Post scriptum

— Vi ammoglierete voi? dimandò la duchessa alla quale l’autore aveva letto il suo manoscritto.

(Era una delle due signore alla sagacità delle quali l’autore ha già reso omaggio nella introduzione del suo libro.)

— Certamente, signora, egli rispose. Incontrare una donna abbastanza ardita per volermi, sarà oramai la più cara di tutte le mie speranze.

— È rassegnazione, o fatuità?

— È il mio segreto.

— Ebbene, signor dottore in arti e scienze conjugali, permettetemi di raccontarvi un piccolo apologo orientale, che ho letto tempo addietro in non so qual raccolta, che ci veniva offerta ogni anno in forma d’almanacco. Al principio dell’Impero le signore messero in moda un giuoco, che consisteva nel non accettar nulla dalla persona con la quale si conveniva di giuocare, senza dir la parola Diadestè. Una partita durava, come ben pensate, intiere settimane, e il colmo della finezza era sorprendersi l’uno o l’altra a ricevere un regaluccio senza pronunziare la parola sacramentale.

— Nemmeno un bacio?

— Oh! io ho venti volte guadagnato il Diadesté così! diss’ella ridendo.

— Fu, io credo in quel momento ed in occasione di questo giuoco, la cui origine è araba o chinese, che il mio apologo ottenne gli onori della stampa. Ma se ve lo racconto – fece interrompendosi per sfiorare una delle sue narici con l’indice della sua mano destra con un grazioso gesto di civetteria – permettetemi di porlo alla fine del vostro lavoro...

— Non sarà dotarlo d’un tesoro?... Io vi ho già tante obbligazioni, che mi avete messo nella impossibilità di sdebitarmi: perciò accetto.

Ella sorrise maliziosamente e riprese in questi termini:

— Un filosofo aveva composto un amplissimo volume di tutti i tiri che il nostro sesso può giuocare; e, per garantirsi da noi, lo portava continuamente seco. Un giorno viaggiando si trovò presso un accampamento di Arabi. Una giovine donna assisa all’ombra d’una palma, si alzò prontamente all’approssimarsi del viaggiatore e l’invitò con tanta cortesia a riposarsi sotto la sua tenda, che egli non potè esimersi dall’accettare l’invito. — Il marito di quella signora era assente. Il filosofo si fu appena collocato sopra un morbido tappeto, che la sua graziosa ospite gli presentò datteri freschi e una tazza piena di latte; egli non potè fare a meno di notar la rara perfezione delle mani che gli offrivano la bevanda e i frutti. Ma per distrarsi dalle sensazioni che gli facevano provare le attrattive della giovane araba, le cui insidie gli parevano terribili, il sapiente prese il suo libro e si mise a leggere. La seducente creatura, urtata da questo disdegno, gli disse con la voce la più melodiosa: — Bisogna che cotesto libro sia molte interessante, perchè vi par la sola cosa degna di fissar la vostra attenzione. È una indiscrezione chiedervi il nome della scienza di cui tratta? — Il filosofo rispose, tenendo gli occhi bassi: — Il soggetto di questo libro non è di competenza delle signore! — Questo rifiuto del filosofo eccitò vieppiù la curiosità della giovane araba. Ella sporse il più grazioso piedino che avesse mai lasciato la sua fuggitiva orma sulla mobile sabbia del deserto. Il filosofo cominciò ad aver delle distrazioni, e il suo occhio troppo potentemente tentato, non tardò a viaggiare da quel piede, le cui promesse erano tanto feconde, fino al seno più incantevole ancora; poi egli confuse la fiamma della sua ammirazione col fuoco di cui scintillavano le ardenti e nere pupille della giovane asiatica. Ella ridimandò con una voce sì dolce, che cos’era quel libro, che il filosofo incantato rispose: — Io sono l’autore di questo lavoro; ma il fondo non è mio; egli contiene tutte le astuzie che le donne hanno inventate. — Come? Tutte assolutamente? chiese la figlia del deserto. — Si, tutte! E non è che studiando costantemente le donne che sono pervenuto a non più temerle.

— Ah! fece la giovane araba abbassando le lunghe ciglia delle sue bianche palpebre; poi, lanciando ad un tratto il più vivo dei suoi sguardi al preteso saggio, gli fece dimenticare in un momento, e il suo libro e i tiri che conteneva. Ecco il mio filosofo divenuto il più appassionato di tutti gli uomini. Credendo scorgere nelle maniere della giovin donna una leggera tinta di civetteria, lo straniero osò arrischiare una dichiarazione. Come avrebbe potuto resistere? Il cielo era azzurro, la sabbia, brillava da lungi come una lama d’oro, il vento del deserto recava l’amore, e la moglie dell’arabo pareva riflettesse tutti gli splendori dai quali era circondata; perciò i suoi occhi penetranti divennero umidi; e, con un cenno della testa, che parve imprimesse un movimento d’ondulazione a quella luminosa atmosfera, acconsentì ad ascoltar le parole d’amore che diceva lo straniero. Il saggio s’inebbriava già delle più lusinghiere speranze, quando la giovin donna udendo da lontano il galoppo di un cavallo che pareva avesse le ali, sclamò: — Siamo perduti! Mio marito sta per sorprenderci. Egli è geloso come un tigre, e più spietato... In nome del profeta, se m’amate, nascondetevi in questo baule! L’autore, spaventato, non vedendo altra via di scampo, entrò nel baule e vi si rannicchiò; e la donna chiudendone il coperchio sopra lui, ne prese la chiave. — Poi andò incontro al suo sposo, e dopo alcune carezze che lo posero di buon umore: — Bisogna – gli disse – che vi racconti una ben singolare avventura. — Ascolto, mia gazzella – rispose l’arabo che si sedè sopra un tappeto incrociando le ginocchia secondo l’abitudine degli orientali. — È venuto oggi una specie di filosofo! Egli pretende d’aver raccolto in un libro tutte le furberie di cui è capace il mio sesso, e quel falso saggio mi ha parlato d’amore. — Ebbene? sclamò l’arabo. — Io l’ho ascoltato.... riprese ella con sangue freddo; egli è giovane e incalzante, e... voi siete arrivato proprio a tempo per soccorrer la mia vacillante virtù! L’arabo scattò come un lioncello, e drizzatosi in piedi, trasse, ruggendo, il suo cangiaro. Il filosofo che dal fondo del suo baule, udiva tutto, mandava ad Arimane il suo libro, le donne, e tutti gli uomini dell’Arabia Petrea. — Fatmé! sclamò il marito. Se tu vuoi vivere, rispondi. Dove è il traditore? – Spaventata dall’uragano che si era compiaciuta a scatenare, Fatmé si gettò ai piedi del suo sposo, e, tremando sotto il minacciante acciajo del pugnale, gli indicò il baule con un solo sguardo tanto pronto quanto timido. Poi si rialzò vergognosa, e prendendo la chiave che teneva alla cintura, la presentò al geloso; ma al momento in cui si disponeva ad aprire il baule, la maliziosa araba scappò in una sonora risata. – Farun si fermò tutto confuso e guardò sua moglie con una specie d’inquietudine, — Avrò finalmente la mia bella catena d’oro! sclamò dessa saltando di gioja — datemela; voi avete perduto il Diadesté. Un’altra volta abbiate maggior memoria. — Il marito stupefatto, lasciò cader la chiave, e presentò la prestigiosa catena d’oro in ginocchio, offrendo alla sua cara Fatmé di portarle tutti i giojelli delle carovane che passerebbero nell’annata, se voleva rinunziare ad adoperare astuzie tanto crudeli per vincere a Diadesté. Poi, siccome era un arabo, e non amava di perdere una catena d’oro, quantunque dovesse appartenere a sua moglie, risalì sul suo corsiero e partì, recandosi a brontolare a suo agio nel deserto. La giovin donna traendo allora il filosofo più morto che vivo dal baule, in fondo al quale giaceva, gli disse gravemente: — Signor dottore, non dimenticate questo tiro nella vostra raccolta!

— Signora – dissi alla duchessa – comprendo! Se mi ammoglio debbo soccombere a qualche diavoleria sconosciuta; ma io offrirò, in questo caso, siatene certa, una coppia modello all’ammirazione dei miei contemporanei.

Parigi, 1824-1829.

FINE.

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