NOTE AL LIBRO QUARTO

(A) Ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρκὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν δῆλον ὡς ϕύρεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καϑ᾽αὑτήν (1003. a. 26. seg.) Qui l'Afrodisio (637. a. seg.) par che leggesse καϑ᾽αὑτὰς in luogo di καϑ᾽αὑτήν; di maniera che si sarebbe dovuto intendere, non che i principii primi devano essere principii d'una sostanza, ma che devano essere sostanziali essi stessi. Ora, come da questa seconda tesi alla conclusione, che la filosofia studia l'ente in quanto ente, c'è che ire, il luogo parve all'Afrodisio oscurissimo ed oscurissimo per soverchia brevità. La lezione nostra volgata, seguita dall'antico traduttore e dal Bessarione, è l'unica buona, e che tale sia, vien dimostrato dal seguito; εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μἠ κατὰ συμβεβηκὸς, ἀλλ᾽ᾖ ὂντα Ib. p. 28, 30. Lo Schwegler (ib. p. 151), che non vede veruna connessione tra le due parti di questo periodo, e come la seconda si ricavi necessariamente dalla prima, propone parecchi emendamenti: ora, come la connessione tra le due parti di questo periodo e il periodo precedente è tanta quanta ce n'ha tra le due premesse e la conchiusione d'un raziocinio, lascerò stare gli altri emendamenti, e discuterò solo uno accettato anche dal Bonitz (Met. p. 172). Consiste in mutare quell'ultimo ᾗ ὄντα in ᾗ ὄν. Gli è vero, com'egli dice, ch'è più usitata la formola τὸ ὄν ᾗ ὄν; e basta veder qui stesso al v. 21 a. v. 24 a. 27. a. v. 31. a.; ma questo non vuol già dire che Aristotile non possa variare: e che si deva correggere il testo, anche quando è facile scorgere perchè abbia variato, e la formola trascelta non sia strana nè nuova. E qui si ritrova tal quale (1003. b. 16) più giù, ed è facile a vedere che poichè ha cominciato a parlare degli elementi degli enti (στοιχεῖα τῶν ὃντων), la deduzione avrebbe scapitato in chiarezza, se avesse finito per parlare degli elementi dell'ente. Però quando io dovessi cambiare qualcosa, cambierei piuttosto τοῦ ὄντος in τῶν ὄντων. Ma se si bada, non è neppure necessario. Quelle ultime parole del periodo si devono e si possono intendere come se fossero scritte così: ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἷναι τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων μὴ κατὰ συμβεβηκὸς, ἀλλ᾽ᾗ ὄντα.

(B) Τάτε εἴδη τῶν εἰδῶν 1003, b. 22. Leggo col Bonitz (Met. p. 174) δὲ in luogo di τε. Quantunque l'autorità delle edizioni e dei codici, da uno in fuori, sia per la volgata, il senso e l'Afrodisio sono per l'emendamento: e mi par che bastino.

(C) Οὐχ ἕτερόν τι δηλοῖ κατὰ τὴν λέξιν ἐπαναδιπλούμενον τὸ εἷς ἐστιν ἄνϑρωπος καὶ ἐστιν ἄνϑρωπος 1003. b. 27-29. La volgata aveva ἐστιν ὁ ἄνϑρωπος καὶ ἄνϑρωπος καὶ εἰς ἄνϑρωπος; lezione migliore della Bekkeriana perchè si riconosce più facilmente per cattiva. La Bekkeriana par buona; ma di grazia, dove è la frase duplicata, che si deve riscontrare coll'altra: l'uomo è uno? o s'assume, che a dire l'uomo è uno, ci ha una duplicazione nel concetto? Resterebbe inutile tutto il periodo. Ci è, gli è vero, ma resta a mostrarlo comparandola a una frase identica di senso in cui la duplicazione sia esplicita. Ed è mostrato, ove s'accetti la lezione dell'Afrodisio: εἰς ἐστιν ἄνϑρωπος καὶ ἔστιν ἄνϑρωπος ἄνϑρωπος. La volgata è derivata da una lezione simile, in cui l'ordine delle due frasi era inverso. Il Bonitz che (Met. p. 175) trova migliore la lezione Afrodisiana, pure non l'accetta nel testo: e non so perchè, davvero.

D) Καὶ τῶν ἄλλων τῶν τοιούτων. 1003. b. 36. Due codici aggiungono: καὶ τῶν τούτοις ἀντικειμένων. E m'è paruto doverle aggiungere ancor io, perchè e l'Afrodisio l'ha lette, e il senso le richiede. Altrimenti, osserva bene il Bonitz (Met. p. 177), come parlerebbe mai de' contrarii nel verso che segue?

(E) Avevo già corretto un pezzo fa la punteggiatura e la lezione che il Bekker dà di questi periodi. Dovrei mostrare, perchè l'abbia fatto, se quel sottile ed elegante ingegno del Bonitz (Met. 178 seg) non s'accordasse affatto con me, e non risparmiasse così colla sua una lunga nota a me e a' miei lettori.

(F) Chi seguisse il testo Bekkeriano, dovrebbe tradurre: È adunque manifesto quello che s'è detto nelle quistioni che ecc. Ma l'ὃπερ ἐν ταῖς ἀπορίαις ἐλέχϑη manca in due codici: e a me come al Bonitz (Met. p. 181), pare che faccia bene a mancare. Di certo, è detto il medesimo, due righi più giù, e con aria più aristotelica: gli era uno de' dubbii. Perchè ripetere due volte a così poca distanza e senza necessità veruna?

(G) Dopo queste parole, ce ne sono parecchie altre nel testo che non ho tradotte: ἔτι δὲ ὁ τοῦτο συχχωρήσας συγκεχώρηκέ τι ἀληϑὲς εἶναι χωρὶς ἀποδείξεως, ὥστε οὐκ ἂν πᾶν οὕτως καὶ οὐχ οὕτως ἔχοι 1006. a. 25. 28. Oltre di che, chi conceda questo, ha già concesso senza dimostrazione che ci sia qualcosa di vero, di maniera che non ogni cosa sarebbe insieme così e non così. Ora, questo periodetto manca nella maggior parte de' codici e non è tradotto, nè dall'antico traduttore latino, nè dal Bessarione nè del Perionio (p. 38). Gli è ben vero, che l'Afrodisio non solo l'ha letto, ma l'ha anche commentato così: se uno concede che chi si serve della parola, vuol significare qualcosa per via de' vocaboli che adopera, non mancherà la confutazione: giacchè chi concede questo ha già dichiarato e fissato qualcosa: e non afferma del pari due cose contrarie: perchè chi concede questo, non dice che il vocabolo tanto ha quanto non ha un significato, ma dice che ha davvero un significato. Non so però capire, come al Bonitz (Met. p. 195) sia parso, che l'Afrodisio creda che questo periodetto non appartenga al testo, ma sia da riguardarsi come un lemma. Non solo lo commenta così alla larga, ma fa precedere il commento dalle parole usuali e solenni: τὸ λεγόμενον τοιοῦτον ἐστιν: quello che si vuol dire, è questo. Il Sepulveda l'intende a modo mio (p. 61). Val meglio adunque dire, che l'autorità dell'Afrodisio non basta a levare al periodetto presente la faccia di uno scolio interpolato. Gliela riconosce chi bada, che nel primo suo inciso non ci sta quello che ci trova l'Afrodisio: ma bensì che chi ha concesso che le parole hanno un significato, ha già concesso un vero, qualcosa, senza richiederne dimostrazione: ora, questa concessione d'un vero senza dimostrazione, quantunque sia vero che si farebbe, non serve qui punto al corso del ragionamento, anzi l'interrompe, dovendosi qui dimostrare, non che la concessione d'un vero si possa e deva fare, senza che quel vero sia dimostrato, ma che la certezza del significato delle parole implica la determinazione e la distinzione de' concetti. Il primo inciso adunque nel nostro periodo, non ha che fare qui: il secondo non ha che fare col primo: dall'ammissione d'un vero senza dimostrazione si può ricavare, che, adunque, la dimostrazione non sia sempre necessaria nè si deva sempre richiedere, ma non già che la natura delle cose sia fissa e che ciascun concetto sia determinato, e non si possa confondere e scambiare col suo contrario. Per conseguenza questo benedettissimo periodetto ha due peccati: s'è intromesso in casa altrui, e non ci sa stare. Mi pare che bastino e soverchino per esser cacciato.

(11) Oὐδὲν ἔσται πρῷτον τὸ καϑόλου. a. 34. Avevo vista già da me la necessità d'accettare la congettura dell'Afrodisio, che voleva leggere καϑ᾽οὗ in luogo di quel καϑόλου, che non ha senso. Ora che il Bonitz dopo averla difesa nelle sue osservazioni (p. 115) l'ha ricevuta nel testo, e lo Schwegler l'ha tradotta e gagliardamente sostenuta (Met. III, p. 171), non mi pare che ci sia più luogo a dubbio o a discussione.

(I) Ἀλλὰ μὴν λεκτέον γ᾽αὐτοῖς κατὰ παντὸς τὴν κατάϕασιν ἢ τὴν ἀπόϕασιν 1007. b. 29.

Il senso non è dubbio: quello che segue richiede che qui si dica che d'ogni cosa s'ha, secondo costoro, a poter negare o affermare qualunque altra. E sarà dunque necessario di correggere col Bonitz: κατὰ παντὸς παντὸς τὴν κατάϕ. κ. τ. λ.? Non mi pare: invitis codicibus, a dispetto, vo' dire, de' codici, e senza una necessità vera. Qui, ἡ κατάϕασις καὶ ἠ ἀπόϕασις s'hanno a pigliare in senso generale ed assoluto come chi dicesse in italiano: per ogni cosa, secondo loro sta bene l'affermare o il negare. Che l'articolo in greco faccia quest'ufficio di dare un senso assoluto generale alla parola a cui si premette, non è una cosa da doverla provare. L'Afrodisio non può servire a correggere il testo, non si potendo, senza una sua dichiarazione esplicita o qualcosa di simile, credere che leggesse davvero nel testo quelle parole che gli parrà bene d'aggiungere ad una frase per renderne il senso più agevole.

(L) Μᾶλλον ἡ αὐτοῦ 1008, a. 1. Così il Bekker col Brandis: ma evidentemente s'ha a leggere coll'antico traduttor latino, col Bessarione, coll'Argiropulo, coll'Aldina e la Silburgiana, con due codici e coll'Afrodisio: μᾶλλον ἢ ἡ αὐτοῦ. Altrimenti non ci ha senso. Certe volte que' gran talenti per ismania di rifare, danno in ciampanelle. Aguzzano gli occhi, più che sartor fa nella cruna, assai più, perchè finiscono per non vedere. È vero che abbiamo poco dritto di parlare, noi: loro fanno e disfanno e noi stiamo a guardare quando ci pare che ne valga la pena. Ed è anche un Tedesco, che ha visto che il Bekker avea corretto a sproposito e ripescato del fradicio (Bonitz, ob. p. 40). Del resto, l'avea già visto da me: quando s'ha poco, preme.

(M) Καὶ πρὸς τὸ ἔτερον ἵστασϑαι τῶν τὴς ἀντιϕάσεως ἀξιωμάτων. Br. p. 136. 30. Leggo πρὸς τὸ μηδέτερον. Altrimenti, non ci ha nesso. Chi nega il principio di contradizione, non può fermarsi nell'affermazione o nella negazione: anzi, ha sempre a rifarsi sull'una e sull'altra: ora, Siriano, secondo la lezione stampata, direbbe appunto il contrario; che deva, cioè, fermarsi nella negazione o nell'affermazione per forza della sua stessa dottrina. Invece, chi riconosce il principio di contradizione, quello bisogna che si fermi nell'una o nell'altra: chi lo nega, va sempre dall'una all'altra e dall'altra all'una; nè può abbracciare l'una senza abbracciare a un tempo anche l'altra, nè l'altra senza che abbracci insieme anche l'una.

(N) Καὶ εἰ τὸ μὴ εἴναι, βεβαίον τι καὶ γνώριμον· γνωριμοτέρα γὰρ ἂν εἴν ἡ ϕάσις ἡ ἀντικειμένη. 1008, a. 16. E se c'è il non essere, ci è dunque qual cosa di fermo e di cognito: giacchè sarebbe più cognita l'affermazione contrapposta. Questa è la lezione del Bekker e del Brandis, e la maniera di tradurla. Non si può dire, neppure qui, che siano stati fortunati nel correggere. Le antiche edizioni colla più parte dei codici, coll'Afrodisio (p. 663. b. 26) e col Bessarione, non avevano il γὰρ dopo γνωριμοτέρα: e posta una virgola dopo γνώριμον, cominciavano l'apodosi da γνωριμοτέρα. Senza dubbio, la lezione antica val meglio della nuova, che non vale nulla. Perchè in questa ci fosse, non ch'altro, un senso, dovrebbe leggersi: γνώριμος γὰρ κ. τ. λ. Di fatto, se in non essere c'è, si dice, c'è qualcosa di cognito e di fermo: e perchè? Perchè sarebbe cognito l'essere? No, perchè sarebbe più cognito. È, come a dire: tu sei uomo, perchè sei simile a me, ed io sono più di uomo. Il Bonitz vorrebbe poterne ricavare un altro senso; cioè: se c'è il non essere, questo non essere sarebbe già qualcosa di fermo e di cognito: perchè l'affermazione contrapposta sarebbe più cognita. Sia pure: a me non pare il senso più naturale, ma sia: non è meno assurdo, a dire, che la negazione deva esser ferma e cognita, perchè l'affermazione è più ferma e più cognita. Invece, nella volgata, il senso è piano e giusto: e si confronta con quegli altri passi d'Aristotile, che ho citati in nota. Perciò bisogna rivocarla col Bonitz, che dopo averla difesa nelle osservazioni (p. 87), l'ha rimessa nel testo, senza farci sviare dallo Schwegler, che con ragioni sottili, ma ragnate, s'è fitto in testa di far passare per buona la Bekkeriana.

(O) Εἰ δὲ μηϑὲν ὑπολαμβάνει ἀλλ᾽ὁμοίως οἴεται καὶ οὐκ οἴεται. τί ἂν διαϕερόντως ἔχοι τῶν πεϕυκότων. 1008. b. 11. Che vuol dire πεϕυκότων? Se, piante, come si ricaverebbe dal passo parallelo del § 2 Cap. 4., e dal commentario dell'Afrodisio (665. b. 31), sarebbe la prima ed unica volta che πεϕυκὸς avrebbe questo senso in Aristotile. Ci deve essere del guasto: e non ci vedo un rimedio. Il Bonitz (obs. p. 88), a dirittura vorrebbe leggere ϕυτῶνογε ϕυτῶν, e stampa ϕυτῶν; ma mi pare arrischiato: perchè non vedo come ϑυτῶν si fosse potuto corrompere nella lezione presente. I codici non aiutano: e lascio lì.

(P) Περὶ δὲ τὴς ἀληϑέιας, ὡς οὺ πᾶν τὸ ϕαινόμενον ἀληϑές, πρῶτον μὲν ὅτι οὐδ᾽ἡ αἴσϑησις ψευδὴς τοῦ ἰδίου ἐστιν, ἀλλ᾽ἡ ϕαντασία οὐ ταυτὸν τῆ αἰσϑήσει 1010. b. 1. seg. Tenendo l'interpretazione mia, che vedo essere identica con quella dello Schwegler, il testo non abbisogna di dichiarazione nè di correzione. Ma quella dell'Afrodisio, come s'è notato, è diversa, e, seguita dal Bonitz, aumenta d'autorità. Secondo questa, nelle parole οὐδ᾽ἡ - ἐστιν sarebbe esposta una obiezione degli avversarii, i quali farebbero osservare, che nessun senso è bugiardo sul proprio e perciò si deva credere a tutti e seguirli in tutte le loro variazioni: e invece nelle parole ἀλλ᾽ἡ - αἰσϑήσει s'avrebbe a trovare la risposta di Aristotile; il quale opporrebbe, che quello che dicono potrebbe servire a dimostrare la verità della sensazione, ma non già quella delle apparenze, giacchè la fantasia, che è la facoltà delle apparenze o de' fenomeni, è cosa diversa dal senso. Quest'interpretazione, di certo, non mancherebbe di ragioni: ma trova un ostacolo invincibile nel testo attuale. Per seguirla, bisognerebbe leggere: πρῶτον μεν ὅτι οὐδ᾽εἰ ἠ κ. τ. λ. che è la lezione la quale al Bonitz pare essere stata letta dall'Afrodisio. Come sta ora il testo, il πρῶτον qui e l'εἶτα due righi più giù, segnano i vari punti della risposta d'Aristotile: e non mi par possibile, che si dia per primo punto la ragione degli avversarii.

(Q) Ἔτι δὲ ἐπ᾽αὐτῶν τῶν αὐσϑήσεων οἰκ ὁμοίως κυρία ἡ τοῦ ἀλλοτρίου καὶ ἰδίου ἢ τοῦ πλησίον καὶ τοῦ αὑτῆς. 1010. b. 16. Come τὸ πλησίον non si può intendere per un equivalente di ἴδιον, è impossibile di prendere τὸ ἐαυτῆς per un apposto dello stesso ἴδιον. Di maniera, che nel τοῦ άὑτῆς bisogna che ci sia un guasto: che ci stia nascoso e sfigurato un contrapposto di τὸ πλησίον. Il Bonitz (Met. p. 206) crede τοῦ ἄποϑεν; nè di certo ci sarebbe altra parola più probabile a surrogare. Ma, vedendo negli esempii che seguono, che non se ne cita punto di sensibili più o meno lontani, crederei forse miglior congettura di tenere per interpolate ἢ τοῦ πλησίον καὶ τοῦ αὐτῆς. Sarebbero due scolii dell'ἰδίον, l'uno cattivo τὸ πλησίον, l'altro buono τὸ ἐαυτῆς, l'uno e l'altro intercalati a sproposito nel testo. Del resto, la volgata ha per sè l'autorità dell'Afrodisio.

(R) Si può vedere dalla stessa traduzione, come in tutto questo periodo ho cambiata la punteggiatura del testo Bekkeriano. In quanto all'interpretazione «addidi in explicandis his verbis ad πρὸς γε τοὺς κ. τ. λ. eiusmodi aliquid ut ῥαδία ἡ ἀπάντηςις cf. Alex Bek. 676. a. non quod vere aliquid omissum putarem, sed ut facilius verba interpretari possem: frequens enim est et apud Graecos et apud Latinos ea loquendi brevitas ut omittant id quod exspectes, «dici potest» vel «dicendum est» et continuo id ipsum subiiciunt quod est dicendum. Cf. Nägelsbach. Lat. Stil. § 151. 1.» Bon. Met. p. 209.

(S) Τῶν μὴν γὰρ ἐναντίων ϑάτερον στέρησίς ἐστιν οὐχ ἧττον οὑσίας δὲ στέρησις ἀπόϕασίς ἐστιν ἀπό τινος ὡρισμένου γένους 1011. b. 18. Col. cod. Ab, e con Alessandro (679 b. 18) ho aggiunto ἡ δὲ στέρηςις avanti ad ἀπόϕασις. Altrimenti, non ci so pescare un senso, nè l'avrebbero saputo meglio di me il Brandis e il Bonitz, che hanno accettata l'Afrodisiana nel testo. Lo Schwegler, invece, stampa la volgata e traduce l'altra.

(T) Ὥστε καὶ ὁ λέγων εἶναι ἢ μὴ ἀληϑεὺσει ἢ ψεύσεται 1011. b. 28. Il soggetto di εἶναι dev'essere τὸ μὴτε ὂν μήτ μὴ ὂν: altrimenti, non ci ha senso. Ora, dalla volgata non si potrebbe ricavar mai che questo sia il soggetto: non si potendo sottintendere all'εἶναι se non il pronome indefinito τι, sottinteso il quale, si troverebbe questo senso, che chi dice che qualcosa sia, dice o il vero o il falso, il che non sarebbe una conseguenza (ὥστε) ma una ripetizione inutile di quello che precede. Di maniera che bisogna o coll'Afrodisio aggiungere τοῦτο tra λέγων ed εἶναι o ἐκεῖνο avanti al λέγων coll'Ab Al Bon. (Met. p. 212) è piaciuto meglio il τοῦτο: al Brandis meglio l'ἐκεῖνο. Io starei con quest'ultimo. Comunque, o questo o quello riporterebbero il pensiero al τὸ μεταξὺ ἀντιϕάσεως (b. 23); che è ciò che serve.

(U) Ἔτι ἢτοι τὸ μεταξὺ ἔσται τῆν ἀντιϕάσεως, ὥσπερ τὸ ϕαιὸν μέλανος καὶ λευκοῦ, ἢ ὡς τὸ μηδέτερον ἀνϑρώπου καὶ ἵππου. Εἰ μέν οὗν οὕτως, οὐκ ἄν μεταβάλλοι (ἐκμὴὰγαϑοῦ γὰρ εἰς ἀγαϑὸν μεταβάλλει, ἢ ἐκ τούτου εἰς μὴ ἀγαϑὸν) · νῦν δ᾽ἀεὶ ϕαίνεται. οὐ γὰρ ἐστι μεταβολὴ ἀλλ᾽ἢ εἰς τὰ ἀντικείμενα καὶ μεταξύ. εἰ δ᾽ἒστι μεταξὺ, καὶ οὕτως εἴν ἄν τις εἰς λευκον οὐκ ἐκ μὴ λευκοῦ γένεσις, νῦν δ᾽οὐχ ὁρᾶται. 1011. b. 35. Per me, credo che in questo periodo ci sia del guasto. Non mi par possibile, che le parole οὐ γὰρ - μεταξὺ appartengano ad Aristotile, perchè ridicono il medesimo di quello, che aveva detto più su nelle parole in parentesi ἐκ μὴ ὰγαϑοῦ - ἀγαϑὸν e lo ridicono d'una materia poco adatta; giacchè chi non vede quanta confusione generi quel μεταξὺ? Adunque a me parrebbe, che si devano levar via e tenerle per uno scolio. Difatti, paiono indirizzate a chiarire l'argomento che precede; il quale, come si è detto, poggia tutto sulla necessità che il mezzo si generi, e l'impossibilità che si generi questo mezzo, quando sia una negazione compiuta dei due estremi, e appartenga a un genere diverso da quello a cui appartengono questi. Chi guarda alla natura di quest'argomento, o al bisogno, per isvilupparlo, di parlare degl'intermedii che si trovano tra alcuni di que' contrarii dall'uno all'altro de' quali succede generazione, intenderà, che dal vedere cotesta nozione degl'intermedii adoperata nel commentare dall'Afrodisio, non si può ricavare, che leggere queste parole nel testo; anzi poichè non le cita come testuali, nè le spiega alla stessa maniera di quelle che seguono o precedono, si potrebbe e dovrebbe ricavare piuttosto che non le leggesse. Pure, quantunque le leverei stampando, nel tradurre le ho lasciate, producendo in italiano minore ambiguità di quella che fanno nel greco. In quanto poi all'ultima parte di questo periodo: εἰ δ᾽ἔστι - ὁρᾶται; bisogna dire, che le parole colle quali comincia: εἰ δ᾽ἔστι μεταξὺ καὶ οὕτως, non possono a verun patto stare come stanno. O s'intenda nella maniera comune, o nella mia, una correzione bisogna farla. Se nella mia, basterebbe levare il καὶ. Se nella comune non serve punto d'aggiungere con Aless. (681. a. 2.) ἡ ἁντίϕασις dopo οὕτως; giacchè quello che direbbe questa aggiunta (e così sta la contradizione, ovvero e questa è la natura della contradizione), non supplisce punto a ciò che manca qui, ciò è dire, non dà punto un indizio qualunque, che si cominci qui a parlare di un μεταξὺ diverso da quello di cui s'è parlato finora. Bisognerebbe che fosse scritto: εἰ δὲ ἐστι ἔτερον τὸ μεταξὺ ovvero εἰ δ᾽ἑτέρως ἐστι τὸ μεταξὺ, o qualcos'altro simile. Aggiungi che in luogo di εἴν ἄν τις, non dirò che Asclepio (681. a. 25) legga εἴν ἓν τι, che potrebbe non essere altro se non errore di copista, ma bensì che l'Ab. legge ἦ ἡ ἀντίϕασις, e l'Ih , solo ἡ ἀντίϕασις, che è la lezione seguita dal Brandis. Tutto questo mi persuade, che in queste parole ci ha dritto di mutare e d'aggiungere alla volgata; e quanto e come si ricava chiaramente dalla mia traduzione. Leggerei così: εἱ δὲ ἕτερον ἐστι τὸ μεταξὺ καὶ οὓτως εἴν ἄν τις κ. τ. λ.

(V) Ἒτι πᾶν τὸ διανον τὸν καὶ νοη τὸν. 1012, a. 2. «Bessario omne intellectuale aut intelligibile convertit: uti etiam interpres Alexandri. Alii aliter: quod ratione aut mente percipitur, ipsa dianaea. idest ratio, aut affirmat aut negat. Nobis autem videtur Aristotiles hac voce, νοη τὸν, significare voluisse simplices notiones intellectus, de quibus enunciatio aut affirmativa aut negativa habeatur; per istud vere διανοη τὸν, intellexisse, cum aliquod intelligatur compositum ex pluribus notionibus seu partibus orationis, de quo aut affirmetur aut negetur». E si chiama διάνοια, la facoltà «quae fungitur officio affirmandi aut negandi aliquid: ita enim mentis notio cum alia notione complicatur, sive sit circa conceptus simplices sive circa compositos». Ho voluto copiare questa lucida spiegazione dello Scaino, un autore ignotissimo, ma che val meglio di parecchi più noti. Ha pubblicato in Roma nel 1587 una «Paraphrasis in XIV Aristotelis libros de prima philosophia», dedicata al secondo Fracenco Maria della Rovere, sesto duca di Urbino. È il primo libro sulla metafisica, in cui si veda un sentimento della frase aristotelica, ed un'esattezza d'interpretazione, cercata più nel libro stesso, che ne' commenti. De' primi a trattare la quistione dell'ordine dei libri metafisici, fu anche de' primi a mutarlo: ed in maniera che e con quali fondamenti, lo dirò a suo luogo. Questo cenno basti qui per presentare al lettore Antonio Scaino. Del resto, quando avrò aggiunto ch'era di Salò, e che ha pubblicato un altro libro sulla Politica d'Aristotile, il lettore ne saprà quanto me: con questa differenza che non avrà sprecato tutto il tempo che ci ho sprecato io per saperne qualcos'altro. Le parole citate si trovano a pag. 160.

(X) S'ha da leggere ἀποπέϕυκεν colla più parte de' codici, col Brandis e col Bekker, ἀπέϕηνεν coll'Aldina, la Silburgiana e il cod. S., ἀποϕάσκει coll'Afrodisio, o correggere ἀπέϕησεν col Fonseca e col Bonitz dietro l'autorità dei traduttori latini e tra questi, del Bessarione? Il primo, certo no, che non ha senso: ma ἀπέϕησεν, volgato, non mi par disperato. Il senso, come nota lo Scaino (p. 161), sarebbe : «aliquis ita interrogans utrum est album, nil aliud esse enunciavit: responsio autem dicentis, quod non, est negatio ipsius esse». Così si scanserebbe anche la correzione di quegli i quali, lasciando ἀπέϕηνεν, correggevano ἢ τὸ εἶναι in ἢ τὸ μὴ εἶναι (non enunciando altro, se non il non essere), correzione proposta del Fonseca, ma forse non sua (vedi Scaino. I. cit.). Ho poi tradotto come se dicesse ἀπέϕησεν, perchè, in cosa dubbia e di poco rilievo mi son fatto decidere dalla maggiore chiarezza.

(Y) Εἰ δὲ μηϑὲν ἄλλο ἢ τὸ ἀληϑὲς ϕάναι ἢ ἀποϕάναι ψεῦδός ἐστιν. 1012. b. 10. Luogo corrotto, il cui senso non è dubbio, e perciò non importa qui di correggere. Vedi il Bon. obs. p. 116, seg. Schwegler, annot. crit. p. 92.

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