CAPITOLO II.

ORA abbiasi per diffinito che la virtù del parlare consista nell'esser chiaro, e che, sia vero; vedere, che se non s'intende, non fa l'offizio suo. Dipoi, che non sia nè troppo basso, nè troppo sopra la dignità della cosa, ma secondo che si conviene a quel che si dice; perchè lo stil poetico non darà forse nel basso, e nondimeno non avrà convenienza col parlare della prosa. Questa chiarezza del dire si fa quando le parole sono proprie, e l'altezza e l'ornamento del parlare procede da quell'altra sorte di parole, delle quali abbiamo trattato nella poetica; perciocchè in questo le traslazioni e le permutazioni delle parole, par che diano maggior dignità all'orazione. Perciocchè quel che avviene agli uomini in vedere i forestieri ed i pellegrini, avviene anco a sentir le parole. E per questo bisogna far che i ragionamenti abbiano del forestiero e del peregrino. E questo perchè la rarezza fa meraviglia, e la meraviglia porge diletto. Nella poesia dunque ne sono molte di questa sorte, e convenientemente vi son poste; perchè questo genere di dire, cioè poetico, s'innalza sopra gli altri, così circa la materia, come circa le persone. Ma nelle prose se n'usano molto poche, perchè sono di più basso soggetto; avvengachè ancora nella poesia si serva poco il decoro a far che un servo o un fanciullo mostri troppo dell'esquisito. E così parlandosi di cose troppo minute. Ma le prose hanno ancor esse la misura di stringere ed allargare il lor decoro. Onde bisogna che i dicitori nascondano l'arte, e che facciano le viste che il parlar loro non sia composto nè finto, ma naturale e corrente; perchè questo ha del persuasivo, e quello fa il contrario. La cagione è, che colui ch'ascolta avvedendosi che il parlare è pensato e artifizioso insospettisce, e se ne guarda, come di cosa che sia fatta per ingannarlo. In guisa che sospetterebbe un bevitore che s'accorgesse che il vino gli fosse mescolato; e come avvenne della voce di Teodoro istrione, la quale fu tanto lodata a comparazione di quelle degli altri, perchè la sua correndo naturalmente, pareva che fosse propria di colui che parlava. E quelle degli altri, perchè erano sforzate, mostravano d'essere d'altre persone. Questo nascondimento dell'arte si fa bene quando il parlare si compone di voci che siano scelte; ma scelte però dalla favella comune come fece ed insegnò di fare altrui primamente Euripide. Ora conciossia cosa che l'orazione sia composta di nomi e de' verbi; e trovandosi di tante sorti verbi e nomi di quante abbiamo ragionato nel trattato della Poetica; dobbiamo avvertire, che ci abbiamo a servire di pochi di quelli che si chiamano delle lingue, e composti e finti. E servircene rade volte, ed anco in pochi luoghi. E in che luoghi si dirà poi. La cagione è la medesima che s'è detta prima, perchè fanno il parlare più diverso dall'ordinario che non si conviene; e per la prosa sono accomodati i proprj, i nostrali e le metafore sole. E che sia vero, avvertite che per metafore, e per voci proprie e nostrali solamente suol parlare ognuno. Onde si vede chiaramente, che chi saprà ben maneggiar queste voci ne' suoi componimenti, darà loro quella grazia che abbiamo detto del forestiero; celerà l'artifizio dell'ornamento, e parlerà chiaro. In che dicevamo che consisteva la virtù del dir rettorico. Di questi nomi, pei sofisti fanno quelli che sono omonimi, perchè per mezzo loro si fa fraude nel dire. E per i poeti sono accomodati i sinonimi; e dico proprj, e sinonimi, come per esempio ire ed andare, che l'uno e l'altro di questi sono proprj e sinonimi tra loro. Ma quel che sia ciascuno di questi nomi, e quante sono le spezie della metafora, e che nel verso e nella prosa la metafora vale assai, s'è già detto nel trattato della Poetica. Circa queste cose tanto più fa mestiero all'oratore d'affaticarsi, quanto la prosa ha manco ajuti che il verso. Vi si deve ancora affaticare, perchè la metafora è quella che sopra ogn'altra cosa porta seco e la chiarezza e la dolcezza e la vaghezza, che dicevamo ora del forestiero; ed anco perchè non la possiamo cavar da nessun altro che da noi. Queste metafore, ed anco gli epiteti, bisogna che siano convenienti alle cose che si dicono. E questo sarà quando si cavino dalla proporzione, perchè altramente si conoscerà la disconvenevolezza loro. Perchè i contrarj posti l'uno a canto all'altro agevolmente si discernono. Imperò si deve considerare, se al giovine sta bene una veste di scarlatto; quel che sta bene al vecchio, perchè non una medesima veste si conviene a tutti; e volendo adornar quel che si sia, bisogna pigliar la metafora dal meglio di tutto il genere. E volendo disonorar, pigliarla dal peggio. Dico così, perchè essendo che contrarj sian posti in un medesimo genere; dicendosi che un mendico ambisca, e che uno ambizioso mendichi; riducendosi l'una e l'altra di queste cose al medesimo genere del domandare, si farà come s'è detto. Secondo che disse ancora Ificrate di Callia, che egli era Mitragirte e non Daduco. Tu non sei pur dell'ordine (rispose Callia); perchè se ciò fosse non mi avresti per Mitragirte, ma per Daduco; perciocchè tutti due questi offizi erano d'intorno alla gran madre degli Dii; l'uno onorato e l'altro no. Così quelli che adulavano a Dionisio, da altri erano chiamati Dionisio colaci. E da lor medesimi si chiamavano Tecnite. Ambedue queste guise di parlare sono metafore, cavate l'una da vile offizio, e l'altra da onorato. Nella medesima guisa i corsari e i ladri si chiamano ora buscanti e procaccini. Onde che nel medesimo modo un grave eccesso si può dire errore; ed un errore si può chiamare eccesso. E d'un che abbia furato, si può dire che abbia preso e predato. Ma quelle metafore non son buone, che non son fatte secondo la dignità di quel che si dice, come quella di Delefo in Euripide, quando chiama i remiganti re de' remi; dove non si osserva il decoro, perchè, regnare in questo luogo, è maggior che non sopporta la bassezza del remo. Onde che l'arte non si viene ad occultare. Si fanno viziose ancora per la ruvidezza delle sillabe, quando esse sono segni di voce non dolce, come fu quella di Dionisio detta il Calceo, o dalla migliore, o dalla peggior parte, Dalla peggiore, come sarebbe a dire: Oreste matricida; dalla migliore, come nominarlo vendicator del padre; e Simonide poeta richiesto di comporre in laude delle mule d'Anaxila, il quale avea vinto il pallio con esse, portandogli poco premio non volse farlo, come sdegnandosi di lodare animali che fossero mezzo asini. Ma tornando il medesimo con più conveniente mercede, le lodò dicendo:

Di veloci destrier figlie onorate;

pigliando l'epiteto dal cavallo, che è la parte migliore, con tutto che fossero ancor figlie degli asini. Il medesimo si fa col diminuire. E nomi diminutivi sono quelli che fanno minore, o il bene, o il male, che significa il primo nome donde derivano, come quando Aristofane si burla de' Babilonj: che per oro, oruzzo; per veste, vesticciuola; per riprensione, riprensionetta, e per malattia disse malattiuzza. Ma così in questi diminutivi, come negli epiteti, bisogna andar rattenuto, e nell'una cosa e nell'altra investigar la mediocrità.

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