Capitolo II Il nido degli aquilotti

Appena arrivati in Italia dovetti provvisoriamente abbandonare il progetto. C’era altra carne al fuoco.

Bisognava provvedere alla crociera orientale, la cui preparazione era già in atto da qualche mese. Poiché per questa si sarebbero adoperati grossi idrovolanti da bombardamento e cioè gli S. 55 che con le opportune modificazioni avrebbero potuto anche sorvolare l’Oceano, mi parve che le esperienze che stavamo per fare nel vicino Oriente diventassero interessanti anche per la crociera futura.

Intanto chiamai l’ingegnere Marchetti, uno dei miei migliori collaboratori, e gli dissi che entro l’anno 1929 avrebbe dovuto modificarmi gli S. 55, studiando soprattutto la possibilità di applicare loro un motore della stessa potenza, ma col riduttore. Proprio in quei mesi due Ditte italiane, la Fiat e l’Isotta, stavano per portare a compimento la creazione di un motore che avrebbe potuto sollevare, sul 55, almeno 1000 chili di piú. Pregai Marchetti di prenderne accurata conoscenza dal punto di vista del mio progetto. Otto mesi dopo l’ing. Marchetti doveva rifarsi dallo scacco subíto a Calshot in occasione della ultima Coppa Schneider: uscire insomma da una recente sconfitta del suo apparecchio da corsa. Mise cosí nella nuova impresa un impegno ravvivato da un nobile puntiglio. Bisogna conoscere a fondo i nostri geniali costruttori, che hanno il carattere estroso e difficile degli scienziati puri: non è facile sfruttarne completamente le possibilità. Non credo vi siano uomini piú bizzarri dei progettisti di velivoli, hanno «formae mentis» fatte a loro modo e piú s’innalzano nelle sfere rarefatte della loro scienza, piú diventano, in certo senso, candidi e vorrei dire complicati. Bisogna saperli prendere e si ottiene da loro quel che si vuole. Io credo di avere bene imparato quest’arte. I miei migliori amici in aviazione sono gli ingegneri Marchetti, Rosatelli, Pegna e Castoldi, e i maghi del motore Zerbi e Cattaneo. Le prove della crociera d’Oriente mi confermarono nella convinzione delle qualità eccezionali degli S. 55 a tenere il mare e il cielo. Mi persuasi anche di un altro elemento indispensabile al buon esito della crociera futura: come cioè fosse possibile e relativamente facile il mantenere formazioni strette su ampi cieli marini, quando le esigenze della rotta complicano la disciplina di volo. Infine feci, per cosí dire, un’esperienza definitiva sulle virtú e sulla perizia degli equipaggi. La crociera del Mediterraneo orientale si era infatti effettuata con uno stormo piú o meno improvvisato: certo non organico. Soltanto cinque giorni prima della partenza il Comando effettivo dello stormo era stato assunto a Taranto dal Colonnello Pellegrini, senza che egli avesse avuto il tempo di fare lunghe prove per stabilire in precedenza la disciplina e il coordinamento degli equipaggi. Questi però erano stati pienamente all’altezza della situazione e la crociera, condotta si può dire nelle condizioni piú sfavorevoli e con elementi di incertezza se non di insuccesso, aveva invece segnato un clamoroso trionfo per l’aviazione italiana.

Al ritorno dalla crociera del Levante, ripresi a lavorare per il piano di transvolata atlantica. Ero deciso ormai a portarlo a fondo. Intanto il motore Fiat A 22 aveva tentato la prima grande prova: era stata anch’essa un trionfo. Il raid Ferrarin-Del Prete si era svolto senza incidenti. Potevamo ormai contare sopra una creazione industriale perfetta. Passammo a tracciare le grandi linee della crociera.

Occorreva prima di tutto sottoporre al Duce un progetto di itinerario. Stabilito l’inverno o il periodo invernale come il piú adatto per una transvolata sui mari equatoriali, dove fissare le tappe della crociera atlantica? Ed ecco sorgere la necessità di avere a disposizione una buona base mediterranea: la scelta cadde su Cartagena. Già nel 1928 i sessantuno idrovolanti della prima crociera mediterranea avevano ammarato nel Mar Menor presso questa città. Lo specchio d’acqua sul quale gli spagnuoli hanno costruito il magnifico idroscalo di Los Alcazares, si presentava, anche per la crociera futura, come il piú adatto per il primo balzo verso l’Atlantico.

La seconda tappa doveva essere fatta sulle coste del Marocco; anche qui mi fondai sulle esperienze acquisite e fermai la scelta subito a Kenitra, che del resto serve già da tempo quale mèta intermedia ordinaria per gli idrovolanti che scendono verso il sud.

La terza tappa avrebbe dovuto essere Villa Cisneros, anch’essa assai nota nel mondo per la transvolata di Franco, che l’aveva, dirò, inventata, come scalo d’idrovolanti. L’ultima tappa sulla costa africana non poteva non essere Bolama, nella Guinea Portoghese, che si trova a 20° circa a nord di Port Natal. Era bensí vero che mancavano a Bolama quasi tutti i caratteri della civiltà europea: Bolama offriva la certezza di dover affrontare l’Oceano senza il conforto di una assistenza tecnica già impiantata e organizzata. Ma io sapevo che la baia di Bolama, ben riparata, era tra le piú propizie per un decollo. Essa, non soltanto è larghissima, cosicché permette agli apparecchi in corsa sulla superficie marina il piú ampio spazio in due opposte direzioni, ma è protetta da un gruppo di buone isole, le Bissagos, che la garantiscono, per il decollaggio, anche quando l’Oceano non è calmissimo. Inoltre mi suggestionava l’idea di spiccare il gran volo da un porto portoghese. Il Portogallo ha dato i natali a colui che, attraverso le vie dell’aria, ha unito idealmente per la prima volta le coste del vecchio continente con quelle dell’America latina: all’Ammiraglio Coutinho, ottimo amico mio e padre spirituale degli aviatori europei. Del resto non c’era molto da scegliere sulla costa equatoriale dell’Africa. Pensai che tanto per l’arrivo come per la partenza, urgesse soprattutto esser certi che le operazioni non sarebbero state disturbate dall’imprevisto, elemento al quale invece ci avrebbe senza fallo mandato incontro il melmoso e torbido Gambia, fiume africano tra i piú capricciosi, dalle foci del quale ero stato consigliato di partire.

Ad ogni buon conto, non appena il progetto fu sbozzato alla grossa in questi maggiori particolari, mi recai ad esporlo al Capo del Governo, non senza qualche segreta apprensione per l’audacia e la vastità a cui era inspirato. Ma io sapevo come il grande Capo, se con occhio acuto intravvede le difficoltà di una impresa e ne smantella le ragioni utopistiche, è rapido nell’intuirne i caratteri positivi e i significati lontani.

Non mi ingannai. Il Duce comprese, annuí, approvò.

In principio nel progetto si contemplava la partenza di un gruppo di due squadriglie, comprendenti ciascuna tre apparecchi. Il Duce mi disse subito che l’impresa sarebbe riuscita anche se fossimo partiti con un numero maggiore di idrovolanti. Non aspettavo altro per raddoppiare il numero degli apparecchi e degli uomini. Fu deciso che la crociera sarebbe stata fatta da dodici idrovolanti su quattro squadriglie di tre apparecchi e che altri due apparecchi sarebbero venuti sino a Bolama in qualità di apparecchi-officina o comunque di soccorso, bene imbottiti di materiale di ricambio. Formulato il progetto definitivo, bisognava subito risolvere due problemi: primo quello degli uomini, secondo quello della prova pratica. In che consisteva questa? L’arrivo a Bolama, benché difficile, per le zone impervie che occorre transvolare durante la stagione invernale sul Mediterraneo, sulle coste marocchine e sul Rio de Oro, non mi spaventava.

L’incognita era il decollo da Bolama verso l’America. Già altre volte erano sopravvenuti in quella zona, in occasione di precedenti raids individuali, improvvisi squilibri di temperatura, che avevano reso difficile se non impossibile a un idrovolante (carico della enorme quantità di benzina che occorre per attraversare l’Atlantico) di alzarsi a volo. Mi procurai subito le medie della temperatura del novembre, dicembre e gennaio. Sulla base di queste, uno degli uomini piú preparati del Genio Aeronautico, il Ten. Col. Biondi, al quale era in quei tempi demandato l’incarico di preparare il record di Maddalena-Cecconi, insisteva dicendo che si poteva stare tranquilli. Era inutile secondo lui, fare in anticipo esperimenti di decollaggio sul posto. Ma l’esperimento di decollaggio a Bolama era, secondo me, indispensabile, per non avere, piú tardi, dubbi e scrupoli sulla perfetta organizzazione preventiva della crociera. I calcoli sull’aria tipo non mi tranquillizzavano. Queste grandi imprese mettono in gioco non soltanto la vita di volatori eccellenti, non soltanto un materiale costoso, del quale bisogna, nelle nostre condizioni di bilancio, fare il massimo conto, ma l’onore stesso della Nazione, i cui gloriosi colori sono segnati sui timoni di ogni velivolo. Non si eccede mai in precauzioni.

D’altronde io sono convinto che il novanta per cento del buon esito di una crociera dipende dalla «messa a punto» di ogni particolare, anche il piú piccolo. Mi premeva poi, prima di lanciare gli equipaggi a una transvolata che si presentava unica nella storia, dare loro tutte le possibili garanzie di tranquillità.

Un apparecchio prototipo S. 55 col motore a riduttore, dopo un breve periodo di prova, partí dunque dai cantieri di Sesto Calende, giunse a Vigna di Valle e proseguí per le coste africane, con il preciso incarico di fare una serie di decolli nella baia di Bolama nel periodo del dicembre-gennaio, epoca fissata per la crociera dell’anno susseguente. La missione fu affidata al Cap. Stefano Cagna che aveva come secondo il Ten. Calò Carducci; il Ten. Col. Ilari ebbe il comando della spedizione. L’apparecchio seguí regolarmente la rotta prescritta e dai primi di gennaio fino a oltre il marzo del 1930, il Cap. Cagna eseguí una serie numerosa di decollaggi con un carico di carburante eguale a quello che sarebbe occorso per la transvolata dell’Atlantico. Le prove riuscirono brillantemente.

Mentre l’apparecchio del Cap. Cagna partiva per la Guinea, noi intanto incominciavamo a preoccuparci del problema degli uomini.

Chiamai a rapporto a Roma tutti i Comandanti dei Gruppi da Bombardamento marittimo e insieme con loro studiai la formazione di sedici equipaggi: si dovevano infatti calcolare i dodici equipaggi corrispondenti ai dodici apparecchi della transvolata, piú i due degli apparecchi-officina, piú due equipaggi di riserva. L’Aeronautica italiana difetta certo di mezzi finanziari, non di umane virtú. Gli uomini volonterosi, ricchi di perizia tecnica quanto di coraggio, sono tanti che alla vigilia, di ogni impresa rischiosa, c’è soltanto la difficoltà della scelta. Dico questo, non soltanto pensando ai veterani delle mille gesta aviatorie della guerra e della pace, i cui nomi sono in gran parte noti in Italia e all’estero, ma riferendomi soprattutto ai giovani, anzi ai giovanissimi. Mi accorrevano trentadue piloti, volontari al cento per cento: e non soltanto volontari, e non soltanto decisi a rischiare la vita senza un attimo di rimpianto, e non soltanto espertissimi: ma anche aitanti e robusti perché la crociera avrebbe richiesto una resistenza fisica a tutta prova. Inoltre occorrevano per ogni equipaggio un motorista e un radiotelegrafista altri trentadue uomini scelti per merito tra l’aristocrazia morale dell’Aeronautica: in totale sessantaquattro persone. Potevamo disporre di un numero triplo e quadruplo di candidati. Bastò qualche vaga notizia. Che ondate di passione, che fremito di speranze per tutti gl’idroscali d’Italia! Quanti aviatori piansero di dolore per non essere stati prescelti! Ma era un numero fisso. Non poteva aumentare. Dopo pochi giorni i 64 prescelti venivano assegnati al gruppo speciale di allenamento di Orbetello.

Questo gruppo speciale avrebbe potuto costituire poi il primo nucleo di una scuola per bombardamento marittimo, che io intendevo costituire e far funzionare dopo la crociera, per istruirvi ed allenarvi i piloti di questa specialità.

Ebbi subito l’intuizione di affidare la direzione del Gruppo Speciale al Comandante Maddalena, ma in quel momento egli era impegnato nella preparazione dei suoi records di durata e distanza in circuito chiuso, che poi ebbero un esito vittorioso. Si trattava di trovare un uomo che lo sostituisse, cosa non facile per le mansioni che gli sarebbero state attribuite: un uomo che avesse, come il Comandante Maddalena, non soltanto un alto prestigio fra i piloti, ma un’ardente passione per l’impresa e fosse capace di imprimere al Gruppo Speciale, destinato ad Orbetello, lo spirito altissimo e il profondo senso di responsabilità nella piú rigida disciplina, che animavano quello analogo già costituito e funzionante a Desenzano per la Scuola di Alta Velocità.

Con la conoscenza personale degli uomini che mi son fatta in quattro anni di diretta esperienza, difficilmente sbaglio nella scelta dei migliori, quando si presentano casi particolarmente delicati. La mia attenzione in quei giorni cadde sul Maggiore Ulisse Longo, Addetto Aeronautico alla nostra Ambasciata di Madrid, che già aveva avuto il Comando del Centro sperimentale idrovolanti di Vigna di Valle e vi aveva fatto splendida prova. Non appena il Maggiore Longo seppe quale era la posta delegata alla sua perizia e alla sua virtú di comandante, in attesa di Maddalena, impegnato, come ho detto, altrove, accettò con entusiasmo, lasciando libero il posto che egli ricopriva a Madrid.

La Scuola funzionò dal 1° gennaio 1930. Non potei recarmi a inaugurarla ad Orbetello. Vi andò il Generale Valle, Capo di Stato Maggiore dell’Arma, e portò agli Ufficiali del Gruppo Speciale un virile saluto e un severo incoraggiamento. Grande era il compito che li attendeva, fuori dell’ordinario, degno un giorno di essere registrato negli annali gloriosi. Avevano dodici mesi a disposizione per prepararsi: non doveva mancare lo sforzo per apprendere e la disciplina per allenarsi. Piú che una Scuola, quella doveva essere una specie di Collegio militare, dove gli animi dei predestinati per nessun motivo dovevano essere distratti dalla tensione ideale e morale verso la mèta.

Il Capo di Stato Maggiore non soltanto parlò, ma agí da quel grande soldato che è. Egli infatti mi chiese subito di far parte della spedizione e io accolsi il suo desiderio con molta soddisfazione.

Come funzionava il Gruppo-Scuola di Orbetello?

Tutt’intorno l’idroscalo è circondato da un alto muro, garanzia di una ideale e volontaria clausura. Restammo subito intesi che tanto gli scapoli quanto gli ammogliati, avrebbero varcato quel muro soltanto ogni quindici giorni. Quell’unica uscita fu pomposamente chiamata «domenica di quindicina». Il programma di studi comprendeva, si può dire, tutta la gamma delle scienze esatte applicabili all’Aeronautica: matematica, astronomia, navigazione, geografia, fisica, ecc. Il Tenente Colonnello Biondi, coadiuvato dal professor Simeon, ebbe la direzione degli studi teorici. Connessa con questi, vi era la scuola pratica consistente in prove di volo, decolli con forti carichi, navigazione in formazione con pieno carico, esercitazioni in volo diurne, esercitazioni notturne, decolli e ammaraggi in mare aperto e con mare agitato, collegamenti radio-telegrafici tra apparecchio e apparecchio, comandi a distanza e collegamenti tra gli idrovolanti e le navi di scorta.

La Scuola funzionò alla perfezione. Dopo aver battuto i suoi records, il Comandante Maddalena ne prese la direzione effettiva. La Scuola fu per cosí dire la proiezione delle qualità morali di questo ufficiale, cosí note ed evidenti che basta, a ricordarne l’eccellenza, soltanto un sobrio accenno: egli non potrebbe desiderare un piú ampio e degno elogio di quello che i risultati della Scuola di Orbetello esprimono da soli. Sono stati dodici mesi di macerazione spirituale e di sforzo fisico, di disciplina quasi conventuale e di slancio che si potrebbe dir mistico, dodici mesi a cui soltanto temperamenti di eccezione, come si sono manifestati i piloti prescelti alla crociera atlantica, avrebbero potuto resistere.

Verso il giugno incominciarono gli esperimenti notturni in formazione sul Tirreno. Erano voli lunghi e difficili compiuti nel cuor della notte con le acque spesso sconvolte da tempeste, quali ben conosce fin dall’antichità il mare di Virgilio: fatiche improbe, rischi gravi, problemi che spesso apparivano insolubili per il mantenimento della formazione e la disciplina di volo. Ma l’estenuante esperienza fu compiuta senza che un incidente venisse a turbare il lavoro serrato della Scuola.

A luglio la preparazione si poteva ritenere giunta al suo culmine. Avevo un gran desiderio di essere vicino ai miei futuri compagni di volo. Volevo vederli all’opera sul mare. Non mi bastavano piú una breve visita compiuta nei ritagli di tempo e i racconti degli altri. Volevo vedere il reparto in volo. Profittai quindi del breve periodo di licenza estiva, per conciliare il mio insopprimibile desiderio di liberi orizzonti e di aria pura, con il programma di avvicinarmi alla Scuola di Orbetello senza dar troppo sull’occhio. Quanti in quei mesi erano passati vicino al chiuso recinto dell’Idroscalo senza neppure sospettare la magnanimità dell’opera che si andava preparando! Neppure gli ufficiali dell’Aeronautica — ad eccezione di pochi messi al corrente per dovere di ufficio — sapevano i particolari dell’impresa progettata.

Qualche giornale straniero ne parlò durante l’estate, ma il Governo poté smentire la notizia con un comunicato nel quale era piú che giustificata la sibillina reticenza: diceva che nessuna crociera italiana era in vista per l’estate e per l’autunno: infatti si stava preparando per l’inverno...

Stabilii dunque un camping nella pineta che si estende sul tratto di costa tirrenica che va da Viareggio a Forte dei Marmi.

Mai si era visto in Italia qualche cosa di simile: un Ministro piantar le tende all’aria aperta sotto ombrelle di pini marittimi e viver quasi da primitivo sulla spiaggia marina! Per quale motivo non era sceso in redingote e cilindro, con largo séguito di visi lunghi e di giubbe nere, in uno dei tanti alberghi internazionali che lo snobismo delle classi privilegiate, la mania esibizionistica dei pescecani e la cocotteria femminile popolano nei mesi estivi, con sommo gaudio e profitto degli albergatori svizzeri o italiani? Invece questa volta niente code, niente tube, niente borsacce di cuoio nero, ma il canto degli uccelli, l’odor della resina e il rumore del mare: qualche volta i capricci del vento, che minacciavano di buttar all’aria le tre tende costruite per il Ministro rivoluzionario delle consuetudini (una era destinata al Duce, che avrebbe voluto e non poté venire...). Il vento aveva i suoi diritti e non mancava di fare replicate visite di dovere a chi appunto era Ministro dell’Aria. Veramente quella vita di tenda non era poi cosí selvatica come avrebbe potuto sembrare. Se è vero che durante il giorno si viveva — i miei pochi compagni ed io — in costume da bagno e con una frugalità da pescatori, alla sera eravamo capaci di metterci una giubba e di ricevere, con le dovute forme, entro le pareti di tela, molti visitatori, che giungevano, attratti dalla novità, dai vicini centri mondani, accompagnati anche, qualche volta, da gentili visitatrici, in cui la curiosità aveva finito per avere il sopravvento su la soggezione. Lí, presso le tende, era una villa, «La Versiliana», che era stata messa a mia disposizione, ma nella quale non sono mai entrato.

Era la villa ove Gabriele d’Annunzio in altri tempi aveva scritto l’Alcione, cantando sui metri forse piú dolci che la poesia italiana abbia mai conosciuto, la magia dei lunghi tramonti estenuanti sulle bocche dell’Arno, le musicali piogge primaverili sui pini, i lagni del centauro innamorato e le belle labbra di Ermione. Ora quella villa è proprietà di un celebre medico omeopatico, uomo amabilissimo, colto e fine: il Dottore Mattoli, mio grande provveditore di frutta e di vini profumati, sempre generosamente offerti. La mensa nella pineta de «La Versiliana» fu in quei giorni molto frequentata: non mancò il buon umore e la sana ironia della giovinezza per condire salacemente le storielle pettegole che ci provenivano dalla retrostante e contigua società dei centri mondani e specialmente dalle spiaggie di lusso molto occupate a parlare del camping della «Versiliana». Vennero un giorno, reduci da Pisa, i camerati Bottai e Alfieri, venne un gruppo di grandi artiste drammatiche italiane! Vennero giornalisti attratti dalla fama di certe pelli di leone e di orso bianco, sulle quali, si diceva, gli attendati della «Versiliana», accoccolati alla moda araba, ricevevano gli ospiti. Insomma le fantasie lavoravano!

Che importava? Lasciavo lietamente correre. Il diversivo mi era utile. In realtà avevo portato alla «Versiliana» un minuscolo idrovolante e quella messa in scena mi serviva benissimo per fare in pace le mie esercitazioni di giorno e di notte sul mare. Ben altra distesa d’acqua e forse ben altre tempeste mi attendevano di lí a qualche mese: le piccole curiosità si sarebbero mutate in commenti ben altrimenti lusinghieri. Feci cosí per mio conto un breve ma intenso periodo di allenamento e intanto approfittai delle ore in cui restavo libero per andare quasi ogni giorno a Sarzana. A quell’aeroporto presi in dieci giorni tre brevetti.

Ma a me premeva un’altra cosa ancora ed era la Scuola di Orbetello. Fin dall’inizio del camping volli che i voli tra Orbetello e Forte dei Marmi fossero frequenti, cercando però sempre di non dar troppo nell’occhio. Sulla nostra impresa, sí, perentoriamente, volevo che gli oziosi non chiacchierassero. Vennero infatti gli amici di Orbetello tutti in gruppo fin dai primi giorni; ammararono in mare aperto senza curarsi affatto dell’onda lunga e insidiosa. Ogni apparecchio aveva a bordo il suo battellino di gomma e su questo gli equipaggi giunsero a terra senza disturbare nessuno. Ne andò di mezzo soltanto la mia mensa, che fu quel giorno saccheggiata da quaranta persone, in cui l’appetito, veramente formidabile, era appena uguagliato dalla fenomenale allegria. Quella gita serví di premio al mirabile gruppo di giovani rinchiusi da oltre sei mesi entro le mura della Scuola di Orbetello. Anzi aderii, trovandomi fra loro — la compagnia per me piú cara — alla proposta fattami, di organizzare di lí a qualche giorno, in loro onore, una piccola festa. Eran tutti giovani, forti e sani, veramente «in gamba», come si dice in gergo militare. Le domeniche di quindicina erano certo un magro sfogo per quelle nature esuberanti. Sarebbe stata grande ricompensa allo sforzo compiuto nei mesi precedenti, il venire una notte in volo fin davanti al camping dove sarebbero discesi per organizzare una festa da ballo con qualche gruppo amico di graziose bagnanti. Tutti questi «atlantici» erano, all’infuori di me e di Valle, appassionati ballerini.

La partenza sarebbe avvenuta tra due giorni, nelle prime ore di notte, in volo e nella formazione consueta.

Due notti dopo, gli idro decollavano da Orbetello verso Forte dei Marmi. Il cuore dei piloti era certo piú gaio e leggero del solito: il cielo luminoso, perché la luna era piena e sgombra, al centro quasi della vasta conca azzurra.

Ma ecco, non passa mezz’ora, che sul mare si accumulano, rotolando in corsa furibonda, i piú grevi nuvoloni: l’aria si fa elettrica, il mare diventa metallico, di acciaio fuso, e si imbianca, arricciato da piccole criniere di schiuma. La luna appare e scompare. Poi comincia a cadere la pioggia a scrosci, poi guizzano saette fra le nuvole e rombano spaventosi boati sul mare.

Pare che la foresta s’incendi e, tra gli squarci, il mare, che s’intravvede sotto lo sprazzo intermittente dei lampi, monta e mugge. Sulla spiaggetta della «Versiliana», insieme coi fulmini e gli scrosci di pioggia, piomba una angoscia indicibile. Si sa che gli apparecchi son partiti da Orbetello: ora sono fra cielo e mare, in quell’inferno, sotto la sferza del vento e lo schiaffo della pioggia. Procederanno? Torneranno indietro? Impossibile ammarare qui presso la costa. La notte sinistra grava su di me col suo incubo. Guardiamo lontano verso il sud. Ed ecco il miracolo. Ecco tra le ombre fosche, striate di fulmini, in quella furia panica di elementi, che si è scatenata in cielo, alcuni lumi lontani. Sono minuscole stelle rosse e verdi, i fanalini che stanno all’apice delle ali di ogni apparecchio. Ecco un rombo che non è quello del tuono, un rombo regolare e continuo di saldo cuore metallico. Esso riempie di sé il cielo e la terra e copre con la sua forza il tremito del cuore nostro, attonito e sgomento! Sono loro! Sono loro! Come gli eroi della leggenda, giungono cavalcando le nuvole, dominando la traccia dei fulmini che sembrano uscire dalle loro mani, accompagnati dal rombo pauroso dei tuoni. Sono partiti decisi a raggiungere la loro mèta e non hanno rinunciato ad arrivare, piú forti della tempesta. Anzi volano ala contro ala, imperturbabili, quasi si muovessero sulle rotaie di un binario invisibile. Il loro volo taglia l’aria, preciso e irresistibile come il diamante sul vetro. Dominiamo la commozione e mettiamo mano alle pistole Very per avvisarli di non scendere. Essi comprendono perfettamente il segnale, fanno un giro sul campo, poi, come se nulla fosse, volteggiano maestosamente verso la lontana isola del Tino, proprio là dove il cielo è piú cupo... Riprendono cosí con la stessa regolarità la strada del ritorno... Altro incubo per coloro che sono rimasti sotto le chiome lacerate dei pini.

Quando, dopo un’ora e mezzo, seppi che tutti indistintamente, nel massimo ordine e con la massima regolarità, avevano ammarato sullo stagno di Orbetello, compresi a quali risultati era giunta la preparazione di sei mesi e mezzo, quanto essa fosse stata proficua, quale garanzia ci desse per il buon esito dell’impresa. Era ciò che io desideravo.

Quanto al camping, giudicato da molti una stranezza incompatibile con la mia alta carica, fu levato in poche ore, tre giorni dopo. Non c’è caso nella vita, che non dia occasione alla gente di dire la sua. Chi approva e chi condanna. Perché lasciare i quacqueri in ozio? Il mio camping era servito a qualche cosa. Partii da Forte dei Marmi con la speranza di farne qualche altro, in avvenire, al mare o in montagna, e di avere cosí un’altra buona occasione di sbalordire il prossimo, nemico delle mura di tela!

Durante il mese di agosto fu organizzato un secondo esperimento di volo notturno. Il gruppo speciale partí da Orbetello nello splendore di una luna da favola. Ma era detto che tutti gli esperimenti anteriori alla crociera si dovessero svolgere nelle peggiori condizioni. Non dobbiamo rimproverarne la sorte, la quale ci permise di andare incontro a difficoltà tanto gravi senza sottoporci ad alcuna perdita di uomini o di materiale. La scuola dei forti ha bisogno di lotta. Per quella notte tra Orbetello e Tripoli, sorpassata la prima lusinga di volare sopra una strada d’argento e in un cielo da presepio, i nostri piloti dovettero rassegnarsi ben presto a prendere conoscenza della nuvolaglia piú fastidiosa. Per sei ore consecutive volarono nella piú completa oscurità, sopra le nubi, a una altezza non inferiore ai mille metri.

Quando il primo albore ruppe la foschia verso oriente e permise agli aeronauti di vedere qualche cosa, si accorsero di sorvolare l’isola di Pantelleria. Non vi era stato neppure lo sbaglio di un grado, nella rotta di oltre settecento chilometri, tutta compiuta con la bussola nella piú assoluta oscurità. Arrivati a Tripoli nessuno scese in città all’infuori di Valle e Maddalena.

Il terzo esperimento fu compiuto con la luna di settembre e superò i precedenti per la sua drammaticità.

Al volo notturno verso Tripoli non avevo potuto partecipare di persona perché trattenuto da febbri noiose. Ma non rinunciai ai voli di allenamento per conto mio.

Mi piaceva partire alla chetichella, dopo le ore di ufficio al Ministero, e correr fuori di città in quelle belle serate estive che allungano nella notte, ai confini dell’orizzonte, gli ultimi resti di uno splendore che non vuol morire e pare aspetti, dall’altra parte del cielo, il richiamo dell’alba imminente. Mi alzavo a volo da Ostia e su verso le nuvole purpuree! Incomparabili passeggiate vespertine! Dove andavamo? Qualche volta incontro all’arcipelago toscano, qualche volta verso il golfo di Napoli, qualche volta verso la Sardegna. Si facevano cosí quattrocento, seicento chilometri di volo e si finiva per andare a pranzo dopo mezzanotte da qualche parte con una fame indiavolata. Il capitano Cagna, che è una discreta forchetta, non nascondeva nelle ultime ore i suoi languori di stomaco.

Non volli dunque, come ho detto, rinunciare all’esperimento in preparazione per la luna di settembre. Decollammo poco dopo il tramonto del sole, io e Cagna, da Ostia, verso Orbetello, e restammo col gruppo degli «atlantici» a cena ad attendere la mezzanotte a Porto Ercole, nella vecchia casa di Bettino Ricasoli. La gentile proprietaria, una gentildonna toscana, aveva voluto quella sera ospitare gli aviatori. Restammo fino alla mezzanotte. Ma alle due già tutto il gruppo decollava contemporaneamente dal lago di Orbetello. Anche questa volta la luna agí da quella perfetta fintona che in altri tempi attrasse giustamente i fulmini dell’amico Marinetti. Ci lusingò a partire col piú ebete dei suoi sorrisi e ci piantò in asso a mezza strada.

Un decollo nella notte, contemporaneamente eseguito da nove apparecchi, che stanno l’uno a fianco dell’altro in formazione serrata e hanno l’obbligo di restare vicini durante il volo, fa una certa impressione. A poppa ogni apparecchio ha un piccolo faro luminoso che lo fa rassomigliare a una lucciola gigantesca; di qua e di là, sulle punte estreme delle ali, verso prua, vi sono due minuscoli fanali di rotta.

Questa era la prima volta che mi accadeva di volare di notte in formazione. Presto mi abituai anche alla nuova forma di navigazione, che aveva come unico punto di riferimento la bussola e i fanalini di rotta degli altri apparecchi. Ma non bisogna credere che la cosa fosse tanto semplice anche per me, che pure avevo già provato nella vita tanti momenti difficili. In aria faceva caldo. Un caldo poco naturale anche per quella notte d’estate. Fiutavamo il vento, guardando avanti e di fianco a noi, con l’aria di chi si attende una brutta sorpresa. Infatti non avevamo ancora sorpassato le Bocche di Bonifacio tra la Sardegna e la Corsica, che il cielo ci si sbarrò davanti nero come la bocca dell’orco. Eran dolori. Di là dalle isole c’investí subito un vento infernale.

Gli apparecchi cominciano a ballare maledettamente. Uno strato di nubi fittissime ci investe, ingoia il cielo, copre la luna, nasconde sotto i nostri occhi il mare. Bisogna tener d’occhio gli strumenti: non si sa a quale quota si navighi. Pure qualche squarcio ogni tanto lo fa tra le nuvole, il vento: ed ecco, in quel ballo di streghe, apparire e poi subito scomparire, sotto di noi, una nave mercantile: ecco piú tardi un cacciatorpediniere: ballano come noi e piú di noi: non riusciamo a vedere se sono italiani o francesi: cavalcano le onde sul piú straordinario taboga che si possa immaginare.

Sono due ore di navigazione veramente perfide. Ma per fortuna le notti sono ancora corte e finalmente sorge il sole in pieno mare, mentre voliamo tra la Sardegna e le Baleari.

Strano questo effetto d’alba marina. Sorpassato lo strato delle nuvole, c’era ritornata di faccia la luna. La sua luce abbagliante non ci aveva permesso di avvertire l’arrivo del sole: ed ecco che questo è già all’orizzonte. Meno male. È tornato sereno. Adesso c’è intorno a noi una luce falsa, ma di grande effetto: il sole non è ancor riuscito a cacciare dal cielo la luna e insieme entrambi ottengono il risultato di renderci impossibile il calcolo delle distanze. Fino alle Baleari non si incontra una nave: e sí che siamo sulla via che conduce da Marsiglia alle colonie africane. Lasciamo a sinistra, a circa otto miglia, l’isola di Minorca: passiamo al largo di Maiorca. Si svela sotto di noi, sulla sinistra, l’incantevole baia di Pollenza, incoronata di monti selvaggi, dove nel 1928 scendemmo con gli idrovolanti della prima crociera. Poco dopo si intravvede Capo S. Antonio, la terra ferma. Il canale tra le isole e la costa è popolato di piroscafi a vela e a vapore. Bellissime, tutte gonfie di vento, si avanzano due golette, che sembrano uscire da una vecchia stampa. Sono cosí pittoresche che faccio una piccola deviazione per passarci sopra. Finalmente ecco il Mar Menor, lo stagno di Cartagena. Come avevamo prestabilito, gli apparecchi si dispongono adesso in nuova formazione: passano cioè dalla formazione a cuneo ad una costituita da due linee parallele di quattro apparecchi ciascuna in fila indiana dietro l’apparecchio mio che li precede di qualche metro.

Scendiamo brillantemente davanti all’idroscalo di Los Alcazares, accolti con festa dagli ufficiali spagnuoli, nostre antiche conoscenze. Faccio rapide visite di dovere alle autorità di Cartagena. Il caldo è soffocante nel tratto di costa tra l’Idroscalo e la città. Sembra un tratto d’Africa. Il Governatore navale di Cartagena fu in Italia nel ’24 insieme col Sovrano di Spagna. Era anzi allora Comandante della flotta. Rinnoviamo la conoscenza con grande cordialità. Il Governatore militare, alto, dai baffi grigi, ha un nome italiano: un nome d’altri tempi: Don Procopio Pignatelli. Pare ne sia molto orgoglioso: perché a un mio complimento, risponde autodefinendosi: «la vera espressione de la latinidad»: infatti è discendente di italiani, è nato a Parigi ed è di nazionalità spagnuola! Mi accorgo con piacere che è amico dell’Italia: non ha torto: possiede ancora molta terra in Puglia (dove però non è mai stato) e le rendite gli vengono trasmesse in lire rivalutate. Mi dà una curiosa spiegazione del suo concetto sulla gioventú degli aviatori:

— Quelli della mia età sono — dice — arrugginiti e pesanti: per volare bisogna essere piú leggeri...

Evidentemente ci ha presi per dirigibilisti. Del resto con i suoi grandi speroni ribaltati e il fiero gesto della testa, egli incarna il tipo del «general de Caballeria». È una bella figura decorativa. Io amo la Spagna per il suo colore e le sue intatte caratteristiche.

Queste non mancano a definire una riunione cordialissima della sera all’Idroscalo di Los Alcazares. I nostri camerati iberici non potrebbero essere piú premurosi: ne son venuti anche da lontano.

La notte ripartiamo da Los Alcazares verso Orbetello. Al momento di decollare ci si dice che un apparecchio perde acqua dalle camicie dei cilindri. Gli diamo due apparecchi di scorta con l’ordine di rientrare insieme qualora la perdita dell’acqua continui. Infatti, dopo pochi minuti di volo, sono ritornati verso Los Alcazares. Siamo ormai in sei e puntiamo decisamente su Capo Tenez sulla costa d’Africa.

Dobbiamo sorvolare la spiaggia dell’Algeria e della Tunisia fino a Biserta per poi puntare sulla Sardegna. Ancora una volta navighiamo in mezzo all’oscurità. Le nubi sono bassissime. Si dura non poca fatica a tenere la formazione. Il buio è completo. Non mi sorride certo l’idea di una nuova notte di burrasca. Pure bisogna procedere e prendere l’avversa sorte con filosofia. Non vedo piú Valle sulla mia sinistra. Il radiotelegrafista non può saper nulla di lui, perché si è messo sul boccaporto degli apparecchi a fare da vedetta: in quella oscurità volando cosí vicini, non è difficile investirsi gli uni con gli altri. All’alba che ci sorprende sulla baia di Algeri, conto gli apparecchi che volano vicino al mio: manca quello del Capo di Stato Maggiore. Il radiotelegrafista del mio apparecchio chiede invano notizie dello scomparso. La radio di Valle non si fa viva. Monte Moro, la stazione di Genova, non sa nulla: Cartagena non risponde neppure. Preoccupati, dopo avere atteso per mezz’ora, con ampie volute al largo della baia, continuiamo il viaggio lungo la costa. Ormai l’aria è limpida. Senza questa preoccupazione, sarebbe un volo delizioso. C’è una visibilità perfetta: mantenendoci fuori delle acque territoriali si vede benissimo la costa algerina e tunisina. Conto sino a quarantadue vapori sulla rotta che è quella di Suez-Gibilterra. Ma la pena per la scomparsa dell’apparecchio di Valle, aumenta di ora in ora. Ammariamo a Cagliari: faccio radiotelegrafare ancora alle stazioni di S. Paolo e Monte Moro. Nessuno ha avuto notizia sulla sorte toccata al Capo di Stato Maggiore. La stranezza maggiore è quella di Cartagena, dove la potentissima stazione continua a non rispondere.

Passiamo un pomeriggio orribile.

Alle quattordici ordino che siano riforniti gli apparecchi e che si dispongano tutti a decollare alle diciotto per rifare la rotta di prima e volare in traccia dell’apparecchio perduto. Manca mezz’ora alla partenza ed ecco finalmente, alle cinque e mezzo, la stazione radio di Cartagena si sveglia e veniamo a sapere che dopo quattro ore di deriva un piroscafo greco ha raccolti i nostri compagni e trascina a rimorchio l’apparecchio. Questa prima notizia ci elettrizza. Desideriamo altri particolari. Si apprende cosí che l’apparecchio del Gen. Valle aveva ammarato in pieno mare in burrasca, con un’onda alta parecchi metri e nella piú completa oscurità notturna. Era una grande prova di maestria, che avevano fornito i piloti, e di resistenza, che ci aveva dato il materiale. Il piroscafo greco era passato vicino all’apparecchio per puro caso: quella non era la sua rotta: per fortuna, invece di rifornirsi a Gibilterra, si era rifornito di carbone ad Orano e questa era stata la causa della rotta nuova. Per l’appunto quella notte pilotava la nave il Capitano, perché vi erano state liti a bordo e il timoniere era ferito. Non appena il Capitano aveva visto l’idro italiano, si era accostato e l’aveva preso a rimorchio. Restava da sapere per quale motivo aveva tanto tardato a rispondere proprio la stazione di Cartagena. Il motivo era semplice. I radiotelegrafisti spagnuoli, già stanchissimi per la fatica della notte precedente passata nell’attenderci, erano andati a letto tutti.

Finalmente rasserenati, alle ventidue della sera, partivamo da Cagliari verso Ostia e Orbetello. Avevamo a bordo con noi due ufficiali spagnuoli. Il Colonnello comandante l’Idroscalo di Los Alcazares aveva fatto molte difficoltà prima di lasciarli partire. Per troncare ogni questione, essi avevano chiesto una licenza e si erano imbarcati a loro... rischio e pericolo. Queste parole avrebbero potuto diventare ricche di significato drammatico, nella notte precedente, in mezzo alla bufera, che avevamo attraversato. L’ultima tappa invece fu dolcissima. Gli spagnuoli poterono anche divertirsi al pilotaggio. Il mare sottostante non poteva essere piú tranquillo. Bello lo spettacolo delle nubi sfioccate sotto la luna, a valloncelli morbidi, in fondo ai quali era il liquido azzurro: una specie di paesaggio siderale. Verso l’una, eravamo sul bacino del Tevere ad Ostia. Con un razzo Maddalena illuminò l’acqua bionda del fiume di fronte all’Idroscalo ed io e Cagna ammarammo. Gli altri «atlantici» proseguirono tutti per Orbetello, dove il Generale Valle arrivò dopo due giorni, con i tre apparecchi che erano rimasti a Los Alcazares.

Risultato: questo esperimento ci diede la conferma positiva e definitiva della perfetta preparazione del personale a superare la prova. Era probabile che incontrassimo sull’Atlantico un tempo uguale: era difficile che ne avessimo trovato uno peggiore. Aggiungo che tutti questi voli di preparazione e di allenamento, venivano fatti su vecchi apparecchi forniti di vecchissimi motori, ciascuno dei quali aveva al suo attivo qualche centinaio di ore di volo. Con il materiale nuovo della crociera, un incidente come quello capitato al Generale Valle non sarebbe forse avvenuto.

Per tutto il mese di ottobre continuai a tenere i contatti con la scuola di Orbetello. Rividi Maddalena pienamente sicuro, mi resi conto della minuziosa preparazione del personale e della efficenza del materiale. La partenza poteva quindi aver luogo il quindici novembre. La data sarebbe stata spostata di qualche giorno, solo in caso di tempo «proibitivo».

È pronto ormai a partire il gruppo delle potenti navi da guerra velocissime che ci faranno la scorta. Pronto il piroscafo «Aosta», una goletta che porta benzina a Natal, e l’altra nave, l’«Alice», di proprietà della Società Anonima Navigazione Aerea (SANA), destinata alla preparazione delle basi sulle coste d’Africa, non aspetta che l’ordine di salpare.

Ma... c’è un ma assolutamente imprevisto: ed è la rivoluzione brasiliana.

Port Natal è occupato dai ribelli, mentre Rio è ancora in possesso del governo federale. Da tutte le regioni del Brasile giungono notizie catastrofiche.

Quel che è peggio, le notizie sono anche contraddittorie. Fermiamo i piroscafi già in procinto di prendere la via dell’Atlantico, e rinviamo la crociera di un mese. Invece del quindici novembre sarà presa come data utile il quindici dicembre. Speravamo di far Natale sulla via del ritorno; invece lo faremo volando (vorremmo essere la vigilia di Natale a Bolama). Non importa: resteremo trenta giorni di piú per fare qualche altra prova generale e perfezionare la preparazione degli equipaggi. La luna di gennaio non mancherà di esserci propizia.

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