Ma non bisogna lasciar d'avvertirvi che secondo le diversità de' generi, si attribuisce a ciascuno il suo diverso modo di dire; perciocchè altramente si scrive, che non si disputa. Ed altro disputare o ragionare si richiede nelle consulte, che nei giudizj; e d'ambedue queste cose ci bisogna aver notizia; dico così dello scrivere come del ragionare, perchè l'una ci dá la correzion del parlare, l'altra ci toglie la necessità del tacere; avendo a conferir qualche cosa con altri. Che a tacer si conducono quelli che non sanno scrivere. Ma quel dire che si mette in carta sta più nella diligenza e nella maestria. E quello che si mette in atto, consiste più nella rappresentazione e nella pronunzia. Questo ultimo è di due sorti: l'una morale, l'altra affettuosa. E per questo gl'istrioni amano quelle composizioni che esprimono i costumi e le passioni delle persone; ed i compositori desiderano che siano recitate da quelli che sanno ben contraffare i costumi e gli affetti Quelli che compongono per esser letti, sono più approvati dagli uomini, come Cheremone; perciocchè procede esquisitamente come scrittore. Il medesimo fa fra i Ditirambici Licinio. E venendosi alla comparazion di queste due sorti di compositori, troveremo che l'opere de' buoni scrittori a metterle in atto pajono strette, e quelle de' buoni dicitori, sebben siano state ben recitate, a leggerle riescono volgari e basse, per rispetto che sono accomodate per venire in campo. E per questo le cose che son fatte per rappresentare, avvengachè tolta via la rappresentazione non fanno l'effetto loro, paiono fredde e scipite, come quelle che mancano dei lor legamenti, e replicano una cosa più volte. Il che nella scrittura è meritamente riprovato, dove che nell'azione s'usa ancora dagli oratori, perchè vanno accompagnate dal gesto e dalla pronunzia. Ed è necessario che dicendo le medesime cose, si varj il modo di dirle; il qual variare è quasi un indirizzo a rappresentarle, come sarebbe a dirle. Costui fu che vi rubò, costui fu che v'ingannò, costui, che alla fine cercò di tradirvi. E come faceva Filemone istrione, nel vecchio pazzo, commedia d'Anassandride, quando parlano Radamanto e Palamede. E nel prologo de' Pietosi, dove si replica tante volte quell'io, perciocchè chi non sa bene atteggiarle e pronunziarle, porge (come si dice per proverbio) un piattellin di quei medesimi. Il che dico ancora delle parole senza legature. Andai, l'incontrai, lo supplicai; perciocchè è necessario far passare il vizio della disgiuntura sotto la coperta dell'atto e della pronunzia; e che non si proferisca, come se si dicesse una cosa sola con la medesima disposizion d'animo, e col medesimo tuono di voce. Hanno ancora i disgiunti questo di proprio, che con eguale spazio di tempo, mostrano di dir più cose che se fossero congiunti; perciocchè la natura del congiungimento è di fare di molte cose una. Onde che senz'esso è manifesto, che d'una se ne fanno molte. La disgiunzione adunque serve per ampliamento. Andai, l'affrontai, lo pregai; perciocchè quasi d'una cosa stessa se ne fanno molte; così ancora dicendo, parve che poco si curasse delle mie parole; che poca stima facesse del mio parlare. Il che volse fare Omero quando disse:
Nereo d'Esimio
Nereo d'Algane
Nereo il bello;
perchè quando d'una persona si dicono molte cose, è necessario che sia nominato molte volte. E quel molte volte nominarla fa parer che molte cose se ne dicano. Onde che il poeta ricordando costui questa volta sola, volse per via di questa ragia ampliar la mensione che ne faceva; come quelli che di poi non era per farne parola. Il dir che serve alle consulte è simile appunto alla prospettiva; che quanto da maggior moltitudine deve esser veduta, tanto di più lontano si deve poter vedere; e per questo nell'una e nell'altra la troppa finezza è di soverchio, e comparisce anco peggio. Nei giudizj bisogna che il parlar sia più fino e più stretto, e molto più ancora parlandosi con un giudice solo, perchè allora avendosi a far col minor numero d'auditori, e de' precetti dell'arte con più facilità, e più da presso, si comprende quel che sia proprio della causa, e quel che non fa a proposito d'essa. E le contenzioni ci hanno manco luogo, per modo, che il giudizio viene ad esser puro. E di qui viene che non tutti gli oratori fanno buona prova in tutte le sorti del dire. Ma dove più si ricerca l'azione quivi manco ci bisogna l'accuratezza. E ricercasi l'azione dove s'adopera la voce, e la voce grande massimamente. Onde che l'orazion dimostrativa più di tutte l'altre è appropriata alla scrittura; perciocchè si fa perchè si legga; e dopo questa è la giudiziale. La divisione che fanno certi, che l'orazione debba essere dolce e magnifica, mi par che sia impertinente. E perchè magnifica e dolce più tosto che temprata e libera, o con qual si sia altra virtù che venga dai costumi? perciocchè la dolcezza le si dà con le cose già dette, se abbiamo ben diffinita la virtù dall'orazione. E per qual altra cagione abbiamo noi detto, ch'ella deve esser chiara, che non deve esser bassa, ma che deve mantenere il suo decoro? Perciocchè quando sia troppo diffusa non è chiara, nè manco quando sia troppo concisa. Ma quando stia fra mezzo della concisa e della diffusa; allora senza dubbio avrà la sua convenienza. Dolce la faranno ancora le cose dette quando sia fatta con una buona mescolanza di consueto, di forestiero, di numeroso e di persuasivo, secondo che si conviene. Abbiamo detto infino ad ora dell'elocuzione, e comunemente di tutte le sue sorti, e particolarmente di ciascuna. Ci resta ora a trattare della disposizione.