DISCORRIAMO ora sopra le prove che non artificiose sono state chiamate; perciocchè essendosi ragionato di sopra di cose giuste e ingiuste; conseguentemente dobbiamo trattare di queste che son proprie alle controversie giudiziali. E sono di numero cinque: leggi, testimoni, convenzioni, tormenti e giuramenti. Primamente diremo delle leggi nel modo che s'hanno a usare. Volendo confortare e disconfortare, e accusare e difendere. Essendo cosa chiara che quando la legge scritta fa contra la nostra causa, ci dobbiamo valer della comune e dell'equità; dicendo ch'ella sia di più sincera giustizia. E che quel che si dice, giudicar secondo il senno migliore, non è altro che non usare interamente la legge scritta. E che l'equità è sempre la medesima, e che mai non si muta; come nè anco la legge comune, perchè ci guida secondo la natura. E al contrario avvien della legge scritta, la qual si va spesse volte alterando. Onde è quel detto di sopra allegato di Sofocle nell'Antigone, dove risponde in sua difensione d'aver contraffatto alle leggi di Creonte, ma non a quella che non è scritta: dicendo:
Questa legge non è ch'al mondo vegna
Od oggi, o jeri, ec.
E soggiunge:
Questo è quel giusto di che più mi cale,
E non temo il divieto d'un mortale.
Bisogna ancor dire che il giusto non è quello che par giusto, ma quello che si porta seco un certo vero ed utile. Onde che la legge scritta non sarà giusta, poichè non avendo queste due cose, non fa l'offizio della legge. E sarà bene a dire, che il giudice deve esser discreto a giudicare il vero giusto dal falso; come l'argentiero a discernere il buono argento dall'archimia. E ricordare che gli uomini migliori degli altri son quelli che usano la legge non iscritta, più tosto che la scritta, e di quella s'appagano. Possiamo anco considerare, se per avventura la legge scritta fa contra l'approvata. O se questa stessa si contraddicesse; come dire, che in un loco comandi che il patto sia rato, e in un altro, se legittimamente non è fatto, non sia rato. Oltre di questo si deve avvertire, se la legge parlasse dubbio per modo, che la potessimo rivolgere a nostro proposito. E vedere a quali dei due sentimenti si potesse meglio adattare il giusto e l'utile, e di quello valersi. Torna anco bene a cercare, se le cose per le quali fu fondata la legge fossero mancate, e che la legge restasse. E per questa via facendosi chiaro, che così sia, si può gittar la legge per terra. Ma quando la legge scritta faccia in favor nostro, allora bisogna dire, che quel giudicare secondo il senno migliore, non è concesso ai giudici, per sentenziar secondo il capo loro contra la disposizion della legge, ma per fuggir lo spergiuro, se per avventura non intendessero quel che la legge determina, secondo la quale giurano di sentenziare. E dire, che nessuno sentenzierebbe per sè stesso quel giusto e quel bene, ch'è bene e giusto assolutamente per ognuno, ma quello che fa particolarmente a benefizio suo; e che non è differenza alcuna dal non far le leggi al non osservarle; e mostrare, che ancora nelle altre arti non è bene di saper più che si bisogni, come sarebbe a dir più che il medico; perciocchè quando bene il medico errasse, non è di tanto nocumento quanto assuefarsi a non obbedire a chi comanda. Ed ultimamente far chiaro, che questo è quel che le celebrate leggi proibiscono, che l'uomo non debba cercar d'esser più savio della legge. E di questa parte basta quel che s'è detto. Veniamo a' testimonj.
Sono i testimonj di due sorti, antichi e moderni. E di questi, altri sono a parte del pericolo, ed altri ne son fuori. Gli antichi sono i poeti, e gli altri famosi autori, le cui sentenze sono chiare e divulgate per tutto. Onde gli Ateniesi nella contesa di Salamina contra i Megarensi addussero per testimonio Omero; e quelli di Tenedo poco tempo fa si valsero del detto di Periandro Corintio contro i Sigiensi. E Cleofonte contra Critia citò alcuni versi d'una elegia di Solone, per mostrar che il suo casato era anticamente stato scorretto. Che se ciò non fosse (disse egli) non avrebbe Solone scritto:
Saluta il biondo Critia; e da mia parte
Dilli, ascolta a tuo padre.
Questi sono i testimoni che s'usano nelle cose passate. Nelle future gl'interpreti degli Oracoli servono ancor per testimonj; come se ne servì Temistocle, il quale dicendo che si dovesse combattere, in male allegò quel che avea risposto l'Oracolo, che si facessero le mura di legno. Ed anco i proverbi, come s'è detto, vagliono per testimonianze, come a voler provare che non ci dobbiamo curar dell'amicizie de' vecchi, allegar quel proverbio: Non far mai bene a' vecchi. Ed a voler consigliare che col padre si debbano uccider anco i figliuoli, valersi di quell'altro detto: Ch'è pazzia d'ammazzare il padre e lasciar vivi i figliuoli. I moderni s'intendono quelli che son uomini famosi ed hanno giudicato alcuna cosa; perciocchè i loro giudizj sono utili a quelli che litigano sopra il medesimo. Onde che Eupolo dicendo in giudizio contra Carete, si valse di quel detto di Platone contra Archibio, che nella città era venuto in consuetudine di far professione di tristi. E quelli sono moderni, che partecipano del pericolo quando siano tenuti per falsi. Questi tali hanno a depor nelle lor testimonianze solamente se la cosa è stata, o no. E se è, o non è. E non travagliarsi circa la qualità del fatto; come a voler discorrere se giusto o non giusto, o utile o non utile sia quel che depongono. Ma quelli che son remoti dalla lite presente sono degnissimi di fede ancora circa essa qualità del fatto. E di fede degnissimi sono gli antichi, perchè non sono sospetti di corruzione. E quanto ai luoghi da persuadere colle testimonianze, colui che non ha testimonio può ricorrere a dire, che si deve giudicar dai verisimili, e che questo è veramente il giudizio del senno migliore, e che i verisimili non ponno esser corrotti per danari, nè convinti di falsità. Colui che gli ha, contra colui che non gli ha, deve dire: che i verisimili non sono sottoposti ad esser riprovati e castigati del falso come i testimoni, e che non bastano a trovar la verità, perchè se le ragioni bastassero a considerar come il fatto sta, non avremmo punto bisogno di testimonianze. Sono delle testimonianze che si fanno, altre della persona nostra, altre dell'avversario; ed altre appartenenti al fatto, altre ai costumi. Onde si può chiaramente vedere, che non ci può mancar mai qualche testimonianza, che giovi se non alla nostra causa, o vero a noi medesimi, o contra le ragioni della parte; almeno in quanto ai costumi del mostrare, o che noi siamo persone ragionevoli e dabbene, o che l'avversario è l'uomo di mala vita; e per l'altre cose circa ai testimonj, se sono amici, o nemici, o neutrali, o di buona fama, o di cattiva, o di mezzana, o d'altre simili differenze, bisogna ricorrere a que' medesimi lochi donde si cavano gli entimemi. Quanto alle convenzioni, o patti, che si dicano, tanto fa di mestier che se ne parli quanto occorre d'aumentarle, o distruggerle, o mostrarle degne, o non degne di fede. Degne di fede e rate, cioè se fanno per noi, ed al contrario se fanno per l'avversario. E a voler dire, o contra, o in favor de' patti, ci servono senza alcuna differenza i medesimi lochi che vengono contra, o in favor de' testimoni, perciocchè secondo che son degne di fede le persone, che nelle convenzioni si sono sottoscritte, o quelle nelle cui mani si trovano, così sono ancora autentiche ed approvate le convenzioni. Ma quando i patti non si negano, e che fanno per noi, allora bisogna ampliarli; perciocchè si può dire che il patto è una legge propria e particolare, e che il patto non ratifica la legge, ma sì ben la legge il patto, quando è fatto legittimamente. Anzi che la legge stessa in universale non è altro che un certo patto. Onde che chi disautorizza ed annulla il patto, annulla anco le leggi. Oltre di questo si deve dire, che per via di convenzione si viene a molti contratti di volontà e di consentimento dell'una parte e dell'altra, per modo che se non si osservano, si toglie l'uso e il commerzio che hanno gli uomini fra loro. L'altre cose che fanno a proposito di questo loco ci sono per lor medesime in pronto. Ma quando i patti ci sono contrarj, e che fanno in favor dell'avversario, ci possiamo servir contra loro di tutte quell'armi, le quali abbiamo detto di sopra, che s'adoperano a difendersi dalla legge contraria. Che se pensiamo di non dover obbedire alle leggi torte e imprudentemente fatte, strana cosa sarebbe a credere, che necessariamente dovessimo star saldi alle convenzioni. Dipoi torna bene a dire che i giudici sono fatti perchè siano dispensatori della giustizia. E per questo non hanno a considerar solamente quel che sia pattuito, ma quel che sia più giusto. E che il vero giusto non può ricevere nè alterazione, nè inganno, nè forza; perciocchè è nato da sè e le convenzioni son fatte da altri, e da persone che possono esser ingannate e sforzate. Oltre di questo si deve considerar se vi fosse qualche cosa che ripugnasse a qualcuna delle leggi scritte, o delle comuni. E così anco alle cose giuste ed oneste; o se facesse contro gli altri contratti o di prima o di poi. Perciocchè diremo, o che l'ultime convenzioni debbano esser rate, e che le prime non sono valide; o che son buone le prime, e l'ultime inique, e fatte in fraude, secondo quale di queste due cose ci metta meglio. Sarà di giovamento ancora a vedere se l'osservanza di tal convenzione facesse in pregiudizio del giudice, ed altre cose simili, le quali possono facilmente considerarsi ancor esse.
I tormenti sono come una specie di testimoni. E par che si debba lor credere, perchè hanno in loro una certa necessità di far confessare il vero. Sopra questa parte è facil cosa a vedere, e dir quel che v'occorre. E quando i tormenti vengono in nostro favore li dobbiamo ampliare, dicendo che delle testimonianze queste sole son vere. Ma quando facciano contro di noi e in favor dell'avversario, s'impugneranno se ben si dicesse il vero, allegando universalmente contra tutto il genere de' tormenti, che sforzano a dir così la bugia come la verità, e che i tormentati, o stanno forti e non dicono il vero, o per impazienza dicono facilmente il falso, per uscir tanto più presto di quel martorio. Ma bisogna in questo addurre esempi passati che siano noti ai giudici.
Ne' giuramenti si procede in quattro modi. Perciocchè o si mette e si piglia a giuramento, o non si mette e non si piglia; o si fa l'uno di due, e questo in due modi; o che si mette e non si piglia, o che si piglia e non si mette. Oltre di questo in un modo si procede quando s'è giurato; e in un altro quando non si è giurato; e diversamente quando s'è giurato da noi, che quando s'è giurato dall'avversario. Ora colui che non vuol mettere a giuramento; cioè che non vuol che l'avversario giuri, si deve scusar con questo che facilmente per vincere giurerebbe il falso; e perchè l'ho io da far, dicendo: quando avrà giurato non mi pagherà, e io spero che sarà condannato senza che giuri. Ed è meglio ch'io corra questo risico sopra la coscienza de' giudici, che dell'avversario, perchè ne' giudici ho fede, e in lui no.
Colui che non vuol torre a giurare deve dire: che non vuol che gli sia dato giuramento in cambio de' suoi danari; e che se fosse mal uomo, avrebbe giurato; essendo meglio d'esser tristo per qualche cosa che per niente; perchè giurando avrebbe guadagnato, non giurando, si perde il guadagno. E cosi s'ha da credere che non giurando si faccia più tosto per virtù che per conoscenza dello spergiuro. E a questo proposito fa quel detto di Xenofane che gli uomini pii non sono provocati del pari a giuramento dagli empj, per esser non altramente che se un robusto chiamasse un debole a darsi delle pugna, o delle ferite. Ma volendo accettar di giurare dobbiamo dire che il facciamo per aver maggior fede a noi medesimi che all'avversario. E rivolgendo le parole di Xenofane diremo, che così va del pari, che l'empio si rimetta al giuramento, e che il pio accetti di giurare. E che grave cosa sarebbe a non voler giurar noi in una nostra causa, sopra la quale ci par ben fatto che giurino i giudici. Colui che si rimette a giuramento deve dire che, religiosa cosa è di rivolgersi a Dio. Che non accade che l'avversario cerchi d'altri giudici, rimettendosi la sentenza in lui medesimo. E che disdicevol cosa è, che l'avversario non voglia giurare esso stesso, dove si ha per bene di far giurare i giudici che non ci hanno interesse. Poichè abbiamo esposto quel che s'avrebbe a dire in ciascuno di questi casi separatamente, ne viene dichiarato ancora in che modo s'ha da parlare quando si congiungono. Come dire quando si vuol pigliare, e non mettere a giuramento; ovvero mettere e non pigliare, o pigliare e mettere, o non mettere e non pigliare. Perciocchè essendo necessario che questi congiunti si facciano di semplici sopraddetti; è necessario ancora che le ragioni che s'hanno a dire in questi composti, si cavino dalle ragioni de' medesimi semplici. Quando il giuramento sia stato fatto da noi, e che ci sia contrario, dobbiamo mostrare che non abbiamo però spergiurato, perchè l'ingiuria è cosa volontaria, e lo spergiuro, essendo ingiuria, è volontario ancor esso. Ma noi abbiamo giurato o sforzati, o ingannati, che vogliamo dire, che viene ad essere non volontariamente; dunque non abbiamo spergiurato. Onde che bisogna venir anco a dire che lo spergiuro è quello che si fa nell'animo e non nella bocca. Ma quando il giuramento sia stato fatto dall'avversario, ed essendogli contrario si voglia disdire; si dirà, che ogni cosa confonde, e distrugge chi non istà saldo al giuramento suo medesimo. E che non per altro s'è trovato che i giudici giurino l'osservanza delle leggi, che perchè sia rato quel che dicono. Or se ci par bene (diremo noi) che voi che siete giudici, abbiate a stare a quel sentenziare per aver giurato; non ci staremo, noi che siamo giudicati da voi? Ed altre cose simili, che si posson dire per via d'amplificazione. E questo basta quanto alle prove che non sono artificiose.