NOTE AL LIBRO PRIMO

(A) Queste ultime parole del periodo che seguono il verso di Simonide, sono una obbiezione di Aristotile o continuano a dare il sentimento del poeta? L'Argiropulo, seguendo Alessandro Afrodisio (nella trad. del Sepulv. p. 4 verso Bekk. p. 529) le ha intese per un'obbiezione: il Bessarione, non discostandosi dall'antica traduzione latina (il cui senso è accertato dall'interpretazione di S. Tommaso, p. 5 r. D. ecc), le ha intese come una continuazione del sentimento di Simonide. Il primo è seguito da' signori Pierron e Zévort (che citerò quind'innanzi colle iniziali PZ); il secondo dal Cousin e dall'Hengstenberg. Il testo, senza fallo, favorisce più l'interpretazione del Bessarione, quantunque non si possa dire che escluda affatto l'altra. Se non che il dubbio è sciolto dall'esame accurato del carme di Simonide a cui qui si riferisce Aristotile, e di cui restano frammenti, sufficienti al bisogno nostro, nel Protagora di Platone. Quivi Simonide si oppone a un detto di Pitacco: χαλεπὸν ἐσλὸν ἔμμεναι, difficil cosa è l'esser buono, sostenendo lui che sia piuttosto impossibile, che si deva ascrivere solo a Dio il privilegio di questa bontà stabile e sicura della quale si può dire che sia: che all'uomo è già difficile a diventar buono, e che a lui basta, se uno non sia cattivo, o non disabile troppo o conosca, uomo intero, la giustizia salvatrice delle città: ἔμοιγε, ἐξαρκεῖ ὃς ἂν μὴ κακὸς ᾖ μηδ’ἄγαν ἀπάλαμος, εἰδώς τ’ ὀνασίπολιν δίκαν, ὑγιὴς ἀνήρ. κ. τ. λ. Plat. Prot. 346 c. Bergk. Poetae Lyrici Graeci, p. 745). È chiaro dunque, che Aristotile, con quella libertà con cui gli antichi trattavano le citazioni, trae alla scienza quello che Simonide dice della virtù, e che, dopo averne citate alcune parole: — ϑεὀς ἂν μόνος τοῦτ’ ἔχοι γέρας, — continua a darne solo il senso in quello che segue. L'errore d'Alessandro Afrodisio è proceduto dal paragone troppo frettoloso di questo luogo con uno degli Eth. Nic. X. Bekk. p. 1177, dove Aristotile, parlando della vita speculativa, consente che sia divina, ma vuole non per tanto, che si deva seguire, e lasciar dire coloro che ammoniscono l'uomo ad aver umani disegni, il mortale a far da mortale: anzi, dice lui, bisogna «che l'uomo s'immortalizzi quanto più sa e può, e faccia il poter suo per vivere secondo quello che ha di meglio in sè: giacchè s'egli è piccolo di mole, di potenza e di pregio avanza a gran pezza ogni cosa». Certo, queste parole nobilissime possono servire di risposta a quelle di Simonide: ma gli è evidente, che il luogo degli Etici, che non si riferisce ad esse, ma bensì a un motto, non si sa se di Teognide o di Solone (Eustr. in Moral. Arist. ad h. l. p. 526), o d'Epicarmo (Zell. Comment. p. 458), passato in proverbio ed usato variamente (Arist. Rhet. 11, 21 Bekk p. 1394 b. 24. Pind. Isthm. V. 20. Eurip. Bacch. allegato dal Camerario e altrove e altrimenti in Zell. l. c. e Mitscherlich. ad Hor. Carm. IV. 7, 7), non si può punto usare immediatamente per l'interpretazione del presente luogo dei Metafisici. Aristotele qui non obbietta a Simonide: ma rigetta la sua testimonianza e quella degli altri, dichiarandoli poi, nel seguente paragrafo, incompetenti. Del resto, le parole nell'interpretazione dell'Afrodisio non potrebbero dare se non questo senso: Pure sconviene all'uomo di non tentare una scienza proporzionata a lui. Che sarebbe una petizion di principio e perciò una risposta insulsa quistionandosi appunto se gli sia proporzionata.

(B) il Cous. traduce: «Dieu est reconnu de tout le monde comme le principe des causes». Ha con sè PZ: ma contro di sè il Bess., l'Agirop., l'Hengst., e quel che è peggio, il testo, la storia della filosofia e la dottrina d'Aristotile. Nè quella nè questa s'accorderebbero in questa sentenza: tanto che se il testo la desse, bisognerebbe correggerlo. A. A. non è ben chiaro (Be. p. 530. Sep. p. 5. v,): Ascl., (Be. ibid) non ha nulla.

(C) Ἄρκονται μὲν γάρ, ὥσπερ εἴπομεν ἀπὸ τοῦ ϑαυμάζειν πάντες εἰ οὕτως ἔχει, καϑάπερ τῶν ϑαυμάτων ταὐτόματα τοῖς μήπω τεϑεωρηκόσι τὴν αἰτίαν, ἤ περὶ τὰς τοῦ ἡλίου τροπὰς ἢ τὴν τῆς διαμέτρου ἀσυμμετρίαν.

Bekk p. 383 v. 12, 18. PZ. hanno fatta una lunga nota per voler tradurre altrimenti. Non gl'imiterò: giacchè l'autorità dell'Argiropulo e del vecchio traduttore latino, seguito da S. Tommaso, a' quali si conformano, non può contendere con quella concorde dell'Afrodisio, dell'Asclepio, dell'Annotatore marg. del Laurenziano e degli altri traduttori e commentatori che fanno con me. Non per questo m'accordo io del tutto col Bess., col Cousin, coll'Hengst., in quanto alla costruzione della frase. Non hanno badato, mi pare, che l'inciso: καϑάπερ τῶν ϑαυμάτων ταὐτόματα τοῖς μήπω τεϑεωρηκόσι τὴν αἰτίαν - non fa punto seguito a tutto il resto del periodo: ἄρχονται ἀπὸ τοῦ ϑαυμάζειν πάντες εἰ οὕτως ἔχει, ἢ περὶ τὰς τοῦ ἡλίου κ. τ. λ. Se dovesse far seguito, si dovrebbe scrivere οἱ μήπω τεϑεωρηκότες κ. τ. λ. Perciò sottintendo ἐστί: e costruisco: καϑάπερ ταὐτόματα ἐστί τῶν ϑαυμάτων (passano per meraviglia) τοῖς κ. τ. λ. E stamperei tutto il periodo così... ἄρχονται μὲν γάρ, ὥσπερ εἴπομεν, ἀπὸ τοῦ ϑαυμάζειν πάντες εἰ ὅυτως, ἔχει (καϑάπερ τῶν ϑαυμάτων ταὐτόμ. τοῖς μήπω τεϑεωρ. τὴν αἰτ.) ἢ περὶ τὰς κ. τ. λ. Ho affatto con me la nota marg. del cod. Laur. ϑαυμασιὰ δἐ λέγει τὰ ὑπὸ τῶν ϑαυματο ποιῶν δεικνύμενα παίγνια, οἷον ἄψυχά τινα εἴδωλα δοκοῦντα ὲξ ἑαυτῶν κινεῖσϑαι.

(D) Il proverbio è, δεύτερον ἄμεκινον: meglio la seconda volta. Vedi A. A. Ascl. Bekk. P. 530, Br. p. 13.

(E) Tutto questo fa un periodo solo, assai intricato nel greco, punteggiato male dal Bekker (983 a. 24 b. 3), e bene dal Bonitz. (Observ. p. 34). In italiano non poteva restare così d'un pezzo ed è bisognato spezzarlo. Pure, darò qui un'altra traduzione della seconda sua parte, più prossima al testo, perchè mi pare che agevolerà il lettore a capire lo stile d'Aristotele, e a fargli meglio scusare il modo sommario con cui qui scorre su un punto di tanto rilievo. «Ora, che causa si dica in quattro sensi, e che una causa si dica che sia l'essenza e la quiddità (il perchè in fatti si riduce da ultimo al concetto, e il perchè primo è causa e principio, e l'altra causa sia la materia ed il soggetto, la terza quella donde è il principio del movimento, la quarta la causa contrapposta alla precedente, il fine per cui ed il bene (chè questa è il termine d'ogni generazione e movimento), che, voglio dire, sien queste le cause e così, s'è studiato abbastanza nei libri della natura etc.».

(F) È una lode o un biasimo questo venir dopo co' fatti, che risponde per l'appunto alla frase greca τοῖς ἔργοις ὕστερος, e ne mantiene felicemente tutta l'ambiguità? Venir co' fatti dopo un altro nella scienza quando gli s'è anteriore di tempo, può valere e che si sia visto più di lui e che si sia visto meno. Gli scoliasti greci, ce ci rimangono, (Bekk. p. 534 Br. p. 19 vedi PZ. p. 233) sono tutti d'accordo, che Aristotile qui preponga Empedocle ad Anassagora: e A. A. ne reca in prova che Aristotile altrove (Phys. I, 4, p. 188, I, b. p. 189 de Coelo III, 4 p. 302: concordano, Siriano, Simplicio, Filopono e gli altri secondo Karsten Empedocl. p. 334) vuole che abbia fatto meglio Empedocle ad ammettere solo quattro principii che Anassagora ad ammetterne infiniti. È dunque indubitabile che in questo punto Aristotile prepone il primo al secondo. Ma come altrove magnifica assai Anassagora (Met. I, 3, p. 984 b. 17. Ibid. 8 p. 989, b. 19) e lo prepone ad Empedocle, è evidente che quel giudizio si deve restringere a questo punto del numero di principii. Avrei potuto agevolmente far più precisa la frase che nel greco: ma m'è paruto meglio lasciarla ugualmente incerta. Ad ogni modo l'interpretazione singolare del Cousin (Anass. qui naquit avant ce dernier, mais qui écrivait après lui), non è certo da approvare. Chi vuol vedere, come l'Hegel tratti leggermente i testi, riscontri a pag. 335 della sua storia della filosofia; che pure è un gran libro.

(G) Il testo Bekkeriano, conforme all'antiche edizioni e traduzioni dell'Argir. e del Bess., legge così l'ultima parte di questo periodo: τὸ ἓν ἀκίνετόν ϕασιν εἷναι καὶ τὴν ϕύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσις καὶ ϕϑοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαἶον τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιον ἔστιν. p. 984 a. 31 - b. I.

Come ognun vede, io ho tralasciato la parentesi e le ultime quattro parole, seguendo l'autorità d'un codice Laurenziano (Ab), e in parte, quanto alla parentesi, anche quella d'uno dei Parigini (Fb). Così ha fatto il Brandis e dietro di lui il Cousin e l'Hengstenberg. In vero, sono evidenti interpolazioni, di cui si rintraccia la origine negli scoliasti. Volendosi rendere conto della forma della frase Aristotelica e della distinzione - οὐ μόνον - ἀλλὰ καὶ si attennero a due vie. Gli uni ci scorsero la differenza che passava dagli Ionici agli Eleatici, e l'indicarono esplicitamente ne' loro scolii o ne' margini colle parole della parentesi e le ultime del periodo. Gli altri, invece, ci videro una indicazione più netta, voluta fare a posta, delle varie specie di mutazione, l'alterazione e la traslazione per mostrar meglio, più vivamente e scolpitamente l'assurdità dell'opinione che s'esponeva; costoro fecero altri scolii e notarono altrimenti. Che sia così, ce l'attestano Asclepio ed Alessandro Afrodisio (p. 535). Il primo, interpretando nel primo modo, ha nel suo scolio appunto la parentesi: τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαιον τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν τὸ εἶναι ἀμετάβλητοη τὴν ὕλην. Il secondo, uomo d'altro peso che non Asclepio, interpreta al secondo modo; ed ha invece quest'altra parentesi allo stesso luogo: καὶ γὰρ αὖται αί μεταβολαί, εἰ καὶ μὴ κινήσεις, ἀλλὰ κινουμένων τινῶν: quoniam hae mutationes etsi non sunt motus, fiunt tamen dum aliqua moventur (Sep. p. 7.): perchè queste mutazioni, quantunque non siano moti esse stesse, pure si fanno col movimento. Non mi meraviglierei, se si trovasse dei codici che avessero un testo con quest'altra parentesi invece di quella che si trova ora. Che poi le quattro ultime parole siano state aggiunte dopo la parentesi e ne dipendano, non ammette dubbio. Inoltre, che non si deva neppure accettare l'interpretazione che ha dato luogo alla presente parentesi, mi par chiaro. 1° Non si può dire che, secondo gli Ionici, la natura intesa come il soggetto unico, non si muova in quanto alla generazione e corruzione; anzi appunto sotto questo rispetto si muove quantunque il moto non penetri nè faccia passeggiera l'essenza stessa del soggetto. 2° Non si può dire che sia propria agli Eleatici la sola negazione del moto di traslazione, negando essi del pari agli ionici, appunto che l'uno sia esso stesso il soggetto dei moti d'alterazione, e che questi moti, come credevano Talete e gli altri Ionici da Eraclito in fuori, avessero la stessa realità dell'Uno e ci si facessero. - Aristotile parla degli Ionici antichi nel periodo precedente, ed ascrive loro di non avere, non ch'altro, vista la difficoltà: e in questo periodo parla degli Eleatici, contrapponendogli agli Ionici, per avere loro vista la difficoltà, ma chiuso subito gli occhi per poter dire che non la vedessero.

(H) Il capo comincia a pochi versi più giù nell'edizione Bekkeriana; appunto dove ho notato il IV sul margine. È evidente perchè io abbia preferito di cominciarlo qui. Qui comincia davvero un altro punto della ricerca storica. Che al luogo dove un altro capo comincia ne' codici ed in parte delle edizioni e traduzioni non ricominci davvero un altro senso, è attestato dalla stessa ed. Bekk. che segna sul margine il num. 4, ma non fa un capoverso. Il Cousin fa un solo dei capi 3 e 4; si potrebbe: ma ho preferito di non imitarlo per lasciare intatto l'usato numero dei capi del Primo della Metafisica.

(I) οἱ μὴν οὒν οὕτως ὑπολαμβάνοντες ἅμα τοῦ καλῶς τὴν αἱτίαν ἀρχὴν εἶναι τῶν ὄντον ἔϑεσας καὶ τὴν τοιαύτην ὅϑεν ἡ κίνησις ὑπάρκει τοῖς οὖσιν. p. 984 b. 20 seg. Non dubito che si deva costruir così: οἱ μὲν οὖν οὖτ. ὑπολ. ἔϑεσαν ἄμα τὴν αἰτίαν, ἀρχὴν τοῦ καλῶς εἶναι τῶν ὄντων καὶ τὴν τοιαύτην αἱτ. ὅϑ. ἡ κίν. ὑπ. τ. ο. Le ragioni grammaticali e filosofiche mi paiono così copiose e chiare, che non credo che valga la pena di spicciolarle: quantunque nessuno dei traduttori si accordi del tutto con me. Il Bessarione, però, più dell'Argirolupo. Aless. Afrodisio, inteso bene, mi pare che sostenga questa mia interpretazione. Annota così: τὴν τοῦ καλῶς κινεῖσϑαι καὶ γίνεσϑαι, οὺ τὴν τοῦ μόνον γίνεσϑαι καὶ κινεῖσϑαι αἰτίαν ἀρχὴν ἔϑεντο. Bekk. 536, b. 33). Dietro questo luogo bisogna correggere il verso 30 e 31 dove si ridice il medesimo: οὖτοι μὴν οὖν ἅμα τῇ ποιητικῇ αἰτίᾳ τὴν τε τοῦ καλῶς καὶ τεταγμένως γίνεσϑαι τὰ γίνομενα ἀρχὴν καὶ αἰτίαν τῶν ὄντων ἔϑεντο. Le parole καὶ αἰτίαν τῶν ὄντων vanno scancellate. Insomma qui Aristotile dice che costoro identificarono la causa finale e la motrice, non la motrice e la materiale; e perciò non concepirono puramente e nettamente e come tale, la finale: anzi la confusero con quella che, in quanto, al suo concetto, l'è contrapposta.

(L) Καὶ ὅταν ἀπορήσῃ διὰ τίν᾽αἰτίαν ἐξ ἀνάγκης ἐστί, τότε παρέλκει αὺτόν. 985 a. 19. Ho tralasciato le parole διὰ τίν᾽αἰτίαν ἐξ ἀνάγκης ἐστί, per più ragioni. 1.o Non servono che a chiarire l' ἀπορήσῃ: il quale non avrebbe bisogno di nissuna aggiunta per esser chiaro. 2.o Tolgono ogni leggerezza ed urbanità alla frase, che, sgombrata, n'ha tanta. 3.o Non dirò che manchino di nominativo. In uno scrittore come Aristotile, non sarebbe nulla: e quantunque errerebbe di molto chi volesse difendere questa ellissi con quelle di cui si trovano parecchi esempi in Platone e altri scrittori greci (Stallb. ad Plat. Phileb. 20 c.), pure non si potrebbe risponder nulla a chi non la trovasse nè più dura nè più ardita nè diversa di quella che si legge poco oltre p. 987 a. 11, dove manca τινές, o di parecchie altre. Ma, di certo, però, anche ammessa l'ellissi, restano poco soddisfacenti. Che vuol dire ἐξ ἀνάγκης? È evidentemente superfluo e mostra incertezza nel concetto. Anassagora non si trovava a ma' passi quando gli mancava la causa d'un effetto necessario, ma quando non sapeva spiegare come una qualunque cosa succedesse. 4.o Infine non le hanno il cod. Laurenziano (Ab) e le scancella nel margine il Parigino regio (E). Dagli scoliasti non si può trarre nulla di certo: pure parrebbe che non le leggessero. Onde a me pare più convenevole e probabile di tenerle per una nota marginale, e assai frettolosa, interpolata nel testo. Il resto del periodo può restare come sta: pure a me piacerebbe leggere, dietro a due cod. vaticani (Ha T), e allo stesso Parigino (E): ὅταν γὰρ ἀπορήσῃ, τότε κ. τ. λ.

(M) Πῶς μέντοι πρὸς τὰς εἰρημένας αἰτίας ἐνδέχεται συναγαγεῖν, σαϕῶς μὴν οὐ διήρϑρωται παρ᾽ἐκείνων: 986, b. 6. Chi è assuefatto allo stile d'Aristotile, non troverà difforme dal testo la mia traduzione. Quel periodo si deve intender così: πῶς μέντοι - συναγαγεῖν è la quistione che ci si propone; la risposta comincia da σαϕῶς e finisce ad οὐσίαν due versi più giù. Il nominativo di διήρϑρωται è τὰναντία e si sottintende ὣστε οἶον τε εἶνπἀοια κρίνεσϑαι σαϕῶς o qualcosa di simile: ἐοίκασι δὲ etc. I contrarii non sono così chiaramente notomizzati ch'e' si possa risponder netto: ma paiono etc. Così s'ha un senso ragionevole. Perchè sta bene che Aristotile pretenda trovare tali contrassegni nelle coppie Pitagoree, che si possa riconoscere quale concetto di causa includono: ma mi parrebbe ridicolo, e non conforme al modo suo nè qui nè altrove, ch'egli pretendesse da' Pitagorei che gli avessero belle e ridotte quelle coppie e ciascuno de' loro membri ad una delle sue quattro cause. Ora, appunto questo dimanderebbe, secondo la traduzione del Bessarione, seguita da' moderni. Eccola in Cousin: «Comment est-il possible de les ramener à ceux que nous avons posès, c'est ce qu'eux mêmes n'articulent pas chairement?». Ora, vedete se Aristotile dovesse pretender che i Pitagorei gli avessero spiegato per punto e per virgola, la possibilità di ridurre i lor principii ai suoi? Ales. Afrod. Bek. p. 543 b. 12 seg. si accorda colla mia interpretazione, e così Argiropulo che lo segue nella traduzione della Metafisica. (Sep. p. 9, v.).

(N) μέχρι μὲν οὖν τῶν Ἰταλικῶν καὶ χωρὶς ἐκείνων μετριώτερον εἰρήκασιν περὶ αὐτῶν 987 Bekk. a. 10. Varia in due punti essenziali la lezione dei codici di queste parole. Un Laurenziano (Ab), un Parigino (Tb), ed il Parigino regio (E) leggono μαλακώ τερον in luogo di μετριώτερον; il Parigino regio (E), un Laurenziano (S), un Vaticano (T), un Marciano (Bb), ed un altro Laurenziano (Cb) leggogno περὶ τῶν αὐτῶν.

Per cominciare da questa seconda varietà, io credo che non ostante l'autorità d'Al. Afrod. (p. 546), e degli editori e dei traduttori, bisogni preferirla all'antica lezione. Il concetto del periodo lo richiede. Aristotile vuol mostrare qui la differenza principale che corre dagli Italici agli Ionici. Perciò raccoglie questi ultimi sotto una veduta unica, per poterle contrapporre la veduta Italica. Nel periodo presente parla degli Ionici: nel seguente degl'Italici. La peculiarità degli Italici, dice, che sia stata la concezione astratta de' principii; l'aver fatto sussistere i loro principii astratti per sè, non in una natura diversa, che servisse loro come di sostrato; e in conseguenza, avuta occasione di tentare la causa ideale, cercando il concetto della cosa e la sua definizione. A queste due proprietà degli Italici bisognerebbe che nel periodo presente ne fossero contrapposte due degli Ionici. E appunto le due sono l'avere speculato μετριώτερον, cioè con più misura, con meno ardire e con maggior conformità al senso volgare: e il non esser usciti da certe cause che furono le stesse per tutti, quantunque alcuni n'usassero distintamente una sola, gli altri tutte e due etc.: questo secondo carattere dovrebb'essere dinotato dal περὶ αὐτῶν. È perciò già evidente che se si vuole espresso davvero, bisognerà leggere περὶ τῶν αὐτῶν. E si trova ancor più necessario comparando il resto del periodo: πλὴν ὥσπερ εἴπομεν, δυοῖν τε αἰτίαιν τυγχάνουσι κεχρημένοι κ. τ. λ. Se Aristotele avesse l'abitudine di scrivere tutto quello che vuol dire, avrebbe scritto qui - πλὴν τινὲς μὲν μίᾳ, τινὲς δὲ δυοῖν κ. τ. λ. Come ripeteva qui il detto nel periodo precedente, e che metteva un membro dell'opposizione ha creduto che si potesse agevolmente sottintendere l'altro; uso, del resto, non senza esempio tra gli scrittori Greci (vedi Plat. Phil. 40. E. dove manca καὶ ἀληϑεῖς; ed ibid.16. C. dove, secondo me, manca τὰς μὲν trad. Ital. p. 92). Comunque sia, il πλὴν che indica qui ciò che c'è di differenziante tra gli Ionici, dev'essere per forza preceduto dall'indicazione di ciò che hanno di identico: che è il cadere nelle stesse cause. Si deve perciò leggere περὶ τῶν αὐτῶν. - In quanto al μετριώτερον o al μαλακότερον Al. Afrod. p. 546, a. riporta la lezione μοναχότερον, che accetta, ed un'altra μορυχώτερον, che rigetta. Ascl. p. 547 a. ha μονιμώτερον, quantunque dalla parafrasi parrebbe che sia corso errore e che bisogni leggere μορυχώτερον Del resto, mi pare più importante l'intendere una lezione qualunque che di variarla. Al. Afrod. ed Ascl. escludono il senso σκοτεινώτερον che alcuni davano a μορυχώτερον: perchè i Pitagorei, secondo Aristotile stesso, non s'espressero più chiaro. Al Afrod. poi spiega l'εἰρηκὲναι μοναχώτερον per ἑνὶ αἰτίῳ χρῆσϑαι: avrebbero parlato più unitamente, a detta sua, perchè si son serviti di una sola causa. Ora, questa stessa interpretazione, che sarebbe l'unica possibile di questa lezione, mi fa tenere la lezione per falsa, quantunque non si potrebbe non accettarla quando si volesse continuare a leggere più oltre - περὶ αὐτῶν. In fatti, leggendo μοναχώτερον,il πλὴν avrebbe una ragione; ma solamente mancherebbe nella descrizione degli Ionici l'indicazione d'un qualunque carattere per il quale si potessero contrapporre agli Italici. Di certo, a' tempi di A. A. e di Ascl. o meglio ne' loro manoscritti, non si leggeva nè μετριώτ, nè μαλακώτ.: ma è, d'altra parte, evidente che i copisti di que' codici, da' quali noi ricaviamo ora il commentario d'A. A. leggevano nei testi d'Aristotele μαλακώτερον e non μοναχώτερον, avendo data la prima lezione, dove l'interpretazione d'A. A. si riferisce senza nessun dubbio alla seconda non ostante l'esclusione esplicita e patente che A. A. fa del μαλακώτερον. Siamo adunque liberi di scegliere μετριώτ. o μαλακώτ. o piuttosto che μοναχώτ. o μορυχώτ. Io preferisco l'una delle due prime lezioni, perchè solo da una di quelle si può ritrarre quel carattere nel concetto Ionico della causa, che si possa ragionevolmente contrapporre all'Italico. E quale è? Saremmo imbrogliati, se Aristotile stesso più giù 989 b 29, non dicesse che i Pitagorei usano delle cause e degli elementi εκτοπωτέρως τῶν ϕυσιολόγων, dove vedi gli scol. p. 558 b. seg. Il μετριώτερον e il μαλακώτερον valgono qui appunto il contrario; indicano negli Ionici la qualità opposta a quella che è ascritta ai Pitagorei coll'ἐκτοπωτέρως; e però vale più rimessamente, meno speculativamente, meno discosto da' sensibili e dal senso volgare. Preferisco poi il μετριώτερον letto dal Bessarione e dall'antico trad. lat. (mediocrius): il μαλακώτερον ha l'aria di una prima interpretazione. Direi questa l'istoria del testo. S'è scritto da Aristotile μετριώτ. e περὶ τῶν αὐτῶν. Dal margine è passato poi nel testo lo scolio μαλακώτερον. Tralasciando d'altra parte in alcuni manoscritti il τῶν tra περὶ ed αὐτῶν, e mancando così un riscontro al πλὴν, s'è letto, per dargliene uno, μοναχώτερον in luogo di μετριώτ. Μορυχώτερον, parola ignota ad Alessandro, è una storpiatura. Un altro scolio marginale al μοναχότερον, passato in altri testi, è il μονιμότερον d'Ascl. col quale la sua parafrasi non ha che fare. Chi l'aveva messo in quel testo, che aveva davanti il copista d'Asclepio, applicava la prima parte di questo nostro periodo agli Eleatici, de' quali soli potrebbe aver voluto dire che avessero un principio stabile. Che l'interpretazione di questo introduttore del μονιμώτ. fosse sbagliatissima, non ci vuole prova.

(O) κατὰ μέϑεξιν γὰρ εἶναι τὰ πολλὰ τῶν συνωνύμων τοῖς εἴδεσιν. p. 987. Il Trendelenburg (De ideis, p. 32) ha parecchie buone osservazioni sopra questo luogo, ma in parte erronee per non aver potuto leggere nel testo Greco, pubblicato dopo il suo scritto, il commentario d'Al. Afrod. PZ. e Cousin l'hanno poi letto in gran fretta e spropositato. Lasciamo stare gli altri, per non sprecare il tempo; ed attingiamo alle fonti. La lezione data più su è quella del testo Bekkeriano e Brandisiano, conforme a tre codici, e seguita dall'antico traduttore latino e dall'Hengest.: la lezione di tutti gli altri codici e delle antiche edizioni del Bessar. e dell'Argiropulo è diversa; aggiunge ὁμώνυμα e legge τὰ πολλὰ τῶν συνω νύμων ὁμώνυμα τοῖς εἴδεσιν.

Ora, quale delle due lezioni si deve preferire? La quistione è paruta di rilievo, perchè il Brandis ha intesa male le lezione preferita da lui, e n'ha fatto risultare un senso falso, e perciò il Trendelenburg ha avuto ragione di opporglisi. L'Hengstenberg in fatti dietro i consigli del Brandis e forse per non aver letto tutto lo scolio di Al. Afrod. aveva tradotto così: indem der Theilnahme nach das mannigfaltige sei, das mit den Ideen gleiche Benennug habe (p. 16): giacchè il molteplice che ha lo stesso nome dell'idee, sia per loro partecipazione. Ora, così si toglieva a συνώνυμων quel senso preciso che ha e conserva in Aristotile. Ὁμώνυμα λέγεται, ὧν ὄνομα μόνον κοινόν. ὁ δὲ κατὰ τοὔνομα λόγος τῆς οὐσίας ἔτερος. – Συνώνμα δὲ λέγεται, ὧν τό τε ὄνομα κοινόν καὶ ὁ κατὰ τοὔνομα λόγος τῆς οὐσίας ό αὐτός. Cat. 1. — Si dicono omonime (equivoche) le cose di cui il nome è lo stesso, ma dietro al nome è diverso il concetto dell'essenza. Si dicono invece sinonime (univoche) quelle delle quali ed è identico il nome, ed è comune, dietro al nome, il concetto dell'essenza. E che quest'uso sia costante, è dimostrato dagli esempi raccolti da Trendelenburg (l. cit.) a' quali agevolmente se ne potrebbe aggiungere altri. Adunque, se si dovesse seguire in questo luogo l'interpretazione dell'Hengstenberg, bisognerebbe intendere che per mezzo della partecipazione dell'idee un molteplice sia non equivoco, ma univoco coll'idea, che abbia cioè non solo lo stesso loro nome, ma ancora la stessa loro essenza. Ora, si può dubitare con Al. Afrod. se Platone tenga solo per equivoci, o anche per univoci i sensibili coll'idee, nè la questione sarebbe risoluta da quel luogo del Timeo (52 A.), dove Platone chiama le idee omonime (equivoche) coi sensibili, perchè resterebbe a mostrare che l'uso e il senso dell'omonimo sia lo stesso e così costante in Platone che in Aristotile: e davvero non è (Bon. Met. p. 90). È però fuori di dubbio, che Aristotile intende così la dottrina Platonica: crede, voglio dire, le idee equivoche colle cose (Met. I. 9.990 b. 6), e sole queste univoche tra sè, quando si raccolgono sotto una sola idea partecipata. E a intenderla così, non vo' dire se bene o male, era aiutato e da quel luogo del Timeo, e da quel suo concepire la propria dottrina in opposizione alla Platonica. Ora,per lui l'universale era μὴ ομώ νυμον, non era equivoco ma univoco colle cose (Analyt. post. I. 11 p. 77 a. 9). Se però la lez. del Brandis richiedesse che qui Aristotile chiami le idee Platoniche univoche colle cose, ed escluda che siano, come davvero sono secondo lui, equivoche, la lezione sarebbe falsa. Ma appunto questo non è necessario, e in prova, ci bisogna esaminare il commento dell'Afrodisio, così poco letto e franteso tanto. Egli dice che si può dare parecchie interpretazioni delle parole - τῶν συνώνυμων τοῖς εἴδεσι - che determinano quali sieno - τὰ πολλὰ - i molti, che sono per partecipazione dell'idea. La prima sarebbe, che partecipano colle idee solo quei molti che hanno dell'idee univoche con loro, giacchè non c'è idee di tutti i sensibili: in fatti, i Platonici non ammettono idee de' relativi, nè di cose contro a natura e neppure de' mali. Un'altra sarebbe d'intendere i molti per i sensibili, quasi volesse dire, i molti ed i sensibili sono per partecipazione di quelle idee, con cui sono univoci: giacchè gli uomini sono per partecipazione dell'uomo ed i cavalli del cavallo. Queste due interpretazioni suppongono un uso poco esatto della parola συνώνυμον, univoco e perciò sono da rigettare. Viene la terza su cui non cade nessuna obbiezione: i molti sono per partecipazione dell'idee, que' molti, s'intende che siano sinonimi (univoci) tra di loro: giacchè i molti univoci tra sè hanno l'essere per partecipazione d'un'idea sola. I sensibili, di fatto, non partecipano tutti d'una sola ed identica idea, ma soli quelli che sono d'una stessa specie ed univoci tra di sè. Ora, Aristotile non potrebbe mai aver detto esponendo la dottrina Platonica, che i sensibili siano sinonimi colle idee, quando Platone, comunque l'intenda, dice pure lui stesso che le idee sono omonime colle cose che si fanno a loro immagine. Questa interpretazione par la preferita da Alessandro, e quella su cui si ferma, benchè continui qui emettendo quel dubbio, già riferito, sul senso dell'equivocità in Platone. Ora, questa terza interpretazione è appunto quella sola che si possa ricavare dalla volgata – τῶν συνώνυμων ὁμώνυμα τοῖς εἴδεσιν – e che, eccetto in una parte che passo ad esaminare, ne ricava il Trendelenburg. La volgata perciò non ha nessun vantaggio sull'altra fuori di questo solo: che presta occasione più agevole a frantendere l'εἷναι. In fatti, il Trend. l'ha franteso: peggio il Cousin e peggio il PZ. Hanno creduto che l'ειναι, qui, ammesso l'ὁμώνυμα, possa solamente essere copula, e non verbo sostantivo: e perciò hanno cavato questo senso: - i molti univoci tra sè sono equivoci coll'idee per il parteciparvi che fanno: e, per dirla col Cousin, toutes les choses d'une même classe tiennent leur nom commun des idées, en vertu de leur participation avec elles. Ora, s'è visto da Al. Afrod. che quantunque si variava sopra altri punti dagl'interpreti greci, s'era d'accordo nell'intendere l'εἷναι sostantivamente. E chi considera accuratamente il testo, non avrebbe bisogno di quest'accordo per persuadersene. Aristotile ha detto che Platone sosteneva che i sensibili fossero al di fuori delle idee, e si denominassero tutti da queste; qui dà la ragione di amendue i punti della dottrina: e dice che erano al di fuori delle idee, perchè erano per partecipazione di esse, e ne ricevevano il nome, perchè ciascun gruppo di sensibili univoci tra sè è equivoco coll'idee. Se nel testo mancasse ὀμώνυμα, non ne risulterebbe altro, se non che Aristotile darebbe qui più implicitamente, che non apparrebbe dalla volgata, la ragione del secondo punto: e non meriterebbe biasimo essendo davvero contenuta nella ragione del primo. Chi mi dice, che le cose sono perchè partecipano delle idee, dice ad un tempo, perchè ne ricevano il nome. Pigliando l'εἷναι per copula si avrebbe invece nella lez. volgata solo la ragione del secondo punto, di quello cioè, che ha minor rilievo, e da cui non si può indurre la ragione del primo non risultando dall'avere le cose il nome dalle idee, che ne abbiano l'essere. Oltre di che, questa stessa ragione sarebbe data male: essendo che — e qui si badi — la equivocità od univocità delle idee colle cose non dipende dalla partecipazione delle cose alle idee, ma bensì da un'altra fonte, dalla considerazione propria intrinseca di queste e di quelle. Mi spiego meglio. Le cose partecipano alle idee: sta bene; ma questo spiega perchè n'hanno il nome: ma non varrà già a farci sapere, se siano univoche o equivoche con quelle, ma solo se mi si permette la parola, che sono communivoche. Di maniera che, Aristotile deve aggiunger di suo, se vuole che noi sappiamo, se le sono l'uno o l'altro: e non pretendere di concludercelo dalla partecipazione. Nè davvero lo pretende, se s'interpreta, come si deve, il verbo εἷναι sostantivamente. Adunque, la lezione Brandisiana può essere intesa bene, che è a dire non come l'intende il Trend. Il senso dell'una è conforme a quello dell'altra: solo nella volgata è più esplicito. Basterà questo per escluderla? Non mi pare. Le autorità de' codici si bilanciano; quella degli scoliasti è per la Brandisiana; l'Afrodisio che si dà tanta pena per interpretarla, non sa punto, che si potesse leggere altrimenti; pure, dallo scolio del cod. regio ricaviamo, che quello scoliaste aveva la volgata avanti agli occhi, giacchè annota come variante la Brandisiana. D'altra parte l'ὁμώνυμα è troppo innestato nel periodo e troppo bene e all'Aristotelica, perchè sia un'interpolazione, e mostra più acume che non suole mostrarne un'interpolazione. Non ha nessun incomodo, anzi s'accorda, ed è in rapporto benissimo con quel che precede. Pure manca in alcuni testi, e la mancanza non porta la necessità d'un'interpretazione erronea. Resta dunque che tutte e due le lezioni siano buone, e che vi si possa riconoscere un caso di quelle varietà che derivano da Aristotile stesso ed argomentano la esistenza di parecchie antiche edizioni, e non di sola quella, da cui si ritraeva l'Afrodisio. Io ho ricevuta la volgata; non l'ho fatto perchè creda l'altra peggiore, ma perchè la volgata dà più netto e spiegato il concetto.

(P) Ἐξ ἐκείνων γὰρ κατὰ μέϑεξιν τοῦ ἑνὸς τὰ εἴδη εἷναι τοὺς ἀριϑμοὺς 987 a 21. L'Afrodisio (p. 549 v. 18) dice, che il τοὺς ἀριϑμοὺς sia un caso appositivo di τὰ εἴδη: τὰ γὰρ ὡς ἀριϑμοὶ εἴδη αἱ ἰδέαι, ἐπεὶ αδε εκὶἴ ἄλλα ἐστίν, ὥσπερ οὖν καὶ ἀριϑμοὶ. Lo Zeller (Plat, stud. p. 235 seg. not.) osserva che per intendere a questo modo dovrebbe leggersi avanti τοὺς ἀριϑμοὺς o τουτ'ἐστί o qualcosa simile. Non par davvero che sia necessario: Aristotile ha bene altri ardiri che questo. Pure lo Zeller, con questo solo fondamento, rigetta l'interpretazione dell'Afrodisio; e vuole spiegare così: da quei due, per via della lor partecipazione dell'uno, le idee diventano dei numeri. Ora, il senso s'accorda meglio coll'interpretazione d'Afrodisio che colla sua. Qui s'espone quali secondo la filosofia Platonica siano gli elementi delle specie e perciò degli enti. Che c'entra dunque a dire, come le specie diventino numeri? Bisogna dire qualcos'altro e di più rilievo; come le specie siano. Oltre di che, io non so, in che altra maniera si possa dire che si generino le specie secondo la filosofia Platonica, quando s'approprii alla sola generazione dei numeri, o delle specie solo in quanto numeri, il processo che è detto qui: di partecipazione del grande e piccolo all'uno. Nelle specie, e il dice più giù Aristotile esplicitamente, l'uno è essenza, il grande e piccolo materia: come mai dunque, quella partecipazione le farebbe solo diventare di specie numeri, se questa stessa le fa essere specie? Lo Schwegler (Met. III, p. 62) accetta l'interpretazione e le ragioni dello Zeller, ed ammettendo — e bene al parer mio — contro al Trendelenbug (Plat. de id. doctr. p. 69) che l'ἀριϑμοὺς si deva tenere per predicato e non per soggetto, propone di scancellare il τοὺς avanti ad ἁριϑμοὺς, per conformarsi e alle leggi grammaticali e all'uso più frequente d'Aristotile; es. εἴπερ εἱσίν ἀριϑμοὶ τὰ εἴδη (I 9, 999. 6. 10. al.). Il Bonitz (Met. p. 93) che sta per l'Afrodisio, si serve appunto della necessità di questa correzione per rigettare l'interpretazione dello Zeller. Ora, io credo che nè lo Schwegler nè il Bonitz abbiano ragione ad affermare che Aristotile sia costante nel non mettere l'articolo avanti al nome che ha a servire da predicato in questi casi. Ecco un esempio del contrario: καὶ πότερον αἱ ἀρχαὶ καὶ τὰ στοιχεῖα τὰ γένη ἐστὶν ἢ εὶς ἄ διαιρεῖται ἐνύπαρχοντα ἕκαστον III, 995 a. 28. Qui, come in tutti i casi simili, il Bonitz (Obs. p. 51. seg.) vorrebbe levar l'articolo avanti ad ἀρχαὶ e στοιχεῖα, perchè servono da predicato. Se non che i casi son tanti (III. 3. 998 b. 4: XIII, 7 1081 a 7. τὰς ἰδέας οὐχ ἐνδέχεται ειναι τοὺς ἀριϑμοὺς, et al.) che val meglio dire che Aristotile varia. E varia di certo, per il soggetto: ecco un esempio in cui, a picciolissima distanza, ora gli dà ora gli leva l'articolo: οἱ μὲν πολλοὶ.... ᾤοντο..... τὰς ἀρχὰς τὰς τῶν σωμάτων τῶν ὀντων εἶναι ἀρχάς οἱ δ'ὔστερον.... ἀριϑμοὕς (III. 5. 1002. a. 10-12) Ἀρχὰς τῶν όντων è predicato per il primo e per il secondo membro: ma questo secondo ha per soggetto ἀριϑμοὺς senz'articolo, dove il primo ha per soggetto τὰς ἀρχὰς τὰς τῶν σῶμάτων coll'articolo. Di fatto, il secondo membro s'ha ad intendere come se fosse scritto: οἱ δ'ὕστερον ᾤοντο τοὺς ἀριϑμοὺς εἶναι ἀρχὰς τῶν ὄντων. Ho creduto di dover dire tutto questo per mettere in chiaro l'incostanza di questi usi in Aristotile. Come s'è visto, è un punto di rilievo per la correzione ed interpretazione di parecchi luoghi. In quello dunque che trattiamo, non bisognerebbe emendare, chi volesse seguire l'interpretazione dello Zeller: quantunque questa non si deva accettare, perchè non conforme nè alla dottrina Platonica com'è esposta da Aristotile, nè al senso di tutto il paragrafo.

(Q) Διὰ τὸ τοὺς ἀριϑμοὺς ἔξω τῶν πρώτων εὐϕυῶς ἐξ αὺτῆς γενᾶσϑαι, ὥσπερ ἐκ τινος ἐκμαγείου. 987 b. 33. s. Queste poche parole hanno difficoltà di diverso genere. Alcune, filosofiche, cadono sopra il senso che si debba dare alla denominazione dei primi numeri. L'Afrodisio (P. 991, 38 seg.) gliene dà due, e lascia scegliere: o sono propriamente i numeri primi, quelli che si misurano con l'unità sola, o i dispari. S. Tommaso (Lez. X g. 13 recto. E) preferisce il primo senso: il Bonitz: (Met. p. 95) gli ammette tutte e due: Pierron e Zévort (p. 239) il secondo. Ma per contrario il Trendelenburg (de id, p. 78), lo Zeller (Plat. Stud. p. 255 seg.), lo Schwegler (Ib. p. 65), e il Biese (Philosophie des Aristotel. 1. 382 not. 1) sostengono con buone ragioni ed esempi che i numeri primi sono gli ideali. Il Brandis (Mus. Rhen. III. p. 574. Gesch. der Philos. II. p. 313 xx.), concilia e crede che sono i numeri ideali dispari; e il Cousin (Rap. p. 152) lo segue. E ci vuole più tempo e tanto piato, e il luogo non è qui, ma ne' Prolegomeni. Qui invece mi basta dire che le ragioni che ha portate il Trendelenburg (op. cit. p. 79 seg.) per intendere l'ἐκμαγεῖον, non per il τὸ ἐκμάσσον, come vuole l'Afrodisio, ma per il τὸ ἐκμασσόμενον, cioè è dire per intenderlo non nel senso di tipo, ma in quello di materia ricettiva ed improntabile dal tipo, mi son parute buone e salde. Son parute tali anche all'Hengstenberg, al Cousin, ai Pierron e Zévort, allo Schwegler, al Bonitz. Vedi Plat. Tim. 50 c. Theaet., 191 c.

(R) Οὔτε γὰρ ὁς ὕλην τοῖς αἰσϕητοῖς τὰ εἴδη καὶ τὰ ἐν τοῖς εἴδησιν. 998. b. 2. Ho ricevuta nel testo l'eccellente correzione del Bonitz (Obs. Crit. p. 112. Met. p. 97), che legge τὸ ἓν τοῖς εἴδεσιν. La volgata davvero non ha senso: ed Alessandro che dice τὰ ἐν τοῖς εἴδεσι significare principia idearum, quae ad notionem substantialem pertineant, non ad materiam, oblitus videtur ex Aristotelis certe narratione eandem esse et idearum et rerum sensibilium materiam, cf. ad 6. 987. b. 18 seg., ideoque non posse elementa idearum simpliciter ad formale genus causae referri.

(S) Καὶ τοῖς νῦν ϕαινομένοις μᾶλλον. 989 b. 21. Queste paroline per colpa di quel νῦν, che può coi manoscritti e colle stampe ritenersi, o coll'Afrodisio, col Brandis, col Bonitz, e col Cousin levarsi via, soffrono varie interpretazioni. Di quelli che l'hanno ritenuto, il Brandis (nell'indice della Metafisica), il Breier (Anassag. p. 84), lo Sthar (Iahrb. für wissenschafl. Kritik 1841, Mai, p. 740) e i due Francesi hanno preso ϕαινομένοις per un mascolino; questi ultimi senza dargli nessun senso (aux philosophes de nos jours), il Brejer e lo Sthar interpretando ϕαίνεσϑαι μᾶλλον per ὰποϕαίνεσϑαι σαϕέστερον; e perciò traducendo, i più recenti che hanno parlato più distintamente e che son più chiari. Ora, questa interpretazione mi pare da rigettare; e non perchè come vuole il Bonitz (Met. p. 104), il ϕαινομένοις non si possa intendere mascolinamente, che mi sembra un'affermazione gratuita, ma perchè, come osserva lo Schwegler (ib. p. 75), non si vede nè si dimostra come ϕαίνεσϑαι μᾶλλον possa avere quel senso che gli si vuol dare. Altri ritenendo il νῦν hanno pigliato il ϕαινομένοις per neutro, e spiegano quello che pare o si crede oggidì. Così il Bessarione e lo Schwegler. A costoro davvero non si più oppor nulla, l'uso del ϕαίνεσϑαι in questo senso essendo fuori di dubbio (Anal. pr. I, b. 240. 11. Top. VIII, 5. 159. b. 21. 18. I. 14, 105. b. 1. 2, coll. 104, a 8. Coel. IV. 1 308 a 4. De gener. et corrupt. 1, 325. a 21 in Bonitz e Schwegler). Se non che c'è un altro senso del ϕαίνεσϑαι, il quale, quando s'ommettesse il νῦν, sarebbe qui il più probabile. Si dice ϕαίνεσϑαι delle cose che appariscono a' sensi e dell'evidenza che ci si trova, per opposizione all'evidenza che viene dal discorso o dal raziocinio: παρὰ τὴν ἐν τῷ λόγῳ ἀλήϑειαν καὶ παρὰ τὰ ϕαινόμενα (De An. II. 7. 418. b. 24.: ed Analyt. post. I. 38. 89. a 5: vedi Met. 1. 5. 986. b. 31 e più su b. § 8. 988. a 3. in Bonitz. Met, p. 96). Ora, appunto questo è il senso che dà qui al ϕαινομένοις l'Afrodisio: e tutti quelli che tralasciano il νῦν. Quelle paroline dunque possono interpretarsi di queste tre maniere: (col νῦν): alle opinioni più ricevute oggidì, o a' filosofi che hanno parlato più spiegatamente: ovvero (senza il νῦν): e in maggiore accordo con quello che appare, che si vede. Escludo la prima per la ragione detta: e la terza, perchè quantunque consenta al Bonitz, che ad Aristotile dovesse parere più vicino al vero, chi come lui, distingue in qualche modo la forma della materia, pure non mi parrebbe che questa distinzione sarebbe ben chiamata ϕαινομένη, apparente, cadente sotto ai sensi. Invero, richiede de' raziocinii ad esser fatta, e non è data a un tratto e solo dalla sensazione. Resta dunque la seconda: ed è appunto quella che ho scelta. Potrebbe altri, escogitare una quarta interpretazione: ed è ritenendo il νῦν e pigliando ϕαινομένοις per maschile, tradurre: e a' filosofi, che più appaiono, che menano più rumore oggigiorno. L'ho notata per aggiugnere che non sarebbe neppur buona. Difatto 1.o ha già detto, che rassomiglia a' più recenti; 2.o e poi l'espressione avrebbe qualcosa di spregiativo; ora, Aristotile è tra quegli a cui Anassagora, così trasformato, rassomiglierebbe: 3.o per ultimo, l'esposizione di tutta questa trasformazione del sistema d'Anassagora è indirizzata piuttosto a lodarlo che a biasimarlo.

(T) Καϑ᾽ ἕκαστον γὰρ ὁμώνυμόν τί ἐστι, καὶ παρὰ τὰς οὐσίας τῶν τε ἄλλων ὦν ἐστὶν ἕν ἐπὶ πολλῶν, καὶ ἐπὶ τοῖςδε καὶ ἐπὶ τοῖς ἀϊδίοις 990 b. 6. Nel luogo parallelo del l. XIII 4. 1019 a 2. queste parole sono scritte così: καϑ᾽ ἕκαστον γὰρ ὁμώνυμόν ἐστι καὶ παρὰ τὰς οὐσίας, τῶν τε ἄλλων ἐν ἐστίν ἐπὶ πολλῶν, καὶ ἐπὶ τοῖωσδε καὶ ἐπὶ τοῖς ἀϊδίοις. Si vede, che nella maniera di leggerle manca il τί dopo ὁμώνυμόν, e l'ὦν dopo ἄλλων. Lasciano la prima variante, che importa poco al senso e vediamo della seconda, se valga la pena di accettarla qui. Il Trendelenburg (op. cit. p. 22) per il primo ha comparato i due luoghi e ha tolto di qui l'ὦν. Il Bonitz che nell'Obs cit. p. 75 l'aveva seguito, nel commentario alla Metaf. p. 108 si disdice e ritiene l'ὦν continuando invece a scancellare solo il τε tra τῶν ed ἄλλων, a fine di cavare questo senso: singulorum rerum generum ponuntur ideae cognomines, et praeter substantias etiam reliquorum, quorumcumque multitudo unitate notionis continetur etc. In quanto a' fonti critici, tutte l'edizioni prima della Brandisiana, qui, ed anche questa nel libro XIII, e i manoscritti quasi tutti qui e tutti nel libro XIII omettono l'ὦν. Il τε, poi, da un manoscritto in fuori, e qui e nel libro XIII, è dato da tutti i testi e manoscritti. L'autorità dell'Afrodisio è incerta e dubbia. In quanto a' traduttori, l'ant. traduttore, fin dove si può congetturare, omette il τε e l'ὦν: il Bessarione solo l'ὦν: l'Argiropulo solo il τε il Cousin, gli altri due Francesi, l'Hengstenberg, lo Schwegler ritengono l'uno e l'altro. In tanta varietà si vede non ci essere altro mezzo per risolversi che badare al senso ed al testo. Ora, mi pare che ne risulti questo. Aristotile ha cominciato per dire: καϑ᾽ ἕκαστον ὁμώνυμον τί ἐστι. Καϑ᾽ ἕκαστον che? Voglio dire, dopo detto καϑ᾽ ἕκαστον, bisognava spiegare, se si dovesse intendere che ciascuna cosa individuale (che era il senso più ovvio dell'ἕκαστον) avesse un'idea corrispondente ad essa e solo ad essa. Si vede dunque che questa prima proposizione richiede spiegazione: e che la spiegazione richiesta consiste nel dare una definizione più esatta dell'idea. Di più, con questa altra definizione si doveva render ragione di quello che s'era detto più su; che ci fossero tante idee quante cose e non meno. Anche questa parità asserita del numero delle idee con quello delle cose faceva correre a pensare che, dunque, ogni cosa avesse una sua idea. Conclusione falsa nella quale, per ciò che dell'idea s'era detto fin qui, si cadeva da due lati. A codesto deve ovviare ed ovvia di fatto quel che segue. L'idea, vi si dice, è un ἔν ἐπὶ πολλῶν παρὰ τὰς οὐσίας καὶ παρὰ τἄλλα. Se non che Aristotile ha variato nell'esprimere i due generi di cose moltiplici che s'unizzano nell'idea. Ne distingue, di fatto, due: l'uno sono le οὐσίαι o essenze sostanziali, singolari: l'altro che non determina, lo chiama senz'altro τὰ ἄλλα. Avrebbe potuto, dunque, quando non avesse voluto ometter nulla scrivere: ἐστὶν ἔν ἐπὶ πολλῶν τῶν οὐσιῶν παρὰ τὰς οὐσίας, καὶ ἐπὶ πολλῶν τῶν ἄλλων παρὰ τἄλλα. Se non che è contro all'uso d'Aristotile di sprecar parole: e sarebbe stato contrario alla solennità della formola ἔν ἐπὶ πολλῶν il non darla sola e netta. Perciò esprimendo nel primo membro dell'inciso il modo d'essere dell'unità ideale (παρὰ τὰς οὐσίας: sussistenza separata da quelle moltiplicità di cui sono unità), e nel secondo membro le moltiplicità da natura diversa dall'essenze singolari, ha scritto: παρὰ τὰς οὐσίας τῶν τε ἄλλων ἐστίν ἔν ἐπὶ πολλῶν.

Che cosa farebbe l'ὦν qui? non so vederlo. Potrei dimostrare che non solo conturba, ma guasta il senso, esaminando le traduzioni altrui: ma l'andrebbe troppo per le lunghe. Mi basti aver fatto vedere che non serve a nulla; perchè resti inutile l'interpolarlo nel testo a malgrado di quelle tante autorità critiche che le fanno contro. Che vuol dire τὰ ἄλλα? Il Bonitz (l. c.) dice: le qualità; le affezioni, gli accidenti. Mi pare anche migliore l'interpretazione ch'ho data in nota. Τὰ ἄλλα sono tutte le entità che vanno sotto il nome di essenze, ma che non sono dei singolari sussistenti. Perciò sono tutte le astrazioni che si fanno sui singolari, e colle quali si formano dei generi e delle specie soprastanti a' singolari sotto vari aspetti e relazioni (Cat. 5 p. 2 a 12, seg.). Il che conceduto, resta ancora spiegato, perchè ci fossero tante e più idee che cose, senza che ciascheduna cosa singolare avesse però un'idea corrispondente a lei sola. Oltre di che dall'interpretazione risulta una tal definizione dell'idea, quale è richiesta dalle obbiezioni che seguono: soprattutto da quelle del 4, 10, 11, 12.

(U) Οὺ γὰρ κατὰ συμβεβηκὸς μετέχονται, ἀλλὰ δεῖ ταύτῃ εκάστου μετέχειν ᾗ μὴ καϑ᾽ ὑποκειμένου λέγεται. 990. b. 30. Trascriverò qui una parte della nota (p. 113) del Bonitz nel suo Commentario alla Metafisica: «Si ea argumenta, ait Aristoteles, constanter tenemus, a quibus profectus Plato ideas esse statuit, κατὰ μὴν τὴν ὑπόληψιν - ἰδέας efficitur ut non substantiarum solum, sed etiam aliarum rerum ponantur ideae; quod quum supra demonstratum sit b. 10-15 (§ 2); per parenthesin in memoriam legentibus revocat b. 24-27: καὶ γὰρ τὸ νόημα – συμβαίνει τοιαῦτα (difatto, l'intellezione-simili). Sin autem quaerimus, quid sit necessarium in idearum natura, et quid ipsi idearum auctores de iis statuerint, non esse apparebit ideas nisi substantiarum. Hoc ut comprobet, tamquam fundamentum argumentationis, concessum et probatum ab ipsis Platonicis, ponit esse τἁ εἴδη μεϑεκται, i. e hanc esse idearum naturam ut communionem cum iis habeant res sensibiles. Huic autem accedere opportet tamquam alteram ex qua concludat propositionem, quam Aristoteles ut vulgatissimam neque ulli lectori ignotam significare omisit (o meglio, la quale vuol dedurre e si deduce a un tempo dallo stesso ragionamento, come ho mostrato alla nota al §): ideas esse substantias. Iam si participantur ideae, ea participatio, quoniam rebus sensibilibus tribuit ut id sint quod sunt simplex esse debet et substantialis, non accidentalis, h. e. ideae participantur, quatenus sunt substantiae non quatenus aliud quid, veluti aeternitas iis accidit. (δεῖ. int. τὰ καϑ᾽ ἓκαστα καὶ αἰσϑητὰ, ταύτῃ εκάστου. int. τῶν εἰδῶν, μετέχειν, ᾗ. int. τὸ μετεχόμενον sive ἡ ἰδέα, μὴ καϑ᾽ ὑποκειμένου λέγεται i. e. ᾗ οὐσία ἐστίν ἀλλ ᾽ οὐ συμβεβηκὸς οὐσία τινί).

Questa interpretazione mi pare perfetta, e però l'ho seguita per l'appunto. Solamente credo che il Bonitz, se avesse ben colta quella complicazione e duplicità del ragionamento di Aristotile che ho sviluppata nella nota, non avrebbe creduto necessario di correggere il principio del §. seguente, e leggere non come sta ed ho tradotto, ὥστ ᾽ ἔσται οὐσία τὰ εἴδη (b. 34) - ma - ὥστ ᾽ ἔσται οὐσίας o οὐσιῶν τὰ εἴδη.

L'emendamento non solo ha l'autorità dei codici, ma anche quella del senso contro di sè. I §. 4 e 5 apparecchiano il sesto. Nel primo si dimostra che e l'idee ed i singolari che partecipano, devono essere essenze; nel secondo si prova da capo: nel terzo, si dimanda se dunque saranno essenze della stessa specie o di diversa, e si cominciano a proporre le obbiezioni che occorrono in ciascun caso. Questa dimanda non si sarebbe potuta fare, se non si fosse dimostrato prima che e l'idee e i singolari sono essenze sostanziali. Aristotile dimostra appunto nel § 4 e 5 che la qualità di essenza ne' singolari implica la qualità d'essenza nelle idee e viceversa.

(V) La punteggiatura di questo paragrafo è stata corretta dal Bonitz. Obs. Crit. p. 79. Le edizioni tutte prima di lui ponevano come le prime del seguente §. le ultime di questo. È pure evidente che l'eternità di Socrate non ha che far nulla colla dimostrazione della moltiplicità degli esemplari, che si principia nel §. 11. La punteggiatura adottata dal Bonitz è appoggiata all'autorità dell'Afrodisio 514. b. 11. 575. a. 40 e del Bessarione: e accettata dallo Schwegler (p. 90).

(X) Λέγω δ᾽οἷον, εἴ ἔστίν ὁ Καλλίας λόγος, ἐν ἀριϑμοῖς κυρὸς καὶ γῆς καὶ ὕδατος καὶ ἀέρος, ἄλλων τιμῶν ὑποκειμένων ἔσται, καὶ ἡ ἱδέα ἀριϑμός καὶ αὐτοάνϑρωπος, εἴτ ᾽ ἀριϑμός τις ὂν εἴτε μή, ὃμως ἔσται λόγος ἐν ἀριϑμοῖς τινῶν, καὶ οὐκ ἀριϑμός, οὐδ ᾽ ἔσται τις διὰ ταῦτα ἀριϑμός. 991. 16. 16-21. Alessandro pare che leggesse altrimenti una parte di questo periodo: secondo lui, dopo ἀέρος si dovrebbe continuare così: ἤ ἄλλων τινῶν ὑποκειμένων ἔσται, καὶ ἡ ἰδέα ἀριϑμός, ὁ αὐτο άνϑρωπος, εἴτ ᾽ ἀριϑμός τις ὧν εἴτε μή, ομως ἔσται κ. τ. λ.. Questa lezione che non avrebbe una difficoltà che ha la nostra, n'avrebbe parecchie poi che la nostra non ha. Di certo, quell'apposizione di ἀριϑμός ὁ αὐτοάνϑρωπος non fa bel vedere: ed assai meno la ripetizione dell'ἔσται - ἔσται καὶ - ὅμως ἔσται. Perciò, come ne' nostri codici non se ne trova traccia, val meglio di lasciarla e di lavorar sulla nostra. Un primo errore, facile a scorgere, è nella punteggiatura; quel comma avanti a καὶ ἰδέα ἀριϑμός, che hanno le edizioni ed il Bessarione e ritengono il Cousin e PZ, fa due danni: leva ogni utilità a queste parole ed un nominativo adatto ad ἔσται. Perciò il Bonitz (Obs. cric, p. 29 Met. p. 112) ha fatto molto bene a proporre di tor di mezzo quel comma. Resta dunque: καὶ ἡ ἱδέα ἀριϑμός, ἔσται ἄλλων τινῶν ὑποκειμένων. Ora, qui non abbiamo peranche nulla: giacchè si possono presentare due interpretazioni di quest'inciso. O ἀριϑμός è un caso appositivo di ἱδέα o è il predicato di ἔσται. Ci è delle obbiezioni per l'una maniera e per l'altra. Chi preferisce la seconda, badi che qui sotto il discorso sta nel distinguere λόγος ἐν ἀριϑμοῖς e ἀριϑμός; e l'argomento gira su questo, che se i sensibili son λόγοι ἐν ἀριϑμοῖς, anche le idee devono essere λόγοι ἐν ἀριϑμοῖς e non ἀριϑμοί.

Ora, sia pure che Aristotile scambii talora le due espressioni (Met. XIV. 5, 1092 b. 18. b. 1092 b. 27): di certo, scambiarle qui, osserva bene il Bonitz (Met. l. c.), sarebbe inescusabile. Ora, le scambierebbe di certo, se volendo indurre dall'essere il Callia reale una proposizione, che anche la sua idea deve essere una proposizione, scrivesse invece che deve essere un numero. Perciò per minor male io m'atterrei alla prima maniera: a pigliare, vo' dire ἀριϑμός per un appositivo di ἱδέα. Ma, dice il Bonitz, non si trova esempio di una apposizione simile e l'è dura troppo. A me davvero non pare, quantunque diversa, più dura di quella, che s'è dovuta ammettere più su (v nota P.) τὰς ἰδέας..... τοὺς ἀριϑμοὺς. Quando non si potesse far proprio a meno dell'articolo, del che, in uno scrittore come Aristotele si può dubitare, si scriva καὶ ἡ ἰδέα, ὁ ἀριϑμός. Certo questo val meglio che di mettere addirittura quello che ci vorrebbe intepretando della prima maniera: καὶ ἡ ἰδέα λόγος ἐν ἀριϑμοῖς.. Non sono finiti gli impicci. Quello che segue n'ha ancora parecchi: καὶ αὐτοάνϑρωπος, εἴτ ᾽ ἀριϑμός τις ὢν εἴτε μή, ὅμως ἔσται λόγος ν ἀριϑμοῖς τινῶν, καὶ οὐκ ἀριϑμός: e l'idea dell'uomo, o che sia o che non sia un numero, sarà sempre una proporzione in numeri di alcune cose e non numero. L'è strana davvero: O che sia un numero o che non sia, non sarà un numero. Il Bonitz ha creduto che questo bisticcio si potesse levar via, aggiungendo ἀπλῶς ad οὐκ ἀριϑμός. Non mi pare necessario: contrapposto qui ἀριϑμός ad ἀριϑμός τις ha già quel senso che gli darebbe l'ἀπλῶς. Perciò ecco come mi pare d'intendere il tutto. Ad Aristotele importa dimostrare che quando i sensibili si facciano proporzioni di numeri, anche le idee, loro cause, si devano far tali e però non si devano più dire numeri ma proporzioni di numeri. Ora, gli si poteva obbiettare, che una proporzione può essere appunto un numero che indichi la differenza di parecchi altri. Due, per esempio, si può pigliare come un numero da sè, e come il numero che esprima la proporzione di queste serie: 2, 4, 6, 8, 10... Questa obbiezione l'accenna e la scansa colle parole: εἴτ ᾽ ἀριϑμός τις ὢν εἴτε μή. Non importa, egli dice, che questa proporzione s'esprima anch'essa come un numero: se questo numero non è l'idea, che in quanto esprime una proporzione, basta: l'essenza dell'idea sarà d'essere proporzione e solo per accidente d'essere numero. Questa interpretazione è la sola possibile nel testo come sta, e non vedo via di correggerlo. Restano le ultime parole: οὐδ᾽ ἔσται τις διὰ ταῦτα ἀριϑμός. Lo Schwegler (Op. c. p. 73) vorrebbe correggere οὐδ ᾽ ἔσται τις διὰ ταῦτα ἰδέα ἀριϑμός. Non ci vedo nessuna utilità. Questa proporzione non è una pura ripetizione della precedente, quando s'intenda come va. Invece, è la conclusione generale di tutto il paragrafo: se e i sensibili e le idee son proporzioni, e nè gli uni nè le altre numeri, non ci sarà numero di sorta nè sensibile nè ideale.

(Y) ...Τὰ μεταξὺ λεγόμενα ὑπό τινων ἀπλῶς· ἢ ἐκ τίνων ἐστιν ἀρχῶν; ᾒ διὰ τί τὰ μεταξὺ τῶν δεῦρο τ᾽ ἔσται καὶ αὐτῶν; 991 b. 31 — Leggo col Bonitz (Obs. Crit. p. 65 Met. p. 121), e per le stesse ragioni ed autorità che ha lui: ὑπό τινων· ἂ πῶς ἢ ἐκ τίνων ἔσται ἀρχῶν; ἢ δια τί μεταξὺ κ. τ. λ.

(Z) Ἒκϑεσις. Quale sia il processo metodico indicato da questa parola che pare tecnica tra' Platonici, è spiegato dall'esposizione dell'Afrodisio. Il nome credo che derivi dal metter fuori (ἐκτίϑεναι), estrarre il comune dentro alle percezioni singolari; separarlo e farlo stare da sè, estrinsecarlo, in somma, come spiega Aristotele stesso XIV. c. p, 1086 b. 7. «Quod enim», dice il Bonitz (Obs. cit. p. 129) notionem universalem quasi excipiunt et exserunt e multitudine earum rerum, in quibus cernatur, eam ἐκτίϑεναι παρὰ τὰ πολλά dicuntur; quod autem illam universalem notionem ac per se, αὐτὸ καϑ᾽ αὐτὸ exsistere statuunt eandem dicuntur χωρίζειν. Vedi Met. III b. 1003. a. 10 VII, 6. p. 1031 b. 21 XIV 3. 1090. a. p. 17. Analyt. pr. I, 6, p, 28, a, 24, b, 14 Waitz ad soph. elench. 22. 179, a 3. Schwegler l. c. p. 98. A me, la parola estrinsecazione colla quale mi sono risoluto a tradurre ἔκϑεσις, non mi finisce del tutto: chi sa, me ne suggerisca una migliore.

(AA) Καίτοι ἔδει, εἴγε πάντων ταῦτα στοιχεῖά ἐστιν ἐξ ὧν κ. τ. λ. 993 a 9. Il Bessarione ha letto ταυτὰ in luogo di ταῦτα; giacchè traduce eadem: e così vorrebbe leggere lo Schwegler (op. cit. p. 101), e il Bonitz (Met. p. 125) gliene acconsente. A me pare che sbaglino tutti e tre. Chi sa gli elementi delle cose e i Platonici gli sanno, poichè gli enunciano e gli espongono, potrà anche conoscere in essi tutte le cose che se ne compongono. Se gli elementi sono identici, ma però non si sanno, non serve a nulla quest'identità loro per conoscere le altre cose. Però il concetto su cui gira l'argomento, non è l'identità degli elementi, ma il conoscersi quali sono e l'essere appunto quelli che si son detti. Se fossero diversi e si conoscesse quali siano i componenti di ciascun ordine di cose, tornerebbe tutt'uno. Che poi componendosene ogni cosa, siano identici per tutti, si vede da sè: e non si può ricavare come leggesse Alessandro, dal vedere che (587. a. 89) nello sviluppar l'argomento, accenni a codesta identità. Anzi chi legge il suo scolio attentamente, si persuade che aveva la stessa lezione nostra ταῦτα. Più su (a. 5) ho letto ζα e σδα. Vedi l'Afrod. 586 b. 19 e Schweler op. cit. p. 100. La volgata non ha senso. Non credo, che più giù (X. 2. a. 19) bisognino quelle mutazioni, che propongono lo Schwegler (p. 101) e il Bonitz (Met. p. 126). Dalla traduzione mia stessa si può cavare quanto e come mi pare agevole di difendere e spiegare la volgata.

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