TRA CIELO E MARE

I grandi volatori transoceanici che con uno o due salti formidabili balzano da un continente all'altro stanno rimpicciolendo terribilmente i viaggi «vecchio stile» per mare. Chi ha l'abitudine di scrivere per il pubblico le proprie impressioni di viaggiatore ha quasi voglia di saltare la pagina oceanica che un tempo costituiva uno degli elementi interessanti d'ogni gironzolata per il mondo. La descrizione del «palazzo galleggiante»? La vita ed i pettegolezzi di bordo? La festa per il passaggio dell'Equatore? Gli emigranti che cantano nella quiete dei crepuscoli le canzoni della loro patria? L'ufficialetto di belle speranze che fa la corte alla passeggera matura di prima o alla passeggera acerba di seconda? Sì, francamente, riconosco che tutto ciò è diventato «vieux jeu» nel secolo di Lindbergh e di De Pinedo. Può interessare lo spettatore diretto il quale non avendo altro da fare durante gli ozii di bordo vi prende magari gusto, ma gli altri che sono lontani e che ogni giorno leggono sui giornali i voli tra Europa ed Asia, tra Africa ed America, come possono dare retta ad una banale traversata in transatlantico? È come suonare sulla chitarra una canzonetta napoletana tra una sinfonia di Beethoven ed una tempesta orchestrale di Wagner!

Eppure io penso che anche fra quarant'anni, quando cioè le trasvolate aeree saranno diventate il pane quotidiano d'ogni uomo normale, che anche fra cento anni, quando forse la navigazione marittima sarà addirittura scomparsa, perchè troppo costosa, anche allora vi saranno sempre gli innamorati del viaggio in piroscafo, quelli che ameranno vedere le terre del passato allontanarsi pian piano e svanire nell'incertezza degli orizzonti; e spuntare, dopo un grande intermezzo azzurro che è come una parentesi della vita, altre che via via ingrandiscono e che parlano all'anima il linguaggio dolce del domani e della speranza.

M'è capitato di veder partire De Pinedo a Dakar quando il bel Santa Maria ha spiccato il volo dall'Africa al Brasile e più tardi all'Avana, quando con un solo salto s'è divorato il Tropico americano ed il mare dei Caraibi. Ho visto scattare il brasiliano Barros dalle Canarie alle isole di Capo Verde, lo spagnuolo Loriga dalla Mauritania a Fernando Pó, i francesi del raid del Madagascar e sempre ho avuto l'impressione di un proiettile che si slancia, s'innalza, sparisce. In quegli istanti la mia anima vibrava di entusiasmo, invidiava gli eroi che dominavano le distanze, era come rapita in alto nel vortice di quelle ali superbe! Avrei voluto essere al posto di quegli uomini! Per un momento tutto quel che avevo fatto mi pareva straordinariamente piccino, straordinariamente insignificante, quasi buffo! Ma poi, passato l'istante di esaltazione, mi dicevo: quando il volare non avrà più nulla di eroico, quando sarà diventata la faccenduola di tutti i giorni e di tutti i pizzicagnoli, quando il pilota non sarà più un De Pinedo che anticipa la storia e porta in giro la bandiera di un popolo in un alone di gloria, ma sarà un semplice watchman delle tramvie aeree a tanto al mese, con l'indennità combustibile, quel giorno quanto sarà stupido viaggiare!

Si partirà con la velocità del lampo da un paese nel quale si è magari vissuti venti o trent'anni, che può essere anche la patria che non si vedrà mai più; lo si lascierà nello spazio di un baleno senza che gli occhi ne vedano gli ultimi contorni, senza che la memoria s'arricchisca del loro profilo, senza ascoltare i rintocchi delle ultime campane, senza sentire il profumo degli ultimi fiori, senza l'estremo colloquio, il grande colloquio muto fra l'anima di un uomo e l'anima di una terra. E s'arriverà nel paese nuovo in brevissimo tempo, senza avere avuto il tempo di desiderarlo e di amarlo per lo spasimo medesimo del desiderio, senza vederlo uscire pian piano dal grande mistero dell'ignoto nella rosata dolcezza di una aurora piena di promesse, senza poter interrogare i picchi, i colli, le spiaggie, le case e chiedere loro: «Che cosa mi riservate? che cosa mi darete? che gioie, che felicità, che illusioni mi offrite?»

Ed allora lasciate che io vi descriva il mio viaggio transoceanico «vieux jeu», senza eroismi, senza tempeste, senza naufragi, senza novità, senza il piccolo incendio a bordo, senza neppure un avvelenamento collettivo, un banalissimo viaggio insomma dell'anno di grazia 1927, in un transatlantico di mezzo lusso, in una cabina bianca con le tendine di velluto verde, in una cuccetta larga sessanta centimetri con un materassino che ne ha solo quaranta e che bistratta maledettamente le costole.

La traversata dell'Atlantico, dall'Africa (Dakar) all'America Centrale (Avana), è stata per me una specie di rappresentazione teatrale in due atti, con l'intermezzo di una farsa. Atto primo: partenza dal continente nero; atto secondo: arrivo al Nuovo Mondo; farsa: la vita di bordo.

Se vi interessa, eccovi la rappresentazione.

Atto primo. Africa! Un continente che ha esercitato su di me fin dall'infanzia una suggestione irresistibile, che mi ha dato le sensazioni più forti della mia esistenza, che si è assorbito diversi anni della mia vita senza che io possa dolermene, tanto furono movimentati ed intensi, che mi ha dato le gioie più dolci, gli amori più veementi e più profondi, le legnate più poderose, le malattie più crudeli, le illusioni più rosee, le delusioni più dure, che infine ha riempito col suo bello e col suo brutto, col suo dolce e col suo amaro, col suo oro e con la sua miseria, la maggior parte della mia gioventù. Africa! Il continente nel quale sono sbarcato ancora quasi fanciullo, senza nulla sapere della vita e degli uomini, del bene e del male, dell'amore e dell'odio, come un uccello che abbandona il nido per il primo volo e che mi ha fatto uomo, ora dandomi una carezza, ora appioppandomi una frustata, ora una bacca selvatica piena di assenzio, ora aprendomi grandi strade luminose che davano la vertigine, ora sbarrandomi improvvisamente il cammino con ostacoli insormontabili perchè vi picchiassi il capo ed imparassi a mie spese che la vita è giuoco ed è battaglia. E nei momenti più penosi m'ha insegnato a sorridere, e nei più felici a non far castelli in aria, ad amare la vita col suo buono e col suo cattivo, con i suoi alti ed i suoi bassi, con gli inevitabili inciampi, con gli inevitabili sdruccioloni, avendo sempre speranza nel domani, sempre fede in me stesso e nella fortuna. Soprattutto mi ha insegnato a cercare il conforto delle immancabili delusioni nelle semplici cose che sono a disposizione di tutti: nella bellezza delle albe e dei tramonti, nella quiete degli angoli solitarii in riva al mare ed ai fiumi, nello sguardo di una donna che ama... Africa! Il continente nel quale ho venduto cartoline illustrate ai turisti di Cairo, dove ho servito pranzi e colazioni in un albergo di Kartum, portato il cofano del muratore sulla ferrovia di Dar-es-Salam, insegnato la dottrina cristiana ai negretti del Tanganika; il continente nel quale sono stato impiegato di un mercante ebreo, direttore di un negoziante levantino, socio di un industriale greco, poi fabbricante io stesso di doghe e di botti e più tardi grande importatore d'olio di palma, per tornare ad essere portiere di un edifizio, risalire ai fastigi di amministratore di una piantagione coloniale, ricadere ancora e risalire ancora. Che altalena! che esperienza! che divertimento! che begli anni freschi! carichi, intensi, interessanti! Africa! Africa! Laghi grandi come mari, fiumi immensi, deserti infiniti, foreste vergini cariche d'ombra e di mistero, miniere di sale e di diamanti, palme, risaie, coccheti, il Niger, il Nilo ed il Congo, il Marocco ed il Madagascar, il Transwaal e l'Uganda, l'Eritrea e la Nigeria, felicità e tristezza, orgia e fame, baci e pugni, anche qualche errore di gioventù, anche un po' di agonia in un ospedale miserabile... Africa!

Ecco, se ne va, sparisce. Il porto di Dakar è già lontano. Già non vedo più l'amico Bagnasco ed i buoni italiani del Senegal. La nave passa rasente all'isoletta di Gorea, che era un tempo il grande emporio dello schiavismo e che ora ospita pochi mulatti anemici e tanti tanti topi; sfiora Capo Verde; rotea intorno alla penisola; poi quando è arrivata in un punto dal quale si vede un panorama grandioso di sabbie e di palme, la massa grigia della città imperiale, cocuzzoli dei vecchi forti ed i due pinnacoli del Palazzo del Governatore Generale, la grande macchia verde del giardino di Hann ed il blocco fantastico degli scogli del serpente, la nave gira su se stessa, dà la poppa all'Africa e s'avvia veloce verso il suo nuovo destino.

La costa s'allontana, impiccolisce, sfuma... È solo una striscia giallo-rosata; meno ancora; solo un pulviscolo d'ocra; meno ancora: solo un'ombra... Più nulla. L'Africa non si vede più.

La rappresentazione è durata circa tre ore durante le quali io ho rivissuto tutta la mia vita, ho ricordato tante vicende lontane, ho rivisto tanta gente, ho rigoduto e risofferto, ho riso e tremato, ho sentito punture di vecchie cicatrici, sapore di lontane vittorie, amaro di antiche disfatte. Vorrei continuare a vivere ancora un po' il mio sogno d'Africa, nonostante sia già caduto il telone sul panorama di Dakar, così come quando in un teatro, dopo il primo atto di un'opera, ci si apparta in un angolo oscuro e tranquillo per restare nella vibrazione musicale che ha squassato l'anima, ma qui non è possibile. Non c'è intermezzo. Incomincia subito la farsa. Ecco il primo personaggio che già entra in scena.

Dan, Dan! Dan, Dan! La «table d'hôte» è servita.

Quattordici giorni dura la farsa, ora briosa come uno scherzo settecentesco, ora bonaria e paesana come una pastorale della vecchia Arcadia, ora scollacciata come un vaudeville del teatro parigino. Monsieur, madame et l'ami de madame! Qualche volta, dai ponti di terza viene su una ondata di canti nostalgici delle Canarie e delle Asturie, che ha l'aria di un grande coro tragico, ma il jazz-band del salone dei concerti interrompe prontamente l'effetto scenico ed il charleston col mal di mare distrae l'orecchio che prestava ascolto ad un pianto della terra.

La farsa è un po' lunga, ma i personaggi sono molti. Nientemeno che settecento. C'è un po' di tutto. Non mancano nè il tenore raffreddato, nè la soprano-dilettante, nè il prestigiatore in smoking che non avendo rimediato nessuna partita di poker si limita a divertire le signore. Pulcinella, Colombina, Don Pasquale, Gianduia, la sora Menica, l'ammalato immaginario, l'arlecchino finto principe, il granduca russo, il generale centro-americano, il fuoruscito antifascista, il perito in democrazia, la colonnellessa dell'esercito della Salute, il genio incompreso, la bella donna che vuol farsi rimborsare il biglietto, tutte le maschere antiche e moderne dell'umanità sono rappresentate nel piccolo mondo del transatlantico ed ognuna recita con serietà e bravura la sua piccola parte, ora scegliendo come scenario un angolo del ponte col chiaro di luna, ora il bar coi lampioncini cinesi, ora la cabina del terzo ufficiale, ora il salottino riservato della vecchia milionaria in viaggio di vedovanza.

Le ragazze cercano marito, i mariti insidiano la moglie degli altri, i camerieri vanno a caccia di mancie, le signore di complimenti, il dottore di malate giovani, le cameriere di viaggiatori galanti. Si balla, si mangia, si sbadiglia, si fornica, si sparla del prossimo, si ascoltano e si dicono scempiaggini. Non si sa bene se il Comandante sia un lupo di mare o un albergatore; se il maître d'hôtel sia il capo dei camerieri o un diplomatico in incognito. Due poltrone e un divano sono per la dittatura, due divani e una poltrona per la democrazia liberale. Mussolini è ormai una salsa che non manca in nessun discorso. Quando tace la pianola, entra in campo il fonografo e quando tutti e due fanno silenzio i bimbi s'incaricano dell'orchestra. Siccome gli attori sono anche pubblico, il successo è sicuro. Se tu ridi alla mia barzelletta, io rido alla tua, se tu mi dici che sono simpatico, io ti dico che sei bella, se tu mi offri un vermuth, io ti pago un rosolio. E siccome l'elica lavora si arriva al quattordicesimo giorno. La farsa è finita. Con l'apparizione del Nuovo Mondo ricomincia il dramma.

Atto secondo. Il piroscafo è arrivato troppo tardi per potere entrare in porto e buttar l'ancora a duecento metri dalla gettata di fronte all'arco splendente della città. Sono le due di notte. La capitale s'offre a chi arriva come una grande massa grigio-viola, avvolta in un giallo alone luminoso che la distacca dal resto dell'ombra, tutta punteggiata di lumi e lumicini che si confondono sui limiti dell'orizzonte con i brividi delle stelle e che la fanno somigliare a un antico diadema di famiglia nobile, un po' pesante, un po' troppo carico di cesellature e di pietrine.

La passeggiata litoranea è una sfilata di palazzi e di grattacieli sulla quale è buttato come un vezzo un grande arco di pomposi globi elettrici. È l'America! Incomincia l'atto secondo della rappresentazione. Altri passeggeri hanno come me lasciato le loro cuccette per assistere all'inizio dello spettacolo. Erano fino ad ieri personaggi della farsa di bordo, ma in questo momento l'atmosfera del dramma li assorbe nella sua vastità. Hanno lasciato in cabina i costumi e le truccature della farsa, gli sparati bianchi, gli alti solini, i monocoli, le toilettes, le mantiglie, gli scialli, le calze di seta, il rossetto di Coty. Sono in pigiama od in veste da camera, qualcuno in mutande con addosso un vecchio cappottaccio. Sono più sinceri in questo momento. Più nobili e più degni di rispetto. Ognun d'essi contemplando i lumi, interroga le cose, conversa con l'ignoto e con se stesso. Nessuno recita più.

L'America! Chissà che cosa rappresenterà per questi miei compagni di veglia il Nuovo Mondo? Il passato? L'avvenire? Una realtà dolorosa? Una speranza sorridente? Il realizzarsi di un sogno? Il dileguarsi di un sogno? Per me, spensierato bohémien contento della propria sorte, senza famiglia, senza affari, senza programmi, senza meta, l'America è solamente l'unica parte del mondo che ancora non conosco e che ho lasciato per ultima perchè meno delle altre seduceva la mia anima. Poche volte ho desiderato l'America, però ora che sono qui, che mancano poche ore perchè vi scenda per vivervi, si rinnova in me il fenomeno che caratterizza ogni mio primo incontro con una terra sconosciuta. Sento il fascino dell'ignoto che mi aspetta e che è lì a pochi passi. Sento una forza che mi attira; nell'anima un po' di tremore, uguale a quello che si prova quando si va al primo appuntamento di una donna e non si sa ancora quanto posto essa occuperà nella vostra vita; nel cuore una specie di contentezza puerile per il fatto che sto per aggiungere anche l'America alle altre terre che ho veduto e nel medesimo tempo una sensazione indefinibile che ha l'aria di allargare a dismisura il mio orizzonte.

Mi trovo nel centro del continente americano, nel centro dell'immenso golfo storico nel quale le grandi e le piccole Antille possono essere i piloni del ponte ideale che unirà le due parti del continente, come possono essere le barriere insormontabili che renderanno impossibile la creazione di quel gran ponte sognato da Bolívar. Lì, verso destra, c'è New-York con tutta la potenza e l'orgoglio degli Stati Uniti; lì, verso sinistra, sta l'immensità del Brasile ancora coperto di foreste vergini e più giù i paesi così pieni di italiani: Uruguai ed Argentina. Dinanzi a me, Cuba. Zucchero e tabacco. Spagna e Stati Uniti. Neri e mulatti. Ed al di là dell'isola, il Messico, Costarica, il canale di Panama, Nicaragua... miniere, rivoluzioni, intrighi, colpi di Stato, convulsioni di repubbliche, Calles, Obregón, Porfirio Diaz, drammi dell'imperialismo economico, drammi della latinità, drammi di un mondo umano in formazione, tango, charleston, proibizionismo...

Sento il fascino della grande terra che mi è dinanzi. Vorrei pensare all'Africa che ho lasciato ma non posso più. È lontana, lontana assai. Ormai l'America mi ha preso nel suo soffio. Non so se l'amerò, ma sento il suo respiro tiepido di creola tropicale che mi sta inebriando con la soavità di una notte dei Caraibi. Nel silenzio del ponte si svolge tra me ed il continente sconosciuto un dialogo infantile che forse tacerei, per timore del critico austero ed occhialuto, se non avessi l'abitudine di considerare il lettore un altro me stesso e di non pensare che a lui.

E la terra ha l'aria di dirmi: «Hai fatto bene a venir qui, a non scegliere per il primo incontro la metropoli dei dollari e dei grattacieli, tu che vieni dall'Africa delle foreste misteriose che commuovono l'anima, che vieni dall'Asia delle grandi religioni mistiche che disprezzano la ricchezza. Senti com'è dolce la mia aria? Senti com'è tiepida la mia notte?»

Ed il mio spirito risponde: «Sì, vengo da te, senza, pregiudizi, senza programmi, senza idee fatte. Per conoscerti e descriverti ai miei amici come ti sentirò. Solo ti prevengo che non sono un tuo innamorato. No, europeo, latino, italiano, sono fiero del mio vecchio continente glorioso e dovrai essere molto bella, molto grande, molto fine, molto buona, per piacermi. So che hai dollari, petrolio e grattacieli, ma cercherò anche il resto.»

I globi elettrici del lungo mare proiettano sull'acqua il riflesso delle loro luci. Globi potenti di città plutocratica. I lunghi riverberi bianchi arrivano fino alla nave e sul tremolìo del mare formano, nella notte deliziosa, una specie di grande arpa sulla quale l'America suona per me la sua prima serenata.

L'ascolto con l'anima tesa, perchè può essere anche la sua più bella canzone. Quella che nasce dal mio sogno.

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