Capitolo III UOMINI E MACCHINE

La crociera avrà inizio ad Orbetello. Facciamo assieme ai lettori una visita al nido delle aquile prima che esse spicchino il volo. Ne avremo insieme un ricordo indelebile. Gli italiani credono forse ancora che i grandi raids siano frutto di una piú o meno audace improvvisazione e che la dea Fortuna voli sull’unica ruota, con una benda bianca sugli occhi, come ai tempi del mito, davanti agli stormi vittoriosi. No. La benda è caduta da un pezzo dalla fronte della capricciosa giovinetta: e se per sua virtú resta ancora un certo margine di imprevisto alle imprese degli uomini, questo margine tende a restringersi di giorno in giorno. Già nelle crociere precedenti il calcolo delle probabilità era largamente a nostro favore. Per la crociera atlantica esso si è fatto anche piú propizio. A rendercene convinti basterà dare uno sguardo breve ai particolari tecnici dell’impresa.

Tranquillizzo subito i miei lettori. Scorrendo questo capitolo non si annoieranno. La materia è di alto interesse anche per un profano. La nostra moderna sensibilità ci induce ormai a scoprire maggiori elementi di bellezza e di grazia in una macchina che in un modello di statua greca. Qui sono pienamente d’accordo con Marinetti. Basta un primo sguardo all’S. 55, sia che volteggi in aria come un candido airone, ad ali spiegate, con la sua leggerezza quasi diafana sotto il bacio del sole, sia che dondoli a fior di acqua, sugli scafi gemelli, come un uccello acquatico appena posato da un lungo viaggio e ancora librato a mezz’aria nel fremito del volo. Nulla è piú bello nel significato classico della parola, del profilo che esso ci mostra nella linea dolcemente ascendente delle sue delicate nervature, dagli agili scafi alle ali affusolate, col possente motore issato in alto come una testa d’aquila in agguato.

Visitiamo dunque questi apparecchi. Noi già li conosciamo da lungo tempo. È forse il piú popolare idrovolante del mondo. Ha una storia gloriosa. Che novità vi hanno portato oggi i costruttori? Soltanto qualche piccola trasformazione. Sullo scafo i costruttori si sono limitati a qualche ritocco, affinché l’apparecchio decolli piú facilmente. A poppa lo scafo termina ora a punta, in uno sperone ricurvo, che è destinato ad affondarsi nell’acqua come il vomere d’un aratro, mentre prima finiva in una coda piatta a becco d’anitra. Altre modificazioni serviranno a sistemare meglio il carburante e a rendere il fondo piú resistente nella corsa sull’acqua. Lo sperone terminale degli scafi avrà importanza soprattutto nell’ammaraggio; esso servirà sia come freno, sia come elemento di equilibrio.

Anche al castello dei motori è stata apportata qualche minuscola innovazione. Del tutto nuova è la sistemazione della cabina di comando, che è diventata una vera e propria limousine. Essa è unica, comoda, spaziosa ed ermeticamente chiusa a vetri, per proteggere i piloti dalle intemperie. Gli strumenti di precisione sono stati disposti sul cruscotto in modo da renderli contemporaneamente tutti visibili; i due seggiolini dei piloti, piú bassi e piú lunghi, si prestano al riposo alterno. Il completo isolamento della cabina di comando permetterebbe ai piloti di fumare. Nell’apparecchio di Maddalena, divoratore di sigarette (io ho quasi smesso il viziaccio!), vi è un accendisigaro elettrico e un portacenere ad acqua. Il sistema di illuminazione elettrica è agevole e piú che sufficiente per tutte le operazioni di bordo: comunque tutti i quadranti del cruscotto sono radionizzati e offrono in permanenza durante la notte una bella luce azzurrina. Le istallazioni del radiotelegrafista sono sulla prua dello scafo sinistro: a destra starà di solito il motorista.

Il carburante è disposto in quattordici serbatoi affiancati nella parte centrale di ciascuno scafo: sei di essi hanno la capacità di 630 litri e gli altri otto di 205 litri. L’apparecchio a pieno carico porta dunque cinquemilaquattrocentoventi litri di carburante. Questo, composto di benzina e benzolo, pesa chilogrammi 0,750 ogni litro: complessivamente quindi vi saranno a bordo quattromilasessanta chilogrammi di carburante. I serbatoi comunicano tra di loro attraverso il ponte che collega i due scafi. Qui vi è un serbatoio collettore, da cui la miscela viene aspirata con quattro pompe azionate dai motori (in numero di due per ogni motore). Con questo sistema si è perfettamente tranquilli sulla immissione del carburante nei motori e sul livello costante del carburante nei due scafi. Ad ogni modo, tra i vari serbatoi resta tanto spazio da permettere al motorista una continua vigilanza.

Sul castello, fra i due motori, è collocato il serbatoio per l’olio: un altro è disposto nell’interno dell’ala: quest’ultimo immette l’olio, per mezzo di una pompa a mano, nel primo, dal quale i motori lo aspirano meccanicamente.

Quantunque le modifiche apportate all’apparecchio atlantico non siano state poche, tuttavia le «caratteristiche d’ingombro» restano le stesse dell’apparecchio normale S. 55: apertura massima metri 24, lunghezza metri 16, altezza metri 5, profondità massima dell’ala m. 5,10, superficie portante metri quadrati 93. Invece è notevolmente aumentato il peso dell’apparecchio a pieno carico, che è di circa diecimila chilogrammi. Il peso lordo dell’apparecchio, senza il carburante, senza l’equipaggio e le scorte varie, è di circa cinquemila chilogrammi.

Qualche parola sul motore. Esso uscí, come ho detto, dalle officine «Fiat» verso la metà del 1927 e serví al raid Ferrarin-Del Prete e al record di Maddalena. Il Fiat A. 22 R. è di dodici cilindri raffreddati ad acqua e disposti su due file convergenti ad angolo di sessanta gradi. I cilindri hanno un diametro di centotrentacinque millimetri: la corsa è di centosessanta millimetri: la cilindrata di cm.3 ventisettemilanovecentoventi: il rapporto di compressione di 5,5. La potenza è di 560 H. P. a 1950 giri al minuto e a 1260 dell’elica: esso può sviluppare però la potenza massima di 600 H. P. a 2100 giri del motore e 1360 dell’elica. Quest’ultima particolarità è dovuta all’introduzione del riduttore. Questo è ad ingranaggi cilindrici, a denti dritti, con ammortizzatore elastico e a frizione. Il riduttore permette, come è noto, di diminuire i giri dell’elica rispetto a quelli dell’albero motore, per cui il motore può viaggiare al massimo della sua potenza senza subire il tormento del moto troppo vorticoso dell’elica; e questa può sollevare e spingere l’apparecchio quando il motore è messo a tutto regime senza il pericolo di deformarsi. Il rapporto tra il motore e l’elica è circa da uno a due. L’importanza di un’elica a passo piú forte con un numero minore di giri, permette di sfruttare il motore soprattutto alla partenza. Il riduttore era indispensabile per sollevare un carico cosí pesante sopra una superficie marina, la cui resistenza al decollo è ben nota. Non che il riduttore sia una novità. Esso esisteva già al tempo della guerra. Gli inglesi ne hanno fatto un’esperienza di anni e i francesi lo avevano collocato fin dal ’18 e ’19 sul Farman. La «Fraschini» lavorava da un decennio in riduttori. Ciò non toglie che l’applicazione di esso sul Fiat rappresenti una delle piú pratiche risorse meccaniche e ci permetta di considerare la Crociera Atlantica da un punto di vista nuovo.

Il peso completo del motore col mozzo d’elica, il dispositivo d’avviamento e il comando degli organi accessori, raggiunge i 517 chilogrammi. È peso minimo rispetto alla sua potenza. Si è arrivati a questo risultato con una intelligente e laboriosa selezione del materiale. Il basamento del motore è in alluminio; i cilindri sono di acciaio con camicie d’acqua di lamiera saldate e sono collegati superiormente dalle scatole della distribuzione: questa è a valvole doppie, valvole in testa, con alberi distributori, uno di aspirazione e uno di scarico su ogni fila di cilindri. Gli stantuffi sono di alluminio con due anelli di tenuta, uno dei quali raschia olio in alto e l’altro in basso. L’albero motore è su sette supporti lisci, con cruscotto anteriore a rulli. La lubrificazione vien fatta con pompe ad ingranaggi, uno di andata e due di recupero. L’alimentazione è regolata da una pompa a stantuffi. L’accensione è doppia e indipendente: due candele per ogni cilindro, due magneti Marelli M. F. 12. L’influenza elettrica esterna, e soprattutto quella molto pericolosa della stazione radio di bordo, non possono disturbare l’accensione del motore perché sia i magneti, sia i cavi, sono completamente schermati.

Il raffreddamento ad acqua è regolato da una pompa centrifuga. L’avviamento avviene ad aria compressa carburata e per mezzo di un magnetino di avviamento ad accensione doppia e indipendente.

Ho detto che le macchine hanno una loro suggestiva bellezza. Il Fiat dell’apparecchio atlantico, issato sul castello motore, con le sue bocche di scarico da cui escono lingue di fuoco, le sue teste brunite alternativamente mosse in un palpito molteplice, col suo rombo regolare e potente, è veramente bellissimo. Solo chi sa che cosa vuol dire il motore nella vita avventurosa dei cavalieri del cielo, può comprendere lo sguardo d’amore e di orgoglio con cui i piloti atlantici accarezzavano, nelle settimane precedenti la crociera, il loro motore, argenteo-nero cuore della macchina armoniosamente pulsante nell’attimo del decollo sulle loro teste. Forse, cosí un tempo, gli audaci paladini esaltati dalla leggenda e cantati dai poeti, miravano il bel destriero dalla fulva criniera, compartecipe dei rischi e della gloria delle imprese imminenti.

Un oggetto di meraviglia per i profani sarebbe stato senza dubbio il cruscotto, sul quale erano allineati gli strumenti di precisione e i loro quadranti. Quanti strumenti delicati, sensibili capolavori di ingegnosità e di pazienza! Ogni apparecchio possiede: due contagiri, due manometri per l’olio, due manometri per la benzina, quattro aerotermometri, due per l’olio e due per l’acqua. Un orologio, oltre ai cronometri per i calcoli di navigazione: due sbandometri o indicatori di virata, per indicare l’inclinazione dell’apparecchio sull’asse trasversale: due inclinometri per l’inclinazione sull’asse longitudinale: un indicatore del livello di benzina: un comando a bowden delle persiane per aumentare o diminuire la superficie di raffreddamento dei radiatori. Tutti strumenti installati sul cruscotto. Ma non erano i soli né i piú importanti.

Il concetto fondamentale della organizzazione tecnica era stato, fin dal principio, che ogni apparecchio si dovesse considerare come un piccolo bastimento destinato a navigare, con le regole marine, per aria, invece che sull’acqua, e con le ali invece che con l’elica. Tutto ciò, quindi, che aveva attinenza con l’attrezzatura marinaresca e nautica, fu curato in modo particolare. Al pilota della crociera atlantica non doveva far difetto qualsiasi mezzo fosse ritenuto idoneo, non soltanto durante una eventuale permanenza in mare dell’apparecchio (àncora galleggiante per opporsi alla deriva, gaffe, ramponi, ormeggi ecc.). ma anche, e soprattutto, l’indispensabile per il comando dell’apparecchio in volo, secondo le norme della navigazione astronomica. Infatti l’attrezzatura nautica dell’S. 55 atlantico permette ai navigatori di compiere sopra un leggero tavolinetto, situato a prua dello scafo sinistro, tutti i calcoli e il carteggio necessario alla navigazione: portolani, rapportatori, squadre, compassi e parallele, quaderno delle effemeridi, regoli, cronometri, sestante e bussola.

Mai, forse, prima della crociera atlantica, era stata data tanta importanza alla navigazione astronomica. Questa volta, gli equipaggi la sapevano piú lunga dei marinai: ogni apparecchio doveva regolare la rotta coi suoi strumenti, conoscere esattamente l’uso razionale della bussola e del sestante. Le due bussole installate su ogni apparecchio erano del tipo Smith. Oltre alle proprietà magnetiche, la bussola Smith possiede un sistema di sospensione che la rende indipendente da qualsiasi vibrazione dell’apparecchio. Quanto al sestante esso serve, come è noto, a misurare l’altezza dall’orizzonte dell’astro osservato, ossia determina l’angolo, sotto il quale si vedono dall’osservatore l’astro e l’orizzonte. La misurazione del triangolo sferico poteva esser fatta dai nostri piloti in pochi secondi, per mezzo di un sestante e di un regolo che agiva meccanicamente con estrema semplicità, grazie alle tabelle di Simeon. Ma quanta benzina sarebbe occorsa per ogni apparecchio? Ecco una domanda che ci eravamo posti parecchie volte.

Il consumo previsto per la crociera era di circa 190 chilogrammi per ogni ora di volo, con i motori a 1800 giri, alla velocità media di 165 chilometri all’ora. Ogni apparecchio avrebbe dovuto consumare quindi chilogrammi 1,160 di benzina al chilometro. Questi risultati, verso la fine di novembre, si potevano ritenere ormai definitivamente acquisiti da una esperienza perfetta.

Gli esperimenti erano stati compiuti in Italia dove la temperatura è quasi costante e la densità atmosferica è tale da consentire facilmente i decollaggi a pieno carico. L’apparecchio, come ho detto, fu provato però anche a Bolama, cosicché i nostri calcoli, alla vigilia della crociera ci davano la garanzia di una autonomia di 3.500 chilometri, superiore quindi di 500 chilometri al percorso della piú lunga tappa: la transvolata atlantica. Per regolare la velocità e impedire le deviazioni di rotta, agli strumenti già descritti, fu aggiunto un derivometro, ossia uno strumento con cui è possibile calcolare approssimativamente la deriva, cioè gli spostamenti sulla rotta dovuta alle correnti aeree e ai turbamenti atmosferici. Ogni apparecchio poi ebbe due indicatori di velocità: uno per ogni pilota. Con la conoscenza della velocità propria e con la misura della deriva si sarebbe ottenuta la velocità effettiva dell’apparecchio rispetto alla superficie terrestre, ossia il calcolo dei chilometri percorsi, in base alle ore di volo effettuate.

Speciale cura fu data alla stazione radio. Essa fu oggetto di un intenso studio. La radio degli apparecchi atlantici era a onda corta e a onda lunga; permetteva la trasmissione e la ricezione della radiotelegrafia e della radiotelefonia oltre all’uso della radiogoniometria. Poteva far comunicare gli apparecchi tra di loro, mettere in relazione gli apparecchi con le navi da guerra; e infine collegare direttamente gli apparecchi con le basi costiere. Tutti questi esperimenti erano stati fatti fino dal dicembre del 1929 allorché il Capitano Cagna poté comunicare da Bolama con Roma. La stazione dell’idrovolante aveva tre sistemi di aereo: uno in alto fra l’ala e i timoni, uno in basso sotto lo scafo, e infine un altro disteso entro l’ala. Ogni pilota aveva dovuto fare un corso speciale di radiotelegrafia: i 14 radiotelegrafisti erano stati scelti in mezzo a 150 candidati, inviati per esperimenti ed esami ad Orbetello.

Oltre alla stazione radio, a bordo di ogni apparecchio era stata installata una lampada Donath con la quale si potevano fare segnalazioni luminose con l’alfabeto Morse tra apparecchio e apparecchio durante la notte, per diminuire il numero delle segnalazioni radiotelegrafiche e radiotelefoniche. Per mezzo della radio ogni apparecchio avrebbe ricevuto gli ordini dal proprio comandante di squadriglia e, dalle navi, le informazioni sulle condizioni atmosferiche che si sarebbero verificate lungo la rotta.

Per gli eventuali ammaraggi durante le ore della notte era stato adottato uno speciale razzo a paracadute che poteva essere lanciato dall’apparecchio con una manetta posta a fianco del pilota. Il razzo fa una larga luce in basso e poiché mentre cade si consuma e diminuisce di peso, può restare in aria fino a tre minuti e mezzo, trattenuto dall’apposito paracadute. Ciò permette all’apparecchio di discendere a luce quasi solare in qualsiasi momento della traversata.

L’uso dei razzi a paracadute era previsto soltanto nei casi di ammaraggio forzato, perché il decollo notturno da Bolama sarebbe stato compiuto alla luce lunare. A Orbetello era stato sperimentato durante il periodo della preparazione un altro sistema di illuminazione: cioè il sentiero luminoso. Sia per il decollaggio sia per l’ammaraggio durante la notte, erano stati disposti sul lago, in lunga fila, molti gavitelli galleggianti, dipinti di bianco. Un riflettore illuminava a fior d’acqua la linea dei gavitelli, precisamente come i fari di una automobile illuminano i paletti bianchi messi ai margini di una strada. L’apparecchio, decollando e ammarando, aveva davanti a sé, nitidamente segnata, la strada da percorrere.

Ed ora ecco i nomi degli equipaggi definitivamente prescelti per la crociera:

SQUADRIGLIA NERA

APPARECCHIO «IBALB»

S. E. Gen. BALBO Italo

Cap. Pil. CAGNA Stefano

Ten. R. T. VENTURINI Gastone

S. Ten. Mot. CAPPANNINI Gino

APPARECCHIO «IVALL»

S. E. Gen. VALLE Giuseppe

Cap. Pil. BISEO Attilio

Serg. Mot. GADDA Erminio

M.llo R. T. CARRASCON Antonio

APPARECCHIO «IMADD»

Ten. Col. MADDALENA Umberto

Ten. Pil. CECCONI Fausto

S. Ten. Mot. DAMONTE Giuseppe

Serg. R. T. BERNAZZANI Cesare

SQUADRIGLIA BIANCA

APPARECCHIO «IAGNE»

Cap. Pil.: AGNESI Alfredo

Ten. Pil.: NAPOLI Silvio

Serg. Mot.: GASPARRI Ostilio

I° Av. R. T.: VIRGILIO Giuseppe

APPARECCHIO «IDRAG»

Cap. Pil.: DRAGHELLI Emilio

Ten. Pil.: LEONE Leonello

Serg. Magg. Mot.: BIANCHI Bruno

I° Av. R. T.: GIORGELLI Carlo

APPARECCHIO «IBOER»

Cap. Pil.: BOER Luigi

Ten. Pil.: BARBICINTI Danilo

Serg. Mot.: NENSI Felice

Serg. Magg.: R. T. IMBASTARI Ercole

APPARECCHIO «ITEUC»

Ten. Pil.: TEUCCI Giuseppe

Ten. Pil.: QUESTA Luigi

Serg. Magg.: Mot. ZANA Armando

I° Av. R. T.: BERTI Giuseppe

SQUADRIGLIA ROSSA

APPARECCHIO «IMARI»

Cap. Pil.: MARINI Giuseppe

Cap. Pil.: MIGLIA Alessandro

M.IIo Mot.: BERALDI Salvatore

Serg. R. T.: GIULINI Davide

APPARECCHIO «IDONA»

Cap. Pil.: DONADELLI Renato

Ten. Pil.: RATTI Pietro

Serg. Mot.: PERINI Raffaele

Serg. R. T.: GREGORI Ubaldo

APPARECCHIO «IRECA»

Cap. Pil.: RECAGNO Enea

Ten. Pil.: ABBRIATA Renato

Serg. Mot.: FOIS Luigi

Serg. R. T.: MANCINI Francesco

APPARECCHIO «IBAIS»

Cap. Pil.: BAISTROCCHI Ugo

Ten. Pil.: GALLO Luigi

I° Av. Mot.: GIROTTO Amedeo

Serg. R. T.: FRANCIOLI Francesco

SQUADRIGLIA VERDE

APPARECCHIO «ILONG»

Magg. Pil.: LONGO Ulisse

Cap. Pil.: BONINI Guido

Ten. Mot.: CAMPANELLI Ernesto

M.llo R. T.: PIFFERI Mario

APPARECCHIO «ICALO»

Ten. Pil.: CALÒ CARDUCCI Jacopo

Serg. Pil.: MORETTI Ireneo

Serg. Mot.: ROMIN Augusto

I° Av. R. T.: MASCIOLI Tito

APPARRCCHIO «IDINI»

Ten. Pil.: CANNISTRACCI Letterio

Ten. Pil.: VERCELLONI Alessandro

Serg. Magg. Mot.: MAUGERI Vittorio

Av. Sc. R. T.: SIMONETTI Augusto

Le quattro squadriglie erano distinte dal colore nero, che è quello dei gagliardetti fascisti, e dal bianco, rosso, e verde, che formano la bandiera italiana. Ogni apparecchio portava nella parte superiore dell’ala una striscia col colore della propria squadriglia.

Nella formazione degli equipaggi fu lasciata al primo pilota una certa libertà nella scelta del compagno. Prevalse il criterio dell’affiatamento assoluto tra le persone destinate ad affrontare il medesimo rischio. Cosí io portavo con me il mio Aiutante Capitano Cagna ed il Tenente Venturini, radiotelegrafista: entrambi, negli anni passati, avevano sorvolato sul mio apparecchio i cieli del Mediterraneo occidentale e orientale: in piú vi era il sottotenente motorista Gino Cappannini noto in Italia per le sue precedenti imprese aviatorie.

Il Generale Valle aveva scelto, quale secondo, il suo stesso aiutante di volo, Capitano Bisca. Il Comandante Maddalena mantenne come secondo pilota il Tenente Fausto Cecconi, che era stato suo compagno durante il record in circuito chiuso. Il Maggiore Longo aveva con sé la sua vecchia conoscenza Capitano Bonino, in qualità di secondo pilota e come motorista il Tenente Campanelli, che si poteva già ritenere veterano delle traversate sugli oceani.

Insomma i quattro uomini di ciascun apparecchio avrebbero formato un’anima sola. Questo sistema ci garantiva il maggior accordo morale: elemento che io mettevo tra le prime garanzie del successo. Nel tratto da Orbetello a Bolama tra il personale di volo vi sarebbe stato anche un montatore. Quest’ultimo non avrebbe fatto la traversata atlantica per farci risparmiare sul peso: ma alla vigilia della tappa piú lunga, sulla costa d’Africa, avrebbe dato all’apparecchio l’ultimo colpo d’occhio per metterlo definitivamente a punto.

Il percorso totale dall’Italia a Rio de Janeiro era calcolato in 10.400 chilometri circa e doveva compiersi in sette tappe:

Orbetello-Cartagena: km. 1200

Cartagena-Kenitra: km 700

Kenitra-Villa Cisneros: km1600

Villa Cisneros-Bolama: km 1500

Bolama-P. Natal: km 3000

P. Natal-Bahia: km 1000

Bahia-Rio Janeiro: km 1400

Altro dato importante. In questa crociera si è verificato un affiatamento che si può dire assoluto e completo tra l’Aeronautica e la Marina. Che un certo malsano spirito di corpo avesse messo un po’ di malumore antecedentemente fra le due Armate, è naturale. L’Aeronautica ha usurpato molti compiti che spettavano da secoli alla Marina; le ha portato via molti uomini; finalmente ha realizzato la propria autonomia e si è presentata come una forza disposta ad entrare con la Marina in una nobile e fiera emulazione. Ma in vista di una grande impresa, cui è andato il prestigio della Nazione, la Marina non ha esitato a mettere a nostra disposizione uomini e materiali, nonché otto tra le sue navi piú moderne e piú veloci. Erano — e sono — le ultime creazioni della mirabile ingegneria navale italiana: navi capaci di sviluppare una velocità di quaranta nodi all’ora. Partite dalle proprie basi verso la metà di novembre, furono le nostre sorelle, il segno della patria che vigilava sulla nostra sorte. La Squadra Navale era agli ordini dell’Ammiraglio Bucci. Le sue unità portavano il nome di grandi navigatori italiani: «Pancaldo» - «Da Recco» - «Da Noli» - «Malocello». «Vivaldi» - «Pessagno» - «Usodimare» - «Tarigo».

Verso la fine di ottobre Giuriati fu nominato Segretario del Partito.

Chi è Giuriati? Il soldato, il patriota, il fascista che tutti sanno: quello che, forse, non si conosce abbastanza è il Giuriati aviatore. La sua passione per il volo è congenita, si può dire, all’Aviazione stessa. Ha un nipote, ex aviatore di guerra, ora dirigente di una delle migliori Società aeronautiche civili. Quando Giuriati era Ministro dei Lavori Pubblici, avevamo insieme studiato la mascheratura dei bacini idrici, contro un eventuale attacco di aeroplani. I tecnici ci consigliavano come ottimo il sistema dei gas fumogeni. Io ero da poco tempo pilota. Giuriati venne con me su un piccolo apparecchio da turismo, che era allora il mio cavallo di battaglia, ad osservare l’effetto delle nubi di fumo sui bacini idrici dell’Italia Centrale. Naturalmente le nubi, che erano state create dai chimici per nasconderli, servirono invece a noi per identificarli subito. Il volo, in mezzo al fumo, su quell’apparecchio condotto da un principiante, avrebbe forse sgomentato un altro, non Giuriati che prese l’avventura con straordinaria tranquillità. L’anno dopo partimmo su un idrovolante piú potente, per visitare insieme il Bacino del Tirso in Sardegna. Volle la sorte che anche questo volo fosse assai movimentato. Credo, anzi, che quella sia stata la peggiore navigazione aerea della mia vita. Sul Tirreno imperversava una bufera infernale: ma il capriccio del mare era nulla, in confronto al tempo che trovammo sulla costa occidentale dell’isola. Arrivato nei pressi del Monte Timidone (ecco un nome che ricorderò per un pezzo!) un vuoto d’aria improvviso mi «soffiò» da due o trecento metri sino a due o tre metri da terra. Fu una specie di improvvisa e fulminea calata in un pozzo. Il mio motore e le mie ali non potevano piú opporre resistenza alcuna. Fortunatamente, a pochi metri da terra, quando già mi ero visto perso, una fascia d’aria mi ricondusse alla vita. Anche quella volta si facevano sbarramenti con fumogeni, e io, che non avevo carte dell’isola, e volavo con una carta marittima dove sono disegnati i profili delle coste, mi accorsi della direzione del Tirso osservando le nuvolette artificiali che, all’orizzonte, si distinguono benissimo da quelle naturali. Bel modo di mascherare i bacini idrici! Le discussioni sull’argomento non sono ancora finite e chissà quanto dureranno. Per Giuriati e per me la questione era però risolta. Dopo pochi giorni dacché Giuriati fu nominato Segretario del Partito, mentre mi trovavo in letto indisposto, venne a trovarmi, e naturalmente, il discorso cadde subito sopra l’imminente crociera atlantica. Giuriati manifestò il desiderio di portare il saluto del Partito ai giovani valorosi che si allenavano all’idroscalo di Orbetello. Non mi parve vero. Pochi giorni dopo, alle otto del mattino, salpavamo in idrovolante verso Monte Argentario. La stagione non ci fu del tutto benigna, ma non emulò quella del viaggio in Sardegna. Avevo piazzato Giuriati sulla prua dello scafo di sinistra, in un apposito boccaporto, fatto per il Duce, che non ama volare in cabina chiusa. Ballammo un poco durante il percorso: io ho un ricordo vivo, soprattutto della fredda tramontana che ci tagliava la faccia. Scendemmo all’Idroscalo di Orbetello ricevuti, sul molo, da Valle, da Maddalena e da Longo.

Sul grande spiazzo prospiciente gli hangars erano riuniti gli atlantici. Potei ad uno ad uno presentarli a Giuriati. Maddalena era una sua vecchia conoscenza.

Ecco il Tenente Colonnello Biondi, espertissimo di tecnica aeronautica, ufficiale del Genio, zelante e consapevole delle sue responsabilità. Sarebbe un uomo perfetto se, all’indomani di qualche impresa o raid, non scrivesse relazioni troppo lunghe. Dopo il record di Maddalena, presentò al povero Ministro dell’Aria, fra parentesi orgogliosissimo di un Ufficiale tanto studioso e preciso, ben quattrocento pagine di rapporto, dattilografate e con relativi grafici. Giuriati ride e passa oltre.

Gli presento il Maggiore Longo che, per amor della Crociera, ha cambiato Madrid con Orbetello. Se qualcuno lo desidera, il Comandante Longo «habla español» meglio di un castigliano. È giovane e simpatico: è uno scapolo con i capelli grigi. Forse per il troppo lavoro che gli diè l’Ufficio in Spagna gli si sono incipriati i capelli...

Ed ecco un bel tipo di ligure, un «zeneise» taurino, marinaio e navigatore appassionato, il Capitano Baldini. Fu al Nord col Marina 2 per le ricerche di Amundsen e di Guilbaud e guadagnò la medaglia al valore aeronautico, insieme con Maddalena (che ne ha due) e con Cagna. Due anni fa, era stato distaccato dal Ministero dell’Aeronautica presso l’Istituto Idrografico di Genova. Stretta di mano, largo sorriso cordiale di Giuriati.

È la volta del Capitano Recagno. Questo pilota, bravo e giovanissimo, fino a poco tempo fa mi ha amato poco, perché ho bocciato due volte la sua domanda di matrimonio. Recagno al ricordo si fa tutto rosso, ma ride di gusto. Anzi mi dichiara che è felicissimo di essere scapolo. Evidentemente la stazione climatica di Orbetello è fatta apposta per la cura intensiva delle passioncelle d’amore.

Ugo Baistrocchi, che adesso presento a Giuriati, è nipote del Generale: magro, lungo, è stato ad accompagnare in volo Gasperini a Massaua e in seguito a questa bella impresa, è diventato Cavaliere della Stella d’Italia. Ne porta il nastrino sulla divisa, nastrino che non è ben chiaro ai profani, sicché chi lo porta deve spiegarne continuamente l’origine. Il Capitano Biseo e il Capitano Boer sono due aviatori valorosissimi. Conoscono a perfezione le rotte marine: gente solida, da fidarsene completamente. Ecco il Tenente Calò Carducci: anch’egli ha una medaglia d’argento al valore aeronautico. Racconto la sua impresa a Giuriati. Calò Carducci è rimasto per quattro giorni in panne, in mezzo al Mediterraneo, senza mangiare e senza bere, durante un volo a Tripoli, dove doveva scortare Lady Heat. Per quattro giorni e per quattro notti, il nostro pilota lottò per tenere l’apparecchio con la prua al mare: e, poiché il motorista dava segni di squilibrio e minacciava di uccidersi, lo prese e lo legò in fondo all’apparecchio e resistette da solo, finché il vento furibondo non li buttò verso la costa d’Africa dove furono scorti e messi in salvo.

Ecco un altro bel tipo. Il Tenente Questa è un grande pilota e come tale lo esalto davanti al Segretario del Partito: ma non posso perdonargli l’incidente di Calshot. Alla vigilia della Schneider occorreva un pezzo di ricambio: fu telefonato in Italia ed il pezzo arrivò, con un viaggio di un giorno sopra un S. 55 che aveva con disinvoltura valicato il Tirreno, la Francia e la Manica: quell’apparecchio era guidato dal Tenente Questa. Giunse a Calshot, mentre era in aria il Supermarine. Gli inglesi che eran col naso all’insú fissi al loro apparecchio-prodigio, lo piantarono subito in asso per fissarsi sull’idro italiano: questo entrava maestosamente nel cielo dell’Idroscalo. Il Tenente Questa non poteva avere un pubblico piú scelto: non so bene perché, ammarò da vero sciagurato, facendo fare all’apparecchio una «piastrella» di due metri. A dir vero, sono disposto a perdonarlo ora, alla vigilia di un’impresa di fronte alla quale le piastrelle di Calshot scompaiono nella notte dei tempi.

È la volta del Tenente Barbicinti il quale non è affatto cinto da barba: anzi ha un viso infantile e sorridente degno di figurare sulle réclames del cioccolato svizzero: all’Idroscalo lo chiamano la «signorina» e a lui, per designazione unanime, è dato l’incarica di servire il the agli invitati ogni volta che questi arrivino. Il giovane ganimede sa essere però, quando occorra, un aquilotto, esperto dei viaggi piú avventurosi sul mare e sulla terra. Ahimè il destino è in agguato...

Gallo, insieme a Barbicinti a Bonino a Cagna e a Riseo, sono i leoncelli dell’Idroscalo di Vigna di Valle. Callo ha sposato da poco una gentile signora americana: ha un delizioso pargolo e, fino a qualche mese fa, era impossibile vederlo in giro da solo: ora è ritornato scapolo: la passione dell’ala fa fare questo e altro! Racconto a Giuriati un episodietto della Scuola di Orbetello: nei primi mesi della clausura degli «atlantici» la moglie di un ufficiale tempestava di telefonate per avere il permesso di visitare il marito, che, come tutti gli altri, aveva accettata la regola della «domenica di quindicina». Visto vano ogni altro tentativo, la buona signora si rivolse per telefono al Capo di Stato Maggiore implorando che fosse concesso al marito di star con lei almeno per un’ora... Avvenne allora questo dialogo telefonico:

— Come si chiama suo marito?

— Tal dei tali.

— In che reparto si trova?

— Alla Scuola di Orbetello.

— Mi dispiace, Signora, ma i piloti del gruppo atlantico sono tutti scapoli!

La conversazione fu bruscamente interrotta. Che cosa credette la povera Signora? Forse che il marito avesse nascosto ai superiori il suo matrimonio. Infatti il giorno dopo mi arrivò una lettera nella quale ella scongiurava il Ministro di credere che l’Ufficiale Tal dei Tali era con lei regolarmente sposato e a conferma inoppugnabile allegava un regolare certificato in carta da bollo!

Si ride tutti insieme, e Giuriati per il primo. Ecco adesso il Tenente Fausto Cecconi, per definizione «il piú bravo della Scuola». Qualche volta questo epiteto fa sorridere: ma Cecconi lo porta non soltanto con dignità, bensí anche con disinvoltura: è un ragazzo sano e forte, di mente e di corpo. Fu il primo del suo corso a Caserta. Per questo fu prescelto quale compagno di Maddalena durante il record. Maddalena lo ha riconfermato nella fiducia e lo porta nel proprio apparecchio sull’Atlantico. Cecconi è la dimostrazione vivente della mia teoria: che gli aviatori non possono essere degli sportivi piú o meno scapestrati e neppure degli «chauffeurs» dell’aria piú o meno abili: ma persone colte e serie: l’ardimento senza intelligenza è piú di danno che di vantaggio all’Arma del Cielo.

Presento a Giuriati il Capitano Magdalo Ambrosino, un giovane pallido e magro, dagli occhi aguzzi come spilli. Aveva in Aviazione un fratello giovanissimo, come lui appassionato delle vie dell’aria: morí in un incidente sull’Alto Tirreno, per cause che nessuno riuscí mai bene ad appurare. Forse per improvviso malessere: invito il giovane Ambrosino, uno dei nostri migliori piloti, a irrobustirsi: ecco, dico, un giovane a cui l’aria aspra e salsa dell’Atlantico farà certamente bene. Anche per lui il destino predisponeva ben altrimenti...

Il Tenente Venturini, che salutiamo poco dopo, è da tempo il mio radio telegrafista di gran fiducia.

È infatti espertissimo conoscitore di tutti i segreti della trasmissione aerea. È del mio paese, e con lui posso ogni tanto scambiare qualche parola nello svelto dialetto natio, cosí propizio all’ironia benevola e scacciapensieri.

Il Sottotenente Damonte e il Sottotenente Cappannini fanno con la crociera il loro servizio di prima nomina quali ufficiali. Entrambi sono ottimi motoristi. Anzi, il nome di Capannini si può dire preclaro da molti anni, per la conoscenza dei motori d’aviazione che egli possiede in modo perfetto. Al suo attivo ha una crociera intercontinentale, che precede questa almeno di dieci anni, il raid cioè compiuto tra Roma e Tokio sull’apparecchio di Ferrarin, e recentemente un altro gran volo sull’apparecchio di Francis Lombardi. Il suo quasi omonimo, tenente Campanelli, fu il motorista del Comandante De Pinedo nel raid Roma-Australia, al cui successo Campanelli contribuí non poco, benché, per un capriccio della sorte, il suo nome sia rimasto ancora nell’ombra. Giuriati stringe la mano ad uno ad uno a tutti gli «atlantici». Questi si divertono alle mie affettuose ironie.

Siamo qui fra l’aristocrazia del valore, in mezzo a persone semplici, dall’umore sano come i loro muscoli, dal carattere aperto come la palma della loro mano. Giuriati non stenta un attimo a intendersela con loro: il Capitano Marini, vincitore di una Coppa ambita, il Capitano Miglia, il rotondo e valorosissimo Agnesi, Draghelli, Donadelli, pilota di S. E. De Bono, conoscitore di tutte le piste del deserto, il Tenente Abriata, il Tenente Teucci, il Tenente Napoli, il Tenente Leoni, il Tenente Ratti, insieme con tutti gli altri, fanno scorta d’onore al Segretario del Partito che ha l’impressione di trovarsi tra i suoi commilitoni di guerra e di vivere un’ora della sua piú bella giovinezza. Dice questa cosa a me, all’Ammiraglio Bucci, Comandante della Divisione Navale che ci scorterà in America, all’onorevole Pierazzi, che si trova con noi all’Idroscalo come rappresentante della forte terra di Maremma. Non abbiamo voluto nessun altro. E Giuriati ne è lieto. Visitiamo con lui tutto l’Idroscalo: la sala ove si sono svolte le lezioni di navigazione aerea, con grandi carte del cielo alle pareti, la scuola della radiotelegrafia, che gli ufficiali, hanno seguito con una tastiera infissa ad ogni banco, la sala geografica, ove sono disposti in altrettante grandi tavole i plastici delle varie tappe della crociera: aule semplici, severe, adatte allo stile di questa scuola di gente devota al dovere.

Insieme con gli ufficiali rievoco davanti a Giuriati le ore dello studio e dell’allenamento, trascorso nella claustrale solitudine dell’Idroscalo.

Come è mutata la vita degli Idroscali da qualche anno!

Ricordiamo le prime visite ufficiali ad Orbetello di tempi passati: quante tube e quanti abiti a prosciutto! I personaggi ufficiali, vestiti di nero e sussiegosi, non vanno piú d’accordo con l’ambiente, che vuole ben altro stile!

Tra gli episodi della scuola ce n’è uno che val la pena di ricordare a Giuriati. È troppo divertente.

Il Comandante Longo, allorché ritornò da Cartagena a Orbetello, durante il volo di allenamento sul Mediterraneo, nell’agosto scorso, imbarcò sul suo apparecchio un ufficiale spagnuolo. Ho già narrato le perigliose vicende di quel volo. Tra l’altro, a un certo momento, il Comandante Longo scorse in mare due cacciatorpediniere francesi e le segnalò per iscritto, con un bigliettino, all’ospite.

Ora accadde che il biglietto scritto per lo spagnuolo rimanesse attaccato al suo carnet. Durante uno degli ultimi voli notturni nel mese di ottobre, il Comandante Longo si accorse che nel decollare uno dei motori aveva preso fuoco al carburatore. Si trattava di un ritorno di fiamma, che avrebbe potuto avere pericolose conseguenze, se il Comandante Longo non avesse avuta l’immediata presenza di spirito di chiudere la benzina e isolare i serbatoi. Occorreva però scendere rapidamente e poiché il volo si svolgeva di notte e non era possibile ammarare senza che si accendessero i riflettori, Longo passava un ordine scritto al radiotelegrafista di bordo, affinché lo trasmettesse alla stazione radio dell’Idroscalo: Debbo ammarare - fuoco a bordo - accendete i fari. Ma che cosa accadde? Nella fretta il Comandante Longo, invece di strappare dal carnet il foglietto scritto per l’Idroscalo di Orbetello, strappava un altro foglietto e passava d’urgenza al radiotelegrafista di bordo questo scritto:

«Attention: la France nous regarde».

Era la frase di tre mesi prima destinata all’ufficiale spagnuolo.

Il radiotelegrafista legge e non comprende: fa cenni al Comandante, il quale, innervosito, lo insolentisce a gesti, per imporgli la trasmissione immediata. Naturalmente il radiotelegrafista ubbidisce: Attention... la France nous regarde... attention...

L’apparecchio, dopo aver planato scende sulla laguna di Orbetello senza incidenti: il Colonnello Biondi al quale il radio era stato portato, si scervellava a dare un significato a quelle parole. Longo, furioso, scende a terra e va diritto all’Ufficio di radiotelegrafia. Fa irruzione nella cabina capo-servizio e grida: «Lei si consideri agli arresti. Perché non ha subito trasmesso a chi doveva il mio radiotelegramma? Ho dovuto ammarare al buio e col fuoco a bordo!» Gli viene allora mostrato il testo del suo radio: il Comandante capisce l’equivoco e spiega il rebus. L’episodio ha alimentato per parecchie settimane il buon umore dell’Idroscalo, tanto piú che era impossibile tenerlo nascosto. La comunicazione dello strano messaggio era stata intercettata in volo dal Comandante Maddalena, che aveva creduto senz’altro che il Maggiore Longo fosse impazzito e aveva immediatamente ordinato all’intiero gruppo di idrovolanti di ammarare.

Passiamo con Giuriati al Circolo degli Ufficiali, che consta di due stanze: una sala da pranzo e una sala di ritrovo dove troneggia una radio.

La colazione si svolge nella piú festosa allegria e quando alla fine mi alzo, per salutare con un alalà il Segretario del Partito, gli Ufficiali che hanno immediatamente sentito la piú viva simpatia per lui, aggiungono all’alalà il loro grido di guerra, quello strano miscuglio di suoni, di origine certamente goliardica, che serve a far riconoscere fra di loro gli aviatori del gruppo atlantico: «ir or, ir or, ir or, za-za, bum».

Dopo colazione, ci rechiamo su uno degli esploratori d’alto mare ancorato presso Santo Stefano. C’è un mare orribile. Giuriati ed io ci convinciamo che il mezzo migliore per far visita alle navi da guerra è quello di volarci sopra con l’aeroplano. Ma ormai siamo in ballo e bisogna ballare. Il piú difficile è accostarsi ai fianchi della nave per salire sul ponte. Completamente zuppi di acqua — Giurati è stato salvato dai suoi stivaloni — infiliamo finalmente la scaletta di bordo e arriviamo tra gli ufficiali allineati sopra coperta. Questa nave stupenda, come le altre sette che ci scorteranno sull’Atlantico, è tutta fatta per l’alta velocità: si può dire che per tre quarti i suoi fianchi contengano macchine. I formidabili motori a nafta danno subito il senso di una potenza mai vista sul mare. Se si aggiungono i cannoni con le relative munizioni e le provviste di bordo, ben poco spazio resta per gli ufficiali e pei marinai, che sono in tutto circa duecento. La bella nave ha forma stretta e allungata. Le sue lamine metalliche hanno il colore del mare: un grigio perla, pallido, che contribuirà domani, insieme con la sua vertiginosa velocità, a nasconderla agli occhi del nemico. Dopo un reimbarco assai faticoso sul nostro motoscafo, ritorniamo ad Orbetello, e di qui, sotto gli schiaffi gelati della tramontana, percorriamo ancora una volta in volo la via del mattino verso Roma.

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