Capitolo XIV RIO DE JANEIRO

Qualche minuto prima delle 8 lascio la casa ospitale del Comm. Bertilotti e mi avvio verso il porto, scendendo per la ripida china che divide la città alta dalla bassa.

La giornata è serena. Naturalmente non mancano segnalazioni pessimiste da parte dei soliti meteorologi. Ma queste non fanno che aumentare la mia certezza che l’ultima tappa sarà percorsa senza inconvenienti col favore del sole e del vento.

Quando giungo sul mare e m’imbarco sul piccolo motoscafo imbandierato, che il Governo di Bahia ha messo a mia disposizione, gli equipaggi sono già ai loro posti.

Il mio apparecchio è ancorato all’estremità della «Baia dei bimbi» dove gli idro atlantici hanno passato questi quattro giorni di riposo, disposti ad arco sulle onde tranquille.

Per arrivarci debbo passare in rivista gli undici apparecchi dello stormo. La parola d’ordine oggi è perentoria: non vi debbono essere incidenti: chi non arriva col proprio apparecchio, puntualmente, a Rio, è squalificato.

Forse per questo, l’ispezione ai motori e alle installazioni è piú accurata del solito.

Gli equipaggi sono tutti intenti agli ultimi preparativi; qualcuno esamina attentamente il radiatore che è stato l’incubo di ogni tappa; qualche altro prova i motori e fa la ruota intorno all’àncora, impaziente di spiccare il volo.

Complessivamente abbiamo a bordo 3600 chili di carico. Ma la baia è larghissima, spira una leggiera brezza e il decollaggio non ci dà preoccupazione.

Alle otto e un quarto si decolla.

Sono il primo a staccarmi dall’acqua: la corsa sull’acqua dura quaranta secondi. Filiamo diritti verso l’imboccatura della baia, dove l’Oceano, pochi metri piú sotto, ci manda il saluto delle allegre ondate e del vento gagliardo. Diamo l’ultimo saluto alla bella città primogenita del Brasile, tutta bianca e ridente sulla terrazza rocciosa, a specchio della incantevole baia.

Predomina, nel panorama che si offre ai nostri occhi, il giallo e il bianco: le case hanno altezze irregolari e sono allineate lungo strade strette e diritte, che ogni tanto si allargano come a prendere respiro sulle belle piazze alberate.

Mi colpisce il numero inverosimile di cupole e di campanili. Quante chiese conta questa città? Qualcuno mi ha detto che ve ne sono trecentosessantacinque: una per ogni giorno dell’anno. Sarebbe giustificato il bel nome, pomposo e mistico, che i suoi scopritori le diedero nei primi anni del 1500: «Bahia de Todos os Santos». Il rombo del motore c’impedisce di udire l’allegro canto che da tutte le campane si scioglie adesso in nostro onore al vento. Salutiamo con cuore amico i campanili barocchetti, che dominano la bianca distesa della città, cosí ospitale, cosí garbata, cosí graziosamente portoghese, e prendiamo la via del Sud.

Il vento soffia fortemente in coda. Lo stormo marcerà oggi a un passo molto spedito. All’orizzonte non vi sono che poche nuvole bianche che hanno funzione semplicemente decorativa. Le acque dell’Oceano non potrebbero essere piú benigne.

Navighiamo sui margini della costa che si fa sempre piú deserta, e monotona. Per quattro ore non avremo sotto di noi che queste verdi boscaglie, ogni tanto invase dalle acque come un lembo della nostra maremma, o squarciate dal corso tortuoso di fiumi giallastri, segnati sulla carta con nomi strani, quasi tutti di origine india.

Il mare per lunghi chilometri dalla costa verso il largo, è molto basso e ci mostra il fondo, o color rosso mattone o celestino, o di un verde incredibilmente tenero. I piroscafi debbono girare molto fuori: del resto, all’orizzonte non ve ne è nessuno. La mattinata sull’Oceano è riposata e deserta, come ferma in un incantesimo. Ogni tanto la spiaggia si popola di palme ad alto fusto che annunciano da lontano un gruppo di case coloniche: intorno sono appezzamenti coltivati a canna a cotone o a caffè. Molto interessanti i quadrati di terra regolari ricoperti dalle larghe foglie del tabacco. Tra gli acquitrini cresce, coi suoi mille gambi sottili, il riso. Nessuna varietà, delle tipiche coltivazioni brasiliane, qui manca, ma l’estensione della gran piana è cosí vasta che il terreno incolto e la radura selvaggia, di un verde piú fosco, completamente deserta, finisce sempre per dominare.

Quanto posto vi è ancora per chi abbia voglia o necessità di impiegare le braccia!

Alle 8,45 sorvoliamo Morro S. Paolo: alle 8.55 Chamamua e, dopo un quarto d’ora, Barra Rio das Contas: grossi villaggi, accovacciati dietro le dune bianche dell’Oceano, quasi tutti lambiti da un corso d’acqua fluviale che si perde nell’interno. Dopo mezz’ora ecco Ilheos, che vista dall’alto ha l’aspetto di una graziosa cittadina, fervorosa nel piccolo porto di un grande numero di vele e di barche, dominata da un gran chiesone color bianco calce, con una ferrovia che si perde nell’interno verso Citade da Conquista. Per ogni quarto d’ora ricompaiono sulla spiaggia i paesini minuscoli, Una, Cannavieira, Velmonte, Santa Cruz. Ecco una cittadina piú grande, Porto Seguro. Poi di nuovo umili villaggi, Prado, Alcobaça, Caravellas, Mucury, Barra de Sâo Matheus, Barra do Rio Doce, Regencia.

Ormai è mezzogiorno, e incomincia a farsi sentire l’appetito. Rapidamente, diamo l’assalto al cestino, che ci ha preparato il Colonnello Collalti: pollo arrosto, formaggio, e banane, con un buon fiaschetto di Chianti bianco e acqua minerale: ci serviamo anche il caffè, che si è mantenuto caldo bollente nei nostri thermos.

Il volo procede cosí regolare che bisogna lottare per non lasciarsi vincere da una certa sonnolenza.

L’aria non ha un sobbalzo: il vento continua a darci una bella soffiata in poppa: calcolo una velocità non inferiore ai centonovanta chilometri all’ora. Se continua cosí, arriveremo a Rio con quasi due ore di anticipo: troppa grazia! Mi giunge un radio del Comandante Maddalena: «attraversando la punta Monsaraz la nostra velocità è di centottantasei chilometri all’ora».

Verso le 13 il paesaggio comincia a cambiare aspetto. Siamo nelle vicinanze di Vittoria. La costa si frastaglia. Una quantità di minuscole isole fanno la guardia al litorale. Il mare entra nell’interno fra bizzarri promontori montagnosi. Innumerevoli catene di colli s’inseguono a perdita d’occhio verso l’interno, assumendo le tinte piú bizzarre e le forme piú strane, dominate all’orizzonte da catene piú alte che si confondono col cielo.

Già si annuncia il paesaggio di Rio, coi suoi veli di luce sfumata e svariante sopra una successione innumerevole di montagne alte e piccole, allineate in prospettiva, come le quinte di un immenso «teatro del colore».

La costa, tra Vittoria e Campos, si addentra in un grande golfo maestoso di un centinaio di chilometri. I nostri apparecchi lo tagliano, percorrendo il mare aperto a circa trenta miglia al largo. Sei apparecchi brasiliani escono in questo momento in gruppo da Vittoria, e si uniscono alla nostra formazione per accompagnarci fino a Rio. Sono apparecchi terrestri, costruiti in Francia e comperati dal Brasile, attraverso la missione francese installata a Rio. Questi bravi camerati brasiliani volano molto bene e si spingono senz’altro al largo, sul mare. Se un incidente di motore li bloccasse durante quest’ultima parte del nostro volo, correrebbero un serio pericolo. Ma noi ci teniamo pronti a scendere in loro soccorso sul mare qualora fosse necessario.

Gli apparecchi dovrebbero essere piú veloci di noi, perché hanno una marcia teorica di 240 chilometri all’ora. Ma gli S. 55 fanno prodigi: sembrano saette, tanto mi avvicinano rapidamente alla mèta. Il vigoroso vento che ci ha aiutati durante le prime cinque ore, all’altezza di Campos prende una velocità ancora maggiore Marciamo a piú di 200 chilometri. I brasiliani stentano a tenerci dietro. Il cielo è di un purissimo azzurro. Il mare è allegro, ma senza malizia. Questo favore degli elementi, proprio in prossimità della mèta finale, ci appare come il piú bel segno augurale di fortuna e di trionfo. Ho voglia di cantare. Mando qualche biglietto scherzoso al mio amico Quilici, che occupa con le sue vigorose proporzioni buona parte della prua dello scafo destro.

Finalmente i 10.400 chilometri della crociera sono coperti! Siamo al traguardo! L’apparecchio è cosí stabile, cosí sicuro, cosí docile, che si possono lasciare i comandi e alzar le braccia e i piedi: gli abbiamo detto Rio ed egli ci va da solo! Quale prova stupenda per il nostro materiale di volo, è stata questa crociera! Come può essere fiera l’industria italiana! Essa dà, al mondo intiero, in questo momento, la prova del miracolo che può fare l’ingegno quando è sorretto e guidato da una forte disciplina della volontà.

Mi balzano in mente, ora che son giunto all’altezza di Capo Frio, cioè proprio alla imboccatura della grande baia della Capitale, i momenti piú drammatici del nostro lungo viaggio aereo: le tempeste del Mediterraneo, le nubi di sabbia della costa africana, la notte illune di Bolama e le prime sei ore sull’Oceano. La volontà dei piloti non ha allentato un momento: ma le macchine sono state degne dei piloti. Le piccole noie che abbiamo dovuto superare si riferiscono a parti accessorie dell’apparecchio. L’esperienza compiuta servirà ad indurre i nostri costruttori alla cura meticolosa di tutti i particolari: la perfezione assoluta risulta dalla eccellenza dell’insieme e del dettaglio. Ma in complesso dobbiamo dichiararci molto soddisfatti. Cinque anni fa, sarebbe stata follia il presumere di far la traversata dell’Atlantico con dodici apparecchi completamente ideati e costruiti dagli Italiani. Oggi quella follia si iscrive tra i grandi fasti dell’aviazione mondiale.

Capo Frio sporge avanti nell’oceano il suo sperone di terra bassa, suddivisa in grandi specchi d’acqua rettangolari, che debbono essere saline, e piú lontano si inerpica in un massiccio montano che ricorda un poco il nostro monte Argentario. Un corteo di piccole rocce, color rossastro, fa la guardia, in mare, all’ultima punta del promontorio: il mare si frange in schiume e vapori iridescenti tra l’uno e l’altro isolotto dell’arcipelago lillipuziano.

Un grosso piroscafo, che mi sembra tedesco, sta doppiando il Capo, indirizzato verso il Nord. Dai suoi due fumaioli esce una nuvola nera e spessa: al nostro passaggio saluta con un lungo fischio, di cui vediamo in aria il fiocco bianchissimo di vapore. Ora tutto il litorale si infoltisce di vele. L’onda lunga dell’Oceano fa ballare la tarantella. I triangolini bianchi, nettamente incisi sull’azzurro manto marino, appaiono nei liquidi avvallamenti. Ma il vento spinge verso il sud gioiosamente la bella flotta sparsa, che si accresce di continuo per le altre innumerevoli imbarcazioni, che escono dalle anfrattuosità della costa.

Avevo calcolato di raggiungere Capo Frio verso le 16. Invece mancano ancora cinque minuti alle 15. In meno di mezz’ora potremmo essere nella Baia di Rio! Abbiamo percorso 1400 chilometri in meno di sette ore!

Lancio un radiotelegramma all’Ambasciatore Cerruti avvisandolo che siamo in vista della Capitale, ma che ritarderemo il nostro ingresso nella baia per dare agio alle Autorità brasiliane e alla folla di Rio, di riceverci secondo il programma prestabilito. L’Ambasciatore mi dà conferma dell’ora dell’ammaraggio: non prima delle 16.30.

Non ci rimane che bordeggiare, fuori della baia, per oltre un’ora. Tutto lo stormo si dispone nella formazione di un unico cuneo, già stabilito per l’ingresso a Rio e descrive in cielo il suo immenso V rovesciato. Il mio apparecchio serve da estrema punta centrale alla formazione.

Guido lo stormo a largo, poi lo riconduco verso i contrafforti insulari della baia, costituiti da strambi mammelloni conici, uno vicino all’altro, o rigogliosi di fiorente vegetazione, oppure calvi e nudi, color grigio ferro, color mattone, colar verderame, color cenere.

A un tratto, vicino alla apertura della Baia, compare in mare tutta la formazione degli otto nostri esploratori, allineati su due file, e naviganti in direzione di Rio de Janeiro. Visto dall’alto, l’Oceano sembra ferito dalle aguzze lancette che si incidono velocemente sulla sua superficie: ognuna di esse lascia dietro di sé una linea bianca direttissima: le onde si dibattono l’una contro l’altra, nel vortice dell’elica, schiumeggiano, si inabissano, ritornano in alto, gorgogliando e esaurendo tutta la gamma dei colori verde, indaco, azzurro. Otto scie si prolungano parallele sul mare, vaniscono a un miglio dalla nave, sempre piú deboli, sempre piú pallide. È uno spettacolo di forza e di bellezza. Le prue degli esploratori, piú alte, sostengono bravamente l’urto delle onde: le ciminiere, inclinate all’indietro, sembrano piegate dal vento, nell’impeto della corsa. La poppa bassa, piatta, rotonda, emerge appena dall’acqua e qualche volta è spazzata per intero da una ondata piú prepotente. I cannoni si allungano snelli, fuori dalle torrette, con le volate disposte in alto. L’intiera divisione naviga compatta verso Rio, in una geometria perfetta e ogni coppia di nave precede l’altra di duecento metri.

Quando, dopo aver fatto una nuova lunga virata al largo, per far passare un altro quarto d’ora, ritorniamo coi nostri apparecchi in prossimità della apertura della baia, le otto navi non si scorgono: esse hanno già tagliato la barra dell’Oceano e stanno entrando nel porto di Rio.

Noi dobbiamo fare ancora altre due o tre evoluzioni, fuori e lontano, sul mare aperto, affinché trascorra l’ora di anticipo che abbiamo guadagnato senza volerlo, arrivando da Bahia.

Guardiamo ogni tanto i motori, che battono con la regolarità di un cuore sano, nella pienezza delle sue forze. Alle volte, proprio di fronte al traguardo, sopravviene l’incidente banale che toglie il frutto della piú feconda e fortunata fatica. Ma qui non può e non deve avvenire. Infatti, mi alzo sul mio seggiolino e vedo da una parte e dall’altra, dietro di me, il ventaglio armonioso dei dieci apparecchi, seguirmi ala dietro ala, come corressero sopra un carosello.

Sono le 16,25. L’ultimo giro di giostra è compiuto. Scocca l’ora dell’ammaraggio e del trionfo. Risolutamente, taglio a destra la rotta, ed entro, con tutta la formazione, nel cielo d’oro della grande metropoli.

Cielo d’oro. È la parola. Il sole, il piú bel sole del mondo, divampa e dilaga, dalle profondità bianco-azzurre di un empireo degno di Dante, sopra un vasto scenario di terre e di acque, che la bizzarria divina del Creatore ha disposto in uno smagliante giuoco di prospettive, di rilievi, di luci, di ombre, di colori. La fantasia dei piú grandi naturisti, che hanno, nei secoli d’oro, immaginato gli approdi irreali del Paradiso, è vinta dalla realtà di questo Paradiso in terra, nel quale entrano tutti gli elementi della bellezza. Giorgione, Carpaccio, Tiziano, il mio grande ed estroso ferrarese Dosso Dossi, hanno intravisto, nei loro sogni, grandi specchi oceanici tra rupi e foreste, hanno sognato isolotti incantati su cui spaziano chiome strane di alberi, montagne strapiombanti in mare, sulle quali si frastagliano l’ombra e la luce, paesaggi che sembrano tuffati in un’aria di magia: hanno creato la meraviglia intorno alla maga Circe, o alla Vergine delle Rocce, o alla eroina del loro cuore, trepidante nuda nella «Tempesta» o alla Santa che sale intrepida al martirio, come la Vergine Orsola dell’Accademia di Venezia. E insieme coi pittori, anche i poeti hanno descritto il paradiso di Alcina, il giardino di Armida, il castello di Atlante. Divino Ludovico, vieni in mio aiuto! No! questo, che sta sotto di noi, è piú grande, piú bello, piú nuovo: forse la natura ha copiato dall’arte. Forse Iddio, creando la Baia di Rio, ha voluto dimostrare che l’arte discende da Lui. Forse è l’ora presente, che ci esalta, e ci svela la meraviglia delle meraviglie, come degna cornice alla impresa delle ali tricolori, che son giunte ormai all’apoteosi del trionfo.

Dalla estrema punta di Copacabana taglio con tutto lo stormo in formazione verso la Ponta Ireia, da un capo all’altro della baia. Sotto di noi passa la piccola collinetta di Leme, il cocuzzolo tondo del Pâo de Assucar, l’isoletta del Lage, l’isola Villegagnon che fu per un secolo dei francesi, l’isola das Cobras, su cui si annidarono i portoghesi, l’isola Santa Barbara, l’isola Pombeba, attualmente fortezza, l’isola Sapucaia, l’isola Pinheiro, l’isola Bon Jesus, l’isola Fundacu, deserte e nude, appena qua e là macchiate di licheni verdi.

Il fantasioso arcipelago chiude e apre le insenature innumerevoli della costa, sulla quale si stende la città dietro un triplice e quadruplo cordone di viali alberati, con giardini all’inglese, fontane limpide di cristallo, ciuffi densi di sicomori, ghirlande e filari maestosi di esili palme, che, alla sommità del fusto schietto e lunghissimo, aprono, come un sorriso, le loro splendide, larghe, verdi foglie, accennanti al vento.

Ecco la marina di Copacabana dall’arena d’oro pallido, sulla quale si inseguono le onde dell’oceano in corsa pazza, con la criniera spumeggiante: ecco, parallela ad essa, la Praia do Harpeador, col lussuoso quartiere dell’Ipanema, e, tra l’una e l’altra spiaggia, la laguna Rodrigo de Freitas, addossata alle spalle del monte Dos Cabritos, tutto seminato di ville civettuole. Piú avanti, tra il Pâo de Assucar, l’Urca, il Morro Pasmado e il Morra da Viuva, ecco la deliziosa, elegante, smagliante Enseada de Botafogo, un piccolo golfo nel grande golfo, una baia minuscola entro la baia maestosa, sulla quale presto discenderemo, presso i bianchi gavitelli, che già abbiamo individuato e che brillano al sole.

Piú avanti la Praia del Flamengo, che è contigua e comunicante con quella del Botafogo; piú avanti ancora il porto coi suoi pontili, le sue banchine, le sue darsene, emergenti in mare come mani aperte dalle cento dita.

La città si distende, si incurva, si riallarga, si avanza, retrocede, a seconda della bizzarria movimentata e imprevista della baia.

Grande, spaziata, ridente, ora inerpicata sui colli, ora sospesa sul mare, ora chiusa tra due cuscini di verde, in vallette minuscole, ora padrona dello spazio, della terra e del cielo, Rio de Janeiro respira, vive, si dilata, prospera, trionfa in questo incantesimo di natura. Dietro le sue spalle bruscamente si alza una catena di montagne selvagge, dalle forme strane, come il Corcovado, e dalla piú strana vegetazione, come il Tijuca.

Avanti, avanti, stormo alato d’Italia. Tu hai ben meritato questo quadro di fantasia e di bellezza dopo la corsa sull’Oceano. Seguimi fedele. Noi tracciamo sul cielo di Rio l’aerea corona della gioia, della forza, dell’amicizia. Sono ali di Roma, la gran madre, che iscrivono nell’azzurro un’altra pagina di romana grandezza. Dai monti alla baia; dall’uno all’altro specchio di mare; sui grattacieli dell’Avenida Rio Branco; sulle vaste piazze di Maua, della Repubblica, di Monroe; sui palazzi ombrosi e silenziosi della Laranjeira, del Cattete, di Sant’Amaro, noi volteggiamo con leggerezza, con grazia, con voluttà. Il sole brilla sulle nostre ali e getta barbagli di fiamme sui tricolori dei timoni.

Intanto sotto di noi un popolo innumerevole corre alla balconata del Botafogo, da tutte le direzioni della città. Vediamo pedoni che s’inseguono, automobili che ingorgano le piazze e i viali, macchie nere di pubblico che fa pressione contro l’elegante pontile delle Regate, ove si sono date convegno le Autorità.

La nostra quota lentamente si abbassa. I motori rallentano il loro battito, lo spengono. Quasi scivolando sull’aria, come gabbiani sulle ali aperte e ferme, gli undici apparecchi scendono dolcemente, seguendo la mia aerea guida, sulle acque della Baia di Guanabara entro la conca marina di Botafogo, che ha contro luce, tra i bei colli strani, un magico colore di smeraldo.

Facciamo una rapida corsa sull’acqua, ci ancoriamo al gavitello. Sopra di noi, tre apparecchi brasiliani, strettissimi, sono rimasti i soli padroni del cielo. Nello stesso momento entrano nella baia, da Nord, a coppie, gli otto esploratori della nostra divisione navale.

Presto, siamo tutti sull’ala, e il mio gagliardetto maremmano viene issato sulla alta esile canna d’acciaio, a prua dell’apparecchio.

Gli equipaggi si irrigidiscono sull’attenti: il pubblico che annerisce tutta l’immensa balconata del Botafogo applaude. Dalle otto navi, già prossime a noi, partono le prime salve delle artiglierie: sono 48 cannoni da 120 che sparano 19 colpi per ciascuno, in segno di saluto al tricolore, che ricompare sul primo idrovolante della squadriglia nera, nel luogo segnato quale mèta finale al suo volo di 10.400 chilometri sul mare di tre continenti.

Sparano i nostri esploratori: sparano le navi da guerra brasiliane; sparano tutte le fortezze delle isole e della costa.

L’aria vibra e trema, il cielo si punteggia di lampi brevi e risuona di rombi profondi. Le montagne circostanti riecheggiano con lunghi boati il saluto ciclopico.

Il momento eroico ci esalta.

* * *

Dopo, mi lascio prendere dalla folla che sembra in delirio. Sul mio apparecchio è salito l’Ambasciatore d’Italia Vittorio Cerruti, che mi ha abbracciato a lungo: sono sceso con lui sopra un motoscafo, sono arrivato alla riva: innumerevoli mani hanno preso le mie mani, una folla enorme mi stritola e mi copre di fiori. Vengo spinto sopra un’automobile incredibilmente gremita che lentamente e faticosamente mi trasporta a un alto e maestoso edificio, che ha un nome magnetico: Hotel Gloria.

Qui altre Autorità, altre uniformi, camicie nere. Folla che plaude, instancabile. Abbracci, strette di mano, e fiori, fiori, fiori.

Vengo condotto in una grande sala, dove è preparato un radiomicrofono dal quale si parla al mondo. Debbo parlare ai cittadini del Nord America. Ebbene, sí, dico loro che l’impresa aerea nell’America del Sud è compiuta e che sarei felice se potessi compierne un’altra, attraverso l’Atlantico del Nord, per portare di persona agli italiani degli Stati Uniti il saluto della Patria.

* * *

Agli equipaggi che mi hanno seguito con tanta fedeltà e disciplina sulle vie del cielo da Orbetello a Rio de Janeiro, che dirò? Sono appena discesi dagli apparecchi e già radunati intorno a me, ufficiali e sottufficiali mi guardano con legittima fierezza. Dico, vincendo a stento la mia emozione, che hanno fatto il loro dovere e piú del loro dovere. Faccio l’appello dei morti. Ad uno ad uno abbraccio e bacio i vivi. Sui visi adusti dei vincitori dell’Oceano, scendono silenziose lacrime.

* * *

La parola del Duce ha percorso in un lampo gli spazi. Essa squilla all’indomani nel quadrato che raccoglie, dopo la rivista, tutti gli equipaggi degli idrovolanti e delle navi italiane, ancorate nella baia di Guanabara. In mezzo al quadrato, tra l’Ambasciatore Bucci, Valle, Maddalena e Longo, io leggo:

GENERALE BALBO

RIO DE JANEIRO

Ho seguito con l’ansia che puoi immaginare ma con la certezza che tu sai, il grande volo.

L’Ala italiana era impegnata davanti al mondo ed alla storia in un cimento non ancora osato.

La squadra da te guidata è giunta quasi al completo oltre Atlantico. Accanto all’Ordine del Giorno, voglio che giunga a te personalmente e cameratescamente il mio entusiastico compiacimento.

L’Ala italiana e con essa il Regime, escono ingranditi in questo scorcio dell’anno IX grazie alla preparazione, al coraggio, alla tecnica di un pugno di uomini ardimentosi, figli della nuova Italia.

MUSSOLINI

GENERALE BALBO

RIO DE JANEIRO

Raduna la squadra e leggi loro questo Ordine del Giorno:

Ufficiali, Sottufficiali, Avieri della Squadra Aerea Transatlantica!

Coll’arrivo a Rio — ultima tappa della vostra crociera — la vostra grande impresa è compiuta. Voi intendete perché io ho atteso il vostro giungere alla mèta prima di mandarvi il mio elogio e il mio plauso per il volo da me voluto, da voi cosí superbamente eseguito. Finché tutto non è finito, niente è finito.

Il mio pensiero va innanzi tutto ai cinque Camerati, caduti a Bolama.

L’Italia Li onora come caduti in combattimento. Il loro sacrificio ha dimostrato — contro il facile scetticismo dei sedentari — che il volo transoceanico imponeva una somma di rischi mortali. I nomi del capitano Boer, del tenente Barbicinti, dei sottufficiali Nensi, Imbastari, Fois, resteranno nella memoria del popolo italiano.

Il volo Italia-Brasile non ha precedenti nella storia dell’Aviazione. Esso ha dimostrato che cosa è l’Aviazione Italiana nell’anno IX del Regime, come uomini e come macchine. La grandezza unica del volo è stata universalmente riconosciuta, da Re, da Principi, da Capi di Governo, da moltitudini. La vibrazione di entusiasmo per la vostra prova è andata dall’uno all’altro orizzonte. Per la prima volta l’immensa distesa dell’Oceano è stata superata da una Squadra Aerea. Questo è l’evento che rimane consacrato nella storia, questo è l’evento al quale resteranno indissolubilmente legati i vostri nomi

Il Brasile, grande e ospitale, ha accolto le ali tricolori con manifestazioni che l’Italia non dimenticherà mai. I cuori di due popoli hanno battuto, ancora una volta, insieme: e non sarà l’ultima.

Nell’attesa di quella che sarà la ancora piú grande prova aerea dell’Anno X della Rivoluzione, l’Italia Fascista è fiera ed ammirata di voi, transvolatori dell’Atlantico.

Voi avete posto l’ala italiana all’ordine del giorno del mondo. Voi avete benemeritato della Patria.

Viva il Re!

MUSSOLINI

Roma, 15 gennaio dell’anno IX.

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