Avvertenza

Nel presentare una terza ristampa delle Lettere di Lodovico Ariosto, mi è grato di averle potuto ordinare cronologicamente (cosa che non ebbi opportunità di fare nell'antecedente di Bologna, 1886), con introdurvi le nove lettere che venni pubblicando negli Atti e memorie di storia patria (Modena, 1868-75), ed accrescerle inoltre di sole altre cinque inedite che riescii a rintracciare da varie parti, più una scritta dall'Ariosto a nome del cardinale Ippolito d'Este, indicandole ai loro luoghi secondo il tempo che mi pervennero, ora cronologicamente ed ora in fine del volume. Tenni però separate le lettere ch'egli scrisse tanto a nome del cardinale suddetto, quanto a nome di Alessandra Benucci vedova Strozzi; e in [vi] appendice non lasciai di ripetere con alcune nuove osservazioni ciò che leggesi nell'edizione di Bologna, aggiungendo finalmente otto privilegi accordati per la stampa dell'Orlando Furioso, tratti dalle rarissime edizioni originali 1516 e 1532 e da documenti in parte inediti, formando essi un degno elogio al celebre autore, ma che non raggiunsero il vantaggio ch'egli sperava ricavarne.

Queste lettere riferisconsi in gran parte al suo Commissariato di Garfagnana, giacchè quelle che scrisse a' suoi parenti ed amici scarsamente a noi pervennero: e se le prime non possono sempre interessare per il soggetto e la forma, giova ricordare che furono dettate colla foga d'un imperioso dovere d'ingrato ufficio che non permettevagli di formarne minuta o tenerne copia (v. lett. LXXIII, p. 138), ed hanno poi il pregio di mostrarci nell'Ariosto l'uomo abile ai maneggi di Stato, fecondo di espedienti e zelante in sommo grado della giustizia, con essersi emendato di quell'adulazione che apparisce nel poeta di corte, per assumere un linguaggio francamente sincero e dignitoso.

Le lettere da me ristampate più volte ho un poco riformate alla moderna grafia, ma non ho minimamente toccate quelle che offro per la prima volta o che riproduco da altri editori, e così feci [vii] pei documenti a corredo della Prefazione o sparsi nelle note.

Per la Prefazione storico-critica ho cercato giovarmi di alcune pubblicazioni uscite in questi ultimi vent'anni, e importanti mi sono state in particolar modo le Notizie per la vita di L. Ariosto del ch. signor march. Giuseppe Campori (Modena, 1871) perchè tratte da documenti inediti, e ciò dicasi degli Studi e ricerche sulle poesie latine di L. Ariosto del ch. Giosuè Carducci (Bologna, 1875), oltre a vari altri lavori ch'ebbero, come il suddetto, felice impulso a prodursi pel centenario ariostesco celebrato in Ferrara ed in Reggio 1874-75; chè la fama dell'insigne poeta tende sempre ad estendersi, conoscendosi che il prof. Schuchardt lesse e commentò all'Università di Lipsia nel 1872 l'Orlando Furioso, poema tradotto in tutte le principali lingue d'Europa; ed è nostro dovere segnalare le due edizioni di Parigi illustrate coi disegni del lodatissimo artista Gustavo Doré, la prima del 1869 col poema imitato in versi francesi da F. Ragon e la seconda del 1879 con una nuova traduzione del Du Pays: disegni che, gareggiando colla fantasia del poeta, ci trasportano a quel mondo di maraviglie che egli con eccellenza d'opera d'arte seppe rappresentarci, e che noi pure abbiam potuto veder riprodotti [viii] col testo originale e con una degna prefazione del Carducci (Milano, Treves, 1880).

Amo dunque licenziarmi dal cortese lettore col riferire i seguenti versi che tolgo da alcune stanze di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, pubblicate per la prima volta dal ch. C. Arlia nel Propugnatore, 1885, vol. XVIII, parte I, p. 358-59:

«Chi ebbe mai più alta e dolce vena

In dir d'arme e d'amor che l'Ariosto?

Tutti i maggior poeti e più fecondi

Gli vanno sotto, e sono a lui secondi.

. . . . . . . . . . . . . . .

Fe' l'Ariosto le Comedie prima,

Come si può veder gioconde e belle,

E le Satire poi di tanta stima,

Che in tutto il mondo se n'udì novelle;

Dopo con chiara e gloriosa rima

Fe' il Furioso che passa le stelle:

E se potesse Aristotil vedello,

Lo terrebbe d'Omero assai più bello.»

A. C.

[ix]

PREFAZIONE STORICO-CRITICA

INTORNO A LODOVICO ARIOSTO E IL SUO TEMPO

_____

La famiglia degli Ariosti è di antica nobiltà di Bologna, e il cognome ebbe forse origine da una terra del bolognese detta Riosto. Nel 1156 un Ugo figlio di Alberto fu console di Bologna quando questa città si reggeva a repubblica. La bella Lippa discendeva dalla stessa famiglia, e il nostro poeta non manca di ricordarla nel suo Orlando furioso . Veduta dal marchese Obizzo III d'Este quando pe' suoi contrasti col papa dimorava in Bologna, se ne invaghì somma mente, e la fece sua amica. Conciliatosi poi con Giovanni XXII che nel 1329 scelse per minor male investirlo del vicariato di Ferrara, Obizzo persuase agevolmente la Lippa a seguirlo in quella città, ov'essa [x] andò in compagnia de' suoi fratelli Bonifazio e Francesco. Seguìta poi anche dal cugino paterno Nicolò, la famiglia Ariosti fu trapiantata in Ferrara, col formarne tre rami che vi ebbero lunga discendenza. La bella Lippa rimase sempre concubina di Obizzo, e in 20 anni lo fece padre di 12 figli. Non avendone avuto alcuno dalla moglie Giacoma Pepoli, morta nel 1341, e desiderando legittimare nel più valido modo i figliuoli bastardi, aspettò egli che la madre loro fosse in estremo pericolo della vita, e la sposò (come narrasi) la sera del 27 novembre 1347. Poche ore dopo la povera Lippa era morta; nè potè godere un sol giorno di quegli onori principeschi, forse tanto ambiti e promessi da prima; onori che il marchese serbava alla salma di lei con un pomposo mortorio!

D'allora in poi gli Ariosti ebbero di frequente impieghi autorevoli e vantaggiosi presso gli Estensi, sapendoli meritare pei loro zelanti servigi e non per titoli di una parentela salita in tanto orgoglio e potenza. Alcuni vennero anche fatti cavalieri; e nel 1469 trovandosi l'imperatore Federico III in Ferrara, diede titolo di conte ai tre fratelli Francesco, Lodovico e [xi] Nicolò Ariosti e loro discendenti. Francesco fu scalco di Borso d'Este, poi ambasciatore ed anche capitano di Modena; e venendo a morte nel 1505, il nipote e poeta Lodovico compose a di lui memoria un epitaffio che leggesi fra le sue poesie latine. L'altro fratello Lodovico fu prima dottore e canonico, indi arciprete della cattedrale di Ferrara. Il duca Ercole I voleva farlo anche vescovo di Reggio, ma il papa vi si rifiutò, nominando invece Bonfrancesco Arlotti ch'era stato spedito a Roma per raccomandare l'Ariosto. Nicolò, il più giovane dei fratelli suddetti, fu padre del nostro poeta, e perciò di questo parleremo più a lungo.

Essendo stato molto famigliare di Borso d'Este, Nicolò Ariosto divenne ancora maggiordomo del novello duca Ercole I, il quale essendosi impadronito dello Stato contrastatogli a ragione da Nicolò figliuolo di Leonello, diede incarico all'Ariosto di recarsi a Mantova ove il nipote erasi riparato presso il marchese Federico suo zio, e veder modo di avvelenarlo. L'Ariosto non rifuggi di addossarsi l'iniquo mandato, e provveduto di quanto facevagli di bisogno partì sui primi del dicembre 1471 col pretesto di presentare al Marchese [xii] di Mantova uno zibetto (animale muschiato). Colà giunto ebbe campo di accordarsi con Cesare Pirondoli siniscalco di Nicolò d'Este, e con larghe promesse lo indusse ad accettare il veleno da porre nelle vivande: ma nella sera destinata all'esecuzione, lo scalco maneggiando il tossico fu colpito da vertigine, e temendo essersi da sè stesso avvelenato, confessò tutta la trama. L'Ariosto intanto mettevasi in salvo a Ferrara, e il 18 detto mese Cesare Pirondoli insieme al fratello Galasso, che serviva a tavola ed era consapevole della cosa, vennero decapitati e squartati in Mantova.

Poco dopo i fatti narrati, e cioè col primo gennaio 1472, il duca mandava Nicolò Ariosto capitano della cittadella di Reggio, e siccome eravi altresì il capitano della città, nè facendosi sempre dai cronisti la dovuta distinzione fra i due capitani o confondendoli insieme, così alcuni dubitarono che l'Ariosto avesse avuto ancora l'officio di governatore o podestà (come narra il Baruffaldi), quando queste cariche erano date ordinariamente a diversi soggetti.

[xiii]

E infatti quantunque l'Azzari scriva che nel 1473 l'Ariosto «era stato fatto governatore di Reggio,» mostra troppo chiaramente l'errore involontario in cui cadde, avendoci detto che il giorno 8 agosto dell'anno stesso fu mandato per governatore della città Antonio Sandeo, in sostituzione di Uguccione Rangone morto poco prima nell'officio, essendovi podestà Girolamo Guidone.

Una lettera del capitano Nicolò (Docum. II) ci conferma che le attribuzioni ch'egli allora sostenne furono soltanto militari: avendo poi essa la data Civitatellae Regii, 28 jan. 1473, possiamo ancora arguire che il capitano abitava fin d'allora nella cittadella, sebbene vi continuassero i lavori di riparazioni.

Nel settembre 1473 si unì in matrimonio colla Daria figlia di Gabriele Malaguzzi Valeri d'illustre famiglia reggiana, che lo fece padre di dieci figli; il primo de' quali fu il nostro Lodovico, il favorito delle Muse (come lo chiama l'Azzari), nato l'8 settembre 1474 nella cittadella di Reggio: avvenimento che torna a splendido vanto ed onore di quella città che il poeta stesso ricorda con assai compiacenza pel suo nido natìo. «E perchè il sopraddetto Gabriele (continua l'Azzari) fu nella poesia molto raro e stimato, perciò l'Ariosto solea dire d'aver ricevuto l'arte del poetare dall'utero materno» e non dal vero maestro, [xiv] come legge malamente il Tacoli e come viene riportato dal Baruffaldi.

Un'iscrizione che non ha carattere di sufficiente antichità posta sotto un ritratto di Lodovico dipinto in tela, e posseduto dalla famiglia Malaguzzi, in cui leggesi natus Regii.... in camera media primi ordinis erga plateas, ha fatto ritenere a qualcuno ch'egli fosse nato nella casa materna anzichè in cittadella, la quale per essere in risarcimento eziandio nella rôcca o palazzo del capitano, non poteva prestargli conveniente abitazione. La data della lettera che abbiam riferita sembra convincerci del contrario di ciò che narra soltanto un'iscrizione, che rendesi meno autorevole coll'aggiugnere essere stato il poeta manu propria Caroli V imper. laureatus; incoronazione che lo stesso Virginio figlio naturale di Lodovico dichiara una baia.

Il palazzo di cittadella era un vasto fabbricato, che nel 1505 accolse Lucrezia Borgia che fuggiva la peste di Ferrara, ed ove partorì un figliuolo: non è [xv] dunque difficile che mentre i lavori progredivano da una parte, potesse prestare sufficiente abitazione dall'altra. Questi lavori non erano ancora terminati nel 1496 e pur vi abitava assai prima la famiglia del capitano, come ne dà prova il rogito col quale la Daria Malaguzzi assolve i fratelli della dote pagatale in mille ducati d'oro, pubblicato il 7 maggio 1479, Regii in palatio residentiae comitis Nicolai de Ariostis, in Civitatella .

Stette Nicolò nell'ufficio di Reggio fino alla metà del 1481 in cui fu traslocato capitano a Rovigo. Ciò avvenne in momenti assai critici, poichè le armi Venete minacciavano impadronirsi di tutto il Polesine. Il capitano nel 7 luglio 1482 faceva conoscere al duca di Ferrara che in città non rimanevano che pochi fanti (circa 150), la maggior parte ammalati, che più non potevano far le guardie alle porte, e che «si troverebbe a mali termini quando venisse furia alcuna». Di fatto nel 14 agosto seguente i Veneti entrarono in Rovigo, occupandola in nome della Repubblica. Nicolò Ariosto non ritornò a Ferrara, come dice il Baruffaldi, ma si ridusse a Masi villa del Polesine di san Giorgio, aspettando gli ordini del duca, che forse tardarono, essendo Ercole I gravemente infermo. In una lettera che Nicolò rivolgendosi alla duchessa scrive da detto luogo il 30 ottobre 1482 dice essere da necessità costretto a restare in villa per non avere che mettersi in dosso; chè forse nella [xvi] furia dell'invasione temuta non ebbe tempo di prendere le sue robe. Di là si ridusse colla famiglia a Reggio, come rileviamo dalla lettera ch'egli vi scrisse il 22 novembre di detto anno (Docum. III), ed eravi pure nel 1483, trovandosi più volte nominato dal conte Paolo Antonio Trotti allora commissario generale in Reggio, mandatovi dal duca ne' momenti più fortunosi del dominio Estense durante la guerra colla Signoria di Venezia; ed anzi il Trotti in una lettera del 17 maggio 1483 ricordando ad Ercole I le antiche promesse fatte all'Ariosto, «avuto etiam rispetto a quello che V. S. ed io sappiamo, che nelli tempi che si operavano gli amici ciò che ha fatto per quella, non avendo rispetto, non che all'onore e alla vita, alla propria anima» (alludendo al tentato avvelenamento di Nicolò d'Este), lo pregava che al prossimo S. Pietro fosse provveduto d'un officio utile ed onorevole, a motivo altresì «delli danni incalcolabili che ha patito a Rovigo, quali in verità lo hanno frusto fino alle ossa; ed è quì a Reggio con bocche XII e compra sino il sole». Le condizioni d'allora non permisero forse al duca di sovvenire tostamente a Nicolò; ma sappiamo che nel 1486 le terre da lui acquistate nel contado di Reggio (55 biolche circa), «soggette alle gravezze e servitù rusticali, le dichiarò immuni e privilegiate in perpetuo in grazia [xvii] dell'essersi trasferite in questo suo nobile e domestico gentiluomo»; come altresì in detto anno fu nominato giudice dei dodici savi, officio che tenne per tre anni, a capo de' quali, e cioè dal febbraio 1489 al marzo 1492, ebbe il capitanato della città di Modena.

Finalmente nel 1496 passò commissario ducale in Lugo di Romagna, e vide quelle popolazioni stremate dalla fame, dal contagio, dalle inondazioni. Ma non fu in sì difficili circostanze che incontrò il biasimo di tutti; fu un atto d'ingiusto e crudele rigore a cui lasciò trasportarsi dal suo carattere severo e irascibile.

- Col favor della notte un uomo era solito entrare in una delle più civili abitazioni di Lugo, accolto dalla donna che amava. Il capo della famiglia ignorava la cosa; ma venutone col tempo in sospetto, riescì una volta a sorprendere colui, che dandosi a sùbita fuga lasciò disgraziatamente il mantello. Colla prova sotto gli occhi del fallo, il dabben uomo, forse padre o marito, diè luogo ad un giusto risentimento con parole clamorose, che udite di leggieri in quell'ora tacita da qualche indiscreto vicino o da chi [xviii] per caso passava allora per via, furono riportate al commissario. Il mattino dopo venne questi chiamato dinanzi all'Ariosto. L'uomo prudente aveva già preso il partito che più stimava convenire all'onor di sè stesso e de' suoi, e, interrogato, negò francamente l'accaduto. Il commissario chiese allora gli fosse consegnato quel mantello che avea rinvenuto, sperando con quello di poter riconoscere il colpevole; ma essendo stato ciò pure negato, l'Ariosto giunse al brutale eccesso di far uso della tortura, e così strappare fra i tormenti una confessione che avviliva e gettava nella maggior vergogna l'uomo innocente, degno soltanto di elogio. - Il Baruffaldi dice che il commissario, persuaso di aver bene operato, ne scrisse al duca; ma che questi lo privò immantinente dell'impiego (24 novembre 1496), lo condannò a una multa di 500 ducati d'oro, nè più lo ammise ad altre cariche. Fra le molte lettere che di Nicolò Ariosto si conservano in Archivio, non abbiamo quella accennata dal Baruffaldi, nè crediamo probabile ch'ei potesse quasi vantarsi dell'eccesso commesso. Troviamo invece che il duca lo aveva altre volte ripreso di usar modi e parole troppo aspre co' suoi dipendenti: ed egli con lettera del 7 marzo 1482, ringraziando dell'amorevole correzione «non da principe a servo, ma che sarìa da equiparare a Cristo quando correggeva gli Apostoli suoi», soggiungeva: «Io non ho sì poco intelletto, nè son di natura tanto iracondo, [xix] Ill.o Signor mio, ch'io non mi sappia molto ben temperare dove bisogna.... e mi porto con quella reverenza e carità che si conviene, e che so essere la mente di V.a Ill.a Signoria.» - Così l'antico adagio, che noi raramente conosciamo i nostri difetti, trova sempre conferma.

Nicolò nel 1486 ritornato con la famiglia a Ferrara, pose il figlio Lodovico, in età di undici anni, a scuola di latino, con obbligarlo più tardi a darsi contro sua volontà allo studio delle leggi, volgendo testi e chiose, ch'egli chiama ciance, pel corso di cinque anni. A capo de' quali, e cioè nel 1494, accorgendosi il padre che Lodovico erasi distolto dai gravi studi raccomandatigli per attendere unicamente a quelli per lui sì graditi della poesia ove il genio fin dall'alba della vita traevalo a forza e ne' quali avea cominciato a dar saggi lodevoli; dopo molto contrasto, persuaso ancora da parenti ed amici, lo pose in libertà.

Lodovico allora si ritenne felice, e attese con maggior fervore agli studi poetici, in compagnia di Alberto Pio principe di Carpi, di Pandolfo Ariosto suo diletto cugino e di Ercole Strozzi, giovani anch'essi di raro ingegno, che servivangli a nobile emulazione. Sotto il celebre Gregorio da Spoleti diedesi tutto agli studi classici, e riuscì a spiegare i passi più oscuri degli antichi poeti latini, principalmente di Orazio, di che riscosse molti elogi in Roma al tempo di Leone X. Già sullo scorcio del secolo aveva composti vari carmi latini ed era tutto occupato ad accrescerli, quando nel 1500 avvenne la morte di Nicolò, [xx] che Lodovico pianse con un'ode affettuosissima. Dovette allora «coi piccoli fratelli ai quali era successo in luogo di padre» rivolgere il pensiero e le cure alla numerosa famiglia, «cambiare Omero in vacchette». Anche il suo carissimo maestro Gregorio da Spoleti fu costretto abbandonarlo per passare a Milano, indi in Francia precettore di Francesco Sforza, ed essendo morto altresì Pandolfo «il suo parente, amico, fratello, anzi l'anima sua,» parve per un momento temere non potesse offuscarsi quel punto luminoso cui egli mirava per salire in gran fama: ma continuando a vederlo risplendere, fattosi animo, superò questo ed ogn'altro impedimento (Satira VII).

Quantunque le sostanze ereditate dal padre fossero di qualche entità, pure dovendosi ripartire sopra dieci figliuoli, non potevano lasciare abbastanza tranquillo il primogenito Lodovico che aveva assunto la cura degli interessi della famiglia; e narrando egli stesso che di que' giorni la mente sua era carca d'affanni (Satira VII, v. 214), si rivolse al duca, e potè ottenere nel 1502 di essere nominato capitano della Rocca di Canossa.

Le terre possedute nel reggiano e l'ufficio conferitogli in quella provincia mossero l'Ariosto a portarsi al nido natio, ospitato dai propri cugini Malaguzzi: [xxi] e que' luoghi ameni, e specialmente il Mauriziano ch'ei vagheggia e dipinge coi colori più belli, gli furono dolci inviti a empir le carte de' suoi versi (Satira V); e perciò i carmi latini della sua giovinezza salirono a 65 che si hanno a stampa divisi in tre libri, illustrati di recente dal ch. Carducci. E il poeta dirigendoli agli Estensi, ai congiunti, agli amici, non lascia di narrarci ancora i suoi amori, celebrando in particolar modo una reggiana sotto nome di Lidia, la quale lo costringe a star lungamente lontano dalla madre carissima, gli fa grato il soggiorno di Reggio colla sua presenza, glielo rende triste partendo.

Dopo quasi due anni trascorsi per la maggior parte nel reggiano, Lodovico tornò a Ferrara nel 1503, ove sembrò dimenticarsi di Lidia, ed ove da una certa Maria che da tempo serviva in sua casa ebbe un figlio naturale chiamato Giovanni Battista, il quale essendo stato secretamente mantenuto dal padre presso i parenti materni, partì giovane da Ferrara per darsi al mestiere delle armi; e tornato poi in patria, ove ebbe nel 1546 una missione dal duca alla corte imperiale, vi morì capitano nel 1569. Avendolo Lodovico dichiarato [xxii] nel testamento del 1532 suo figlio naturale e contemplato nell'eredità, venne ancora legittimato nel 1538 ad istanza di Galasso e Alessandro fratelli del poeta.

Sullo scorcio del 1503 Lodovico rinunziò al capitanato di Canossa e passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, ch'egli scelse con poca fortuna a suo mecenate, ma che tanto influì su lo scopo delle sue poesie.

Ippolito d'Este, figlio d'Ercole I e di Eleonora d'Aragona, nacque il 20 marzo 1479, e per essere il terzo genito fu destinato alla Chiesa: volendosi di regola ne' principi che il primo succeda al padre nel governo dello stato, il secondo cerchi salire in dignità cingendo la spada, il terzo faccia altrettanto vestendo la stola: ma bene spesso la traccia è fuor di strada, e fa mala prova , non essendosi prima indagata l'indole e tendenza d'ognuno. - Di sei anni Ippolito vestì l'abito clericale, ricevendo la prima tonsura nel duomo di Ferrara. Passava appena i sette anni, ed ecco che il re Mattia Corvino marito di una zia materna d'Ippolito lo nominava arcivescovo di Strigonia. Il papa non voleva approvare la nomina per l'età ancora infantile, ma dopo pochi mesi vi si adattò. Il piccolo arcivescovo partiva alla volta d'Ungheria, facendosi portare in una lettica con grande accompagnamento affine di prender possesso della sua sede, e serviva purtroppo ovunque passava a ridicolo spettacolo di profanata autorità. Padrone troppo presto di sè stesso, insignito di una dignità di cui solo misurava [xxiii] l'importanza dagli atti continui di un simulato profondo rispetto, vivendo in una corte straniera, presso parenti che cecamente lo amavano, nè mai contraddetto in qualunque capriccio, sortì un carattere altiero, inflessibile, vendicativo, crudele. Cambiato poi l'arcivescovato di Strigonia nel vescovato d'Agria, che non l'obbligava a residenza, ebbe nel 1497 l'arcivescovato di Milano, cui s'aggiunse nel 1499 quello di Narbona e nel 1502 quello di Capua. Fu anche Vescovo di Ferrara nel 1503, di Modena nel 1507. Alessandro VI lo nominò cardinale diacono di santa Lucia in Silice il 21 agosto 1493 di soli quattordici anni, e fu anche arciprete della Basilica Vaticana, come pure prevosto della ricchissima Abbazia della Pomposa di Ferrara: deplorabile abuso d'allora, e neppur tolto a' giorni nostri, di cumulare tante dignità e tante rendite ecclesiastiche sopra un solo uomo, che inoltre mostrava di seguire intieramente il genio dell'età corrottissima, senza curarsi delle cose sacre. Erano in fatti sue cure gradite le cacce, le mostre militari, i convegni gioviali, l'amor delle donne, i ricchi e pontificali conviti ne' quali durava la maggior parte della notte. Nel 1504 fece bastonare un messo del papa che gli portò un monitorio che non gli garbava: prepotenza arditissima sotto Giulio II. - Lo spirito delle cose mondane era allora molto esteso in corte di Roma. [xxiv] Nelle lettere di cardinali amici d'Ippolito s'incontrano spesso descrizioni di cacce fatte in Romagna, inviti a partecipare ad altre che si preparavano, e domande di falconi e di levrieri, di cui si lamenta la scarsità in Roma. Una lettera del cardinale Marco Cornaro ha tutto il garbo di que' gentili e profumati viglietti soliti scambiarsi fra due persone galanti: «Ho avuto piacer grande a intendere quanto mi scrive V. S. Rev. di quelle due nobilissime madonne, l'una madonna Clara Pusterla, l'altra madonna contessa Borromea sua sorella; e tanto più quanto che essa V. S. Rev. mi scrive detta contessa esser fatta molto bella, e l'una e l'altra, insieme con li suoi magnifici consorti, essere state a piacere con quella. Se dette madonne non fossero partite, pregherìa V. S. Rev. si degnasse raccomandarmele; a una delle quali essendo servitore V. S. Rev., io desidererìa essere servitore all'altra, per fare compagnia ad essa V. S.». - La passione delle armi, unita ad un certo valore, portò il cardinale Ippolito ad una non comune intelligenza delle cose di guerra; nel che rese importanti vantaggi al duca Alfonso I di lui fratello nella guerra coi Veneziani e con papa Giulio II. Ci narra il da Porto che il cardinale Ippolito era «il più disposto corpo con il più fiero animo che mai alcuno della sua casa avesse, e sopra questa guerra (coi Veneti) d'ogni cosa ministro. Piacciono a costui gli uomini valorosi, e quantunque sia prete, [xxv] ne ha sempre molti d'attorno». Trovandosi nel 1509 colle genti di suo fratello sotto Padova, facevasi condurre «alla guisa di Dario sopra una carretta per lo campo, benchè armato ed in abito di soldato»; e queste foggie, sì poco convenienti a un personaggio del suo carattere, ripetevansi sovente, ed erano da tutti con dispregio osservate. - Delle donne ebbe amicizia troppo intima con parecchie. Secondo il Gordon fu rivale col duca Valentino negli amori con Sancia vedova di Goffredo Borgia. Amò una certa Veronica che da Brescia gli scriveva il 23 giugno 1508, raccomandandosi a lui «tante volte quanti sono i pensieri che nascono il giorno a quanti sono gli amanti riamati»; e prorompendo in dire: «oh quanti sono!» finisce umilmente baciandogli «le belle manine, lo prega di nuovo voglia ricordarsi di sua bassezza, e si dichiara quella fedel serva che tanto ama e adora Sua Signoria». - Dalla Dalila Putti di Ferrara ebbe un figlio naturale per nome Ippolito: da un'altra donna ebbe Isabella, maritata nel 1529 con Giberto Pio di Sassuolo. Ma l'amore, anzi una cieca brutale passione spinse il cardinale ad un iniquo delitto, e macchiò d'infamia eterna il suo nome. - Erasi egli perdutamente invaghito di una damigella della corte di Ferrara, la quale, com'è solito delle donne lusinghiere, non contenta di accogliere le istanze del cardinale, mostrò gradire moltissimo anche quelle di don Giulio fratello bastardo di lui. Il cardinale se [xxvi] ne accorse, e sollecitando la donna a dichiarargli la cagione di sì nuovo capriccio, confessò ella di non aver potuto resistere agli occhi bellissimi di don Giulio, che giudicava bastevoli a vincere il cuore di tutte le donne. La vanità puerile del cardinale restò umiliata e nel vivo trafitta; onde lasciandosi trasportare dall'impeto della gelosia e dell'invidia macchinò un'atroce vendetta. Il 3 novembre 1505 don Giulio era andato di buon mattino alla caccia; e il cardinale, forse travestito, in mezzo a quattro de' suoi staffieri, si portò alla campagna di Belriguardo, attendendo coll'insidia dell'assassino che il fratello fosse di ritorno. L'infelice don Giulio restituivasi tranquillamente a Ferrara ignaro della sorte che lo attendeva, quando ad un tratto videsi assalito e stramazzato di cavallo. Il cardinale lo circondò de' suoi uomini che lo ammortirono di percosse, e, cosa incredibile ma pure certissima, stando egli proprio a vedere , fecegli con acuti stecchi cavare ambidue gli occhi. Compiuto appena il delitto, il cardinale, sperando allontanare da sè il primo sospetto nell'animo del duca, corse a dargliene avviso come di cosa che allora vociferavasi per la città; e poco dopo don Giulio veniva portato in palazzo, deforme nel viso, tutto coperto di sangue. A quest'orribile vista che [xxvii] nella famiglia degli Estensi ritraeva in parte quanto di più crudele rappresentaronci i greci «di Tiesti, di Tantali e di Atrei», fu detto che il duca Alfonso salì in ira tale, che rovesciò la tavola ove trovavasi a mensa; e conoscendo a più indizî onde il fatto procedesse, cacciò da sè il cardinale, ingiungendogli di sortire dai confini. Allo sgraziato don Giulio si apprestavano intanto le cure maggiori: l'occhio sinistro, non essendo stato intieramente staccato dall'orbita, rimesso al posto, riacquistò col tempo un poco di luce; il destro era affatto perduto.

Sparsa la fama di tanto abominio e dei risentimenti del duca, il cardinale fu sollecito di prevenire le gravi conseguenze che doveva aspettarsi dal papa: e perciò, avendo fatto fuggire que' suoi famigliari, scrisse l'8 novembre a Beltrando Costabili protonotario apostolico e oratore ducale a Roma, che si presentasse a Giulio II e che, baciatigli i piedi a nome di lui, gli esponesse il caso occorso per opera de' quattro famigliari a motivo di certe inimicizie passate con alcuni domestici del fratello don Giulio, e che intendendo i primi che vi era pure qualche differenza tra esso cardinale e il fratello medesimo, non avevano creduto fare ingiuria al loro padrone. Che però egli ne provava il più grande dolore ed affanno, e che, sebbene fosse persona ecclesiastica, non restava di fare ogni opera per avere i malfattori nelle mani, i quali sino allora non si erano potuti trovare. Terminava poi con raccomandarsi alla solita desterità [xxviii] del reverendo oratore; cui fu agevole in questa parte accomodare la cosa. Ed è a rimarcare che la minuta della lettera stessa preparata da un segretario, e che rinvenimmo nel nostro Archivio, ha correzioni di mano del cardinale che ne moderano artificiosamente l'importanza: chè dove diceva cercarono estinguergli la luce degli occhi mutò in batterono negli occhi, vi soppresse le parole delitto e cosa facinorosa, ed a scelleranza sostituì scandalo (Doc. IV).

Si scoperse in breve che uno de' famigliari colpevoli chiamato Francesco Verdezino si era riparato a Venezia. Il duca chiese in favore di averlo in sue forze; e se da principio gliene fu data speranza, il governo veneto dichiarò poco dopo che per le raccomandazioni avute in contrario dal cardinale, il quale era riguardato come buon figliuolo della serenissima Repubblica, non sarebbe consegnato. Venne quindi scritto dal duca al suo ambasciatore Sigismondo Salimbeni in data 2 dicembre 1505, di far intendere alla Signoria di Venezia, che non avesse rispetto all'interposizione del cardinale, ch'egli era pure figliuolo ed anzi primogenito di quella, e perciò meritevole di essere preferito e in amore e in compiacenza, ad impulso altresì della causa giusta che lo moveva in confronto dell'altra del proprio fratello: ma ogni preghiera rimase inutile, benchè dèsse fede che non piglierebbe sulla persona del malfattore alcuna risoluzione che non fosse a grado della Repubblica (Doc. V).

La collera del duca durò poco per altro; ond'egli, abbandonate le esigenze, tornò ad avere il cardinale [xxix] in somma grazia e favore. L'ingiustizia colla quale perdonavasi al medesimo, lasciando impunita e dimenticata l'offesa commessa sopra don Giulio, trasse questi a concertarsi coll'altro fratello don Ferrante di far uccidere il cardinale e il duca; l'uno per vendicarsi, l'altro per impadronirsi dello Stato di cui aveva ambizione. Ma il cardinale temeva, e vegliava gli andamenti di don Giulio: videlo in grande intimità con il detto fratello, con Albertino Boschetti conte di san Cesario e con Franceschino Boccaccio da Rubiera camerlingo di don Ferrante; onde avvertito il duca del sospetto che in lui erasi destato, furono tosto imprigionati il Boschetti, il Boccaccio e due staffieri dello stesso don Ferrante, che fra i tormenti confessarono la congiura. Alla notizia dell'arresto don Giulio fuggì in Mantova presso il marchese Francesco Gonzaga cognato di lui. Gherardo Roberti capitano de' balestrieri e genero del Boschetti, con certo Gianni prete di Guascogna, cantore ed intrinseco del duca, entrambi complici della trama, fuggirono l'uno a Carpi, l'altro a Roma. Don Ferrante non curò di mettersi in salvo, e chiamato al cospetto del duca se gli gettò ginocchioni, domandando perdono di un attentato che non fu condotto ad effetto. Il duca non ebbe pietà pel suo fratello. Avendo inteso ch'ei diede ascolto alle insinuazioni di don Giulio per vendicarlo del cardinale Ippolito, l'assalì al viso con una bacchetta che allora trovavasi in mano, e percuotendolo e gridando di volerlo eguagliare a don Giulio, giunse con inaudita barbarie a cacciare ancora a don Ferrante un occhio dalla [xxx] testa! Il marchese di Mantova consegnò poi vilmente don Giulio, e si ebbero pure gli altri due fuggitivi. Vennero decapitati il Boschetti, il Roberti, il Boccaccio nel giorno 12 settembre 1506: messi in quarti, si attaccarono alle porte della città, e le teste confitte in tre lancie stettero gran tempo a terrore dei riguardanti sopra la torre della Ragione. Il prete Gianni fu collocato in una gabbia di ferro fuor della torre del castello, esposto alla vista del pubblico, di mezzo verno, con un par di calze di tela e un grigio su la camicia, oltre ad avergli tagliate sul vivo le unghie; poichè, essendo prete, forse Roma nel consegnarlo diede il veto di ucciderlo. Dopo sette giorni fu però strozzato dentro la gabbia, «significandosi che l'avesse fatto di sua posta». Del cadavere fu fatto abominevole strazio, attaccandolo per [xxxi] i piedi ad una carretta, trascinandolo per la città, poi sospendendolo per l'un de' piedi a un alto stilo sopra del ponte di Castel Tedaldo in Po, fin che disfacendosi cadde da sè stesso nell'acqua. A don Giulio e don Ferrante il duca fece erigere un palco nella corte del castello, ed invitata a spettacolo la nobiltà del paese, i due sfortunati fratelli coll'impronta nel viso delle sevizie sofferte salirono su di quello in compagnia del carnefice: le loro teste già stavano per essere recise con orrore e raccapriccio di tutti; quando il duca, a farsi proclamare principe clemente, fratello amorevole, fece loro grazia della vita, condannandoli a perpetua prigione: «don Giulio in un fondo di torre, e don Ferrante di sotto da lui, con finestre di tre doppie di ferro».

Non era ancor bene accertato chi fosse la donna che destò la forsennata gelosia del cardinale Ippolito. Il Frizzi la dice una damigella per nome Angela, la prima tra le molte che Eleonora d'Aragona all'epoca del suo matrimonio col duca Ercole I condusse seco da Roma e che era ancora sua parente. Il Litta afferma [xxxii] invece che questa damigella era Isabella d'Arduino gentildonna napoletana. Ma i due scrittori non osservarono che tanto l'Angela che l'Isabella, se vennero a Ferrara coll'Aragonese nel 1473, dovevano trovarsi all'epoca dei fatti che narriamo presso i cinquant'anni; età non atta a destar siffatte passioni. Oltre di ciò l'Isabella fu anche l'amica del duca Ercole I, la madre di don Giulio, poi da tempo la moglie di Giacomo Mainetto. Niuno certo crederà che le lodi date da una madre agli occhi di suo figlio e che non potevano suscitar gelosia, fossero riguardate dal cardinale non solo «come poco cortesi, ma altresì come una sentenza che chiudeva a lui l'adito alle grazie dell'avvenente napoletana», come il Litta continua a chiamarla. Non può dunque esser questa la donna che cerchiamo scoprire; ma conoscendo che dopo le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este celebrate in Roma nel gennaio 1502, fra le damigelle che accompagnarono la sposa vi fu pure un'Angiola Borgia sua parente (chiamata anche sorella del cardinale Borgia), che si fermò a Ferrara, ed era dotata di straordinaria bellezza, non esitiamo di [xxxiii] riconoscervi la donna da cui ebbe origine l'empio fatto del cardinale.

Quanto a Lodovico Ariosto, al quale è tempo di far ritorno colla nostra narrazione, venuto al servigio del cardinale, ed essendo questi stato eletto vescovo di Ferrara nell'ottobre 1503, gli offerse tributo di alcuni versi latini pieni di adulazione, e che terminano con lodarlo di castità! Due anni dopo accadde il tristo caso narrato; ed il poeta conoscendo che sarebbe stato impossibile levarne la colpa dal cardinale, cercò renderla men odiosa al medesimo componendo un'Egloga nella quale parla dell'ordita congiura, col tacere i motivi che vi diedero origine: e accrescendo i falli di don Giulio, e designandolo di mente invida, ingordo di adulterii (che pur sono due de' principali difetti del cardinale), nega persino ch'ei fosse figlio di Ercole I, ma bensì di chi ebbe l'Isabella Arduino in custodia, per ridurre almeno il delitto del suo signore sopra chi non eragli fratello. Fa di Lucrezia Borgia la donna casta, dicendo [xxxiv] che quanti la conobbero prima di essere venuta a far parte della famiglia d'Este, lodavano più della bellezza leggiadra, l'ingegno altissimo, l'opere sante e l'inclita onestà di lei; cose tutte che sono in onta del vero, e, ci duole il dirlo, indicano nell'Ariosto, almeno in quel primo periodo, il cortigiano bramoso di raggiungere un favore che, volendosi ad ogni costo comperare, era dall'accorto ed avaro venditore tenuto sempre a più alto prezzo.

Il poeta mostrò poi ricredersi in alcuni casi, dirigendo nel 1514 al cardinale un capitolo che, lungi dall'esaltarlo per casto, lo dice anzi trafitto più di una volta dalla fiera punta d'amore e non anche allora sanato. Così nel Furioso loda la pietà del duca Alfonso per aver risparmiata la vita ai fratelli don Ferrante e don Giulio: e qui nettamente ricorda che i miseri pur sono suo sangue, della sua più cara famiglia .

Era nel 1486 venuto alla luce in Venezia l'Orlando innamorato del conte Matteo Maria Boiardo, ristampato nove anni dopo coll'aggiunta del terzo libro nel suo stesso castello di Scandiano; e l'Ariosto rapito dalla lettura di quel poema, ove con vena inesauribile d'immaginazione s'intrecciano meravigliose avventure d'amore alle più splendide prove di valorosi paladini, rivolse ogni studio ai romanzi e poemi cavallereschi, traducendone alcuni de' spagnuoli e francesi nella lingua italiana per proprio esercizio. [xxxv] E perchè l'Orlando innamorato rimase imperfetto per la morte dell'autore, s'accinse egli a continuarlo, trattovi fors'anche da un sentimento d'affetto verso il luogo natìo, che facea riguardargli il Boiardo come suo conterraneo. Nel 1507 Lodovico aveva condotto molto avanti il suo Orlando furioso, ed essendo stato spedito a Mantova per consolarsi del felice parto della marchesana Isabella a nome del cardinale di lei fratello, gliene lesse una parte che le «fece passare due giorni non solo senza fastidio, ma con piacere grandissimo».

Al duca Ercole, morto il 25 gennaio 1505, è dovuto il merito di aver promosso in Ferrara il teatro italiano con aver ordinato al Boiardo, a Niccolò da Correggio, al Collenuccio, al Pistoia, al Guarino ecc., componimenti drammatici originali e tradotti specialmente da Plauto e da Terenzio, che faceva recitare talora da' suoi gentiluomini in una sala di corte sopra impalcato mobile adorno di bel scenario; il [xxxvi] che venne pure meritamente seguitato dal nuovo duca Alfonso I in tempo di carnevale e in altre feste straordinarie. E perchè l'Ariosto era stato sempre inclinato all'arte comica ed aveva già scritto la Cassaria e più tardi i Suppositi, due commedie in prosa (che poi ridusse in versi), vennero esse recitate, la prima nel 1508 e l'altra nel 1509, intramezzate di danze moresche, canti e suoni, con ottenere entrambe le commedie il più gradito successo, avendo altresì il medesimo autore declamato il prologo dei Suppositi; sicchè il duca diedegli incarico di soprintendere agli spettacoli teatrali di corte.

Al cominciare del 1509 venne stabilita la lega di Cambrai tra Giulio II che ne fu il promotore, l'imperatore d'Austria, il re di Francia Luigi XII e il re Ferdinando d'Aragona contro la Repubblica veneta. Fu chiamato a farne parte anche il duca di Ferrara Alfonso I, che nel 19 aprile di detto anno nominavasi dal papa confaloniere della Chiesa. Il duca per mostrarsi ossequiente al re di Francia andò a trovarlo a Milano, ove allora era giunto col proprio esercito, e gli disse della carica conferitagli, e che l'avrebbe accettata o rifiutata come meglio fosse piaciuto al medesimo. Il re rispose di contentarsene: ma una tale deferenza essendo stata riportata al papa, «n'ebbe tanto sdegno, che l'amor che prima portava al duca Alfonso cominciò a convertirlo in odio». [xxxvii] L'Ariosto fu allora spedito per la prima volta a Roma affinchè di concerto cogli amici prelati trovasse modo di pacificare il papa; rilevandosi altrettanto da due Rapporti di mess. Lud. Ariosto da Roma molto corrosi dal tempo e mancanti di data, ma che certamente si riferiscono a questa cagione. Leggesi in essi che il duca doveva necessariamente portarsi a Roma e dichiarare in persona al pontefice ch'egli «non era per corteggiare alcuno il quale volesse alzar la cresta contro Nostro Signore.... che le cose passeriano pessimamente quando non vi andasse e presto.... facendo intendere in secreto al Cristianissimo il bisogno di andare a Roma per le cose sue con i Veneziani, per esser liberato in perpetuo di quella obbligazione (del sale); perchè la protezione di S. M. non può liberare se non de facto, ma il papa può obbligare e liberare di ragione.... che la natura del papa è che quando comincia a voler male ad uno, sèguita in infinito.... che cadauna volta che andrà al re di Francia, dovrà anche andare a S. Santità per espurgare ogni sospicione che avesse conceputa di tale sua andata ecc.». Non abbiamo notizia che il duca si portasse per allora a Roma; e forse le ostilità incominciate di sùbito colla sconfitta dell'esercito veneziano a Ghiaradadda per opera dei Francesi il 14 maggio 1509 fecero rivolgere il pensiero degli alleati a cose di maggior importanza.

Nell'agosto dell'anno stesso il cardinale Ippolito era andato al campo sotto Padova, e l'Ariosto scrivevagli da Ferrara le notizie che allora correvano per la città, facendogli ancora conoscere i lamenti [xxxviii] che non a torto facevansi dal popolo per le colte di denaro che il duca ordinava, mostrando però sempre buona dose di adulazione quando soggiunge: «se V. S. fosse in questa terra, non seriano queste cose» (pag. 8).

Da un'Orsolina di villa san Vitale ebbe l'Ariosto in questo tempo l'altro figlio naturale per nome Virginio che fu legittimato nel 1520 e in più valido modo nel 1530. Fu molto amato dal padre che lungamente lo tenne presso di sè, l'istruì con sollecitudine nel latino, poi lo mandò allo studio di Padova ad apprendere il greco, raccomandandolo al Bembo colla lettera del 23 febbraio 1521 (pag. 282) e colla Satira VII.

Il 16 dicembre l'Ariosto fu inviato di bel nuovo a Roma con molta fretta, mutando ognora vetture e con pericolo di affogarsi per le acque cresciute fin su le ripe de' fiumi, affinchè chiedesse soccorso al papa contro la flotta che i Veneziani avevano spinta sul Po a danno del duca: «Poi nè cavalli bisognàr nè fanti», giungendogli la notizia della vittoria che ne ebbero sei giorni dopo le armi del duca dirette dal cardinale, come dalla lettera che pubblichiamo in data 25 dicembre 1509 (pag. 9-11). La qual lettera ha la speciale importanza (di cui non s'accorse il Tiraboschi, che pur la vide e la cita) di farci conoscere che il Furioso poteva dirsi allora condotto al suo termine, quantunque non completato, poichè in essa si dice che il poeta averà istoria da dipingere a nuova laude del cardinale nel padiglione ove [xxxix] succedono le nozze di Ruggero e Bradamante, che formano il soggetto finale del poema; padiglione che porta figurate e dipinte la nascita e le imprese d'Ippolito d'Este. Ora se questo semplice cenno fu tenuto sufficiente per farsi comprendere dal cardinale, è da inferire che questi avesse già piena conoscenza del poema; come altresì è da inferire che provasse compiacenza delle lodi a lui profuse, se l'Ariosto si diede premura di annunciargli la nuova occasione di accrescerle, come infatti troviamo aver fatto colla stanza 97 introdotta nell'ultimo canto in cui dipinge la vittoria sulla flotta veneta, «la quale tanto più fu onorata e memoranda quanto manco si è inteso che alcuno imperatore o capitano, stando in terra, abbia mai presa armata in acqua». - Ma noi vedremo più avanti qual fosse la ricompensa serbata alle gentili sollecitudini del poeta.

Avvenuta nel febbraio 1510 la morte del cardinale Cesarini abate commendatario di Nonantola (il quale pochi mesi prima erasi portato a quell'abbazia per accomodare alcune differenze d'investiture scadute e che fu colà dall'Ariosto visitato, pag. 5), il cardinale Ippolito, insaziabile di benefizi ecclesiastici, corse a Nonantola e nel 5 marzo sforzò que' monaci, che in numero solamente di sei ne formavano l'intiero capitolo, ad eleggerlo commendatario. Del quale arbitrio arditissimo sdegnossi altamente Giulio II, dicendo che il cardinale d'Este «voleva suscitare una prammatica al modo di Francia», e minacciò di fargli contro [xl] un grande processo. Ad allontanar la procella e trovar modo che restasse al cardinale l'agognata abbazìa, fu spedito per la terza volta l'Ariosto a Roma, raccomandato colla lettera che produciamo a pag. 305, da doversi intendere diretta al vescovo d'Adria Beltrando Costabili, il quale nel 25 maggio scriveva al cardinale Ippolito: «Ieri giunse mess. Ludovico Ariosto, e dipoi desinare lo introdussi a Nostro Signore, al quale espose quanto egli avea commissione molto accomodatamente, e parse che Sua Santità accettasse la giustificazione di V. Rev. Sig., ma circa a darli l'abbazìa non si risolse altramente, come più appieno quella intenderà per lettere di esso mess. Lodovico». Consisteva la giustificazione nel dar tutta la colpa ai poveri monaci, mostrando che avessero eletto il cardinale di loro libera volontà, e tentando ricuperare il diritto che un tempo avevano di farlo, e che poi si volle serbato al pontefice. Il Tiraboschi nella sua Storia della Badìa di Nonantola tace che il cardinale esercitasse in ciò alcuna pressione, e aggiunge solo che i monaci sperarono forse che il cardinale sostenuto dal duca suo fratello potesse render valida ed efficace l'elezione. Ma il papa ebbe nuove informazioni che confermarono in colpa il cardinale, come si dimostra dalla lettera del Costabili 10 giugno 1510 (Docum. VI), e nominò abate Gio. Matteo Sertorio modenese suo cameriere segreto.

I felici successi de' Francesi in Italia fecero temere al papa che potessero valere ad estendere di troppo il loro dominio fra noi, e perciò ritiratosi dalla lega di Cambrai, dopo aver ricuperato alcune [xli] terre della Chiesa, si unì alla Repubblica di Venezia dichiarando che voleva liberare l'Italia dal giogo straniero, chiamando però altri stranieri in aiuto. L'8 giugno 1510 fece intimare al duca di Ferrara, come suo feudatario, di non molestare i Veneziani, di separarsi dai Francesi e di non fabbricare più sale in Comacchio a pregiudizio delle saline di Cervia ritornate al papa. E perchè il duca stimò di maggior interesse rimanere nell'alleanza di Francia, il papa lo fulminò il 9 agosto di una scomunica estendibile a qualunque gli porgesse aiuto e che lo dichiarava decaduto; «con tutta l'altra serie (dice il Muratori) di maledizioni e pene spirituali e temporali e parole pregnanti, che inventate contro i più perversi eretici passarono poi in uso per sostenere i fini politici contro de' cattolici». Al cardinale Ippolito fu pure intimato di portarsi immediatamente a Roma, sotto pena della perdita de' suoi beni ecclesiastici.

Fu giuoco forza che il cardinale abbandonasse il fratello e s'incamminasse a Roma, o almeno alla volta di quella, in segno di obbedienza. Giunto a Modena, munì l'Ariosto di sua credenziale al papa, nella quale, esponendo risentirsi di un vecchio malore [xlii] in una gamba, chiedea dilazione che gli permettesse di fare il viaggio a piccole riprese: e raccomandando specialmente all'Ariosto di procurargli un salvocondotto per tranquillizzarsi del timore di vedersi posto in prigione a motivo dell'odio di cui insieme col duca si vedea fatto segno, lo mosse a portarsi in gran fretta e per la quarta volta nella metropoli del mondo. - Fu detto che messer Lodovico non rinvenne il papa a Roma, ma in una sua villa di delizie presso il mare; che forse non ottenne udienza o l'ebbe brevissima e tutta spirante sdegno e minaccia, e che Giulio II volle far gittare in mare l'Ariosto, il quale a stento potè salvarsi fuggendo e temendo sempre di essere inseguito. Una lettera di Benedetto Fantini segretario del cardinale narra invece che il poeta trovò il pontefice in Castello a Roma, che ottenne tosto udienza, e, quel che più muove interesse, riporta il dialogo passato fra i due illustri personaggi (Doc. VII). Messer Lodovico parlò arditamente in favore del suo principale più che non parrebbe convenirsi di fronte all'altiera e collerica natura di Giulio II; e sebbene quest'ultimo rifiutasse di prorogare per iscritto il termine assegnato nel monitorio e di rilasciare il salvocondotto richiesto, diede però a voce assicurazioni tali in proposito da poter credere che l'Ariosto giunse «A calmar la grand'ira di Secondo», per servirmi delle sue stesse parole (Sat. II). Ma la lettera del Fantini, la quale manca della seconda metà del foglio, non esclude [xliii] che seguitasse a narrare essersi l'udienza risoluta da parte del papa in uno scoppio d'ira per ulteriori insistenze dell'Ariosto: come infatti rileviamo da una lettera del cardinale Ippolito in data di Massa, ultimo d'agosto 1510, diretta ad altro cardinale non indicato nella minuta che si conserva in quest'Archivio di Stato, ove leggesi che il gentiluomo (l'Ariosto) mandato come terzo messaggio al papa per una proroga a presentarsi in Roma, «non solamente potette avere grazia o conclusione alcuna da Sua Santità, ma fu minacciato d'essere buttato in fiume se non se le toleva denante, et di fare il simile a ciaschedun altro delli miei che se li appresentasse, soggiungendo, se non andassi a Roma, me privaria de li beneficj et del cappello»; e concludeva col raccomandare la sua causa a quel cardinale. - Da Modena per altro, avanti di partire per Massa (chè voleva sempre mostrarsi in viaggio) scrisse al vescovo Costabili ch'era allora in Firenze di trovargli casa in quella città ove intendeva fermarsi per quindici giorni, e il vescovo rispondendo di averlo fatto, aggiungeva: «però con questi uomini, quali guardano al suo avvantaggio, non si è potuto venire a conclusione se non con il condurla per due mesi. Ma se la S. V. Ill. anderà di lungo a Roma, non gli sarà altro incomodo che la spesa, la quale non credo gli gravi; e avendo mandato quella mess. Lodovico Ariosto innanti, non si potrà giudicare altro che la [xliv] sia per andare: quando ancora la non andasse, non sarà che avere la casa a suo piacere e comodo». Il cardinale si portò infatti a Firenze; ed essendo sui primi di settembre caduto di cavallo, soffrendone qualche lesione, n'ebbe scusa sufficiente a non proseguire il viaggio per Roma. Il Muratori dice che la caduta fu una finzione; e tale a noi pure sembrerebbe, se, a lode del vero, non avessimo trovata una lettera del duca, 9 settem. 1510 (Doc. VIII), che ricorda questa lieve caduta. Ottenne quindi di rimanere a Firenze ove di continuo scriveva al duca delle lettere in cifra. Avendo poi avuto il buon senno di non aderire agli inviti di alcuni cardinali scismatici che allora trovavansi in Toscana, prese motivo di allontanarsene, e si trasferì a Parma. Ne diè avviso al cardinale di Pavia legato pontificio in Bologna che lodò la prudente risoluzione del cardinale Ippolito, giudicandola meritevole di tornarlo in grazia del papa; ed egli trovandosi più vicino agli Stati di suo fratello, andò più volte a visitarlo celato sotto un'armatura per concertare una forte difesa.

Il papa aveva intanto cominciata la guerra contro il duca, togliendogli le sue terre di Romagna, occupandogli Modena ed altre città, mentre i Veneti minacciavano di ripigliare il Polesine. Molti cittadini di Ferrara erano corsi nella stretta del grave bisogno [xlv] ad accrescere le fila dei soldati del duca Alfonso: lo stesso poeta, sempre bramoso di quanto promettevagli onore, volle imitar l'esempio di tre altri della famiglia Ariosto, e militò nella compagnia comandata dal principe Enea Pio di Carpi, come vedesi dalle due lettere scritte da Reggio nell'ottobre del 1510 al cardinale in Parma (pag. 12 e 14), che anche in questa guerra poteva dirsi di ogni cosa ministro. Ed essendo riescito al duca nel 24 settembre un vantaggioso fatto d'arme alla Polesella, con ricacciare i Veneziani che pur tornavano a molestarlo (Docum. IX), fu in tale occasione che probabilmente si distinse il nostro Lodovico, impadronendosi, come si narra, di una ricca nave nemica sul Po.

L'esercito della Chiesa guidato dal duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere, nipote del papa, minacciava di un prossimo assedio Ferrara. Cresceva il pericolo aspettandosi da un momento all'altro la resa della Mirandola che Giulio II braveggiando e imprecando stava in persona ad espugnare: perciò invitati i Ferraresi d'ogni ceto e condizione, uomini e donne, preti e frati (non occupati causa l'interdetto ai luoghi sacri) di afforzare con terrapieni le mura della città, postisi tutti al lavoro, questi ripari furono [xlvi] con nobile gara nel dicembre del 1510 condotti a termine.

Fecesi una notte dagli uomini d'arme del papa il tentativo di avere una porta della città; ma il duca fu prima avvertito della cosa, e vennero respinti. Anche Gio. Giacomo Trivulzio erasi portato coll'esercito francese in Mantova pronto ad accorrere in aiuto di Alfonso I, che a tale oggetto aveva pagato al re di Francia trentamila scudi d'oro. Perciò il papa abbandonò per allora l'impresa di Ferrara, e avuta in gennaio del 1511 la Mirandola, si ritirò col suo esercito a Bologna, indi a Ravenna, causa le mosse vittoriose del Trivulzio.

Verso la fine del 1511 troviamo l'Ariosto in Ferrara che con lettera accompagna a Giovanni de' Medici legato di Bologna, che poi fu papa, un suo vecchio congiunto arciprete di sant'Agata che voleva rinunciargli la sopravvivenza al proprio beneficio (pag. 20), quantunque Lodovico con azione veramente generosa e amorevole, a quanto ci narra nella Satira I (e tutte sette le Satire fanno conoscere la bontà dell'animo suo), avesse desiderato preferirsi il fratello Galasso o l'altro per nome Alessandro, che «dalla chierca [xlvii] non abborre»; mentr'egli schivo di lasciarsi legare da stole od anella, doveva chiedere al Medici una bolla che lo dispensasse colle più ampie clausole dagli ordini sacri. - Ma Lodovico non andò poi affatto esente da questi legami, potendosi dire piuttosto che li ebbe entrambi ad un tempo.

Si avvicendavano intanto i successi della guerra, ora in vantaggio ora in danno del duca Alfonso, che presso gli Strozzi di Firenze per accattar denaro avea dovuto impegnare le gioie ed ogni oggetto prezioso di casa, riducendosi a mangiare in piatti di maiolica fabbricati da lui, allorchè l'11 aprile 1512 avvenne la sanguinosa battaglia di Ravenna in cui Alfonso I governava l'antiguardia. Fu grande l'impeto de' valorosi Francesi comandati dal prode Gastone di Foix, grande la fermezza nel ributtarli de' gagliardi Spagnuoli capitanati dal vicerè di Napoli Raimondo di Cardona, incerta per ambe le parti la vittoria, che infine si decise a favor dei Francesi. Il duca Alfonso influì non poco a tal esito, avendo saputo cogliere una favorevole posizione dalla quale fulminava di fianco a colpi sicuri i nemici costretti a passar vicino alle bocche delle sue micidiali artiglierie per accorrere al soccorso delle squadre perdenti. Azzuffatisi i due eserciti corpo a corpo, le milizie del duca chiesero se dovevano cessare da un fuoco che poteva ad un tempo far strage di Spagnuoli e Francesi, ed egli rispose: Tirate senza timor di fallare, chè sono tutti nemici nostri; e perciò i morti si fanno ascendere in quella tremenda giornata a diciottomila, metà circa per parte, tra gente di Spagna, di Francia, [xlviii] d'Italia e della Svizzera, a causa specialmente della numerosa artiglieria del duca di Ferrara, il quale fu detto usasse di due cavalli da guerra avvezzati a scagliarsi di salto sopra i nemici e ucciderli a calci! L'animoso petto di Gastone di Foix, non potendo tollerare che li Spagnuoli si ritirassero in ordinanza, gli inseguì con furore; ma rintuzzato di forza, cadde trafitto, e con lui rimase spento anche il fiore de' capitani Francesi. - Se Lodovico Ariosto non fu presente a questa battaglia, v'accorse subito dopo, dicendoci di aver vedute le campagne rosse del sangue barbaro e latino, e per molte miglia il suolo così coperto di morti, che senza premerli non concedeva il cammino. Fu però presente al sacco che il giorno dopo si diede alla miseranda città di Ravenna, ove dai vincitori uscirono crudeltà tali da empiere il mondo d'orrore.

Quest'amarissima vittoria indebolì siffattamente l'esercito francese per la perdita dei capi, che il duca cominciò presto ad accorgersi che su di esso non potrebbe più a lungo fondar speranze d'aiuto. Ascoltò quindi i consigli di Fabrizio Colonna (ch'egli avea fatto prigioniero di guerra, ma che teneva a Ferrara come amico), e volle tentare di riconciliarsi col papa. Per gli offici del marchese di Mantova di [xlix] lui cognato e per quelli del Colonna ottenne un salvocondotto per trasferirsi a Roma. Il duca partì da Ferrara il 23 di giugno 1512, dopo aver rimessi in libertà i Veneziani che teneva prigioni, e dopo aver mandato avanti Fabrizio Colonna a disporgli accoglienze favorevoli. Giunse in Roma il 4 luglio, in compagnia dell'Ariosto (se pure non lo raggiunse dopo), e il papa gioì di vedere il suo nemico prostrarsegli dinanzi e baciargli i piedi. L'esame delle differenze fu rimesso a sei cardinali che furono favorevoli al duca: ma il papa voleva ad ogni modo Ferrara, e gli propose in cambio la città d'Asti tolta allora ai Francesi, chiedendo ancora gli fossero rilasciati i due prigionieri don Ferrante e don Giulio. Il duca rifiutò di cedere Ferrara e i fratelli!... Giulio II amava don Ferrante che aveva tenuto a battesimo, e bramava poterlo togliere di pena. A quest'ultimo impreveduto rifiuto inorridì dubitando che il duca l'avesse fatto uccidere di nascosto; e qui l'ira, a lui sempre sì facile, scoppiò fieramente. Il duca assicurò che don Ferrante era vivo, ma ripetè perfidiando che non l'avrebbe ceduto, lagnandosi pure che contro la fede del salvocondotto gli fossero state nel frattempo occupate alcune città; e, com'era prevedibile, [l] si lasciarono più nemici di prima. Sul capo del duca rumoreggiava la tempesta, e giunto al suo alloggio scrisse il 17 luglio al cardinale Ippolito col falso indirizzo Ad Alessandro di Cremona la lettera in cifra di cui si pubblica la traduzione, nella quale con animo di inesorabile crudeltà sembra compiacersi di non aver voluto gratificarsi il papa nemmeno col cedere i due fratelli prigioni, e specialmente don Ferrante (Docum. X). Il papa dal canto suo voleva vincerla sul duca a qualunque costo, e non ebbe riguardo a dar ordine che fosse arrestato, facendo prima raddoppiare le guardie alle porte di Roma e così impedirgli una fuga. Seppelo il cardinale d'Aragona che in segreto lo riferì ai Colonna; ed essi a ricompensare il duca «d'aver serbato il suo Fabrizio a Roma» lo travestirono in mezzo a buona mano di armati, sforzarono la porta di San Giovanni e lo trassero a salvamento fuori della città, nascondendolo nel loro castello di Marino. Come il papa lo seppe arse di sdegno, fecelo inseguire d'ogni parte, ma inutilmente: volle almeno vendicarsi su quelli del suo corteggio; e non trovando che il conte Lorenzo Strozzi, lo fece imprigionare: gli altri erano stati avvertiti e fuggirono in tempo. Dodici muli furono presi nel bosco di Baccano carichi de' bauli del duca: ma i bauli, a derisione, eran vuoti, essendosi le robe occultate in diversi monasteri. Tre mesi circa restò il duca nascosto finchè Prospero Colonna venendo in Lombardia con [li] duecento uomini d'arme per unirsi a Raimondo di Cardona il prese con sè or sotto l'abito di cacciatore, or di famiglio, or di frate, e così potè deludere la vigilanza di Antonio della Sassetta che il papa aveva messo fra que' soldati per iscoprirlo. Dovendo poi il duca dividersi dal Colonna, per trovarsi soltanto in compagnia dell'Ariosto, narra questi in una lettera del primo ottobre scritta appena giunto in Firenze, che sembravagli d'essere uscito allora delle latebre e de' lustri delle fiere, ormato in caccia dai levrieri (del papa), e di aver passata la notte antecedente in una casetta di soccorso col nobile mascherato, l'orecchio intento e il cuore in soprassalto (pag. 23). Così finirono le paure sofferte, e il 7 ottobre il duca passò per Castelnovo, quindi muovendo dalla strada di san Pellegrino arrivò il 14 dello stesso mese felicemente a Ferrara.

Il gran concetto di Giulio II di cacciare i barbari d'Italia pareva tradursi ad effetto, giacchè i Francesi incalzati dagli Svizzeri dovettero ripassare i confini: e il papa gloriandosi d'essersi tolto dal collo il più forte nemico, sebbene con armi esterne, lo schernì un giorno il cardinale Grimani, osservando che il regno di Napoli, così ricca e importante parte della penisola, rimaneva pur sempre in potere degli Spagnuoli. Per le quali parole l'animoso pontefice, alzato il bastone su cui sosteneva il cadente fianco e percuotendo con forza lo spazzo, gridò che, Dio concedente, anche [lii] quei popoli avrebbero presto imitato il glorioso esempio degli altri.

Il cardinale Ippolito, rimasto nell'assenza del duca suo fratello al governo dello Stato, aveva dovuto perdere Reggio, Brescello, Carpi (ov'era tornato Alberto Pio), Cento, la Pieve e le terre di Romagna, e così depositare in mano del Vit-Furst, che fu mandato governatore Cesareo in Modena, anche S. Felice e Rubiera. Già i Lucchesi approfittando del momento favorevole si erano impadroniti della Garfagnana: già il duca prevedeva l'ultima ruina della tanto agognata Ferrara che sola rimanevagli in potere, e dove teneva concentrate tutte le sue forze per farne gagliardo contrasto, quando nel 21 febbraio 1515 Giulio II morì.

L'11 marzo Giovanni de' Medici veniva eletto papa col nome di Leone X. L'Ariosto eragli stato amico, e più volte avendo udito ripetergli in Firenze e in Bologna che non farebbe differenza tra lui e il suo stesso fratello, corse a Roma in abito di staffetta anche a nome del duca di Ferrara. Leone X mostrò di udire assai volentieri le parole di omaggio e congratulazione che gli venivano profferte; prese per mano l'Ariosto, gli baciò ambe le gote (Satira IV); ma essendo di cortissima vista, e sdegnando allora di portare l'occhiale, mal potè ravvisarlo: così gli altri amici del poeta, divenuti grandi nuovamente, desiderosi d'imitare il santo padre, mostrarono quasi di [liii] non vederlo! (pag. 24). Si fermò Lodovico a Roma all'incoronazione del papa: ma non essendogli stato offerto alcun posto vantaggioso, com'egli se ne lusingava, lasciò Roma non avendo ottenuto che l'esenzione della metà della tassa alla bolla occorrente per succedere allo zio nel benefizio di sant'Agata!

Nel ritorno passò per Firenze e accadendovi le feste di San Giovanni sentì vaghezza di fermarvisi a conforto dello spirito amareggiato dal disinganno di Roma. In Firenze incontrò Alessandra Benucci rimasta vedova da poco tempo di Tito Strozzi di Ferrara, e quella beltà che non eragli nè peregrina nè nova lo innamorò sommamente. Di que' spettacoli tenne poco ricordo, e poco gliene calse:

Sol gli restò immortale

Memoria ch'ei non vide in tutta quella

Bella città di lei cosa più bella.

E la Benucci accolse e gradì l'amore del poeta, riempì degnamente il vuoto ch'egli aveva nel cuore, gli fu dolce stimolo a completare il suo poema che aveva bisogno di grande opera, nè era limato nè fornito ancora (pag. 22); ed anzi fu detto ch'ella esigesse ogni mese un canto ricorretto del Furioso. L'Ariosto si trattenne in Firenze quasi due mesi nella diletta compagnia della donna amata, ne' cui begli occhi e nel sereno viso andava errando il suo ingegno, ch'egli, vestendo immagini colle grazie d'Anacreonte, chiedeva di poterlo raccogliere colle labbra.

[liv]

Verso la fine del 1513 essendosi il cardinale Ippolito ridotto a Ferrara, anche l'Ariosto fu obbligato a seguirlo, e così fece poco dopo la Benucci. Ivi terminò di rivedere il suo poema, che nel 1515 cominciò a stamparsi da Giovanni Mazzocco del Bondeno, con essere colà pubblicato il 22 aprile del 1516 in 40 canti; avendo prima chiesto e ottenuto privilegi che lo guarentissero da ristampe arbitrarie. Ne mandò subito un esemplare al cardinale cui era dedicato e che allora trovavasi a Roma: e quando al ritorno del medesimo a Ferrara, che fu il 7 giugno, aspettavasi ringraziamenti e favori per averlo sì altamente celebrato con tutti quelli di casa d'Este, udì invece chiedersi dal cardinale: Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie? Le quali parole, se pur furono veramente pronunziate, come passarono in tradizione, non possono ritenersi dirette che in via di scherzo, e per ostentare noncuranza delle lodi a lui prodigate: poichè sappiamo che il cardinale aveva cognizione del poema avanti che andasse alla stampa, la cui spesa sarebbe stata da lui assunta, come sembra apparire dalla lettera scritta al cognato marchese di Mantova in data 17 settembre 1515 nella [lv] quale chiede di poter estrarre da Salò nientemeno che mille risme di carta esenti da dazio per farne l'edizione. È però indubitabile che il poco grato mecenate, se intendevasi di matematica e filosofia, non aveva certo alcun gusto poetico, avendo detto all'Ariosto che non faceva degni di mercede gli elogi datigli a piacere e in ozio, e che avrebbe preferito fossegli stato appresso per adempiere alle commissioni che a lui piacesse affidargli. Di che il poeta risentitosi, séguita nella Satira II a lamentarsi del cardinale, che dopo averlo mandato tante volte a correre in fretta per monti e balze a scherzar colla morte, mostra poco apprezzarlo, non sapendo smembrar starne in aria sulla forchetta, mettere il guinzaglio a' cani e sparvieri, nè potendo adattarsi a porre o cavar speroni, ch'erano i servigi riconosciuti dal suo signore. Lamenti forse alquanto esagerati, se pur fu vero che il cardinale facesse a tutte sue spese l'edizione prima del Furioso, o non avesse soltanto procurata l'esenzione del dazio della carta di cui occorsero sole duecento risme; conoscendosi ancora che tanto il cardinale quanto il duca Alfonso acquistarono parecchi esemplari del poema.

L'anno dopo il cardinale chiese a messer Lodovico di seguirlo in Ungheria. Addusse egli motivi giusti di salute (catarro e debolezza abituale di stomaco) che [lvi] non permettevangli d'intraprendere un lungo viaggio, nè affrontare un cambiamento di clima che poteva riescirgli funesto; come fu anche dichiarato dal Valentini modenese medico dello stesso cardinale. Queste ragioni non furono ammesse: ma persistendo l'Ariosto nel suo rifiuto a partire, anche per fare un'ammenda della soverchia servilità del passato, il cardinale se ne adontò, commettendo l'imperdonabile risoluzione di congedarlo da sè, togliendogli ogni assegno, sino a due beneficî ecclesiastici che gli avea procurato, e dei quali volle fatta rinunzia a favore di altri suoi famigliari designati da lui. Dovette solo conservargli quello su la cancelleria di Milano perchè in società col Costabili di Ferrara, e perchè pochi mesi prima aveva scritto a Ruffino Berlinghieri suo vicario in Milano le lettere in favore dell'Ariosto da noi riportate a pag. 306, 307. - D'allora in poi Lodovico non comparve più innanzi al cardinale, che mostrò averlo in dispetto, mentre il nostro poeta sempre buono e cortese, ad onta dell'ingratitudine sofferta, continuava ad offrirsi al suo primo signore per servirlo «di càlamo e d'inchiostro in Ferrara, ove con chiara tromba farebbe sonar alto il suo nome» (Satira II); dubitando quasi di non aver detto abbastanza per appagarne l'orgoglio! Al novembre del 1517 l'Ariosto pensò di trasferirsi a Roma per assicurarsi con una bolla papale, or che [lvii] mancavagli il favore del cardinale d'Este, i beneficî di Milano e sant'Agata (Satira I), tentando ancora di procacciarsi altrove un impiego, poichè vedevasi negletto a Ferrara. Di ciò fu avvertito il duca Alfonso, il quale riflettendo all'enorme vergogna che sarebbe derivata alla casa d'Este col permettere che il poeta che l'aveva sì altamente celebrata si trovasse costretto a chieder servigio presso altra corte, lo nominò il 23 aprile 1518 fra' suoi famigliari coll'assegno di otto scudi al mese, oltre il vitto per tre domestici e due cavalli.

Alfonso I, che in parte abbiamo imparato a conoscere, nacque il 21 luglio 1476 da Ercole I ed Eleonora d'Aragona. «Fu piuttosto maninconico e severo che lieto e giocondo.... si dilettò d'aver cognizione di tutte quelle cose che non solamente a S. Signoria, ma anco a private persone son convenienti.... e della maggior parte di quelle arti, che sono ad uso e necessità degli uomini, sapea più che mezzanamente parlare, e di molte eziandio di propria mano lavorare, non mediocre nè volgarmente; delle quali, sendo poi anco duca, si prese spasso ed esercizio.... Ebbe profondissimo giudicio di artiglieria, e fu inventore di nuove forme di essa a farle più comode e più perfette che fin al tempo suo state non erano; e fecene fare gran quantitade». l'imperatore Napoleone III [lviii] conferma questo merito di Alfonso «nell'aver dato opera ad un'artiglieria stupendamente mobile ed efficace», con riportare un brano delle Memorie di Fleurange, che in due armerie vide circa trecento grossi cannoni appartenenti al duca, ove dice «non trovarsi tra suoi maestri di getto chi operasse meglio di lui». E mostrossi pure appassionato ed esperto in adoperarli, come abbiam veduto alla battaglia di Ravenna, e come troviamo che fece all'espugnazione di Legnago, scrivendo il primo di giugno 1510 al fratello cardinale, ch'egli era diventato cannoniero vero, che i suoi cannoni tiravano benissimo con il diavolo da 35 a 40 colpi il giorno (risultato assai raro in que' tempi), e che se non avesse sentito affanno per la notizia allora giuntagli della pace conclusa dal papa coi Veneziani, rompendo la lega di Francia, mai sarebbe stato più contento (Doc. XI).

[lix]

Nel 1491 Alfonso si unì in matrimonio con Anna Sforza sorella del duca di Milano, e a festeggiare per tre giorni queste nozze in Ferrara fu ripetuta nella sera del 13 febbraio la commedia de' Menecmi di Plauto, «con tanto modo et gratia, che da tutti fu commendata.... e il fine della commedia fu, che essendosi riconosciuti Menechino et il fratello, e volendo ritornare con lui a casa, esso Menechino fece mettere alla crida tutti li soi beni, dicendo volerli dare per 1700 onze d'oro, con la moglie sopra il prezzo», come rileviamo da una lettera al duca di Milano scritta il giorno successivo da Ermes Maria Sforza e da Gio. Francesco Sanseverino i quali accompagnarono con altri 200 fra gentiluomini e cortigiani la sposa a Ferrara, e la sera dopo fu recitato anche [lx] l'Anfitrione tradotto da Plauto, con intermezzi in ambe le commedie di danze, canti ecc.

Anna Sforza morì di parto nel 1497 senza lasciar prole; e poichè Alfonso nell'agosto 1500, in cui Lucrezia Borgia restò vedova, non erasi ancora determinato a riprender moglie, Alessandro VI, che sempre pensava a più illustri nozze per la figliuola, incaricò il cardinale Ferrari modenese di scrivere al duca Ercole (18 febbraio 1501) e proporgli la mano di Lucrezia pel principe ereditario di Ferrara. Il duca se ne adontò e diede un assoluto rifiuto, essendosi altresì manifestata la maggior ripugnanza da parte di Alfonso e di tutta la famiglia d'Este. Ma il papa, ottenuto pure l'appoggio del re di Francia, insistette tanto col far conoscere i grandi vantaggi di tale unione e i danni che verrebbero dal ricusarla, che riescì a vincere la contrarietà del duca: il quale riguardando queste nozze come un ottimo affare di Stato, pose innanzi delle alte pretese, che vennero quasi tutte accettate.

Un corteo guidato dal cardinale Ippolito d'Este composto di un'eletta cavalcata di 500 persone per andare a pigliare la sposa uscì da Ferrara il 9 dicembre 1501 e giunse a Roma il 23 detto mese, accolto colle maggiori dimostrazioni d'onore. Roma era tutta in festa, avendo il papa ordinato che da quel dì incominciasse il carnevale, e ne' seguenti furono dati spettacoli intesi ad esaltare le due congiunte famiglie Borgia ed Este. Il penultimo giorno dell'anno fu ripetuta in Vaticano d'ordine del papa la cerimonia dell'anello che don Ferrante a nome del fratello pose [lxi] in dito alla sposa, stando il papa sul trono e avendo intorno 13 cardinali e il figlio Cesare.

Lucrezia nel colmo della contentezza, dopo aver ottenuto dal papa quelle grazie che il duca Ercole fece chiedere col di lei mezzo, impaziente di abbandonar Roma, partì il 6 gennaio 1502 con un corteo da regina, accompagnata sino a porta del Popolo da tutti i cardinali, ambasciatori e magistrati, e giunse la sera del 31 detto mese al castello Bentivoglio sul bolognese a 20 miglia da Ferrara. Colà ebbe la grata sorpresa d'incontrarsi col marito Alfonso che le si presentò travestito, e trattenutosi alquanto con lei, ripartì nella stessa sera. La Borgia fece la sua solenne entrata il 2 febbraio in Ferrara ove le feste nuziali si protrassero con banchetti, balli e rappresentazioni teatrali per sei giorni, e fra i poeti che fecero omaggio de' loro versi alla sposa, anche l'Ariosto le offerse un epitalamio.

Quantunque Alfonso negasse fede alle turpitudini attribuite a Lucrezia, non poteva certo mostrarsi lieto, almeno in que' primi momenti, della bella moglie che tutti ammiravano, conoscendola pur sempre di fama assai compromessa per aver avuto due altri mariti: [lxii] il primo (Giovanni Sforza signore di Pesaro) disgiunto da lei per imaginaria ed estorta dichiarazione d'impotenza, ch'ella offerivasi convalidare con giuramento; il secondo (Alfonso d'Aragona duca di Bisceglie che l'avea fatta madre d'un figlio) fatto strangolare sul proprio letto dal duca Cesare, scacciando dalla stanza Lucrezia la quale non ebbe ardire di opporsi; e perciò le accoglienze della nuova famiglia di cui veniva a far parte, riescirono «a dire il vero fredde», come si espresse la marchesana Isabella d'Este, che inoltre scriveva a Francesco Gonzaga suo marito: «La Ecc. V. non mi abbia già invidia di non esser venuta a queste nozze, perchè sono di tanta freddura, ch'io ho invidia a chi sono rimasti a Mantova». Però i vantaggi grandi che accompagnarono cotesto matrimonio fecero presto dimenticare la vita passata da Lucrezia in Roma ove fu ceco strumento della ferrea volontà del fratello e del padre.

Morto Ercole I il 25 gennaio 1505, Alfonso come figlio primogenito gli successe nel dominio. Abbiam veduto i supplizi coi quali inaugurò la sua salita al [lxiii] potere e l'odio implacabile che mantenne contro i fratelli, che sono indizio di violente natura e di pessimo cuore: i fatti che veniamo narrando mostreranno altre colpe.

- Il poeta Ercole Strozzi, amico dell'Ariosto, era venuto in grande famigliarità e servitù con Lucrezia Borgia, che spesso lodò ne' suoi versi, per mezzo della quale sperava di poter conseguire il cappello cardinalizio: ma la notte del 6 giugno 1508 fu crudelmente assassinato e deposto morto, involto nel proprio mantello, davanti la casa che abitava. Alla gelosia del duca per Lucrezia fu attribuita questa morte: però il Giovio, dicendola procurata da un personaggio di alto affare per motivo di Barbara Torello sposata di recente dallo Strozzi, e sapendosi altresì che la donna era amata e sollecitata dal duca, tutto induce a credere che l'assassinio venisse da lui ordinato, come ebbe a rimproverargli anche il papa, non essendosi pur fatta alcuna inquisizione per scoprire e castigare i colpevoli.

[lxiv]

- Un notaro bolognese per certa causa che aveva in Argenta tra un famiglio di Ercole d'Este ed un balestriere per nome Gaione, li citò a Roma, sebbene Argenta alla morte di Giulio II fosse stata ricuperata dal duca. Trovandosi Alfonso I a Migliaro, i suoi quattro consiglieri di giustizia in Ferrara credettero necessario di non lasciare impunito l'ardimento di una tale citazione che scalzava di fatto l'autorità ducale, e tradotti nelle prigioni di Ferrara il notaro e i contendenti, chiesero con lettera del 3 ottobre 1520 il parere sovrano. Rispose egli a tre ore della notte seguente al suo segretario Obizzo Remo, irritandosi e lagnandosi che non avessero data un'immediata condanna di loro arbitrio, dicendo: «l'assenza nostra serviva benissimo in proposito, perchè sempre averessimo avuto la scusa accettabile quando altri si fosse querelato di cosa che fosse stata fatta in Ferrara essendo noi lontano; e massime che, come sarìa stato vero, sarìa anco stato ben credibile che non fosse passato di nostra scienza nè commissione, essendo la cosa sì presta che non aressimo potuto avere avviso di quella citazione e mandar commissione a quel tempo: sì che ci pare che tutti abbiate errato. E perchè ci domandate mo il parer nostro di quel [lxv] che abbiate a fare, vi rispondemo che non sapemo che altro commettervi, se non che subito lasciate andare quello notario, così come l'avete fatto imprigionare, nol dovendo fare: e quando sarà lasciato, fatelo venire a voi e ditegli che subito che noi avemo inteso della sua cattura, avemo scritto che ci dispiace, e ch'ei sia liberato: benchè questo impiastro possa mal sanare lo error commesso. A quelli altri due (il famiglio e il balestriero), se ci è scusa alcuna legittima o colorata, fate che sian dati tre gran squassi di corda in piazza, e poi siano rimessi in un fondo di torre finchè loro sarà deliberato altro. Ma fate la nostra ambasciata alli compagni vostri, come è sopraddetto, con aggiunta d'un càncaro che vi venga a tutti quattro nel più brutto del corpo». Terminata appena la lettera gli dispiacque dover perdonare al notaro, e aggiunse l'iniquo poscritto che segue: «Prima che quel notario sia lasciato, mettete ordine col nostro collaterale, che trovi due o tre matti, fidati però, che lo vedano quando uscirà di prigione, per poterlo riconoscere, e poi l'abbino per spia quando se ne andrà; e in qualche loco ben comodo lo tirino da cavallo e lo strascinino per li capelli e lo schiaffeggino gagliardamente, pestandogli il volto e li occhi in modo ch'ei ne resti segnato e ne senta per un mese.... E potendo eseguir questo in loco da ciò, straccinogli tutti i panni d'addosso e lascinlo nudo: ma abbiasi avvertenza di far che quando lo vedranno uscir di castello, non siano visti da lui, acciochè poi egli non conoscesse alcun di loro in fatto». La lettera è di pugno del segretario Bonaventura Pistofilo, [lxvi] che in un brandello di carta staccata vi introdusse di nascosto queste parole dirette al Remo: «Prego la Mag. V. ed essa sarà contenta pregare per me li magnifici compagni, che mi perdonino se scrivo cosa che vi dispiaccia; chè certo l'ho scritto mal volontieri, ed anco ho scritto meno che non mi è stato commesso». - Non sappiamo come andasse a finire la scena traditrice preparata al notaro: troviam soltanto memoria che i magnifici consiglieri di giustizia restarono molto spaventati dell'ira che avevano involontariamente suscitata, e cercarono discolparsi. Il duca rispondeva: «Volemo che vi sia licito dir sempre la ragion vostra, ma noi anco volemo poter dire e scrivere a voi e alli altri quel che ci pare».

Or questo Pistofilo ci narra nella Vita di Alfonso I, ch'ei «fu amantissimo della giustizia, la quale molto costantemente e con grandissima integritade volle che fosse ministrata in tutto il suo dominio», quando a nome del suo encomiato facevasi strumento per calpestare la medesima con turpitudine d'inganni e colorati pretesti che ne salvassero qualche grossolana apparenza!

- Nel 1508 Isabella vedova di Federico d'Aragona, spogliata del trono di Napoli, licenziata dalla Francia ov'erasi riparata, venne raminga a Ferrara con molti figli, e ottenne dal duca nato da un'Aragonese assegnamento e ricovero. Due figlie d'Isabella, già cresciute degli anni nelle strettezze della vita privata, [lxvii] neglette dai grandi com'è la sventura, non potendo aspirare nella posizione in cui erano cadute ad illustri nozze, si posero ad amoreggiare l'una con un mercante, l'altra con un Pugliese nominato Ferrante. Il duca venne presto a saperlo, e si lagnò di questo grande disordine col loro maggior fratello don Ferrante che era in Ispagna, scrivendogli il 9 maggio 1525 e proponendo gravissimi castighi, unicamente per evitare il pericolo di qualche scandalo vergognoso. Ritardando la risposta, spediva il 18 luglio altra lettera in duplicato esemplare, confessando che aveva più d'una volta pensato di far strangolare i due giovani innamorati e far chiuder le donne in separati conventi, ma che aveva con forzata pazienza voluto aspettare gli ordini del fratello da eseguirsi contro tutti, de' quali sarebbe stato fedele e severo esecutore. - Speriamo che don Ferrante si sarà contentato che i due giovani fossero allontanati da Ferrara, e che avrà riconosciute le sorelle degne di compatimento. - Più tardi il duca si mostrò molto sollecito in procurare che una di queste Aragonesi per nome Giulia facesse un matrimonio che secondava le sue viste col marchese di Monferrato. Ma l'infelice principessa pochi giorni dopo le nozze celebrate in Ferrara videsi spento il marito di veleno; poichè essendo egli l'ultimo dell'illustre famiglia Paleologa e mancando senza figli, il Monferrato doveva passare sotto il dominio del marchese di Mantova cognato di Alfonso I. L'ex regina Isabella, che costretta a vivere di una sprezzante elemosina era divenuta pia sollevando il cuore all'altezza del sacrificio, provò [lxviii] tanto orrore di questo delitto di avvelenamento che la condusse fra non molto alla tomba. Prima di morire aveva raccomandato con lettere al figlio suo primogenito le disgraziate sorelle, ed egli che allora trovavasi governatore in Granata le chiamò presso di sè, liberando il duca dal pensiero di cercare alle medesime altre ragguardevoli nozze.

Non aggiungeremo nuovi fatti, ritenendo gli esposti anche di troppo valevoli a farci conoscere il carattere del duca, che certamente non fu il migliore di tutti i suoi fratelli, senza parlare di don Sigismondo morto nel 1524, «perchè essendo stroppiato dal mal francese, poco potè adoperarsi in mostrar suo valore».

Alla morte di Giulio II il duca erasi affrettato al tempo della sede vacante di ricuperare le sue terre di Romagna e la Garfagnana, ma dovette presto desistere udendo l'elezione di Leone X, per non compromettersi col novello papa, «che essendo cardinale avea così ben dissimulato che era creduto mezzo santo; ma riuscì poi tutto il contrario. Il detto duca andò a Roma alla sua coronazione e tornossene a Ferrara assoluto dal monitorio di papa Giulio, con un'amplissima bolla di papa Leone che gli promise molto ed osservò poco». - Trattava il duca coll'offerta di qualche somma di riaver Modena dall'imperatore Massimiliano, cui era stata consegnata, «il quale per [lxix] essere nello spendere troppo profluso avrìa venduto poco manco ch'io non dico i denti per aver denari». Il papa sotto colore di agevolare il negozio accettò Modena in suo nome, sborsò quarantamila ducati all'imperatore, e fece formale promessa di restituirla al duca entro certo tempo a fronte del rimborso della somma pagata: «Non scrivo il termine prefisso a redimerla perchè il predetto duca mio Signore mai non lo potè sapere: chè se ben fu detto che era X anni, la copia dello strumento celebrato sopra ciò avea vacuo il luogo nel quale doveva essere dichiarato esso tempo!». Anche «il card. Ippolito stando in Roma, ottenne dal papa un breve per la restituzione di Reggio fra cinque mesi, con che il duca cessasse di fare il sale in Comacchio. Il duca mantenne la promessa; ma il papa in mille modi sempre l'ingannò», fino a fargli depositare nelle mani dell'imperatore i quarantamila ducati del prezzo di Modena; senza poter però avere nè l'una, nè l'altra città. Nel 1518 il duca andò a Parigi a prestar omaggio al re Francesco nell'alleanza che questi fece col re d'Inghilterra e così implorare più validi uffici all'adempimento delle promesse del papa, ritornando a Ferrara il 20 febbr. 1519. Era in Parigi quando Raffaello Sanzio vi spedì il ritratto di Giovanna d'Aragona uscito dallo studio di lui; e il duca ne provò tale soddisfazione, che in data 29 dicembre 1518 ordinava al suo segretario [lxx] Obizzo Remo: «Scrivete a Roma a Monsig. d'Adria che faccia sollecitare la mia pittura che fa Raffael da Urbino, e che o per il Paulucci o per altri faccia parlare ad esso Raffael, e dirgli che noi desideriamo d'aver il cartone di quella pittura che esso ha mandato qua al Rev. Legato, su la quale è ritratta la signora viceregina di Napoli, e che avendolo ci farà piacere gratissimo a donarcelo: circa che usi il prefato Mons. quella maniera e mezzo che pare a S. S.ria alla quale reputiamo che basti far noto il nostro appetito, conoscendo la prudenza e desterità di Sua Sig.».

Il 24 giugno 1519 in età d'anni 41 morì per conseguenza di un aborto Lucrezia Borgia. Narrano gli storici di casa d'Este, ch'ella «lasciate le mondane pompe.... impiegava la mattina in orazioni» e che venendo a marito e trovando in Ferrara che «le gentildonne e cittadine usavano abiti ne' quali mostravano [lxxi] le carni nude del petto e delle spalle, così essa signora introdusse il portare e l'uso di gorgiere che velavano tutta quella parte, dalle spalle sino sotto li capelli». - E dobbiamo credere che Lucrezia, lasciate fra qualche tempo le mondane pompe, conducesse in Ferrara gli ultimi anni di sua vita ossequiente al suo sposo, «e non solo nel vestire, ma anco ne' costumi e religione fosse al popolo di ottimo esempio, esercitando opere pietose «verso i poveri e i letterati, che sono spesso una medesima cosa», specialmente dopo essere rimasta priva del suo più valido sostegno per la morte del papa avvenuta il 18 agosto 1503, cui seguì la rovina degli Stati acquistati a furia di rapine e tradimenti dal duca Cesare, che terminò col cadere anch'esso morto in una imboscata il 12 marzo 1507, combattendo da valoroso in Pamplona al soldo del cognato di Navarra.

E fu pure Lucrezia celebrata da tutti i poeti e uomini dotti che l'avvicinarono in Ferrara, compreso l'Ariosto il quale nell'Orlando furioso (XLII, 83) giunse persino a collocarla per bellezza e onestà al disopra dell'antica Lucrezia. Ma il Bembo, oltre di averla cantata in versi e dedicatole nel 1504 il suo dialogo d'amore, Gli Asolani, concepì per lei una decisa passione, ed essa accolse nel cuore più che amicizia per lui, come può vedersi dalle lettere che scrisse al Bembo e che si conservano autografe con una ciocca de' suoi biondi capelli nell'Ambrosiana [lxxii] di Milano ove furono pubblicate nel 1859 da Bernardo Gatti.

L'animo della duchessa di Ferrara in mezzo al suo quieto e riposato vivere fu turbato nel 1510 dalla notizia della morte del suo primo marito Giovanni Sforza, il quale essendosi nel 1504 ammogliato con Ginevra Tiepolo, n'ebbe l'anno dopo un figlio per nome Costanzo che confermò l'ingiustizia colla quale lo Sforza era stato da lei separato con un processo da cui ebbe origine ogni maggior biasimo di Lucrezia in quell'orrido passato di Roma.

Anche l'abbandono in cui lasciò nella cara età di due anni il figlio Rodrigo avuto dal suo secondo marito Alfonso d'Aragona, senza mai più curarsi di vederlo, e che morì di 13 anni in Bari presso una sua zia; «quali si fossero le circostanze che costrinsero Lucrezia a tenerlo lontano da sè, è certo ad ogni modo che questo infelice fanciullo lasciò sulla figura di lei un'ombra sinistra».

Nel 1519 il duca, al quale erano riesciti poco utili i bagni d'Abano «per curarsi dai malori contratti in giovinezza,» ammalò gravemente. Leone X spedì il vescovo di Ventimiglia con 600 uomini nel Mirandolese con ordine di occupare Ferrara se avveniva la morte che si credeva inevitabile di Alfonso. Essendo questi risanato, si volle che il papa macchinasse con un Giberto (od Uberto) da Gambara suo [lxxiii] protonotario di corrompere con denari Rodolfo Hello capitano della guardia de' Tedeschi di esso duca per farlo uccidere, e che il capitano fingendo di accondiscendere per cavare due mila ducati di mano al protonotario, scoprisse la cosa al duca, il quale ordinò se ne formasse un processo che si conserva in Archivio. «Ed è da notare che il detto papa Leone avea di bocca sua parlato con uno altro Tedesco (Gianni di Malines), che era internunzio in questa materia, ed esortatolo a fare diligente officio; assolvendolo, anzi persuadendolo che non peccava, ma meritava ad aiutare la Santa Sede apostolica ad avere Ferrara, la quale gli dava ad intendere che era occupata dal detto duca Alfonso immeritamente». Il Muratori dà piena fede al tentativo di assassinio contro il duca ed al processo che questi ne fece fare «in forma autentica, coll'esame di varie altre persone consapevoli del fatto, e con inserirvi le lettere originali del Gambara»: ma noi che pel fatto del notaro bolognese conosciamo come Alfonso I calpestasse la giustizia [lxxiv] e volesse giudici che ne salvassero soltanto l'apparenza, moveremo qualche dubbio sulla verità della cosa, e tanto più giacchè ora non troviamo in Archivio che un semplice abbozzo di processo, o meglio narrativa, scritta dal segretario del duca Obizzo Remo, mancante di ogni firma, delle lettere del Gambara e di qualunque altro documento originale, ed ove in mezzo a molte stranezze non si parla però mai di uccidere il duca, ma solo di farlo prigioniero e occupargli a tradimento Ferrara (Doc. XII).

Il 2 settembre del 1520 morì il cardinale Ippolito fratello del duca per aver mangiati troppi gamberi arrostiti e bevuta troppa vernaccia, di cui aveva sempre «i fiaschi Nel pozzo per la sera in fresco a nona». Così a papa Martino IV furono fatali «L'anguille di Bolsena e la vernaccia».

Leone X ormai palese nemico di Alfonso I fece lega nel 1521 con Carlo V per discacciare i Francesi che nel 1515 erano tornati in Italia; e perchè il duca si portò colle sue genti a soccorrerli e liberarli dall'assedio di Parma, spingendosi ancora alla ricupera del Finale e san Felice, il papa prese motivo di scomunicarlo così come aveva fatto Giulio II, essendo stata eguale nell'un papa e nell'altro la brama di estendere il poter temporale anche a vantaggio dei loro nipoti, e di rivendicare Ferrara, tanto più che l'annuo censo, che si pagava alla Chiesa fu ridotto a minima cosa pel matrimonio della Borgia.

[lxxv]

Continuavasi con ardore la guerra contro i Francesi, «e perchè esso papa Leone era entrato in un'impresa nella quale era necessario molta spesa, non potendo con l'entrate ordinarie supplire al bisogno, fece in una volta sola trentuno cardinali, dalli quali tirò grossa somma di denari, senza rispetto alcuno di simonia». Ottomila Svizzeri guidati dal cardinale Sedunense vennero in aiuto del papa e degli imperiali; sicchè alla fine i Francesi furono costretti a perdere di nuovo Milano e ritirarsi d'Italia. Il duca fu pure spogliato delle terre che aveva riacquistate, e tornò a vedersi ridotto al solo possesso di Ferrara, col sopraccarico dell'esercito del papa che veniva a stringerlo d'assedio e lo minacciava d'imminente eccidio.... Ma la sorte lo salvò un'altra volta mediante la morte di Leone X avvenuta il primo dicembre 1521, non senza sospetto di veleno.

Nell'estremo pericolo ond'era trascinata la sua famiglia, Alfonso I non poteva contentarsi di cadere onorevolmente colle armi alla mano, chè il suo carattere maligno e vendicativo traevalo a dirigere una Lettera latina all'imperatore Carlo V e agli altri principi cristiani piena di lagnanze ed accuse gravissime contro Leone X; lettera che tradotta in italiano faceva stampare in Ferrara e in Venezia nel mese di novembre 1521. La corte di Roma non tardava dal suo canto a formare una Risposta alla invettiva di don Alfonso inviandola alla stessa Maestà Cesarea, [lxxvi] nella quale non solo difendeva la fama vilipesa del pontefice, morto nel frattempo, ma aggiungeva querele infinite contro il duca e gli Estensi, facendola pure stampare in Roma il 6 gennaio 1522 unitamente alla Lettera del duca. Per la somma rarità ai nostri tempi di queste pubblicazioni, che sfuggirono al Roscoe nella sua Vita di Leone X , e per l'interesse storico che possono avere, ne daremo in appendice alcuni estratti (Docum. XIII e XIV).

Lodovico Ariosto frattanto non sarebbe stato del tutto scontento del servizio del duca, che poco molestava i suoi studi e che toglievalo di rado da Ferrara ove sempre a motivo della donna amata rimaneva il suo cuore (Satira IV), se per la morte del cugino Rinaldo Ariosto accaduta il 7 luglio 1519 non avesse subíta una manifesta ingiustizia. Non lasciando il cugino suddetto figli maschi legittimi, Lodovico [lxxvii] e i suoi fratelli, rimasti eredi ab intestato del defunto, andarono in possesso della ricca tenuta nella villa di Bagnolo, detta delle Arioste, concessa a livello dal duca Ercole I a Francesco Ariosto padre di Rinaldo, allorchè dopo alcuni giorni ne furono dal Fattore generale del duca Alfonso Trotti indebitamente spogliati, dichiarando quei beni feudali devoluti alla Camera ducale. I fratelli Ariosto supplicarono al duca, che, essendo stato «dal suo Fattore lor fatto così espresso e manifesto torto, si degnasse dar loro qual si volesse altro giudice dal Fattore in fuori, dinanzi a cui s'avesse a conoscere e decidere di ragione questa causa. Non poterono ottenerlo, anzi S. Ecc. li rimesse pure a detto Fattore. Onde non potendo essi farne altro, furono sforzati [lxxviii] cominciare la lite in Camera, dove fu agitata, e instrutto il processo, pubblicati li testimoni e condotta la causa sino alla sentenza: alla quale instando essi, il Fattore per l'odio che portava gratis a mess. Lodovico, e per rispetto di lui a tutti gli altri fratelli, non comportò mai che se ne potesse vedere il fine». L'odio di Alfonso Trotti fu creduto derivare da due sonetti satirici contro il medesimo, «i soli (dice il Polidori) in cui trascorresse la musa italica di Lodovico» e vennero in luce soltanto nel 1741 per averli trovati di suo pugno fra le carte possedute dal seniore Baruffaldi. Ma non siamo però certi che fossero composti dall'Ariosto, il quale dice che l'odio portatogli dal Trotti era gratis, e cioè senza avergliene dato motivo (se pur non fu simulato per coprire gli ordini del duca), mentre anzi il poeta lo ricorda nel suo Furioso, XLI, 4. - Crediamo invece che appartengano all'autore della serie de' sonetti maledici contro Cosmico, i quali trovansi stampati fra le Rime di Antonio Cammelli detto il Pistoia (Livorno, 1884, pag. 223 e segg.); e chi li confronterà coi due creduti dell'Ariosto, speriamo che assolverà il nostro autore dall'attribuitogli trascorso.

Di Rinaldo Ariosto pubblichiamo una Lettera assai confidenziale, in data del 7 giugno 1505, posseduta prima dal Mortara, che la disse bellissimo documento [lxxix] per conoscere la qualità del morbo ond'egli ebbe a morire; permettendoci però noi di osservare che dall'epoca della lettera alla morte di Rinaldo passarono più di quattordici anni (Doc. XV).

Uno de' primi incarichi dati da Alfonso I a Lodovico fu quello di portarsi ad Urbino per condolersi della morte di quella duchessa moglie di Lorenzo de' Medici il giovine: ma giunto il 4 maggio 1519 a Firenze, intese che anche il duca d'Urbino era morto, onde non andò oltre; ed anzi dopo pochi giorni si restituì a Ferrara, ove il 6 giugno lo vediamo spedire al marchese di Mantova la sua Cassaria, ch'eragli stata richiesta (pag. 30). Il 7 luglio diedegli pure notizia della perdita del cugino Rinaldo: e avendo fatto sapere a Mario Equicola che trovavasi immerso in litigi (per la contrastata eredità), ringrazia il 15 ottobre questo suo amico che si offriva di assisterlo coll'opera propria, narrandogli che attendeva a fare «un poco di giunta al Furioso.... ma poi dall'un lato il duca, dall'altro il cardinale, avendomi l'un tolto una possessione che già più di trent'anni era di casa nostra, l'altro una possessione di valore appresso di dieci mila ducati, de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie, m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resta per questo [lxxx] ch'io non segua, facendo spesso qualche cosetta» (pag. 33). - Il 16 gennaio 1520 terminò di comporre la commedia intitolata il Negromante per desiderio di Leone X, e gliela mandò perchè fosse recitata in quella corte in cui l'anno avanti si era data colla maggiore splendidezza possibile l'altra sua commedia I Suppositi, avendo la scena dipinta da Raffaello, e stando il pontefice alla porta per regolare l'entrata degli spettatori, impartendo loro la sua benedizione! Chè la corte di Leone X, partecipando alla generale corruzione, era troppo amante dei sollazzi profani; e abbiamo una lettera di Alfonso Paolucci al duca di Ferrara in data di Roma 8 marzo 1519 che non potrebbe più al vivo ritrarci «i costumi del secolo e dell'uomo che gli diè il nome» (Doc. XVI). L'Ariosto aggiunse al Negromante un nuovo Prologo ove dirige al papa elogi assai lusinghieri; ma vi mescola con acuta ironìa la liberalità nell'assolvere di omicidi e di voti,

«E se pur non in dono, per un prezio

Che più costan qui al maggio le carciofole!»

È poi importante questo Prologo venendosi per esso a conoscere che l'autore faceva tesoro dei vocaboli della lingua parlata che più gli piacevano, e che diede opera a Firenze, a Siena e per tutta Toscana ad apprenderne [lxxxi] l'eleganza e nascondere le forme della pronunzia lombarda. Di cotale studio si prevalse con sagacia nel suo Negromante che aveva in gran parte composto dieci anni addietro, e nel quale introdusse tanti cambiamenti da non vederci più il consueto idioma, e cominciò pure a giovarsene nella ristampa che nel 13 febbraio 1521 pubblicò in Ferrara dell'Orlando furioso, ch'eragli da tutte parti richiesto, non trovandosi allora alcun esemplare in commercio della prima edizione. Però un libraio di Verona, che n'ebbe parecchi da vendere per conto dell'autore, scusavasi di non pagarli per intiero, allegando una rimanenza: ma l'Ariosto scriveva all'Equicola di verificare la cosa, «chè troverà che i libri sono venduti e che quel libraro vuole rivalersi di quelli denari» (pag. 36). Nel frontispizio di questa seconda edizione il poema dicesi con molta diligenza corretto e quasi tutto formato di nuovo e ampliato, rimanendo però circoscritto ne' quaranta canti di prima. A rifarsi in parte delle spese di ristampa, l'Ariosto ne cedè subito col 16 febbraio cento copie al libraio Giacomo Gigli di Ferrara per il prezzo di sessanta lire marchesane. Il libraio doveva venderle sedici soldi l'una, avendo così il venticinque per cento di sconto; e fino a tanto che quelle cento copie non erano esitate, l'autore non poteva disporre di alcuna delle rimanenti presso di lui, nemmeno in regalo. Oggi un esemplare della suddetta ristampa si venderebbe ad altissimo prezzo.

[lxxxii]

Il duca di Ferrara liberato due volte dai più estremi pericoli colla morte di Giulio II e con quella di Leone X, si credè il favorito della fortuna, e fece battere cinque monete d'argento allusive alla circostanza, due delle quali rappresentavano da una parte la sua effigie, dall'altra un uomo che toglie un agnello di bocca a un leone col motto de manu leonis, mentre in gran fretta portavasi durante l'interregno a ripigliare i suoi Stati. Ebbe il Finale, San Felice, le terre di Romagna, e per interne rivoluzioni anche il Frignano e la Garfagnana. - Il 9 gennaio 1522 fu assunto al papato Adriano VI, l'ultimo cardinale fatto da Leone X e precettore di Carlo V, nato da bassi parenti, fiammingo d'origine. Era in Biscaglia al momento dell'elezione, e il duca vi mandò un suo ambasciatore a far atto di ossequio, informarlo dei torti sofferti, e chieder giustizia. Il nuovo pontefice liberò il duca dalla scomunica, lo lasciò al possesso di quanto aveva ultimamente ricuperato e lo confermò nell'investitura di Ferrara, comprendendovi anche il Finale e San Felice per far credere queste due terre della Camera apostolica, sebbene ritenute spettanti al feudo imperiale di Modena. Il duca mandò poi a Roma il suo primogenito Ercole, che in presenza del papa e del sacro Collegio perorò la restituzione di Modena e Reggio. Il discorso fatto francamente in lingua latina da un giovinetto di soli quattordici anni, che ritraea le bellezze della Borgia sua madre, sorprese e interessò i cardinali i quali gli corsero attorno abbracciandolo come fosse un loro congiunto. Ma papa Adriano rispose: «Se quelle città, che dici essere di [lxxxiii] diritto di tuo padre, le avessi racquistate nel tempo della Sedia vacante, più facilmente potrei confermargliele; ma poichè le possiede la Chiesa, acciocchè non sembri che ne sia spogliata, non sono per darle a nessuno. - Queste parole studiosamente raccolte da Alfonso l'ammonirono a tempo che cosa dovesse fare, morto il pontefice». - Anche l'imperatore Carlo V proponeva di restituire Modena e Reggio al duca purchè gli pagasse cento cinquanta mila ducati: ma il papa titubava sempre dichiarando di non poterlo permettere; finchè accadde la di lui morte il 14 settembre 1523. Alfonso I non tardò allora di mettere in pratica gli insegnamenti di Adriano, e mosse le sue genti riconquistando Nonantola, indi Reggio e Rubiera. Erasi pure portato sotto Modena, ma il celebre Guicciardini che n'era governatore e Guido Rangoni che ne comandava la guarnigione, accresciuta in previdenza di 1500 Spagnuoli, la mantennero sotto il governo della Chiesa. Il cardinale Armellino camerlengo in Roma formò un nuovo monitorio contro il duca come invasore degli Stati ecclesiastici: però il Collegio de' cardinali tornò a chiudersi in conclave prima che il monitorio fosse spedito, e il 19 novembre dell'anno stesso Giulio de' Medici divenne papa col nome di Clemente VII.

Lodovico Ariosto aggravato di spese per la lite colla Camera ducale e per la ristampa del suo poema avea [lxxxiv] troppo bisogno dello stipendio assegnatogli in corte; pur si adattò a vederlo uscir lento od anche affatto sospeso, finchè durarono le esigenze della guerra: ma gli dolse accorgendosi che anche in migliorate condizioni la mano del duca seguitava a tenerglisi chiusa. E tacendo in Milano in mezzo all'armi le leggi, nè potendo perciò ricavare alcun vantaggio dal beneficio della cancelleria di quell'arcivescovato, ricorse al duca affinchè lo levasse di bisogno, o gli concedesse di cercarsi altrove da vivere (Satira V).

Accadde allora che la Garfagnana, già prima in possesso degli Estensi, poi de' Lucchesi al tempo di Giulio II e de' Fiorentini a quello di Leone X, volle per alimentato sobbollimento ritornare sotto al suo antico signore: e facendosi reiterate istanze per avere un commissario, il duca vi elesse l'Ariosto, segnandone il decreto il 7 febbraio 1522, come può rilevarsi dalla Lettera del poeta per noi pubblicata a pag. 207. Il Micotti così racconta la rivoluzione della Garfagnana: «Bernardino Ruffi commissario de' Fiorentini in Castelnovo, stordito dall'avviso della morte di Leone, temendo di sollevazione per l'affetto che questi provinciali portavano alla casa d'Este, dubitando di sè e delle cose sue, si racchiuse nella rôcca di Castelnovo dove abitava, non permettendo ad alcuno l'ingresso: ma li principali del castello, che pur volevano liberarsi dai Fiorentini e restituirsi al loro legittimo signore, non trascurando l'occasione somministratagli dalla morte del papa, mandarono Gio. Pietro Attolini medico, del quale il commissario si soleva servire nell'indisposizione d'una sua figliuola, [lxxxv] a procurare che, sotto pretesto di visita e d'aver a trattar seco interessi di rilievo, fosse aperta la porta della rôcca; il che da lui eseguito, benchè con difficoltà ottenuto, i cittadini principali armati entrarono nella rôcca dove era il commissario, e gl'intimarono che nel termine d'un'ora dovesse partire, altrimenti l'avrebbero precipitato dalla finestra. Il commissario impaurito per sì improvviso accidente, privo d'assistenza e temendo lasciarvi la vita, stimò buon consiglio partirsi subito, come fece l'8 dicembre 1521. Scacciato il commissario fiorentino, con ogni prestezza spedirono al duca Alfonso l'avviso di quanto era successo: il quale avendo sommamente gradita la fede e l'amore de' sudditi, scrisse anche un'amorevol lettera a Gio. Pietro Attolini.... Fu poi mandato a governar la provincia Lodovico Ariosto ferrarese, il famoso poeta e prudentissimo ne' maneggi di Stato. In memoria d'essersi liberati dal dominio di papa Leone e de' Fiorentini, per pubblico decreto il Consiglio ordinò, che sempre ne' tempi avvenire il settimo giorno di dicembre si solennizzasse con luminarie e processioni di tutto il clero e popolo, e che il dì seguente, giorno della liberazione, dedicato all'immacolata concezione della Santissima [lxxxvi] Vergine, si celebrassero messe ed offici a spese del pubblico. Fece anche il Consiglio scolpire in grosso macigno un'aquila grande, intesa per la serenissima casa d'Este, che tiene un leone sotto gli artigli, preso per papa Leone, e porre sopra la porta di Castelnovo in mezzo a molt'arme che vi sono».

L'offerta di andare al governo della Garfagnana fra un popolo rozzo, turbolento ed inquieto, diviso da fazioni, guasto da spessi mutamenti di padroni, pieno di banditi per l'opportunità di varî confini, non poteva piacere all'Ariosto; ma presentando d'altra parte molti vantaggi pecuniarii per tasse e diritti inerenti alla carica, vinto dal bisogno, l'accettò. Ignorando quanto tempo sarebbe stato lontano da Ferrara, incerto della sorte che lo attendeva, fece il 12 febbraio il suo testamento, si disgiunse con dolore [lxxxvii] dalla Benucci, e in compagnia del figlio Virginio partì alla volta di Castelnovo ove giunse il dì 20 dello stesso mese. Narra il Garofolo che Lodovico «nell'andare al commissariato.... convenendogli presso a Rodea passar per mezzo a una compagnia d'uomini con armi che sedevano sotto diverse ombre, non sapendo chi si fossero, andò oltre non senza qualche sospetto per esser quelle montagne allora molto infestate da ladronecci per le fazioni di certo Domenico Morotto e di Filippo Pacchione capitali nemici. Ora essendo passato avanti un tiro di mano, colui ch'era capo loro dimandò al servitore ch'era più addietro degli altri, chi fosse il gentiluomo; e udito ch'era Lodovico Ariosto, subito si mise così com'era armato di corazza e di ronca a corrergli dietro. Lodovico vedutolo venire si fermò, non ben sicuro come avesse a seguire il fatto. Colui giuntogli presso e riverentemente salutatolo, gli disse ch'era Filippo Pacchione, e gli domandò perdono se non gli avea fatto motto nel passar oltre, perocchè non sapeva chi egli fosse; ma che avendolo inteso dipoi, era venuto per conoscerlo di vista come molto prima l'aveva conosciuto per fama: e nel fine fattogli cortesi inviti umilmente si licenziò da lui». Questo fatto ammesso per vero dal Baruffaldi potè solo a nostro giudicio accattar origine da qualche segno di [lxxxviii] rispetto che taluno de' faziosi o fautori di essi ebbe poi ad usare verso l'Ariosto (com'è detto a pag. 80), convertendolo in un incontro occorsogli presso Rodea (Roteglia) nell'andare al commissariato (ossia nel suo primo viaggio); e ciò allo scopo di accrescere alla vita del poeta una nuova situazione d'interesse drammatico. Incontro che non potrebbe ammettersi fuorchè in un viaggio successivo e in una stagione diversa dalla invernale del febbraio, in cui que' luoghi sono quasi sempre coperti di neve e poco acconci in allora a sedere sotto l'ombre (non già degli alberi che avevano ancora da rinnovare le foglie); e giacchè inoltre l'Ariosto stesso, cui dobbiamo attenerci, non mancò in un'elegia di esporci questo suo viaggio accompagnato da rabbiosa procella d'acqua e venti che prendeva ognora maggior possanza, ferivagli come acuto strale il volto, e col fango impediva [lxxxix] al suo cavallo di affrettarsi per la via alpestre e lunga. Sembrava, egli dice, che il cielo meritamente lo punisse d'essersi dipartito dalla sua donna, di aver chiuse le orecchie alle preghiere di lei, di aver promesso di assumere un carico che tanto lo allontanava da Ferrara. Era pentito, ma non gli era lecito ritornare indietro: solo il cuore mille volte ogni giorno sarà costretto di farlo!

Giunto a Castelnovo, capoluogo della Garfagnana, l'Ariosto cominciò subito le fastidiose cure del suo governo, udendo ognora accuse e liti, furti e omicidi; pregando gli uni, minacciando gli altri, e scrivendo ogni giorno al duca per consiglio ed aiuto. [xc] Obbligato a lasciare in abbandono i dolci suoi studi per aver sempre villani alle orecchie , sol dopo un anno fece il primo motto alle Muse, dirigendo al cugino Sigismondo Malaguzzi la Satira V ove descrive la vita ch'egli colà conduceva, e che riceve bel riscontro e accrescimento di fatti dalle Lettere di lui che qui si producono. Alcune di esse dànno prova della bontà del suo cuore, altre della sua giustizia e imparzialità, molte della sua sagacia e accortezza politica, la maggior parte della mala condizione di quella provincia. E perchè il duca immerso in cure più gravi non gli prestava il braccio forte ch'egli richiedeva, e lasciavalo con pochi balestrieri incapaci di affrontare i banditi e gli assassini ch'erano più di loro (pag. 200), così l'Ariosto si mostrò ridotto all'alternativa di dover proporre misure estreme di [xci] ferro e fuoco sopra le sostanze de' banditi, loro congiunti e aderenti (p. 163), e così contro i campanili, le canoniche e per fino le chiese, che in causa delle immunità ecclesiastiche servivano loro di sicuro ricovero. Poco propenso verso i preti, che per negatagli autorità dai vescovi e dal duca non poteva castigare se mancavano (pag. 103), li fa colpevoli di favorire i malfattori; ma dice al tempo stesso che non ponno fare altrimenti (pag. 222), essendo invalsa presso tutti la tema della loro vendetta se non li nascondono (pag. 171), e dicendosi minacciati della vita se parlano (pag. 236). Per ovviare in parte a tanti disordini, l'Ariosto concluse il 20 giugno 1523 a nome del duca una lega colla Repubblica di Lucca, che mandò il suo bargello agli ordini del commissario (p. 164); [xcii] fece pubblicare alcune gride (pag. 309-317); ebbe accrescimento di uomini d'armi: ma ciò fu di poco o momentaneo profitto, chè le ottantatre terre di cui componevasi la provincia alzavano le corna divise dalla sedizione (Satira V). L'Ariosto qualche volta parlava alto e risentito (pag. 213-216); minacciava fuggirsi di notte abbandonando l'officio, e concludeva: «Ognuno è di malavoglia, e dicono mal di me, ma più di V. S. (pag. 183), che pigli li loro denari e lasci abbandonate le rôcche (pag. 229); chè almeno, poi che quella non li vuol difendere, gli dèsse licenza e li ponesse in libertà, che si potessero dare a chi fosse atto a poterli difendere e tener in pace» (pag. 234). Parole arditissime, ma giuste e degne del maggior elogio, come l'altre: «fin che starò in questo ufficio non sono per avervi amico alcuno, se non la giustizia».

Alla notizia dell'elezione al papato di Clemente VII, conoscendosi le inimicizie passate tra gli Estensi ed i Medici, parve che a tutti fosse tagliata la testa (pag. 199), chè, non credendosi abbastanza rassodato il governo del duca, era da molti preveduto un prossimo tramestìo di padroni: di qui l'ardimento a nuovi [xciii] disordini da una parte, di qui il pretesto a lasciarli correre od anche favorire dall'altra, non esclusi gli ecclesiastici. A ciò poi diedero fomento anche le bande nere del famoso Giovanni de' Medici, che venute a contesa coi marchesi Malaspina di Lunigiana fecero scorrerìe e occuparono nel 1524 alcuni luoghi della ducale provincia, accrescendo seguaci alla parte italiana che rappresentavano di fronte alla parte francese sostenuta dal duca.

Dopo essere stato due anni in quell'officio, l'Ariosto dichiarò che lo muterebbe volentieri in un altro dove fosse più vicino al duca, «come sarebbe il commissariato di Romagna» (pag. 209): desiderando forse di cancellare in Lugo con dolcezza e bontà la memoria sfavorevole che vi era rimasta del padre pel fatto che abbiam riferito a pag. XVII. - L'amico Bonaventura Pistofilo, erasi offerto di procurargli la carica di ambasciatore ducale presso Clemente VII; ma il poeta dirigendogli la Satira VI ringraziando del cortese pensiero, non si mostrò allettato dall'onore nè persuaso del maggior vantaggio che gli si prometteva; chiedendo piuttosto di essere chiamato a Ferrara, ove trovavasi la Benucci, ed ove ogni cinque o sei mesi era costretto di andare a passarne uno, per non morir dalla noia in Castelnovo.

[xciv]

Sui primi d'aprile del 1525 il duca si decise a richiamare l'Ariosto presso di sè, facendolo sostituire nel commissariato da Cesare Cattaneo ferrarese. Il 26 detto mese l'Ariosto chiese di poter rimanere anche un po' di tempo nell'ufficio per esigere gli assegnamenti suoi del quartirone passato, e il giorno dopo scrisse dolendosi ch'era stata fatta una grave ingiuria al figlio Virginio che teneva presso di sè, quando a motivo della sua partenza non avrebbe potuto ottenerne la dovuta riparazione. Sulla prima domanda il duca rispose il 3 maggio che essendo stato tanto a fargli intendere questo suo desiderio, non lo poteva compiacere perchè il Cattaneo designava di mettersi veramente in cammino per la Garfagnana «fra tre o quattro giorni alla più lunga», onde bisognava lasciare che altri gli procurasse la detta esazione. Quanto alla seconda lettera, aggiungeva: «Vi significamo che avemo inteso con grave nostra dispiacenza il caso accaduto, e ci dispiace che un nostro suddito sia stato tanto ardito e insolente che abbia avuto animo di far violenza ad un figliuolo d'un nostro commissario che in quel loco rappresenta la persona nostra, e commetteremo efficacissimamente a messer Cesare che ne faccia quella severa dimostrazione che merita la natura del caso in sè e la fede e diligenza che voi avete usato in servizio nostro. E state sicuro che noi avremo altrettanto caro che voi conosciate che desideramo e volemo che si faccia esecuzione di questa cosa, quanto voi stesso arete ch'ella si faccia. Infra tanto consolatevi, e state sano».

[xcv]

L'autorità dell'Ariosto continuò in Garfagnana a tutto il mese di maggio, e il 5 giugno 1525 non essendo ancora arrivato in Castelnovo il Cattaneo, il duca scriveva a messer Lodovico: «lodiamo che lo aspettiate e facciate ogni opra per abboccarvi seco e instruirlo in quel che occorre per l'ufficio, e sarà anche bene per esiger li vostri crediti e avanzi».

Il Cattaneo giungeva poco dopo alla sua residenza, così descrivendosi dal Carli le circostanze di una tale elezione: «Seguivano ancora (1524) in provincia le sedizioni e i ladronecci, non passando mese che non si contassero questioni, violenze, oppressioni e simili ingiustizie, senza che la diligenza e l'autorità del governatore Ariosti bastasse a porvi il conveniente riparo: ove dimorandovi egli di malissima voglia, faceva di continuo instanza all'A. S. d'esserne rimosso; ma ciò non ostante non ne venìa consolato. Discorrevasi ogni giorno nell'anticamera ducale questo fatto fra molti di que' cavalieri assistenti con varietà di pensieri, quando un Cesare Cattaneo gentiluomo ferrarese ritrovandosi a sorte in corte, nell'udire le rappresentate doglianze dell'Ariosti, rispose aver quello poco spirito, mentre con l'autorità non sapea liberar la provincia da quella sediziosa peste de' fuorusciti: darsi egli vanto, quando gli fosse sostituito, di estinguerne il veleno nel primo mese. Parole che riferite al duca, fu dall'A. S. tantosto determinato che fossero ridotte all'effetto, per far prova se il vanto fosse veritiero o bugiardo: che però fattolo a sè chiamare, dichiarollo governatore di questa provincia, e con la solita spedizione delle patenti qua [xcvi] inviollo a dar la sospirata muta all'Ariosti, che tutto assorto nelle dolcezze di Parnaso, non bastava ad applicare ai rigori di Marte e d'Astrea.

«Ricevuto il Cataneo dai provinciali con dimostrazioni d'allegrezza nella solita residenza della rôcca di Castelnovo, fece egli tantosto pubblicare un editto, che qualunque bandito per qual si sia delitto uccidesse in provincia il compagno, fosse certo d'ottenere subito la remissione del bando gratis e senza ben minimo dispendio; di che restarono di tal sorte spaventati i fuorusciti, che nel breve spazio d'un mese sgombrarono tutti la provincia e si dileguarono, lasciandola in una perfettissima quiete. Invenzione così ammirata da tutti, che celebrato per l'Italia restonne il Cataneo famoso, applaudito qual Cesare vincitor senza pugna, e trionfante senza contrasto; e ne sarebbe restato in Garfagnana il suo nome immortale, quando non l'avesse poscia egli oscurato con ingiustissime operazioni e con vergognose estorsioni.... onde citato a comparire (nel 1527) a Ferrara.... spaventato dalla reità della propria coscienza negò la comparsa.... e partitosi dallo stato contumace.... fu dopo la formazione del processo dichiarato bandito».

Ma il Carli si dimostra assai male informato della verità dei fatti che imprese ampollosamente a [xcvii] narrare. Le gride V, VI, e VII da noi stampate in questo volume (pag. 315, 316), provano all'evidenza che l'offerta del perdono ai banditi che uccidessero degli altri banditi in pena capitale non fu un'invenzione ammirata del Cattaneo, ma un'infelice risoluzione presa fin dal 1524 sotto il governo dell'Ariosto; poichè se per essa potevasi scemare la schiera dei tristi, dovevasi al tempo stesso portare lo scandalo e la corruzione in quella dei buoni, accrescendola di uomini malvagi, assolti dai delitti passati mediante un omicidio traditorio di più. È poi falso che i fuorusciti si lasciassero spaventare così facilmente da questi editti e sgombrassero la provincia; chè anche nel maggio 1525, e cioè un anno dopo, l'Ariosto proponeva al duca di far grosse taglie contro i medesimi per estirparli dalla Garfagnana ove [xcviii] continuarono a mantenersi non solo durante il breve commissariato del Cattaneo, ma ben anche per un tempo più lungo d'assai, come si rileva dalla grida che nel 20 novembre 1551 venne pubblicata in Castelnovo; leggendosi in essa: «.... perchè si conosce evidentemente che tutti i latrocinii e assassinamenti che son fatti non procedono da altro, se non tollerando li banditi che stieno nella provincia.... vuole S. S.... che ogni volta.... banditi in pena capitale passeranno per alcuna terra o villa di detta provincia, che subito quelli di detta terra uomini e donne che li vederanno siano tenuti a dargli drieto a suon di campane e gridar ammazza ammazza, e ammazzarli o pigliarli, o vivi o morti, e consegnarli alla corte subito, che gli sarà donato scudi 25 d'oro; altrimenti, non lo facendo ipso facto, s'intenda essere incorsa quella terra nella pena di scudi 100 d'oro in oro, applicabili alla ducal Camera, la quale se li farà pagare senza avergli remissione alcuna, facendo pigliar li primi di detta terra o villa che li capiteranno in le mani.... non avendo rispetto a giovedì nè a ferie a farli incarcerare per esigere la detta pena: sì che ognuno si guardi». - Il rigore di questi provvedimenti e le convenzioni fatte prima colla Repubblica di Lucca, estese poscia col Governatore di Bologna nel 1543 e col duca di Parma e la marchesa [xcix] di Massa nel 1551, di non lasciar posare in alcun luogo i malfattori, arrestandoli e consegnandoli scambievolmente, portarono alla per fine un po' di pace al paese. Non troviamo che un'egual convenzione fosse fatta per allora coi Fiorentini, sebbene al suo tempo l'Ariosto la riconoscesse necessaria: e forse questi disordini non erano da essi veduti di mal occhio, tenendo viva la speranza di poter un giorno riconquistare la Garfagnana: dovendo osservarsi che tra Ercole II di Ferrara e Cosimo I di Firenze era sorta una grande e vanitosa lite di precedenza per la quale furono sempre nemici; poichè nell'abboccamento avvenuto a Lucca nel 1541 tra Paolo III e Carlo V, il duca di Ferrara, presentatosi con altri principi italiani al cerimoniale corteggio, corse a mettersi alla destra dell'imperatore ed a porgergli alla mensa la salvietta, con volere che fosse fatto rogito di quest'onore di primo grado; onore che Cosimo I, pur esso presente, giudicava invece competere a lui medesimo.

Anche le fazioni politiche che tenevan divise quelle terre andavano in allora scemando de' loro odii e delle frequenti vendette. Racconta Daniello Bartoli che nel 1547 essendosi condotto colà il padre Landini per dar corso alle fatiche apostoliche, «appena trovò luogo che non fosse tocco da questa maladizione»: ma che la sua parola vi sanò l'eresìa luterana che pur vi conobbe, ed estinse non poche inimicizie passate in eredità da' padri a' figliuoli: cosicchè in Carreggine, nel meglio del predicare, veggendo gli uditori in gran maniera commossi, accennò col [c] dito e chiamò per nome Giovanni Corso capo e mantenitore della fazione francese, ed egli alzatosi per dichiararsi disposto ai desiderî del Landini fece pace colla fazione italiana, come «il fatto si notò su messali di quella chiesa».

Ritornato l'Ariosto a Ferrara dove il sorriso della sua donna e l'ozio beato delle Muse traevalo; lasciata una gente inculta, simile all'asprezza de' sassi ov'è nata (Satira VI), per trovarsi nella dotta compagnia de' suoi vecchi amici che mai non ebbe nè invidiosi nè finti, potè acquistarsene uno nuovo nel poeta Ercole Bentivoglio venuto anch'esso al servigio del duca, col quale passeggiava di frequente nel cortile del palazzo ragionando e ridendo insieme de' poemi cavallereschi del Cieco da Ferrara, del Guazzo e d'altri molti così inferiori di merito al Furioso, il quale avidamente ricercato da tutti accresceva diletto quanto più si leggeva, ed erasi ben nove volte ristampato dal 1524 al 1527 tra Venezia e Milano. Alcune di queste edizioni si dicevano fatte con licenza dell'autore, altre lo tacevano: niuna però portava correzioni ed aggiunte che l'Ariosto riserbavasi introdurre in una terza impressione da eseguirsi in Ferrara colla propria assistenza: «non passando mai giorno, come scrive il Giraldi, ch'egli non vi fosse intorno e con la penna e col pensiero». A questo scopo bramando vivere più tranquillo e solitario, si divise nel 1527 dai fratelli, comprò nella contrada di Mirasole una [ci] casetta con diverse pezze di terra all'intorno e si pose a fabbricarvi e a formarvi un piccolo giardino, spendendo tutto quello che poteva ritrarre delle sue rendite. «E perchè male corrispondevano (come nelle sue Memorie lasciò scritto il figlio Virginio) le cose fatte all'animo suo, soleva dolersi spesso che non fosse così facile il mutar le fabbriche come i suoi versi; e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano ch'esso non facesse una bella casa, essendo persona che così ben dipingeva i giardini, rispondeva che faceva quelli senza denari». Sull'entrata della casa leggevasi il seguente distico:

Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non

Sordida, parta meo sed tamen aere Domus;

ed ivi ritiratosi attese a dar l'ultima mano al suo Furioso, occupandosi ancora di rivedere le sue commedie in versi, le Satire e le poesie liriche. Erano suo passatempo le cure del giardino, ove (séguita a dire Virginio) «teneva il modo medesimo che nel far de' versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco: e se piantava anime di pesche o semente di alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano che finalmente rompeva il germoglio».

Pel duca Alfonso rinnovavansi intanto le triste condizioni dei tempi di Leone X, poichè il nuovo papa Clemente VII, «nome tanto contrario agli effetti che poi si videro di lui», non tardò a mostrarsegli [cii] ostile. Avendo il duca spedito oratori a Roma affine di essere rintegrato di tutti i suoi Stati, ma con ottenere soltanto che dal 15 marzo 1524 ad un anno avvenire rimanesse ogni cosa in sospeso; papa Clemente cominciò nell'agosto di detto anno a chiedere la restituzione di Reggio e Rubiera, unitamente all'altre terre ricuperate ne' due mesi della sede vacante. Si fece conoscere il torto del papa, ed egli irritatosi «mandò un nunzio con una breve capitolazione circa la restituzione trattata, che la portò del mese di ottobre, avendo posto in punto genti da piedi e da cavallo delle sue e de' Fiorentini per usarle all'improvviso contro esso duca quando lui non avesse voluto sottoscrivere la detta capitolazione in termine di due ore: e il duca Alfonso, temendo peggio e trovandosi disarmato sotto la fede che si vedeva mancargli, sottoscrisse li capitoli nelli quali si conteneva, che avesse a dare al detto papa Clemente Reggio e Rubiera con lor territorii ed anco il Finale e san Felice fra venti giorni, e che esso papa avesse a dare la investitura a lui di Ferrara... con pena di cento mila ducati a chi non osservasse. Ma poi vedendosi esso duca tanto iniquamente essere stato necessitato a sottoscrivere li detti capitoli, deliberato di non li eseguire, lasciò passare il termine prescritto, confidandosi nella venuta del re di Francia; che venne tanto presto, che appena gli Spagnuoli ebbero tempo fuggendo di ridursi a Pavia, alla quale esso re pose il campo, avendo già preso Milano. Ed è da sapere che pendente il termine di detti venti dì, il conte Guido Rangone, che stava col papa Clemente, con [ciii] inganno rubò Montecchio al duca Alfonso; il che, per quanto s'intese, fece di scienza ed ordine di detto papa». Ciò rileviamo dal segretario del duca Bon. Pistofilo, il quale sebben cerchi d'ogni lato trovar scuse al suo principale, mostrerà sempre, anche ammettendo il fatto com'egli lo narra, che due uomini di mala fede si stavano a fronte. - Venuto in Italia il re di Francia, il papa cercò tosto di allearsi al medesimo, stimandolo più potente degli Imperiali: ma questi nella memorabile giornata del 24 febbraio 1525 sconfissero sotto Pavia l'esercito francese, e lo stesso re Francesco I cadde prigioniero nelle loro mani. Clemente VII fece poi nuova pratica con Carlo V per ottenere l'adempimento della capitolazione firmata dal duca, il quale riescì ancora ad allontanare la tempesta, conciliandosi gli Imperiali mediante il prestito fatto nel 25 marzo al vicerè di Napoli generale dell'imperatore di sessantacinque mila scudi. - Volle pur mettersi in amichevole relazione coi Veneziani, restituendogli le galere guadagnate in Po nel 1509; e il 20 settembre s'avviò «per terra alla corte dell'imperatore Carlo V in Spagna per far riverenza alla Cesarea Maestà, e per vedere se con tal mezzo potea rassettare le cose sue con Clemente VII.... Ma perchè il re di Francia era allora prigione in Spagna.... riputando i Francesi che lo andare del duca fosse di troppa importanza al servigio di esso imperatore e a detrimento della corona [civ] di Francia della quale detto duca era sempre stato ed era affezionatissimo e devoto, non gli volsero concedere il passo per la Francia: di maniera che, poi ch'ei fu stato un mese a S. Giovanni di Moriana in mezzo la Savoia, che sin là era pervenuto, se ne tornò a Ferrara». - Vennero poi in campo, a quanto ci narrano gli storici di casa d'Este, le solite trame contro la vita del duca «a satisfazione di papa Clemente e con consiglio comunicato col conte Guido Rangone», indi le rivelazioni dei traditori pentiti che le sventarono, e le morti di alcuni complici principali, fra quali Girolamo Pio di Sassuolo decapitato il 25 ottobre 1528, i cui beni confiscati formarono la dote d'Isabella figlia naturale del cardinale Ippolito d'Este.

Col trattato di Madrid 14 gennaio 1526, Carlo V, il più grande dominatore del mondo a' suoi giorni, fece pace colla Francia, e il 18 marzo il re Francesco I venne posto in libertà. Il papa sperando poter abbattere la soverchia potenza dell'imperatore in Italia, stabilì una così detta lega santa colla Repubblica di Venezia, lo Sforza, e il re di Francia il quale ruppe fede al trattato di Madrid. Il duca Alfonso era stato escluso dal papa: ma gli altri alleati lo invitarono a farvi parte, ed egli accettò. Anche Giovanni de' Medici, aderendo ai consigli di Clemente VII, avea fin dal 1525 abbandonato gl'Imperiali per collocarsi [cv] colle sue bande nere al servizio di Francia. Da tutti gli Stati italiani raccoglievansi forze per cominciare contro Carlo V una grossa guerra che tornò ben presto fatale al papa, poichè mentre la maggior parte delle milizie della lega trovavasi all'assedio di Milano, il 21 settembre 1526 «don Ugo di Moncada insieme col cardinale Colonna per nome Pompeo, accompagnati da altri signori e seguaci Colonnesi, con buon numero di gente da piede e da cavallo, d'improvviso entrarono in Roma e saccheggiarono il palazzo del papa e molte altre case; e appena il papa ebbe tempo di salvarsi in Castel Sant'Angelo», poi scendere a patti per liberarsene. Il duca Alfonso vagheggiava in questo mentre di abbandonare la lega per unirsi a Carlo V che lo invitava con promessa di molti vantaggi e che inviavagli il 5 ottobre diplomi per dichiararlo suo capitano generale in Italia: ma sembra ch'egli non si risolvesse così di sùbito a ratificare la cosa: un po' vergognando di mettersi contro la Francia, sua antica e fedele alleata, un po' mirando a guadagnar tempo in attesa di nuovi fatti.

Sui primi di novembre calava in Italia Giorgio di Frundsberg con quindici mila tedeschi per soccorrere l'esercito imperiale a Milano. Portava egli seco e mostrava a tutti legati sull'arcione del cavallo un laccio d'oro e molti altri di seta coi quali iniquamente vantavasi che avrebbe appesi di sua mano il [cvi] papa e i cardinali; «e volendo passare il Po a Mantova, il duca d'Urbino capitano generale de' Veneziani ch'era con l'esercito in Lombardia contro i Cesarei, venne con tutta la gente che avea, ed insieme con esso il signor Giovannino de' Medici, per impedire che non passassero: che certo gli aveva impediti e ridotti anco a qualche gran necessitade, perchè non avevano nè cavalli, nè artiglieria. Ma il duca Alfonso, il quale se bene non avea ancor fatto l'appuntamento, nè firmato intieramente con l'imperatore, avea però l'animo inclinato alla parte imperiale, mandò suso in nave sino a Governolo dodici falconi e mezze colubrine fornite di munizioni agli detti Germani.... che giunto un sì opportunissimo soccorso, presero maggior coraggio, ed animosamente mostrarono la faccia ad essi nemici, li quali vista e sentita la detta artiglieria, si ritirarono.... con perdita di alcuni di loro troppo animosi, e fra gli altri del predetto Giovannino, al quale una ballotta da falcone portò via la gamba destra, e fu portato a morire in Mantova; e così poi essi Germani, senza essere più seguitati, vennero a passare il Po a lor piacere ad Ostia, e andarono verso Piacenza per unirsi col duca di Borbone» comandante supremo degli Imperiali.

Cotal fine ebbe il valoroso capitano delle bande nere Giovanni de' Medici. Aveva egli chiesto in quest'anno al duca di Ferrara, all'amico della Francia per cui combatteva, alcune artiglierie che gli abbisognavano; [cvii] e il duca con sua lettera del 2 marzo gliele aveva negate, mandandole invece in aiuto ai Tedeschi, sebbene non ancora dichiarato alleato dei medesimi: ed era destino che queste artiglierie dovessero recargli la sconfitta e la morte avvenuta il 30 novembre 1526 fra le braccia dell'amico suo Pietro Aretino, il quale nelle sue Lettere ci lasciò interessanti dettagli su gli ultimi momenti del Medici.

Operatasi, come abbiam veduto, la congiunzione dei due corpi d'armata, già resi vittoriosi in Lombardia, vennero a Reggio ove fermatisi sei giorni si diedero ad ogni licenza di corrotta soldatesca. Incerto il Borbone da qual parte dirigere il suo grande esercito composto di Tedeschi e Spagnuoli allo scopo di poterlo occupare e pagare, credesi dal Guicciardini che il duca Alfonso suggerisse al Borbone che la via unica era di correre a Roma, anche per togliersi al più presto d'addosso questi nuovi amici, e vendicarsi del papa. Il 6 maggio 1527 piombarono in fatti su Roma che per forza fu presa, rimanendo nell'entrare ucciso il duca di Borbone «con uno archibusetto da un suo soldato». E in tutta la città venne dato quell'orribile sacco e si commisero tanti eccidî e delitti [cviii] che mai s'udirono i peggiori; «ove il cardinale d'Araceli fu venduto all'incanto in Campo di Fiore come si vende un bue, e furono fatte tante altre cose crudeli ed orrende, che per timore d'essere tenuto bugiardo non ardisco scriverne.... ma ben dirò che quel flagello venisse dalla giusta mano di Dio per li molti peccati e scelleritadi ch'erano in quella cittade, e più in prelati che in laici».

Il papa erasi reso prigione con tredici cardinali; poi fuggì: ma solo saziando in più volte l'avarizia e ingordigia di quelle orde arrabbiate col mandare grandi somme di danaro, e con assolverle d'ogni eccesso commesso, le ridusse a sortire da Roma quasi un anno dopo.

Senza perder tempo il duca Alfonso approfittò della cattività del papa, e portatosi sotto Modena vide finalmente adempiuto il suo lungo desiderio, ottenendone la resa il 6 giugno 1527.

Pochi mesi dopo tornava a far parte della lega santa, attiratovi dall'offerta di condizioni assai favorevoli stipulate a Ferrara col cardinal Cibo che agiva in nome del papa. Ma Clemente VII, poi che venne l'8 dicembre in libertà, e gli fu proposta la ratifica dei patti voluti dal duca, «mostrandosi persuaso che Alfonso fosse stato l'istigatore del Borbone per condursi al sacco di Roma, negò risolutamente di approvare il concordato», e fece le sue proteste [cix] per l'occupazione di Modena. Il duca chiese allora di bel nuovo la grazia di Carlo V; indi a rannodare validamente l'amicizia con Francia, mandò ad effetto il matrimonio progettato tra don Ercole figlio primogenito di lui e la principessa Renea di Valois cognata del re Francesco I; matrimonio che fu celebrato in Parigi il 28 giugno 1528.

Trattenutisi gli sposi in Parigi a motivo della peste che ancor durava in Ferrara, solamente nel settembre si posero in viaggio con accompagnamento di alcuni principi reali, e fermatisi molti giorni a Modena fecero il loro pomposo ingresso in Ferrara il 1º dicembre. A festeggiare queste nozze furono rappresentate alcune commedie in un teatro che il duca avea fatto costruire nel suo palazzo secondo l'architettura ideata e diretta dall'Ariosto, il quale vi ordinò una scena stabile che figurava la piazza di Ferrara colle contrade che vi fanno sbocco, i suoi banchi, fondachi e spezierie; e l'Ariosto sovente mostravasi

...... sul proscenio a recitar principii,

E qualche volta a sostenere il carico

Della commedia, e farle servar l'ordine.

In questo teatro venne data per la prima volta La Lena dell'Ariosto, e il principe don Francesco, altro figliuolo del duca, recitò in persona il prologo della [cx] medesima, come pure diversi gentiluomini non mancarono di sostenervi la parte di attori: chè Alfonso, e quindi tutti di sua corte, si dicevano amanti di questi spettacoli; e il teatro era riescito assai vago e bello: vanto gradito di messer Lodovico.

La commedia suddetta fu pure susseguita dalla rappresentazione della Cassaria ridotta in versi dallo stesso autore, e dicendo egli nel prologo che fu data altra volta vent'anni addietro, viene a confermarsi che la prima recita accadde, come già si disse, nel 1508. - La Lena ebbe altresì una seconda rappresentazione nel 1531 con un nuovo prologo ed una coda di due scene aggiunte in fine.

Il 20 giugno 1529 fu stabilito in Barcellona un trattato di pace e di confederazione tra Carlo V e Clemente VII, obbligandosi fra l'altre cose l'imperatore di far rientrare in potere del papa Modena, Reggio e Rubiera, e di aiutarlo a togliere Ferrara al duca Alfonso, dichiarato ribelle della Chiesa. Nel 5 agosto fu altresì firmata in Cambrai la pace col re di Francia, rimanendo l'Italia abbandonata per intiero all'Austria. A queste notizie il duca doveva stimarsi irreparabilmente perduto: ma come fu preservato altre volte in momenti non meno gravi e supremi, un raggio di speranza non tardò anche allora di arridergli.

Sceso Carlo V per la prima volta in Italia, fu il 5 novembre in Bologna a stabilire d'accordo col papa una pace generale. Nel viaggio passò per Reggio e Modena, e il duca tenne a sua grande fortuna di poter incontrarlo, accoglierlo e servirlo con ogni maniera [cxi] di magnificenza, esporgli le proprie ragioni, e lusingarsi prima di lasciarlo al confine di averne guadagnato il favore.

Da Bologna il papa fece intimare le volute restituzioni ad Alfonso; ed egli rispose che si sarebbe sottoposto alle decisioni dell'imperatore; gettando con azzardo l'ultima àncora di sua incerta salvezza. In febbraio del 1530 avvenne in quella città per mano di Clemente VII l'incoronazione di Carlo V a imperatore e re d'Italia. Avrebbe il duca desiderato trovarvisi in mezzo a tanti altri principi concorsi allo splendido corteggio; ma il papa nol volle. Ottenne poi di potervi andare nel marzo, e dopo molte dispute fu stipulato un compromesso delle vicendevoli pretese nel giudizio di Carlo V da essere pronunciato fra sei mesi. Nel frattempo Modena fu consegnata all'imperatore che vi si recò in compagnia del duca, indi passarono entrambi a Mantova ove Alfonso I conseguì colla spesa di cento mila ducati d'oro l'intiera investitura di Carpi. - Nell'accompagnamento di molti gentiluomini che il duca ebbe in questi viaggi è molto probabile vi fosse compreso l'Ariosto; essendo poi certo che nel mese di novembre passò col medesimo a Venezia, come si rileva da una lettera che Lodovico scrisse dopo il suo ritorno a Ferrara il 22 gennaio 1531 a nome d'Alessandra Benucci vedova Strozzi (pag. 323). Non comprendiamo poi come il Baruffaldi possa credere [cxii] che il poeta si portasse a Venezia «per attendere ad una nuova ristampa del suo Furioso», quando il poema non fu ivi riprodotto nel 1530 una sola volta ma quattro, essendo ancora per uscirne una quinta pubblicata in gennaio dell'anno seguente, e quando tutte cinque, compresa quella dei Sessa citata dal Baruffaldi, seguono il testo vecchio e non portano correzioni dell'autore: unicamente il tipografo Zoppino ferrarese introdusse per la prima volta nella sua edizione veneta del 1530 in-4º le figure in legno ad ogni canto.

A questo tempo era certamente seguito il matrimonio dell'Ariosto colla Benucci, poichè vediamo ch'egli di suo pugno scriveva lettere in di lei nome ai parenti della medesima colla più grande intimità. - Dovendo poi tali nozze rimanere avvolte nel segreto, essendo periglioso il dirlo altrui per non perdere le rendite ecclesiastiche de' suoi beneficî, il nostro autore non palesò in quelle lettere il proprio nome (chè una gli fu aperta con frode, - pag. 289), accennandosi soltanto pel cancelliero di madonna Alessandra. Costretto a vivere da lei separato di casa (pag. 296), era non ostante sì al colmo della letizia, che la sovrabbondanza del cuore diffondendosi nella fronte e negli occhi, traevalo a darvi sfogo con un'elegia, nella quale tace la cagione ond'è mosso ma deve assegnarsi al pieno conseguimento della donna che, sebbene inoltrato degli anni, amava con trasporto giovanile; facendoci pur conoscere in altra ancor più espressiva elegia di aver fruito in antecedenza di qualche furto d'amore, non si sa poi [cxiii] con qual dea , e come altresì lascia dedurre da parecchi de' suoi sonetti.

Stando al Litta, da questo matrimonio sarebbe nata una figlia l'8 novembre 1531, cui fu posto il nome di Lodovica. Se ciò è vero, convien dire che morisse assai presto, non facendone l'Ariosto parola nel suo ultimo testamento.

Carlo V pronunciava intanto sentenza nella lite tra il papa e il duca di Ferrara, nella quale si confermava a quest'ultimo il possesso di Modena, Reggio e Rubiera, purchè chiedesse perdono a Clemente VII d'ogni mancato riguardo, portasse a settemila ducati d'oro l'annuo censo di Ferrara, e pagasse all'imperatore per la nuova investitura che gli avrebbe fatto di Modena altri cento mila ducati per una volta tanto. Il duca ne fu molto lieto; nè gravandogli la spesa, poichè facendo allora mercanzia si trovava assai danaroso, fu sollecito all'adempimento delle condizioni; mentre il papa strepitava e dichiarava che lui vivente non avrebbe mai approvato quel lodo.

Nell'estate di detto anno 1531 essendosi Alfonso portato ai bagni d'Abano, vi andò seco l'Ariosto ove ammalò di febbre. Voleva subito restituirsi a Ferrara, [cxiv] ma il cavalier Obici, che pur trovavasi ai bagni, lo persuase a seguirlo nella vicina città di Padova e fermarsi in sua casa finchè fosse ristabilito. Quivi ebbe un'altra febbre che fu dichiarata terzana; e mentre attendeva a riaversi sopraggiunse il duca che il volle a Venezia con lui, come lo stesso Ariosto c'informa in una lettera scritta a nome di Alessandra (pag. 325).

Ritornato nel settembre a Ferrara, il duca ebbe avviso che il papa radunava degli uomini d'arme che si dicevano destinati a ricuperar Carpi ad Alberto Pio. Disponendosi perciò a farne buona difesa, chiese all'uopo soccorso a don Alfonso Davalo marchese del Vasto comandante le truppe imperiali in Mantova, e spedì tosto l'Ariosto a concertarsi col medesimo. Il nostro poeta lo trovò in Correggio in casa della celebre Veronica Gambara, ov'era passato a porre il suo quartier generale; ed è facile il comprendere quanto il poeta vi fosse accolto con ogni festa e favore, avendolo il marchese, grande estimatore degli uomini d'ingegno, regalato al partir suo di un bellissimo lapislazzoli, di una catena d'oro e di una pensione di cento ducati l'anno per sè e suoi eredi, stipulata per atto notarile fatto in Correggio il 18 ottobre 1531, e come apparisce dalla lettera dell'Alessandra Benucci vedova Strozzi che pubblichiamo (pag. 327).

Questi apparecchi fecero dimettere al papa il pensiero d'invadere gli stati d'Alfonso. Sembra per altro che si tramasse una nuova congiura per ucciderlo con tutta l'Estense famiglia: ma venendo, come sempre, scoperto il funesto disegno, Bartolomeo Costabili, [cxv] vecchio di ottantaquattro anni, fu sui primi del 1532 decapitato, e la testa ebbe infissa in un'asta su la parte più alta del castello.

In quest'anno l'Ariosto si accinse alla terza sua ristampa dell'Orlando furioso corretto ed accresciuto, non isdegnando di averlo prima sottoposto al Bembo e ad altri uomini dotti «per imparare quello che per lui non era atto a conoscere» (pag. 282); così umilmente scrivea di sè stesso, così era difficile a contentarsi del proprio giudizio. L'edizione fu cominciata nel maggio e terminata in Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza, addì primo d'ottobre MDXXXII. Rivide ei medesimo con somma pazienza e fatica le bozze di stampa; e trovandosi esemplari che hanno fra loro alcune varietà, è manifesto che a quando a quando faceva interrompere la tiratura dei fogli per introdurvi nuovi miglioramenti. Al canto nono cominciano le più notabili mutazioni e le aggiunte qui e là nel poema, che con nuovo ordine portò a canti 46. Confrontando questa colle antecedenti impressioni «apparirà incomprensibile (dice il Foscolo) come uno scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contra le regole del buon gusto e della dizione poetica, potesse in seguito espungere tali colpe, e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti bellezze»; ma lo studio che l'Ariosto confessa di aver fatto delle grazie native dell'idioma toscano, e il continuo mutare e rimutare de' suoi versi in cui seppe per più anni persistere, lo condussero [cxvi] a vincere ogni difficoltà, a raggiungere una forma vigorosa e corretta, armoniosa ed espressiva, onde viene a formarsi quel mirabile accordo di pregio poetico che tanto risponde alla vaghezza dei fatti che trattano

Di donne e cavalier, d'armi e d'amori.

«L'Ariosto avea pensato sull'arte e sul gusto de' suoi coetanei, e una lunga esperienza gli aveva giovato. Ei tenevasi certo del buon effetto del suo poetare.... di quel suo metodo di complicare l'azione principale frapponendovi gran varietà di favole secondarie, le quali, sebbene possano sviare chi legge, pure hanno virtù di colpirgli la fantasia, e di strascinarlo alla catastrofe del poema, dove si vede lo scioglimento delle varie avventure. - Egli inebria la fantasia, vuole che quanto a sè piace piaccia anco a noi, che solo vediamo ciò ch'egli vede. - Nell'istante medesimo che la narrazione di un'avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorìo di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzioni diverse; talchè il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all'armonia de' mille strumenti che suonano nell'isola di Circe, pende le reti.... e ode».

[cxvii]

Con lettera del 9 ottobre 1532 mandò «innanzi a tutti gli altri» un esemplare del Furioso alla marchesana Isabella di Mantova cui sapeva essere gratissime le composizioni di lui (pag. 302): ma quando aveva il maggior bisogno di riposarsi dell'affoltata fatica dell'opera, e godere in tutta quiete le felicitazioni degli amici e degli uomini celebri di quel tempo ch'egli andò sempre più lodando o rammentando nel suo poema, fu costretto portarsi in compagnia d'Alfonso I il 7 novembre in Mantova all'arrivo dell'imperatore; chè il duca voleva spesso l'Ariosto a sè vicino, e molto più adesso per l'ambizione di mostrar nel suo séguito il poeta che ognor saliva in maggior fama e che formava l'invidia delle altre corti.

In Mantova l'Ariosto presentò a Carlo V il suo poema che in questa edizione lo colmava di lodi, e fu detto che l'imperatore dichiarasse di voler rimeritare il poeta con imporgli sul capo la corona d'alloro. Il pensiero potè essere suggerito dal marchese del Vasto, che anch'esso si trovò per riconoscenza encomiato: ma l'incoronazione solenne, come l'uso [cxviii] e la dignità Cesarea richiedeva, non lasciò forse campo di essere preparata nel breve soggiorno che il monarca fece in quella città, e venne impedita per sempre dalla prossima morte dell'Ariosto.

[cxix]

Dopo l'assenza di oltre un mese, il nostro autore si restituì a Ferrara in istato di assai debole salute; e avendogli il principe Guidobaldo della Rovere richieste alcune commedie che non fossero sino allora rappresentate, gli rispose il 17 dicembre dolersi di non poterlo soddisfare, e gli narrò di aver composte solamente quattro commedie, i Suppositi e la Cassaria rubategli dai recitatori e stampate con suo dispiacere, la Lena e il Negromante recitate soltanto a Ferrara. Gli aggiunse pure che molti anni addietro ne cominciò un'altra intitolata I Studenti che mai ebbe tempo di ripigliare, e che quando la conducesse a fine non potrebbe esimersi che il duca suo signore ed il principe don Ercole non la facessero eseguire nel loro teatro di corte prima che altrove ne fosse mandata copia (pag. 303).

Il 25 detto mese scrisse anche a nome della moglie una lettera, che è l'ultima che abbiamo di lui (pag. 335): ma costretto poco dopo a mettersi in letto, prevedendo vicino il suo termine, fece l'abbozzo di un secondo testamento in cui lascia un legato alla magnifica Alessandra Strozzi, erede il figlio Virginio, [cxx] ed un assegno vitalizio all'altro figlio naturale Gio. Battista, chiamato pure a sostituire Virginio nell'eredità.

La notte del 31 dicembre 1532 «s'accese il fuoco in una bottega di Francesco Zangarino sotto la loggia del palazzo ducale, e irreparabilmente arse tutta la parte dinanzi del detto palazzo dal canto della piazzetta fin sopra la porta del cortile alle due statue di bronzo, e fu cosa orrenda e giudicata prodigiosa. Nella gran sala era la bella e ricca scena dell'Ariosto, che tutta rimase estinta; e quella notte istessa s'infermò il detto poeta, che morì poi il 6 di giugno del seguente anno». Travagliato, secondo il Pigna, da «un'ostruzione alla vescica, alla quale volendo i medici Bonaccioli, Manardo e Canani, i primi di Ferrara, con acque aperitive porger rimedio, gli guastarono lo stomaco; e soccorrendosi con altre medicine a quest'altra indisposizione, cadde nell'etica», e finì di vivere con dolore di tutti nell'ancor verde età di 58 anni, mesi 8 e giorni 28.

«Dalla sua casa posta nella via di Mirasole, dove morì, fu portato da quattro uomini notte tempo con due lumi soli alla chiesa vecchia di san Benedetto, accompagnato però da quei monaci spontaneamente e fuori del loro costume; tratti, come scrive il Garofolo, dall'amore che portavano alle sue rare virtù. Ivi fu sotterrato assai semplicemente, com'egli aveva voluto e prescritto nell'ultimo suo testamento». [cxxi] Il fratello Gabriele desiderava innalzargli un monumento, e il figlio Virginio fece anzi fabbricare una cappella in capo all'orto della sua casa, intendendo trasportarvi le ossa del padre; ma la traslazione non seguì che nel 1573 in un decoroso sepolcro di marmo eretto nella nuova chiesa dei detti monaci a spese di Agostino Mosti che gli fu discepolo, indi nel 1612 in un altro più ricco a spese di Lodovico Ariosti pronipote del poeta, e finalmente nel 1801 con molta pompa e solennità nella pubblica Biblioteca di Ferrara, essendone stato promotore il francese generale Miollis.

Il figlio Virginio si studiò sempre di onorare la memoria del padre. Raccolse le poesie latine di lui e diedele al Pigna che le stampò colle sue e con quelle del Calcagnini nel 1553: somministrò ad Antonio Manuzio cinque canti in ottava rima che uscirono nel 1545 in aggiunta al Furioso, senza però seguirne regolarmente la materia: dettò alcune Memorie da servire [cxxii] di buona traccia ad una vita che doveva farsi del grande poeta, e condusse a termine la commedia I Studenti che fu dall'autore lasciata imperfetta. Di questa fatica di Virginio non giunse a noi che il solo prologo: fu però completata anche dal fratello Gabriele, ed è la commedia che abbiamo col titolo La Scolastica. - Ignoriamo a chi debbasi la prima e cattiva stampa fattasi nel 1534 delle Satire, che, dopo il poema, sono il lavoro più importante e lodato dell'Ariosto; e senza estenderci a parlare delle altre opere minori di quest'ingegno privilegiato, rimettendoci al giudizio autorevole di Filippo-Luigi Polidori che le illustrò (Firenze, 1857), rigettandone alcune di non sincera derivazione, e movendo dubbii sopra la schietta legittimità di altre; aggiungeremo alla volta nostra che dove l'Erbolato, venuto in luce nel 1545 a cura di un Jacopo Modanese, ci sembra una prosa troppo fiorita ed elegante, così il frammento del poema il Rinaldo ardito si mostra al contrario di locuzione troppo rozza ed impropria per essere l'uno e l'altro attribuiti con certezza all'Ariosto. E tornerebbe un po' strano che mentre adoperava in confidenza e correntemente le parole raccomando, berretta, camera, gagliardo, figlio, reliquia, ecc., come rilevammo dagli autografi indubitabili delle lettere di lui esistenti nell'Archivio di Stato in Modena, venisse poi nel comporre studiosamente in versi ad alterare siffatte parole con arricomando, bretta, ciambra, fio, galgiardo, relliqua che si veggono nel Rinaldo ardito: il quale avendo allusioni storiche relative al 1525, è per lo meno posteriore di cinque anni alla dichiarazione che [cxxiii] l'Ariosto fece nel Prologo della commedia il Negromante, di attendere il più che poteva a nascondere nelle sue scritture la pronunzia lombarda. Aggiungasi inoltre che il ms. originale del frammento di poema, chiamato dal Baruffaldi un primo abbozzo, è sparso di corretture e varianti che mostrano esservisi tornato sopra più volte. Ciò non ostante occorrono spesso, fra gli altri difetti, certi troncamenti di voci che l'Ariosto non usò mai, compresa la prima edizione del Furioso uscita nel 1516, con sì riprovevole licenza; tali essendo: car per carro, col per collo, don per donna, fer per ferro ecc.; troncamenti che potendo anche volgersi a diverso significato, è un'ingiuria il ritenere che siano caduti dalla penna del nostro poeta. A malgrado dunque dell'asserzione, [cxxiv] però unica e non abbastanza apprezzabile, del Doni che assegna il Rinaldo ardito a Lodovico Ariosto, e a malgrado di qualche somiglianza col carattere e talora pure coi concetti del nostro autore, amiamo credere che il frammento medesimo sia opera del figlio Virginio, il quale vivendo col padre e avendo tutto per la mente il Furioso, potrebbe essersi ancora approfittato di alcune abbandonate lezioni di stanze o versi del poeta, trovate fra le carte di lui, con introdurle qui e là e alla fine dei canti. Del resto se i frammenti del Rinaldo ardito fossero stati composti da Lodovico, non avrebbe dovuto mancare Virginio di accennarlo nelle Memorie lasciateci intorno a suo padre.

Ritornando ora al duca Alfonso di Ferrara, sempre avversato dal governo di Roma, l'imperatore per favorirlo persuase il papa della necessità di chiamarlo a far parte di una nuova lega per la pace d'Italia, accordandogli una tregua di diciotto mesi. Clemente VII per tal concessione ebbe il vantaggio di veder cacciare dagli stati del duca i rifugiati della breve sì, ma nobile e nazionale repubblica di Firenze, che avevano abbandonata la patria per non soffrire il giogo dei Medici. - Avvicinavasi il tempo che la tregua doveva scadere e tornavano a ridestarsi nel duca le [cxxv] antiche sospettose inquietudini, quando il 25 settembre 1534 la morte del papa gli mostrò anche una volta il favore della fortuna. La successione seguìta poco dopo (28 ottobre) di Alessandro Farnese, padre di Pier Luigi, creatura di casa Borgia, che prese il nome di Paolo III, mise il colmo alla contentezza del duca. Ma doveva per pochi giorni goderne. L'uomo forte che tanti papi non aveano potuto non che abbattere piegare, che aveva saputo sciogliersi da tante insidie, affrontare e vincere tanti pericoli, era costretto morire il 31 ottobre per la più frivola causa, come il fratello cardinale; per aver mangiati troppi poponi.

Dice il Pistofilo che il duca Alfonso «più tosto maninconico e severo, che lieto e giocondo.... fu poco amico della frequenza.... ed ebbe e volse che si avesse rispetto grandissimo all'onor delle donne, di qual grado fossero, da tutti i suoi sudditi; dalle quali continentissimamente si astenne». Non troviamo che ciò sia confermato da altre memorie, sapendosi inoltre che fu spesso travagliato dal mal francese. Ne' diari veneti scritti dal Sanuto leggesi sotto il 1497: «Pochi zorni fa don Alfonso fece in Ferrara cosa assai lizera, che andoe nudo per Ferrara, con alcuni zoveni in compagnia, di mezo zorno». Anche nelle cronache di Francesco de' Mantovani troviamo che al [cxxvi] prete Gianni suo cantore «il duca voleva molto bene, che lui in persona l'andava a torre di casa tre e quattro volte il giorno, e lo toglieva in groppa e andavano per la terra a bordello»; e così nel processo che fu poi fatto a Gianni prima di metterlo nella gabbia di ferro e strozzarlo, «il traditore confessò avergli una volta legato in casa di una sua femina le mani, mostrando di scherzare con lui, e poi disse a uno famiglio: va, ammazza colui ch'è suso in letto. Il famiglio vi andò, e il signore disse: sligami col malanno!».

Quando il duca rimase vedovo la seconda volta, tenne presso di sè una giovane di rara bellezza chiamata Laura Dianti figlia di un berrettaio di Ferrara, e le diede il cognome di Eustochia per indicare i suoi pregi. N'ebbe due figli, Alfonso ed Alfonsino che cercò legittimare. Il Muratori nelle sue Antichità Estensi ritenne aver provato che Laura fu sposata dal duca Alfonso negli ultimi periodi della sua vita: però un documento pubblicato in Firenze nel 1845, contenente una donazione e codicillo d'esso duca alla donna, mostra ch'egli cinque giorni prima di morire non pensava ancora di farla sua moglie. - Clemente VIII non volle mai riconoscere i discendenti di Laura per legittimi successori del ducato di Ferrara, il quale nel 1598 tornò finalmente ad essere aggregato al governo della Chiesa.

[cxxvii]

Succeduto al duca Alfonso il figlio primogenito Ercole II, ed essendo anche morto il fattore generale Alfonso Trotti, non tardarono i fratelli Gabriele, Galasso e Alessandro Ariosti ed il loro nipote Virginio di sottoporre una prece al novello duca per ottenere che fosse terminata con giustizia la causa delle terre livellarie ereditate da Rinaldo Ariosto, essendo da «quindici anni straziati e menati in lungo dalle cavillazioni e calunnie sì del fattore passato, come d'altri procuratori, notari ed agenti della sua ducal Camera» (Documento XVII). Il 23 dicembre 1534 Ercole II decretò che i fattori generali spedissero la causa con giustizia e rigettassero tutte le calunnie e cavillazioni: ma non pare che il rescritto sortisse l'esito bramato, conoscendo in vece che le terre in contesa, che formavano la bella tenuta in Bagnolo, detta delle Arioste dal nome degli antichi possessori, furono assegnate in dote ad una Estense maritata in Bevilacqua, per indi passare in proprietà dei Gesuiti.

Il Municipio di Ferrara deliberò nell'anno 1872 di promovere e ordinare feste nazionali ad onore di Lodovico Ariosto in occasione che nell'8 settembre 1874 veniva a compiersi il quarto centenario dalla sua nascita, nominando a tale effetto un Comitato. Ma i disastri apportati poco dopo dal Po al territorio ferrarese, cui fu d'uopo riparare, le deliberate onoranze vennero rimandate al 1875.

La città di Reggio, ove nacque l'Ariosto, amò anch'essa celebrare quel centenario e l'8 settembre 1874 una lunga schiera di persone autorevoli seguita da [cxxviii] molto popolo si recò alla vicina villa di S. Maurizio a visitarvi il casino ove l'immortale poeta passò i più bei giorni della sua giovinezza. Dopo lettura di applauditi componimenti in versi ed in prosa allusivi alla circostanza, il signor Giuseppe Turri principal promotore della festa offerse in dono al Municipio come preziosa reliquia sotto cristallo una falange d'un dito dell'Ariosto che fu sottratta nel trasporto delle sue ossa seguito nel 1801, regalando pure i tre atti autentici che si riferiscono al detto trasporto e che erano rimasti ignoti, facendoli poi anche stampare in appendice alla Relazione di questo centenario (Reggio, Calderini, 1875-76).

Le feste splendidissime di Ferrara ebbero luogo dal 24 al 30 maggio 1875 in mezzo ad una popolazione esultante, ed essendovi accorsi molti illustri personaggi e rappresentanti d'ogni parte d'Italia, le accoglienze oneste e liete furo iterate in tutti que' sette giorni.

Dal centenario Ariosteo derivarono pubblicazioni, tanto per invito speciale del Comitato quanto per impulso spontaneo, le quali tornarono a vantaggio delle lettere e ad onore dell'insigne poeta, come sono in particolar modo: 1º l'Orlando furioso secondo la prima stampa del 1516 (Ferrara, Taddei, 1875, in 2 volumi), con prefazione del prof. Crescentino Giannini, uno de' componenti il Comitato Ariosteo. - 2º Le satire autografe di Lodovico Ariosto pubblicate a cura del Comitato (Bologna, per Giulio Wenk litografo, 1875), con prefazione del prof. Prospero Viani. - 3º Delle poesie edite e inedite di [cxxix] Lodovico Ariosto, studi e ricerche di Giosuè Carducci (Bologna, Zanichelli, 1875, in-8º), che l'autore e l'editore dedicarono all'inclita città di Ferrara festeggiante il IV centenario. Del presente libro ci siamo qui addietro giovato, e il merito del medesimo apparisce per sè chiaro abbastanza, avendo ottenuto una seconda edizione con emendazioni ed aggiunte nel successivo anno 1876, in-16º. - 4º Le fonti dell'Orlando furioso, ricerche e studi di Pio Rajna (Firenze, Sansoni, 1876) per invito del Comitato suddetto; ed è lavoro di gran polso e di rara erudizione che spazia su tutta l'epopea romanzesca e che più nulla lascia a desiderare in proposito, con aver prestato altresì occasione allo stesso autore di addentrarsi maggiormente in siffatti studi e offerirci le Origini dell'epopea francese (Firenze, Sansoni, 1884); opera che presentata in concorso d'altri all'Accademia dei Lincei ottenne il premio.

Il Comitato Ariosteo stampò la Relazione delle feste celebrate in Ferrara nel maggio 1875 coi Discorsi accademici ecc. (Ferrara, Taddei, 1875), e avendo pure commesso a Pietro Cossa di scrivere una commedia in versi che riescì di cinque atti con un prologo, intitolata l'Ariosto e gli Estensi, si recitò la sera del 26 maggio dalla Compagnia drammatica Ciotti-Marini; e quantunque riscuotesse applausi dal numerosissimo uditorio, fu dagli intelligenti giudicata inferiore alla fama dell'autore del Nerone. Venne però anch'essa pubblicata (con appellativo di dramma) in Torino, Casanova, 1878.

[cxxx]

Ove a taluno per avventura sembrasse che noi siamo stati troppo proclivi a cercar biasimo alla memoria del duca di Ferrara, ch'ebbe pur esso il suo lato buono, e comecchessia raggiunse sempre il suo intento, lo rimandiamo al documento XIV, in cui la Curia di Roma lo accusa ad esuberanza di aver fatto scrivere un testamento falso dopo la morte repentina del card. Ippolito suo fratello per usurparne l'eredità ch'era di soli beni della Chiesa: lo accusa di altre falsificazioni di processi, e «sannolo li infelici fratelli (don Ferrante e don Giulio) crudelmente incarcerati, sallo il sangue e le viscere di quelli gentiluomini dilacerati»: lo accusa di aver fatto «publice predicare la dottrina dell'eretico Martino Lutero dal suo barbato frate Andrea da Ferrara, che ancor maggiori errori publicò delli luterani, ed esser causa d'eresia»: lo qualifica un crudele tiranno che rubò ad altri quanto questa casa ha mai posseduto, per violentare li poveri sudditi e mungerli sino al sangue: lo dice ingiusto, iniquo ed empio; voragine d'avarizia, insidiatore di tutti i buoni, per esser lui perversissimo; pietra di scandalo d'Italia, atroce inimico della santa Sede ecc. - Ma nella dispiacenza di esserci troppo sovente incontrati nel male, tanto in riguardo alle azioni del duca Alfonso I che a quelle del cardinale Ippolito, ci conforta il sapere, che abbiam desunto ogni fatto da documenti irrefragabili, e che d'altronde «nella verità intieramente conosciuta e riguardata rettamente non può non essere moralità», com'ebbe a scriverci il ch. Niccolò Tommaseo.

[cxxxi]

Share on Twitter Share on Facebook