NOTE AL LIBRO TERZO

(A) Ἓν ἑνὶ ἐναντίον 995. b. 27. Il Bessarione traduce: utrum unum uni contrarium. L'Argiropulo: si unum sit contrarium uni. Sta bene. È un pregio delle traduzioni latine di poter riprodurre, non solo il senso, ma anche le parole del testo, e lasciare tanta libertà d'interpretazione a chi legge la traduzione, quanta n'ha chi legge l'originale. Noi, non si può fare così. Bisogna interpretare prima e poi tradurre. Ora dunque, i Francesi interpretano: si elles sont opposées les unes aux autres. Di certo, sbagliano e perchè questo in greco si direbbe altrimenti, e perchè è evidente che sono opposte; nè ci cade dubbio di sorta. Il Michelet (Metaphys. p. 134) intende: si l'unité est opposee a l'unité. Non so davvero, che voglia dire: e che quistione possa essere. E pure, qui non era difficile a sapere poi di sicuro cosa volesse dire Aristotile. La quistione, proposta in queste parole, la scioglie nel lib. X, 4. (1055 a. 19.), dichiarando che a un contrario non se ne possono contrapporre più, di maniera che al cap. 5 si piglia per dimostrato, che a un contrario si contrappone un solo contrario. È la stessa quistione, toccata nel Protagora di Platone (322. D.).

(B) Καὶ αἱ ἐν τοῖς λόγοις καὶ αἱ ἐν τῷ ὑποκειμένῳ 996 a. 1. seg. I Francesi e il Michelet hanno tradotto cause formali e sostanziali. ch'è di certo uno sbaglio, perchè la forma è anch'essa sostanza nel linguaggio Aristotelico. Meglio lo Schwegler cause formali e materiali: ch'è la prima delle due interpretazioni portate dall'Afrodisio e la seguita dal Bonitz, p. 139. Io ho preferito la seconda (607 b. 11 seg.): δύναται καὶ τὰ μὴν ἐν τοῖς λόγοις αἴτια εἰρηκέναι περὶ ἐν ταῖς ἀποδείξεσιν ἀρχῶν (αὗται δέ εἰσι τὰ ἀξιώματα· καὶ γὰρ ἤδη τούτων ἐμνημόνευσε) τὰ δὲ ἐν τῷ ὑποκειμένῳ τὰς τῶν οὐσίων ἀρχάς· ὑποκείμέναι γὰρ αἱ οὐσίαι. In effetto, come l'Afrodisio annota, Aristotile ha appunto distinte più su queste due sorte di principii (S. 3.) Oltre di che, quantunque Aristotile come il Bonitz osserva, chiami τὴν κατὰ τὸν λόγον οὐσίαν l'essenza formale della cosa (VI. 1. 1025 b. 27, VII 10. 1035 b. 13. 15. 11. 1037 a. 17) e τὰ ὡς λόγος αἴτια i principii formali (XII. 3. 1020. a 22), pure la frase di cui si serve qui, riesce molto più propria, intesa nel secondo modo che non nel primo. In effetto, che proprietà ci sarebbe a indicare τὸ ὑποκειμένον colla formola ἀρχαὶ ἐν τῷ ὐποκειμένῳ? La materia soggiacente non è certo i principii che l'informano: e tra questi ultimi c'è appunto la forma o la causa formale e specifica, che si voglia dire. Di maniera che a dividere i principi in formali e in quelli che informano la materia, sarebbe una divisione sconcia e disadatta.

(C) Ὥστ᾽ ἐν τοῖς ἀκινήτοις οὐκ ἂν ἐνδέχοιτο ταύτην εἶναι τὴν ἀρχὴν, οὐδ᾽εἶναι τι αὐτοαγαϑόν. 996. a. 29. La tesi era, che πολλοῖς τῶν ὄντων οὐχ ὑπάρχουσι πᾶσαι αἱ ἀρχαὶ (a. 21): perchè τοῖς ἀκινήτοις οὐκ οἷον τε εἶναι κινήσεος ἀρχὴν, ἥ τὴν τὰγαϑοῦ ϕύσιν. Adunque, come sta il testo, si propone di dimostrare che il principio del movimento non sia agli immobili, οὐκ ᾖ τοῖς ἀκινήτοις, e dimostra che non sia negl'immobili, οὐκ ᾖ ἐν τοῖς ἀκινήτοις. Perciò o si ha a supporre che Aristotile giuochi a barattare le carte in mano, ovvero che o si proponga di dimostrare altro o concluda altro da quello che dà il testo. La prima supposizione non è probabile, per parecchie cagioni, e soprattutto perchè il giuoco sarebbe fatto con pochissima arte. Resta la seconda, ammessa la quale resta a risolvere, cosa dunque si deva mutare, se la proposizione o la conclusione. Par, di certo, la conclusione. In effetto, la proposizione particolare οὐκ εἶναι τοῖς ἀκινήτοις τὴν τἦς κινήσεος ἀρχὴν, ἢ τὴν τὰγαϑοῦ ϕύσιν, non riferirsi agli immobili il principio del movimento o la natura del bene, non solo è conforme alla tesi generale di cui è un caso πολλοῖς τῶν ὄυντων οὐχ ὑπάρχειν πάσας τὰς ἀρχὰς, a molti tra gli enti non riferirsi tutti i principii: ma – e qui si badi ch'è il punto principale – è la sola a cui calzi l'argomento che segue. Di fatto, eccolo in sei raziocinii:

Ogni cosa che sia bene per se e per la propria natura, è fine:

Ma ogni fine è causa per cui le altre cose si generano e sono:

Dunque, ogni bene per sè è causa per cui ecc.

Le cose nel generarsi e poi essere, agiscono:

Ma si generano e sono per via del fine e della causa per cui:

Dunque agiscono per via del fine e della causa per cui.

Il fine o causa per cui, è adunque fine d'un'azione.

Ma ogni azione si fa mediante un movimento:

Dunque ogni fine etc. è fine d'un movimento.

Quello che è fine d'un movimento, è il principio del movimento stesso:

Ma il fine e la causa per cui, è fine del movimento:

Dunque essa è il principio del movimento.

Quello che è, come fine, principio del movimento, non si può riferire agl'immobili:

Ma la natura del bene è, come fine, principio del movimento:

Dunque non si può riferire agl'immobili.

La natura del bene non si può riferire agl'immobili:

Ma la natura del bene, è il principio del movimento:

Dunque il principio del movimento non si può riferire agli immobili.

Si conclude adunque, che il principio del movimento (la causa efficiente, motrice) e la natura del bene (la causa finale) non concernono punto gl'immobili. Che non sussistano in un immobile, non solo è falso nel sistema d'Aristotile, secondo il quale appunto il contrario è il vero (il che qui per la natura del libro (I. § 2. n. 1.) avrebbe poco peso), ma, – ch'è assai più, – non si deduce nè punto nè poco da' raziocinii, de' quali fa le viste d'essere la conclusione. Come poi si riappicchi quella conclusione, che veramente si deduce, colla quistione che qui si tratta, non è punto difficile a intendere. Di che maniera può mai essere una scienza delle cause, se queste non hanno tutte lo stesso giro d'azione, nè tutti gli esseri conoscibili hanno una relazione con tutte e quattro, ma alcuni con certe, altre con altre? Dalla diversità degli oggetti conoscibili sotto il rapporto della loro relazione colla causa, si vorrebbe concludere, bene o male, la pluralità e diversità delle scienze che ne trattano. L'Afrodisio appunto osserva, che il perno dell'argomento è lì (608. b. 40): e benchè nel suo commentario scriva come se avesse letto nel testo l'ἐν dappertutto e nella conclusione dove l'ha il testo attuale e nella proposizione dove non l'ha, pure la sua interpretazione quadrerebbe meglio se l'ἐν come manca al testo nostro nella proposizione, così si levasse dalla conclusione: che è la correzione, che mi par d'avere il dritto di proporre sicuramente, dopo tutto quello che ho detto. Dunque, secondo me, nelle parole citate in capo di questa nota, s'ha a leggere: ᾥστε τοῖς ἀκινήτοις non come fa il Bekker con tutti i codici e le edizioni, ὣστ᾽ἐν τοῖς ἀκ. Il senso dell'εἶναι τοῖς ἀκ. è identico con quello dell'ὑπάρχειν τοῖς πολλοῖς τῶν ὄντων, a cui è sostituito: e che l'ὑπάρχειν col dat. significhi altro dall'ὑπάρχειν coll'ἐν, non richiede prova. L'esempio seguente delle matematiche conferma la mia interpretazione e correzione. Mi pare che il Bonitz (pag. 139) frantenda tutto questo paragrafo e il seguente.

(D) Τὸ δὲ μίαν πασῶν οὐκ εὔλογον καὶ γὰρ ἂν ἀποδεικτικὴ μία περὶ πάντων εἴν τῶν καυ᾽αυτὸ συμβεβηκότων, εἴπερ πᾶσα ἀποδεικτικὴ περὶ τι ὑποκείμενον ϑεωρεῖ τὰ καϑ᾽αὑτὰ συμβεβηκότα ἐκ τῶν κοινῶν δοξῶν. περὶ οὗν τὸ αὐτὸ γένος τὰ συμβεβηκότα καϑ᾽αὑτὰ τῆς αὐτῆς ἐστὶ ϑεωρῆσαι ἐκ τῶν αὺτῶν δοξῶν. περὶ τε γὰρ τὸ ὃτι μιᾶς καὶ ἐξ ὧν μιᾶς, εἴτε τῆς αὐτῆς εἴτε ἄλλης · ὥστε καὶ τὰ συμβεβηκότα. εἴτ᾽αὐται ϑεωρήσουσιν. εἴτ᾽ἐκ τούτων μία. p. 997 a. 17-25. Chi guarda alla mia traduzione di questo luogo, vede che, secondo il parer mio, la punteggiatura andrebbe meglio se si ponesse un colon e non un punto fermo tra αὐτῶν δοξῶν e περὶ τε, e un punto fermo e non un colon tra ἄλλης e ὥστε. Comunque sia, in luogo di περὶ τε γὰρ τὸ ὃτι μιᾶς si deve, di certo, leggere ovvero περὶ τε γὰρ ὃ coi cod Ab, Fb., con Aless. Afrod. (Bekk. p. 614 b. 35: più su a. 28 ricavo, dal Sepulveda e dal senso, che l'ὃ vi sia stato tralasciato solo per trascuraggine del copista), e col Bess. e col Brandis, seguito dal Bonitz. Colla Bekkeriana il periodo mancherebbe di nesso e di senso, e chi se ne voglia persuadere vegga i Francesi che la seguitano. La mia interpretazione è confermata dal commentario dell'Afrodisio, delle di cui due interpretazioni ho prescelta ora l'una, ora l'altra nelle varie parti del paragrafo.

(E) Περὶ ποῖα. 997. b. 25. Il Bonitz (Met. p. 148) vorrebbe leggere παρὰ in luogo di περὶ appoggiandosi dell'autorità d'un codice e di quella di Alessandro. Quest'ultima mi par dubbia: l'altra non può valere contro l'autorità di tutti gli altri codici e dell'edizioni. Però, non è per questo che io non accetto la correzione: ma perchè guasta il senso. Il dubbio che Aristotile formola qui, equivale a dire che una volta ammesso, che ci sia delle scienze il cui oggetto non sia il sensibile nè l'ideale, mancherà un criterio per determinare di quali sorte d'enti ci sia delle scienze di questa fatta e di quali non ci sia. Se s'ammette, per esempio, che ci deva essere dell'entità matematiche intermedie perchè la geometria abbia un oggetto, niente impedisce che ci sia dell'entità sanabili e sanatorie intermedie tra l'entità sanabili e sanatorie sensibili, l'entità sanabili e sanatorie ideali: e che perciò nella stessa maniera che c'è una γεωμετρία παρὰ τὴν γεωδαισίαν, ci sia anche una ἱατρικὴ παρὰ τὴν ἱατρικὴν αἱσϑητὴν καὶ παρ᾽αὐτὴν τὴν ἱατρικὴν. Quì cade il παρὰ: ma nella formola generale del dubbio sta bene solo il περὶ: e dall'usarsi nel secondo caso il παρὰ non doveva il Bonitz conchiudere, che doveva essere stato usato anche nel primo.

(F) Τῶν δ᾽ἀπείρων τῶς κ. τ. λ. 999. a. 27. Quel δ᾽ aggiunto dal Brandis e dal Bekker, se non si vuole che imbrogli la grammatica o il senso, bisogna da capo levarlo via coll'aldina e la silburgiana.

(G) Anche quì seguo l'ald. e la silburg. abbandonando l'autorità de' codici del Br. e del Bek. Le prime, coll'Asclepio e forse coll'Afrodisio, e certo col Bessarione, leggevano: εἰ τοῦτο ἀναγκαῖόν ἑστι, καὶ δεῖ τι ειναι παρὰ τὰ καϑ᾽#id_DDE_LINKκαστα, ἀναγκαῖον ἂν εἴν τὰ γένη εἶναῖ παρὰ τὰ καϑ᾽ἕκαστα, ἤτοι τὰ ἔσχατα ἢ τὰ πρῶτα (999. a. 29-32). Invece il Br. e il Bek. levano ἀναγκαῖον - καϑ᾽ἕκαστα: di maniera che, come osserva il Bonitz (Met. p. 156), le ultime parole ἤτοι - πρῶτα non si sa più dove riferirle. Forse la sola ripetizione del παρὰ - ἔκαστα si deve a un copista.

(H) Si osservi questa maniera frequentissima in Aristotile di ripetere la questione primaria nella bipartizione d'una quistione secondaria. Qui, per esempio, aveva posto la quistione secondaria, se l'idea, corrispondente al reale, ci sia fuori di tutte le cose o solo fuori di alcuna; ma ripete alla fine la quistione primaria (nelle parole o di veruna) se ci sia a dirittura o non ci sia fuor de' singolari un'idea, quantunque la semplice proposta di quella quistione secondaria suppone già che si sia conceduto che ci possa e ci deva essere un'idea fuori di alcuni singolari.

(I) Ὁπότε ἐκείν γίγνεται. Bek. p. 999. b. 14. Leggo coll'Afrodisio e col cod. E ὅ ποτε, e non col Bekk. e l'antiche edizioni ὁπότε. Non mi pare che possa esser dubbia la scelta. La prima presenta un senso più netto e più prettamente Aristotelico e con una espressione perfettamente conforme a quella del § 11. (b. 23). L'antico traduttore lat. traduce la Bekkeriana: lo Argiropulo (quando ut haec sit, illa existat): e il Bessarione (quando illa existat, ut haec sit) ebbero davanti probabilmente la volgata (ὁπότε ἐκείνη γίγνεται εἶναι), ma la tradussero alla libera. Il Bonitz, che appunto stampa nel testo la lez. dell'Afrodisio, la difende così (p. 157): Quum enim, quidquid fit, id fiat ὑπὸ τινος et ἔκ τινος et τί, (VII. 8), si τὸ ἔκ τινος i. e. materia esse statuenda est, magis etiam consentaneum est ponendum esse τὸ τί i. e. τὸ εἶδος.

(L) Ὥσπερ οὖν 1000. a. Traduco. come se leggessi col Bonitz (p. 159) ᾂν in luogo dell'οὖν: ma perchè mi riesce così più limpido e facile il senso, non perchè creda che la correzione si deva accettare. Nè mi pare coll'Afrodisio (p. 627) che manchi l'apodosi: ma che l'οὖν indichi, che il caso particolare, che si porta ad esempio di quella verità enunciata in generale, non che esserne una ragione, n'è invece una conseguenza; la quale, come evidente e perciò non rifiutabile, dimostra per indiretto la verità stessa. Vedremo l'οὖν compiere lo stesso ufficio in altri luoghi.

(M) Τὸ πρῶτον ἀπορηϑὲν ἀποτρώγουσιν 1001. a. 2. Che vuol dire ἀποτρώγειν? Non è punto chiaro. L'Afrodisio (p. 629. a.) non dice nulla: e l'Asclepio (ib. b.) s'esprime male. Pure, dalle parole di quest'ultimo si può ricavare, che quella parola, nel parer suo, ritiene qui il valore usuale: di mordere a una cosa, tastarla co' denti, rosicchiarla ecc. giacchè dice che significhi quello che fanno i cani prima d'ingoiare, e perciò qui Aristotile voglia dire, che i suoi predecessori parlarono in grosso, senza distinzione ed incompiutamente, perchè parve loro una gretteria, una piccolezza (μικρόν τι λαμβάνοντες) l'andar distinguendo per punto e per virgola ogni cosa. Il concetto sarebbe così il medesimo di quello del § 3 Lib. 2. c. 3., dove, di fatto, si dice che questa gente abborra dalla μικρολογία. Però, per ragioni lunghe e inutili a dire, quest'ultima parte non mi par probabile; e ritenuto il senso dell'ἀποτρώγειν quantunque non tradotta la parola, ho dato un senso un po' diverso al μικρόν τι λαμβάνοντες. Non so però come lo Schwegler (p. 140) abbia potuto interpretare ἀποτρώγειν per hinunterschlucken, ingoiare a un tratto, proprio il contrario: e i Francesi (p. 92), capire, parrebbe, che Asclepio intenda per ἀποτρώγειν vomitare o qualcosa di simile. Ad ogni modo, qualunque sia il senso che si dà a questa parola e al resto, tutta la frase riman sempre una delle più caratteristiche dello stile d'Aristotele.

(N) Ὠς οὔσης τῆν οὐσίας αὐτὸ τὸἕν εἶναι καὶ ὄν τι 1101. a. 11. seg. Queste parole hanno del difficile più che un poco. Ci sono delle varianti. La Bekkeriana ch'è la allegata e tradotta da me, è stata letta anche dall'antico traduttore: invece la volgata ha ταὐτὸ in luogo di αὐτὸ τὸ, ed è seguita dal Bessarione. Un codice Ab ha αὐτοῦ τὸ: e parrebbe che questo con qualcos'altro di diverso leggesse l'Argiropulo, che traduce: quippe cum substantia ipsius sit ipsum esse unius ac entis. Nel commentario dell'Afrodisio, pubblicato dal Bekker, le parole son lette al modo del Bekker: ma il Sepulveda l'ha lette altrimenti o l'ha corrette in modo conforme alla traduzione dell'Argiropulo, quantunque a me paia che la spiegazione dell'Afrodisio calzerebbe meglio, anzi solo colla volgata. Difatto crede che vi si voglia dire, che una medesima sia l'essenza dell'ente e dell'uno e l'uno il medesimo coll'ente. Ora, questo sarebbe davvero il solo senso della volgata, e appunto perciò, la volgata non è buona. Qui non si quistiona dell'identità o diversità dell'ente e dell'uno, ma della natura e maniera dell'esser loro. Restano dunque la Bekkeriana confermata dalla più parte dei codici e l'argiropulana formata da conghietture. Non si dovrebbe quindi accettar questa, se non fosse disperata l'altra. E non è. Aristotile usa di due formule per esprimere l'opinione Platonica e Pitagora intorno all'essere dell'uno: τὸ ἓν καὶ τὸ ὄν εἶναι οὐσίαν è l'una: τὸ ἓν αὐτὸ καὶ τὸ ὄν αὐτὸ εἶνα τι è l'altra. Quest'ultima si contrappone all'altra, appartenente alla dottrina contraria: τὸ ἓν καὶ τὸ ὄν εἶναι ἓτερον τι. È strano che il Bonitz, acuto ed elegante ingegno (observat. crit. p. 41 e met. p. 163), non si sia accorto di questa seconda formola, che pure in tutto il capo è usata molte volte, anzi più volte dell'altra (vedi p. 1001. a. 22. εἰ δὲ μὴ ἔστι τι ἓν αὑτὸ μηδ᾽αὑτὸ ὄν κ. τ. λ., parole che equivalgono a μὴ ὄντος τοῦ ἑνὸς οὐσίας, com'è detto più giù (a. 24): e sul fondamento, che di Platone e dei Pitagorici non si possa dire che facciano qualcosa dell'ente e dell'uno, si sia messo a correggere ad arbitrio tutto il luogo. Mi basta aver notato come appunto è per Aristotile un modo d'esprimere l'opinion platonica il dire, che fanno qualcosa dell'ente e dell'uno per sè, per rendere affatto chiara e legittima la lezione de' codici. Il τι non si deve appiccicare all'ὄν, ma all'ειναι, e tutto il luogo intendere, come se fosse scritto così: ὡς οὔσης τῆς οὐσίας (sott. αὺτῶν) εἶναι τι αὐτὸ τὸ ἔν καὶ (τὸ) ὄν: come che la loro essenza sia che l'uno e l'ente siano qualcosa di per sè soli. Ho conceduto qualcosa alla chiarezza, e tradotto un po' altrimenti: ma mi pare, senza alterare punto il senso.

(O) Λἐγει ὅτι τὸ ἔν ὄν ἐστιν 1001. a. 13. Il Bekker ha voluta seguire la volgata, letta dal traduttore antico e da Bessarione, a dispetto del senso comune, del codice Ab, dell'Afrodisio (p. 630. a. 11) e dell'Argiropulo. Di fatti, il senso comune richiede, l'Afrodisio indica, e l'Argiropulo traduce la lez. dell'Ab che è l'unica buona e possibile. Consiste nel leggere ὅ τι ποτέ τὸ ἓν in luogo di ὅτι τὸ ἔν ὄν. Il Brandis l'aveva ricevuta nel testo e non si vede perchè il Bekker l'abbia rigettata. In effetto, Empedocle non può aver detto, che l'ente sia l'uno: ma aver cercato cosa mai sia l'uno; altrimenti, sarebbe stato un pretto Pitagorico: nè Aristotile lo contrapporrebbe in questo a' Pitagorici. Del resto, non mi bisogna altre parole: il Karsten (Empedocl. p. 318) e il Bonitz (Observat. p. 40, Met. p. 163), hanno dimostrata la necessità della lezione prescelta da me.

(P) Οὐ γὰρ ἓτερον τι καϑόλου κατηγορεῖται, ἀλλὰ ταυτα αὺτά 1001. a. 29. I codici, l'edizioni vecchie e nuove, l'Afrodiso, Siriano, i traduttori antichi e moderni, tutti insomma s'ostinano, in quel che non si può intendere per nessun verso. C'è davvero due codici che l'omettono, e basterebbe, perchè così sottinteso κατ᾽αὐτῶν id. κατὰ τοῦ ἑνὸς καὶ τοῦ ὄντος, si otterrebbe bene o male quella ragione che qui bisogna. Ed è appunto una ragione che ci dimostra che ci siano già nell'uno e nell'ente di per sè solo i caratteri dell'essenza sostanziale. Ora, quali sono secondo Aristotile? Che essa, come dice in tanti luoghi (V. 8. 1017. b. 13 e altri), non si predichi d'altro, ma ogni altra cosa si predichi d'essa. Invece, nel testo come sta, si direbbe per ragione dell'essere essenza l'uno e l'ente, che nessun altro universale si predica di loro: il che non serve a nulla nel caso nostro. Si deve dunque o levar via il καϑόλου o correggerlo. Di correzioni se ne son proposte due; l'una del Bonitz (Observ. p. 114 e Met. p. 164), che ha primo scoverta la magagna, e che vorrebbe leggere καϑ᾽οὗ in luogo di καϑόλου; l'altra dello Schwegler, che leggerebbe invece κατ᾽αὐτῶν. Quella del Bonitz è una correzione molto più felice, e l'ho appunto tradotta, preferendola all'omissione stessa del καϑόλου, perchè, leggendo κατ᾽οὗ, l'oggetto del κατηγορεῖται non ha bisogno d'essere sottinteso. E poi dà alla frase un colore affatto aristotelico.

(Q)Ἕν ἐστιν ἐν τῷ στερεῷ ὁποιονοῦν σχῆμα ἢ οὐϕέν 100. a. 21. Leggo col Brandis e col Bonitz (Observat. p. 42. Met. p. 168.) ἔνεστιν. Il Bessarione e l'Argiropulo traducono appunto inest. L'οὐϑέν potrebbe levarsi via coll'Afrodisio e colla più parte degli editori e traduttori. Gli segue il Bonitz (Met. l. c.) Ma mi pare che si confaccia bene allo stile d'Aristotile (ved. n. H): e perciò col Bekker e il Brandis e parecchi buoni codici l'ho ritenuto.

(R) Μία ἀριϑμῷ καὶ εἴδει 1002. b. 24. Leggo secondo la congettura dell'Afrod. ἄλλ᾽ invece di καὶ: τοῦτο γὰρ, è la ragione dello scoliaste, συνάγει τά τε προειρημένα καὶ τὸ ἐπιϕερόμενον τὸ οὐδ᾽αἱ ἀρχαὶ κ. τ. λ. Il Bonitz (Observ. p. 36 seg. Met. 169) m'ha preceduto e nell'ammettere questa lezione, e nel punteggiare altrimenti del Bekker tutto il periodo. In quanto alla punteggiatura, la ragiona così nel commentario alla Metafisica: Universa enuntiatio eam habet formam de qua dictum est ad I. 3. 983 a. 33, ut eidem apodosi propositae sint duae protases, altera alteri subiecta. Hoc enim dicit: Platonici propterea ideas praeter res sensibiles et mathematicas posuerunt, quod utriusque generis principia specie, non numero finita sunt, si illud est necessarium (εἰ οὖν τοῦτο ἀναγκαῖον b. 25) nimirum principia poni numero etiam nec specie solum finita, necesse est poni ideas. Deinde proximis verbis, ἀλλὰ μὴν b. 30. subsumtionem impugnat, qua principia oportere numero finita esse positum erat, et quibus difficultatibus inde implicemur, monet.

(S) Εἰ μὴν γὰρ ἄλλως, πῶς πρότερον τί ἔσται κ. τ. λ. p. 1002. b. 35. Leggo coll'Afrodisio: ἄλλως. È la lezione tradotta dall'ant. traduttore, dal Bessarione e dall'Argiropulo. Il Bonitz (Obs. p. 10) la difende con la solita sua acutezza ed eleganza.

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