NOTE AL LIBRO SECONDO

(A) Τὸ δ'ὄλον τι ἔχειν καὶ μέρος μὴ δύνασϑαι δηλοῖ τὸ χαλεπὸν αὐτῆς. Chi leggerà nel Bekker (p. 590 seq.) i comtnentari d'Alessandro, d'Asclepio, del Cod. Reg. a queste parole, si persuaderà, che il solo modo di apporsi al senso del testo greco, è di studiare quale, dietro quello che precede deve esser paruto ad Aristotile il punto difficile nella cognizione del vero. Ora, appunto egli ha detto, che il difficile sta non tanto nell'imberciare più o meno bene, (anzi nessuno non può sberciare affatto), quanto nell'imberciare giusto, dare nel segno a dirittura e non più su o più giù. Ne risulta dunque, che il difficile nella cognizione del vero è d'averla distinta e dedotta rigorosamente, giusta e piena; e che appunto questo senso bisogna cercare nelle parole allegate. C'è una piccola varietà tra il testo preferito dal Bekker, e quello volgato, che è l'unico seguito e commentato dall'Afrodisio. Quanto al senso, fa nulla o poco: però non ne parlo qui, riserbandomi a trattarla nell'edizione del testo.

(B) Il testo del Bekker e anche del Bonitz è questo: Ὀρϑῶς δ᾽ἔχει καὶ τὸ καλεῖσϑαι τὴν ϕιλοσοϕίαν ἐπιστήμην τῆς ἀληϑείας. ϑεωρητικῆς μὴν γὰρ τέλος ἀλήϑεια · πρακτικῆς δ᾽ἔργον· καὶ γὰρ ἐὰν τὸ πῶς ἔχει σκοπώσιν, οὺ τὸ ἀΐδιον, ἀλλὰ πρός τι καὶ νῦν ϑεωροῦσιν οἱ πρακτικοί. οὐκ ἴσμεν δὲ τὸ ἀληϑὲς ἄνευ τῆς αἰτίας κ. τ. λ. 993. b. 19-24. Le antiche edizioni, in luogo di ἀΐδιον, hanno τὸ αἴτιον: ed aggiungono con tutti i codici καϑ'αὑτό. Io ho tenuta questa seconda lezione, e rigettata la prima. Alessandro le cita tutte e due: e riconosce, che la frase dopo πρακτικοὶ, - οὐκ - αἰτίας - si collega meglio colla seconda. Il Cod. Reg. rigetta affatto la prima, di maniera che la autorità d'ogni genere le fa contro. Ma quando anche ne fosse appoggiata, io la rigetterei, introducendo essa una nuova difficoltà e confusione in questo periodo. Nel quale Aristotile vuol dimostrare, che la filosofia si chiami debitamente la scienza del vero; come in quello che segue, dimostra, che questo nome le spetta in proprio e più che a qualunque altra scienza, per la natura del suo oggetto. Ecco i suoi raziocinii qui:

La filosofia è una cognizione teoretica;

la cognizione teoretica ha per fine il vero:

Dunque la filosofia ha per fine il vero.

Che la cognizione teoretica sia cognizione del vero, si dimostra così:

La cognizione del vero implica la cognizione della causa per sè;

Ma la cognizione della causa per sè spetta alla cognizione teoretica, giacchè la pratica, anche quando considera la causa formale d'una cosa (τὸ πῶς ἔχει, il come sia) la considera in ordine all'uso attuale della cosa stessa:

Adunque la cognizione del vero spetta alla cognizione teoretica.

Perciò, si vede chiaro, che le parole οὐκ αἰτίας, fanno la prima premessa del secondo raziocinio, e perciò spettano al periodo presente, e non al seguente: e s'hanno quindi a distinguere dalle precedenti con un mezzo punto e non con un punto intero. Quanto sia frequente nello stile d'Aristotile, il soggiungere la maggiore col δὲ a questo modo, è noto a chiunque ci ha un po' di pratica, e portarne esempi e sprecar carta sarebbe tutt'uno. Se invece dovesse leggersi col Bekker, bisognerebbe formare due raziocinii in luogo dell'ultimo. Il primo chiuderebbe la prova precedente a questo modo (καὶ γὰρ - πρακτικοὶ):

La cognizione del vero implica la cognizione della quiddità nel suo essere eterno;

Ma la cognizione pratica non considera la quiddità se non relativamente e per un uso attuale; dove la teoretica la considera nel suo essere eterno:

Dunque non la cognizione pratica, ma la teoretica è la cognizione del vero.

Il secondo farebbe da sè un'altra prova (οὐκ αἰτίας):

La cognizione del vero implica la cognizione della causa;

Ma la cognizione della causa spetta alla filosofia;

Dunque la cognizione del vero spetta alla filosofia.

S'avrebbe dunque a dire, che del primo raziocinio sia stata espressa sola la seconda, e del secondo sola la prima premessa. Il che mi pare probabile: e perchè la concisione sarebbe troppa, e perciò da non supporre senza necessità: e più ancora perchè quella premessa richiederebbe essa stessa una prova ed una dilucidazione.

(C) Nel Bekker si legge: διχῶς γὰρ γίγνεται, τόδε ἐκ τοῦ δε, ἢ ὡς τόδε λέγεται μετὰ τόδε, οἷον ἐξ Ἰσϑμίων Ὀλύμπια, ἢ οὐκ οὕτως ἀλλ'ὡς ἐκ παιδὸς ἀνὴρ μεταβάλλοντος ἢ ἐξ ὕδατος ἀήρ. 994. a. 22-24.

Ecco il senso che naturalmente se ne ritrarrebbe. «L'una cosa dall'altra si genera in due modi: ovvero nel senso che l'una cosa si dice seguire l'altra come i giochi Olimpici dagl'Istmici: ovvero non così, ma come dal fanciullo, che si cangia, si genera l'uomo, o dall'acqua si genera l'aere». Questo senso sarebbe assurdo da ogni parte: prima perchè non si può dire nè punto nè poco, che l'una cosa si generi dall'altra solo perchè l'una segua l'altra: e poi perchè si ridurrebbero sotto un solo concetto e forma di generazione due generazioni differentissime. Il fanciullo diventa uomo in un modo diversissimo da quello che l'aere diventa acqua: lì non c'è che uno sviluppo e non ha luogo reciprocanza tra il termine da cui parte e il termine a cui arriva: qui c'è una forma nuova, un'essenza nuova che vien fuori, e tra la forma precedente e la presente accade reciprocanza; voglio dire che si rigenerano a vicenda. Perciò se tutti i codici e le edizioni portassero la lez. Bekkeriana, bisognerebbe trovare un verso di correggerla, e cercare come e donde si sia potuto introdurre uno sbaglio così madornale. E si troverebbe, che la cagione ne possa essere stato l'esame poco diligente del caso della generazione del giorno dal mattino che si porta più giù, come conforme al caso del fanciullo che diventa uomo. In effetto, più giù, si osserva, che l'uomo non ridiventa reciprocamente fanciullo, perchè οὐ γίγνεται ἐκ τῆς γενέσεος τὸ γιγνόμενον, ἀλλὰ (scancello l'ἔστι con l'Afrod. e l'Ascl.; vedo ora che gli segue anche il Bonitz. Met. p. 133). μετὰ τὴν γένεσιν.οὕτω γὰρ καὶ ἡμέρα ἐκ τοῦ πρωΐ, ὃτι μετὰ τοῦτο· διὸ οὐδὲ τὸ πρωΐ ἐξ ἡμέρας (Ib. a. 32. b. 3). Vedendo questo μετὰ qui, si è creduto, che il generarsi d'una cosa dall'altra si dovesse intendere anco della semplice successione d'una cosa all'altra, e perciò il senso dell'ἐκ nella frase ἐξ Ἰσϑμίων Ὀλύμπια dovesse tenersi per uno dei sensi filosofici, sopra i quali si discorreva qui, del τόδε ἐκ τοῦδε. Così s'è corretta l'antica, la vera lezione che Alessandro Afrodisio ha sola riconosciuta e commentata, e le vecchie edizioni hanno sola seguita, e l'antico traduttor latino, il Bessarione, l'Argiropolo sola tradotta. Secondo la quale si leggeva non ἢ ὡς τόδε, come fa il Bekker, ma μὴ ὡς τόδε; vuol dire s'escludeva, (invece d'includerlo) il senso dell'ἐκ per μετὰ dai due sensi in cui l'ἐκ vuol essere preso qui nella frase τόδε ἐκ τοῦδε. Questa correzione a sproposito non si sarebbe fatta, se si fosse badato che il giorno non viene semplicemente dopo il mattino, come gli Olimpici dopo gli Istmici, ma è la trasformazione e la perfezione d'una stessa forma, come l'è il fanciullo dell'uomo: e che il μετὰ τοῦτο in quell'ultimo luogo citato s'ha ad intendere col μετὰ τὴν γένεσιν e vuol dire, che il giorno non importa una nuova generazione: ma è uno sviluppo d'una forma già generata. Vale in somma, ὅτι μετὰ τὸ πρωΐ γιγνόμενον γίγνεται ἡ ἡμέρα. Non si doveva, adunque, per questo μετὰ correggere il testo: anzi cercarvi una nuova prova di conservarlo tale quale. Il caso è che mutato qui, si dovè mutare in altre parti. Aristotile dà due sensi al τόδε ἐκ τοῦδε: ora, scritto ἢ ώς τόδε pareva che riuscissero tre: la semplice successione, la generazione come sviluppo, la generazione come produzione di forma nuova. Bisognò dunque unire i due ultimi sotto un concetto, contrapponendogli al primo: perciò, s'introdusse la lezione conservata dal cod. Ab: ἢ οὐχ οὕτως ἀλλ'ὡς. Da prima si comprese, che pure ci era una verità essenziale tra queste due forme di generazioni così contrapposte alla successione: e perciò si ritenne, come scrive l'Ab l'ὡς anche avanti ἐξ ὕδατος ἀήρ. Dagli amanuensi per fretta, o da scoliasti poco perspicaci fu tralasciato quest'ultimo ὡς, e ridotto il testo a quel misero stato che si vede nel Bekker: il quale pare che sia andato raccozzando da' diversi manoscritti queste varie corruzioni per presentarle unite come qualcosa d'eccellente. Levate via, il testo dovrà esser letto così: διχῶς γὰρ γίγνεται τόδε ἐκ τοῦδε, μὴ ὡς τόδε λέγεται μετὰ τόδε, οἷον ἐξ Ἰσϑμίων Ὀλύμπια, ἀλλ'ὡς (così l'S.) ἢ ἐκ παιδὸς ἀνὴρ μεταβάλλοντος ἢ ὡς (così l'Ab) ἐξ ὕδατος ἀήρ. La volgata fa male a tralasciare l'ἀλλ'ὡς avanti a ἢ ἐκ, e l'ὡς avanti ad ἐξ ὕδατος. Il primo ἀλλ'ὡς richiesto dal senso, è dato anche dall'annot. del Cod. Reg. (596 b. 5.): ed il secondo ὡς è confermato dalla formola inversa ed identica del v. 30: τὸ δ'ὡς ἐξ ἀέρος ὕδωρ. Del resto, chi non volesse, gliene abbandonerei. Alessandro Afrodisio (595, b.) ha letto di certo μὴ ὡς e ἀλλ'ὡς; se poi ὡς ἐξ o ἐξ solo, si può dubitare. Ci è poi una ragione perentoria per leggere μὴ ὡς τόδε etc..., e non ἢ ὡς τόδε: ed è che nel sistema Aristotelico è ammessa l'infinità della successione, essendoci dato il tempo per eterno: non ci si nega se non l'infinità delle cause, sia nel numero, sia nella specie. Ora, leggendo ἢ, la dimostrazione che segue dovrebbe voler anche negare, che ci possano essere infiniti fatti successivi: il che non dimostra; e se il dimostrasse, sarebbe conforme alla mente d'Aristotile.

(D) Il capitolo nel testo del Bekker finisce con queste parole: e se appartiene ad una scienza o a più lo studiare le cause od i principii. L'Afrodidio (Bek. 605. a. 17) attesta che sono state appiccicate alle precedenti, dopo che questo trattatello è stato allogato qui, e per dare un colore al posto che gli s'è dato, facendogli proporre per ultima la quistione che si tratta davvero per la prima nel libro che segue. Ma la magagna è facile a scovrire: questa quistione, se è quella che segue, non ha nulla a fare con quella che precede. Perciò, dietro al Bonitz (Met p. 135), ho tralasciate nel tradurre delle parole, che levano la sua vera faccia alla fine di questo libro, e farebbero dubitare d'una cosa che non ammette dubbio: giacchè è evidente che questo trattatello non può avere formato nella mente d'Aristotile il secondo libro della sua metafisica, Vedi i Proleg. p. 1.

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