic coloniale c’è sempre qualche lacuna!

La burocrazia è l’ossatura della dominazione olandese. Trenta mila bianchi amministrano cinquanta milioni d’indigeni. Il Governatore Generale è il vero re delle Indie, capo gerarchico delle forze di terra e di mare e di tutte le Amministrazioni, investito di diritto sovrano di grazia e di amnistia, libero nel territorio coloniale di fare la guerra, di concludere la pace, di firmare trattati coi principati indigeni, senza dover rendere conto a nessuno. Il Gran Consiglio delle Indie che lo assiste, ha una funzione puramente consultiva. Il Governatore ha alle sue dipendenze nove Direzioni generali (Interni, Finanze, Guerra, Marina, Istruzione pubblica, Culti, Industria e Commerci, Giustizia e Lavori pubblici) che sono veri e propri ministeri.

Giava è divisa in ventidue provincie, ognuna delle quali è amministrata da un Residente che nella propria giurisdizione gode i medesimi diritti sovrani del Governatore Generale. Il Residente ha ai suoi ordini tutta una gerarchia di Assistenti-residenti (funzionari fissi) e di Controllori (funzionari ambulanti incaricati d’ispezionare).

I funzionari sono un corpo sceltissimo, formato in Olanda alla scuola coloniale di Delft ed all’Università coloniale di Leida, suddiviso in due categorie distinte: i grandi ed i piccoli funzionarii. Due esami di Stato a distanza di ventiquattro mesi uno dall’altro, garantiscono la preparazione degli aspiranti alla carriera. È obbligatoria la conoscenza di due lingue indigene: il giavanese ed il malese; particolare questo unico in tutte le burocrazie coloniali compresa la britannica. Ogni funzionario deve parlare correntemente i dialetti dei suoi amministrati. Il metodo coloniale olandese è, fra i diversi sistemi europei, il più scientifico, forse il più logico.

I cresi internazionali di Cornelis e di Weltevreden sono largamente rappresentati al ballo del Governo. Il ritmo scandido ed un po’ gutturale dell’olandese si mescola al parlottar masticato dei britannici, i quali sono, naturalmente, numerosi nella plutocrazia di Giava. Frequenti dialoghi in greco, in armeno, in bulgaro, in spagnuolo, dicono, allo straniero di passaggio, come l’alta finanza ebraica e balcanica abbia trovato nell’isola un buon terreno per la sua attività. La Repubblica Celeste e l’Impero del Sol Levante hanno una rappresentanza di multimilionari più o meno gialli secondo il riflesso delle lampade, in costume nazionale i primi, collo «smoking» europeo i secondi. Anche le Molucche hanno un cosettino saltellante color buccia di limone, il quale coi suoi dollari detta legge sui mercati equatoriali del betel; una specie di marionetta asiatica che continuamente trotta alle calcagna di Sua Eccellenza.

La figura alta e quadrata degli olandesi fa parere ancora più piccoli e più ingombranti questi gialli. Ve ne trovate sempre uno fra i piedi, che appena guardato sorride con un tic degli zigomi, ricomponendo subito dopo la sua maschera di dignità. L’invadenza cino-giapponese non si limita alle sale del Palazzo, ma è uno dei grandi problemi della colonia. Ci sono centocinquantamila cinesi nella residenza di Batavia e prolificano come i gatti. Vasta e complessa è l’attività dei giapponesi, i quali dedicano speciale attenzione a questo grande impero coloniale amministrato da una piccola Potenza europea sulle soglie del Pacifico, nel quale sta misteriosamente maturando uno dei più grandi drammi dell’umanità.

Gli uomini parlano d’affari, di tè, di pepe, di cacao, di gomma, di zucchero, di piantagioni. Ci si crederebbe quasi nell’emiciclo di una Borsa dieci minuti prima dell’apertura dei corsi.

Parecchi di questi multimilionari di Batavia hanno incominciato la loro fortunosa e fortunata carriera negli acquitrini di Soerakarta o nella jungla di Borneo come piccoli piantatori o come negozianti ambulanti. Pian piano hanno accumulato un patrimonio che ora permette loro di abitare una delle sontuose ville di Weltevreden. Un passato di miseria, di rischi e di battaglie nobilita la loro attuale opulenza. Questi sono in genere gli olandesi, i belgi, i britannici, qualche italiano, qualche portoghese di Macao. Altri, invece, giunti trent’anni fa a Batavia o a Surabaya, senza un soldo, hanno saputo destreggiarsi con abilità e tenacia nell’ambiente difficile e talvolta equivoco dei traffici d’oltre mare, fino a raggranellare, come mediatori o sorveglianti, una piccola somma che hanno poi audacemente investita in affari sempre più grossi, di carattere più che altro speculativo, conquistando alla fine la ricchezza. Sono in prevalenza gli ebrei ed i balcanici.

Vi sono poi i grandi amministratori olandesi, inglesi e tedeschi, delle Compagnie, delle Limited, delle Matchappy, venuti qui dall’Europa o dalle Indie, alla testa di formidabili capitali, quasi tutti self made man, che debbono il loro posto di comando a capacità tecniche o commerciali; i grandi appaltatori – fra cui parecchi italiani – che hanno la loro fortuna legata al mirabile sviluppo economico ed edilizio della colonia, i direttori delle piantagioni private e di Stato che hanno spesso iniziato la loro carriera come semplici assistenti, e sono giunti fino al vertice della gerarchia, o altissimi funzionari politici che hanno percorso nelle regioni equatoriali tutta la scala delle promozioni in condizioni eccezionali di responsabilità.

Questa aristocrazia burocratica, tutta scintillante di gradi e di decorazioni, è passata attraverso il setaccio di cento prove e di cento pericoli ed ha sovente esercitato, nell’ambito delle proprie attribuzioni, un’autorità quasi sovrana. Come il clima ha temprato la loro resistenza fisica, così la responsabilità ha collaudato il carattere. Intorno a molte fronti le incipienti canizie si aureolano di nobiltà. Anche i plutocrati che in fondo debbono solamente ai loro milioni il privilegio di sfarfallare nei saloni di Sua Eccellenza, sono assai diversi dalla noblesse dorée delle grandi città d’Europa: più rozzi, più «nuovi ricchi», pochissimo colti, spesso digiuni di qualsiasi nozione, ma nel loro insieme più simpatici, uomini di coraggio e di lavoro, acciai umani d’alta potenza. Un passato difficile d’ardimento, di lotta e di tenacia, giustifica e quasi consacra la loro eccessiva ricchezza. Possono, quando vogliano, fare abbassare gli occhi ad un demagogo colla cruda esposizione del prezzo che hanno pagato per diventare capitalisti. V’è del napoleonico nella vita di molti di questi milionari d’oltre mare che in altri tempi sarebbero stati forse pirati, capitani di ventura, aspiranti ad un trono, che oggi regnano fra i sacchi e le casse di Batavia con la corona di re del pepe, del tè o della cannella. C’è fra loro chi ha rischiato o meritato la galera, c’è chi, in un episodio della sua vita di battaglia, ha toccato le più alte vette dell’eroismo personale e del sacrifizio.

Chi può penetrare i piccoli segreti di questa gente di sacco e di corda, di resistenza e d’audacia, il passato dei quali, ad un certo punto, si perde nel più grande segreto della jungla di Sumatra, o delle montagne di Borneo?

Coi loro milioni di fiorini potrebbero ritirarsi oggi in Europa e chiudere la vita nel turbinìo della mondanità fastosa d’Occidente. Molti restano invece sulla breccia fino alla morte, incatenati dall’Equatore al suo carro di fuoco, figli e schiavi della loro opera, incapaci ormai di riabituarsi ai costumi ed alla mentalità del paese d’origine. Certe scrivanie di Batavia sono veramente piccoli troni d’autocrati moderni, dai quali si comandano a colpi d’ukase Borse e mercati.

Tutto sommato, l’opulenza non ha sfogo in questa terra coloniale, nella quale il massimo lusso è una villa a pian terreno, l’arte e la politica non offrono investimento di capitali e d’ambizioni, la stessa mondanità ha un campo d’azione assai limitato. I patrimonii s’ingrossano. Il supremo sfarzo è nei gioielli. In nessun luogo ed in nessuna occasione ho visto tanta ricchezza di diamanti e di perle quanto in questo ballo di Buitenzorg. Certe signore sono vere vetrine d’orefici. Il fasto di Deauville e di Ostenda in piena stagione, quando lo snobismo e gli albergatori raccolgono in una serata di gala nei saloni dorati dei Casino, i più bei gioielli ed i più famosi ladri del vecchio e del nuovo continente, è ben povera cosa di fronte ai fantastici tesori che sfolgorano sulle nudità della plutocrazia femminile di Batavia in un ricevimento ufficiale.

Altere bellezze nordiche, che l’anemia equatoriale aggrazia di un indefinibile languore, superbe creole sbocciate al sole ardente di Giava o di Pondichery, mezze andaluse di Manilla, con negli occhi d’onice tutto il fascino dell’Estremo Oriente, olando-malesi coi capelli d’oro di Van Dyk e la pelle ambrata dall’equinozio, sfoggiano con prodigalità da Cleopatre, al collo, alle braccia, alle dita, fino intorno alle caviglie, un visibilio di solitarii, di smeraldi, di rubini, collane imperiali di perle, vezzi di zaffiri grossi come nocciuole, diademi di topazi degni d’un patriarca, gioielli preziosissimi di scrigno regale. E questa sovrabbondanza, che altrove sarebbe di cattivo gusto, finisce qui coll’armonizzarsi coll’ambiente equatoriale, coll’aria troppo tiepida, col vento troppo profumato, colle pompe del sole e della natura, colla stessa essenza psichica di questa plutocrazia d’oltre mare.

Che cosa hanno cercato e che cosa cercano, in fondo, tutti questi uomini di commercio e d’affari della lontana Europa trapiantati a pochi gradi dall’Equatore? La ricchezza! Arte, coltura, scienza, politica, tutto passa per loro in seconda linea, di fronte alla conquista dell’oro, che fu il miraggio affascinante della loro avventurosa giovinezza, che è il supremo conforto della vecchiaia vittoriosa.

Mentre le coppie ondeggiano alla cadenza d’un tango, mettendo senza volerlo nel passo ritmato tutta la mollezza dell’Equatore che intorbida le loro vene coloniali e meticce, mentre nella vertigine della luce i brillanti sprizzano i formidabili bagliori delle loro microscopiche faccette, e le perle irradiano la loro infinita evanescenza, che pare voluttà spersa nell’aria, penso a tutto il male e a tutto il bene che sono stati necessarii per concentrare in poche mani tanta ricchezza, alle vite che hanno pagato con l’estremo soffio dell’esistenza questi raggi cristallizzati di sole, queste iridescenze madreporizzate di mare...

Bassezze, miserie, eroismi, audacie, fatiche nobilissime, furti, tradimenti, scherzi del Caso, capricci della Fortuna, tutte le bellezze e le viltà dell’avventura, riddano anch’esse insieme con le coppie consapevoli od ignare.... Sono rubini di sangue, diamanti di lagrime condensate, zaffiri, smeraldi, perle, i grandi nonnulla dell’umano desiderio.... Ed ardono nella luce, sulle carni giovani, sulle carni mature, sulle carni già baciate dal soffio impuro della morte, al ritmo dolce e lento del tango d’Argentina....

Per le verande aperte e per le porte spalancate, entra il profumo della foresta, Il wisky e la soda si sposano nei calici di cristallo. Manghi e banane si macerano nel vino effervescente di Francia. Quando il jazz-band sospende un momento il ciottolio dei suoi cocci, si sente il rombo sovrano delle palme che ondeggiano nella notte di Giava, al vento dell’Equatore.

Share on Twitter Share on Facebook