LA REGINA DELLE ANTILLE

Non so che impressione possa fare l'Avana ad uno che arrivi per esempio da Londra, da Parigi, da Roma, da New-York. Immagino possa essere diversa da quella che ho avuto io che arrivo fresco fresco dall'Africa Occidentale e che durante sei mesi ho avuto sempre sotto gli occhi foreste vergini, grandiose solitudini selvaggie, piccoli centri coloniali oppure città tipo Dakar, Lagos, Accra che, nonostante la loro importanza, non sono certo monumentali; e che, soprattutto, ero abituato a veder una umanità nera, nuda o quasi, semplice, poverella, infantile.

Potrei con uno sforzo d'immaginazione mettermi nei panni d'un londinese, d'un parigino, d'un romano, d'un cittadino di Nuova York; sedermi dinanzi ad una bilancia, porre in un piattello l'Avana, nell'altro piattello Piccadilly Street, la Torre Eiffel, piazza San Pietro e la Fifty Avenue; poi trovare il punto di equilibrio ed offrire ai lettori una descrizione farmaceutica dell'Avana, ben dosata, adatta a tutti gli ambienti come una salsa internazionale. Contenterei forse in questo modo coloro che amano i «chiaroscuri». A me piacciono invece le istantanee, nette, crude, magari violente, com'escono fuori dall'obiettivo di una macchina fotografica che ha il diaframma al punto giusto. Dichiarata quindi, per rispetto ad Einstein, la mia provenienza sospetta dal regno delle foreste vergini, eccovi l'istantanea della regina delle Antille.

Sole e sole. Un cielo azzurro a baleni d'oro. Un mare di colore incerto tra lo zaffiro e lo smeraldo, venato da riflessi metallici. Ho l'automobile ad ora ed è senza tassametro. Incomincio dal porto.

La passeggiata lungo mare – striscione acciecante di cemento – ed il vecchio castello del Morro – massa severa e geometrica – formano l'imboccatura strozzata del porto nella quale passano le navi che pare si possano toccare con mano. Poi il porto s'allarga in una grande baia ovoidale, gremita di vapori e di velieri, sezionata da moli e da banchine, fasciata di Magazzini Generali e di palazzi, con qua e là un edificio tipo grattacielo, con una moltitudine di caseggiati irregolari nei quali prevale la tinta bianca, il tutto pieno di sole, stracarico di sole, naufragato nel sole.

In mezzo a questo scenario di calcina l'acqua del porto, immobile come quella di un lago quando non c'è una sbavatura di vento, è una grande macchia verde-azzurra, oleografica e caramellata. In certe ore del giorno la formidabile riverberazione solare la trasforma in una lastra di cristallo azzurrino nella quale si specchiano i quartieri del porto, i grattacieli, i campanili, i vapori, la mole gigantesca del Morro, le pareti sfaccettate della fortezza della Cabagna, le nuvolette erranti per il cielo. Allora i riflessi delle due rive empiono il porto con un'altra città capovolta, nitida, luminosa e chi guarda, per poco che si lasci suggestionare dallo spettacolo, finisce per confondere le due città, quella di pietra e quella che galleggia sull'acqua e non ritorna in sè che quando vede passare un vapore sulla guglia di un campanile od una vela slittare sui balconi di un terzo piano.

Accanto al porto ed alle dogane c'è la vecchia Avana coloniale degli spagnuoli, ripulita e messa in fronzoli dalla smania modernista della Repubblica e dai dollari degli Stati Uniti, ma rimasta in fondo la medesima, con le strade strette e tortuose nelle quali il tram passa con un rombo d'uragano e le automobili s'imbottigliano ogni cinque minuti. È, questo, il quartiere commerciale, quindi gremito di una folla che trabocca dalle strade troppo strette e che sembra anche più numerosa di quanto non sia in realtà, perchè è una folla tropicale tutta vestita di bianco, che parla forte, che gesticola molto, che s'abbandona sui marciapiedi ad effusioni napoletane, che si ferma ogni momento per entrare in un bar a dissetarsi con sciroppi di cocco, di ananas, di guayabo.

A volte l'automobile scantona in certe strade laterali meno popolose nelle quali sonnecchiano vecchie case dell'epoca spagnuola, dalle mura di pietra e dagli androni solenni; allora si ha improvvisamente l'impressione di essere trasportato a Cadice od in una veneranda città della Galizia. Ma l'automobile svolta e rientra nel brulichio della gente e dei negozi.

In calle Obispo, in calle O' Relly, in calle Margall hanno il loro quartiere generale i grandi magazzini di lusso. Tiranneggiati dal poco spazio e dal desiderio di esporre il meglio che posseggono, hanno finito col ridurre la muratura al minimo e col fare della strada un'unica vetrina sgargiante che abbaglia gli occhi e mette lo spirito di buon umore come se tutti i giorni fossero giorni di carnevale. Sui minuscoli marciapiedi non passano più di due persone per volta e sull'asfalto non c'è posto che per una sola automobile. La gente si pigia e si mescola pittorescamente e le automobili si susseguono in fila indiana, quasi a passo d'uomo, come un eterno corteo. Ogni negozio ha la sua brava tenda a rigoni policromi per difendersi dal sole e siccome le tende si toccano da una parte e dall'altra, succede che la strada intera è coperta da una specie di velario che ricorda quelli della calle de las Sierpes di Siviglia e della calle San Fernando di Barcellona, ma con un non so che di americano che fa pensare ad una spagnuola in vestito da tennis, con la mantiglia ed il pettine di Andalusia.

Finalmente la macchina sbocca sul Prado, lascia la vecchia città coloniale ed infila i quartieri moderni creati dalla Repubblica. Le strade s'allargano, perdono la loro aria di famiglia, diventano paseos ed avenidas, si gonfiano, s'imbellettano, danno l'impressione d'essersi messe in smoking; ma è uno smoking coloniale coi pantaloni di tela bianca. Pare che una volta ci fossero dei grandi alberi che aggraziavano le strade col loro verde, ma il ciclone dello scorso ottobre li ha abbattuti tutti. Fu una vera ecatombe di alberi. Ora il Municipio li ha sostituiti con celerità americana, ma sono ancora piccolini e le grandi avenidas acciecano chi passa col riverbero bianco delle facciate di cemento, col riverbero bianco dei monumenti di marmo, col riverbero bianco degli asfalti lucidissimi sui quali il sole del tropico proietta con furore la sua incandescenza.

Ecco il lungo mare! Il Malecón! L'Avenida de Washington! Grandi, larghissime strade, costruite senza economia da un Municipio pieno di dollari durante gli anni della guerra europea, quando lo zucchero di Cuba attirava nell'isola centinaia e centinaia di milioni. Ampi marciapiedi, profusione di lampadari, vaste piazze, monumenti, chioschi, colonnati. Se tutti i palazzi fossero grattacieli l'Avana avrebbe sul mare uno di quei profili monumentali di caserma che mandano in solluchero i nord-americani, ma gli edifici a grattacielo sono ancora solo una diecina ed il resto delle costruzioni si compone di palazzetti coloniali pieni di verande e di balconi che s'armonizzano meglio con il dolce smeraldo del mare e col fiammeggiante oro del sole. In mezzo ad essi i grattacieli sono come i brutti sogni di una indigestione!

Hombre! Fermati un momento, che voglio anch'io bermi uno di questi sciroppi di cocco!

Lo chauffeur soddisfa sorridendo il mio capriccio e la macchina riparte dopo pochi minuti. Traversa la grande piazza di Maceo, dominata dall'ardito monumento del generale liberatore – il più bel monumento dell'Avana, opera dello scultore italiano Boni – ed imbocca poi il caratteristico quartiere del Vedado, cioè la grande Avana moderna. La Repubblica venticinquenne, mentre si sforza di abbellire la vecchia città coloniale, ha sfondato l'antico cerchio urbano ed ha rovesciato al di là come un torrente una nuova città tipica, concepita con larghezza e con regolarità americana, ma avvedutamente mantenuta nei limiti ragionevoli di una metropoli coloniale. Cinque grandi strade, lunghe diversi chilometri, hanno costituito l'ossatura del Vedado e coll'andar degli anni lo scheletro si è riempito di quarantadue altre strade parallele e di un centinaio di strade trasversali, formando una nuova città, nella quale però non vi sono palazzi nè negozi ma solo ville e villette, tutte bianche, tutte capricciose, tutte accuratamente pitturate a colla o ad olio, tutte a pian terreno o ad un sol piano, ognuna col suo giardino, col suo cancello, con le sue palme, coi suoi fiori, col suo vestibolo a colonne, con la sua veranda a colonne, con la sua gradinata a colonne; con statue, statuine, balconi, poggiuoli, anfore, balaustre, bussole, vetrate, marchesine di ferro battuto, torricelle, cupolette, campanilini. È una fantasia architettonica, un giuoco di bussolotti immaginato da ingegneri e da geometri di buona volontà, una sceneggiatura edilizia di effetto coreografico che stordisce e che in fondo si accorda col troppo azzurro del cielo, col troppo oro del sole, con la colorazione violenta della flora tropicale, con la opulenza decorativa delle palme-cocco che costituiscono l'ornamento predominante dei giardini.

L'automobile libera da intoppi aumenta la sua velocità e l'occhio riesce appena ad afferrare questa cinematografia di villette bianche, linde e civettuole, che hanno l'aria di essere state stirate all'amido, che a volte ricordano gli spumoni e le cassate alla siciliana, che non evocano l'immagine di nessuna altra città perchè nessuna altra città rassomiglia all'Avana. L'impressione del primo colpo d'occhio è indefinibile e varia probabilmente da persona a persona. Se io dovessi precisare la mia non saprei farlo ma evocherei una caotica esposizione di giuocattoli, di smalti, di pitture fini, di bungalows coloniali, di gabbie dorate, di bomboniere, di litografie, di cartoline illustrate, ecc., ecc. Non è che verso la fine che ho pensato a Pompei. Arte ed... automobili a parte, l'antica Pompei doveva essere un po' così quando i romani la popolavano col loro lusso nella magnificenza solare del golfo partenopeo.

Un fiume magrolino, fatto ancora più miserello da un gran ponte di ferro, è il limite del Vedado. Al di là del Vedado la giovane Repubblica ha avuto un sussulto di superbia ed ha abbozzato il disegno planimetrico di un'altra grande città da costruirsi (Almendares, Miramare, Marianao) della quale esistono solamente per ora gli stradoni centrali, tracciati con una mentalità da sindaco di Chicago, costruiti con uno sfarzo insolente di vasche e di monumenti, di lampadarii e di giardini, mentre mancano le case e gli abitanti, tanto che vien fatto di domandarsi se la potenzialità demografica di Cuba sia in grado di corrispondere alle ambiziose speranze di chi ha visto così in grande la sua capitale.

La visione cinematografica dell'Avana finisce in un grande parco con reminiscenze del Bois de Boulogne e se il termine della lunga corsa in automobile coincide con un tramonto cubano d'oro e di lapislazzuli, c'è da rimanere incantati a contemplare la bellezza di un cielo che non ha nulla da invidiare ai cieli di Napoli e di Costantinopoli.

L'Avana bisogna vederla così: automobilisticamente: porto-Miramare e ritorno, in una giornata di sole!

Guai a camminare a piedi! Guai a bighellonare per le strade ed in mezzo alle ville! Guai a far funzionare il proprio senso critico d'europeo o, peggio ancora, d'italiano abituato alle nostre città artistiche nelle quali il particolare è più importante del quadro generale! Allora si scoprono tutti gli innumerevoli difetti di questa grande città costruita in fretta da zuccherieri e tabaccai arricchiti, che hanno pensato più a far grande e lucido che a far bello; ci si accorge della mascherata di stili del Vedado al quale è mancato un architetto, si constata il paradosso di certe ville che hannomezza facciata in uno stile e mezza in un altro, oppure il pian terreno pompeiano ed il primo piano gotico o barocco; ci s'accorge che c'è meno marmo di quanto pareva e più stucco e scagliola; si vedono certe fontane impossibili che sembrano una grande tazza da caffè con la sua brava sottocoppa, certi colonnati piantati in un giardino senza una ragione al mondo, che pare stiano lì aspettando di essere trasferiti da un momento all'altro in cima ad un palazzo monumentale, certi gruppi statuari che paiono esercizi scolastici e che sanno lontano un miglio di scalpellino, certe piazze che sono troppo grandi per il formato delle case che le circondano e che hanno nel mezzo una cosuccia di marmo che quasi non si vede oppure un semplice vassoio di cemento che non si sa che cosa sia e che cosa voglia essere.

Un turista americano, di quelli che vengono qui d'inverno a migliaia, non s'accorge di questi delitti capitali contro l'arte, il buon gusto e lo stesso buon senso, ma un italiano che è nato con l'arte negli occhi, che è abituato da piccolo alla severa armonia delle sue città di marmo e di travertino, nelle quali le generazioni hanno condensato la raffinatezza del popolo più artistico del mondo, un italiano non può fare a meno di rilevare questo difetto organico di costituzione dell'Avana e dopo aver ricevuto quattordicimila pugni negli occhi finisce col tornare nella vecchia città coloniale spagnuola per cercarvi in qualche antico casone, già minacciato dall'americanesimo, qualche linea e qualche tinta riposante.

La regina delle Antille bisogna contemplarla da un'automobile in terza velocità, tra uno sciroppo di cocco che inzucchera l'anima ed un sorbetto di ananas che dolcifica il sistema nervoso. Il cielo del Tropico ed il mare dei Caraibi forniscono allo scenario un boccascena meraviglioso entro il quale Avana-la-bianca appare come una di quelle belle donne che guadagnano quando non vengono guardate troppo minuziosamente. Raccomando soprattutto di non usare come fanno i turisti americani gli occhiali affumicati. Togliere all'Avana l'ornamento del suo sole è come togliere ad una regina il diadema e le gioie della Corona.

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