CAPITOLO PRIMO.

LA Rettorica è corrispondente alla Dialettica; perciocchè l'una e l'altra si travaglia intorno a certe cose, le quali si può veder che sono in un certo modo comuni a tutti, e non ad alcuna determinata scienza sottoposte. Onde che tutti ancora partecipano in un certo modo d'ambidue; perchè non è persona, che fino a un certo che, non si metta dall'un canto a cercar di contraddire alle ragioni altrui, e mantener le sue: e dall'altro ad accusare e difendere. Queste operazioni, di molti che le fanno, a certi vengon fatte a caso, e a certi per un abito acquistato per mezzo della pratica. Ma perciocchè in ambedue questi modi si posson fare; è manifesto che si possono anco mettere in arte, potendosi pur considerare la cagione, perchè s'abbattono a conseguir l'intento loro; così quelli che le fanno per consuetudine, come quelli che le fanno a caso. Che questa tal considerazion poi si faccia per opera dell'arte, non si dovrà negar da persona. Ora i compositori di quest'arte del dire, d'una sua picciola particella hanno trattato. Perchè le prove solamente son quelle che appartengono all'artificio. E l'altre cose servono per aggiunte. E costoro degli entimemi, che sono il corpo della prova, non iscrivono cosa alcuna: e per la maggior parte si travagliano in cose, che sono fuor del negozio principale. Perciocchè il dir male o ben d'una persona, l'ira, la compassione, e l'altre simili passioni d'animo, sono per disporre il giudice, e non per giustificar la causa. Per modo che se in tutti i giudizj si fosse usato, come ancora adesso in certe città, e massimamente nelle bene instituite; costoro non arebbon che dire. Perciocchè tutti, o sono di parere che questo parlar fuor di proposito della causa si debba vietar per legge, o già n'hanno fatto divieto, e l'osservano: come anco s'osserva nell'Areopago. Il che drittamente è stato considerato da loro, perchè non è bene che il giudice sia distolto dal giusto con provocarlo ad ira, ad invidia, o a misericordia. Imperocchè sarebbe, non altramente che se uno storcesse un regolo del quale s'avesse a servire. Oltre di questo è chiaro, che nelle questioni non s'ha da far altro, che mostrare se la cosa è, o non è: o se è fatta, o non fatta. Ma che sia, o grande, o picciola, o giusta, o ingiusta (cose che l'ordinator della legge non ha determinate), convien che il giudice n'abbia notizia da sè, ben sapete, e non che ne sia informato da' quistionanti. E per questo le leggi che sono ben ordinate, debbono sopra tutto, ne' casi che possono occorrere, determinar per lor medesime ogni cosa, e lasciar il meno che si può in arbitrio de' giudici; prima, perchè è cosa più facile a trovar uno, e pochi di buon sentimento da poter far leggi, e giudicare, che trovarne molti. Dipoi le ordinazioni delle leggi si fanno di cose considerate di lungo tempo; ed i giudizj, di quelle che si considerano in su 'l fatto. Laonde coloro che vogliono giudicare, difficilmente si possono ben risolvere di quello che sia giusto, e meglio di fare. Ma quello che più importa è, che il giudizio di colui che fa la legge, non è di cose particolari e presenti; ma future e generali: e quelli che determinano i parlamenti, e che decidono le liti, giudicano di cose, che son già presenti e determinate. E questi tali sono il più delle volte accompagnati già dall'amore, dall'odio, e dall'interesse proprio, per modo, che non possono più considerare sufficientemente la verità: anzi che quel piacere, o quel dolor particolare gli accieca del giudizio. E per questo bisognerebbe far come ho detto, che i giudici fossero signori di quanto manco cose si può. Ma la cognizione, se le cose son fatte, o non fatte, o saranno, o non saranno, o sono, o non sono, è di necessità che si lasci in arbitrio de' giudici; non essendo possibile che sieno antivedute dal fondator della legge. Se cosi è dunque, è manifesto che coloro che trattano d'altre cose, che queste, danno i lor precetti impertinenti al negozio, come a dire, quel che si convenga al proemio, alla narrazione, ed a ciascuna dell'altre parti; perciocchè in esse non s'affaticano di far altro, che condurre il giudice in una qualche disposizione: e delle prove artificiose, cioè del modo, con che uno si potesse fare entimematico, non mostrano cosa alcuna. Onde che di qui viene, che essendo una medesima via d'insegnare, nel genere deliberativo, che nel giudiciale; e conciossiachè la pratica del deliberativo sia più degna, e di maggior utile alla città, che del giudiziale, che si travaglia circa le convenzioni; di quella non dicono cosa alcuna: e di questa, intorno all'avvocare, ognun si sforza di dar precetti. La cagion è, perchè questo lor modo di dire fuor della materia nel genere deliberativo fa men di mestiero: e meno è capace di malizia il parlar nelle deliberazioni, che ne' giudizj: oltre che è più comune: perciocchè in questa parte, colui che deve determinare, è determinatore delle cose sue proprie, per modo che non bisogna che gli sia mostro, se non che la cosa stia, come dice chi lo consiglia. Nel giudiciale questo non basta, ma vi fa mestiero di guadagnarsi l'audiente, perchè nel giudizio si tratta dell'interesse del terzo. Onde che il giudice mirando o alla passione, o all'interesse suo proprio; ed ascoltando con l'animo più inclinato a questo che a quello; sentenzia più tosto a compiacenza, che a ragione. E per questo in molti luoghi, come diceva dianzi, la legge proibisce, che non si ragioni fuor della materia proposta. Ma nel genere deliberativo, senza che vi sia proibizione, quelli che hanno a determinare, ci stanno per lor medesimi avvertiti tanto che basta. Ma perchè è manifesto, che questa facoltà, quanto a quel che appartiene all'arte, consiste nella prova; e la prova è una sorte di dimostrazione (perchè allora massimamente crediamo, quando pensiamo che la cosa ci sia dimostrata); e la dimostrazion rettorica è l'entimema; il quale (assolutamente parlando) è principalissimo di tutte le prove; e perchè l'entimema è un certo sillogismo; e la considerazion del sillogismo, e d'ogni sua sorte, egualmente appartiene alla dialettica, o a tutta, o a qualche sua parte; è cosa chiara, che colui sarà più copioso d'entimemi, e li saprà meglio usare, che meglio potrà considerare di che, e come si fa il sillogismo: conoscendo oltre di questo, circa qual materia si distendono gli entimemi, e che differenza sia tra loro, e i sillogismi della logica; conciossiachè il vero e 'l verisimile si considera per via d'una medesima facoltà. Oltre che gli uomini nascono sufficientemente inclinati a trovar la verità, e nella più parte delle cose la conseguiscono. Onde che sarà bene investigator delle cose probabili chi può similmente investigar la verità. Abbiamo dunque dichiarato che gli altri scrittori dell'arte insegnano cose impertinenti, e fuor di proposito; e detta la cagione perchè si son gittati piuttosto a dare i precetti del giudiziale, che degli atri due generi. Diciamo ora che la rettorica è utile. E prima perchè le cose vere e giuste naturalmente sono migliori delle contrarie. Onde che se i giudizi non sono trattati secondo che si conviene, è necessario che sieno superate dalle false, e dall'ingiuste. E questa è cosa degna di biasimo. Dipoi, perchè dicendo appresso di certe persone (ancora che abbiamo una finissima scienza) non possiamo per mezzo di quella facilmente provare; perciocchè il parlar che dalla scienza procede va per punti di dottrina, coi quali non è possibile che si persuada loro; ma è necessario fondare i ragionamenti e le prove sopra a cose comuni, come dicevamo nella Topica, circa i colloquj che si fanno alla moltitudine. È utile ancora perchè ci convien persuadere cose contrarie nel medesimo modo che s'usa nelle ragioni dialettiche: non già per servirci dell'una parte e dell'altra, non essendo bene di persuader le cose triste, ma per saper come le contrarie si persuadono; e perchè se un altro usa inganno nel parlare, noi lo possiamo risolvere. Onde che nessuna delle altre arti toglie a concludere posizion contrarie, come fanno solamente la dialettica e la rettorica. Perchè l'una e l'altra son parimente del sì e del no. Non già che no, e sì, si possa dir similmente delle cose che son subbiette all'una e all'altra; perchè le cose vere, e le migliori di lor natura (assolutamente parlando) meglio si provano, e meglio si persuadono. Oltre di questo, se non poter aiutar sè stesso col corpo, è riputata vergogna; non è sciocchezza a non credere, che sia vergogna ancora a non potersi aiutar col parlare, il quale è più proprio all'uomo che l'uso del corpo? E se ben si potria dire, che questa facoltà di ben parlare, quando da qualcuno sia malamente usata possa grandissimamente nuocere; si risponde, che questo avviene agli uomini comunemente di tutti i beni, salvo che della virtù; e più di quelli beni che più utili ci sono: come sarebbe la robustezza, la sanità, le ricchezze, l'arte militare; perciocchè quelli che l'useranno bene gioveranno grandemente, e quelli che l'useranno male noceranno. Che la rettorica adunque non si stenda sopra alcuna materia determinata, ma che sia come la dialettica, e ch'ella sia utile, è manifesto. Manifesto debbe essere ancora, che l'offizio suo non è di persuadere, ma di trovar le cose che sono atte a persuadere in qualunque subbietto: come avviene ancora di tutte l'altre arti; perchè nè anco la medicina è tenuta a sanare, ma sì bene a far quanto si può oltre per condur l'infermo a sanità; perchè ci possono essere degli ammalati incurabili, che nondimeno è possibile che possano esser ben medicati. Appresso è chiaro, che la medesima facoltà considera tanto le cose ch'hanno forza di persuadere, quanto quelle che par che l'abbino. Come ancora la dialettica considera il sillogismo, e quello che par sillogismo. Perciocchè Sofista s'intende non chi può, ma chi elegge servirsi del falso. Benchè qui nella rettorica si chiama Oratore, così quelli che può, come quelli che vuole. E nella dialettica colui che vuole, si dice sofista, e colui che può, si chiama dialettico. Ora sforzandoci di trattare di questo artifizio di dire; e in che modo, e con che possiamo conseguire quanto abbiamo proposto; di nuovo cominciando come da principio a diffinire che cosa sia, passiamo al restante.

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