I.

Quando una scienza o disciplina raggiunge un punto avanzato della sua evoluzione progressiva, si può quasi sempre notare un fatto che ce ne porge garanzia sicura: ed è questo, che i cultori di essa, i quali prima si trovavano in opposti campi, scendono verso un terreno comune e universalmente riconosciuto fertile e saldo a coltivare l’oggetto dei loro studj. Ciò significa che cessato il periodo delle teoriche deduttive dubbie e illegittime, quella scienza si avvia per un cammino positivo, partendo da fatti sicuri, risultato certo e valido delle precedenti controversie. Il che dimostra ancora che tutto quello che fin qui si era fatto non era stato lavoro perduto, anzi necessaria preparazione della fase positiva di tale campo di studio, segnando da una parte lo stadio deduttivo che precede ogni scienza, comprese quelle che si soglion chiamare astratte o induttive, dall'altra parte l’empirismo che, controllando quelle deduzioni, serve a delimitare l’oggetto come qualcosa di nuovo e irreducibile alle rimanenti, sorgendo così la necessità di una scienza nuova, che trova già tracciata la via da percorrere. In altri termini, alla metafisica e all'empirismo succede la scienza, salvo la posteriore integrazione in una filosofia naturale, che, raccogliendone i dati più generali, li paragoni ed unisca a quelli delle altre.

In tal momento storico par che si trovi la psicologia contemporanea: da un lato gli animisti hanno rinunciato alle loro deduzioni tratte da principî aprioristici o arbitrarj, dall'altro i materialisti si sono staccati dallo empirismo grottesco e insufficiente de «l'homme machine»; e gli uni e gli altri hanno riconosciuto come certi alcuni dati irrefragabili di osservazione.

Si può obiettare che la disputa, anzichè cessata, pare che di nuovo più viva riarda, con le teoriche del Külpe, del Münsterberg ecc. contro quelle degli americani, circa il valore medesimo del fatto ch'è oggetto della psicologia. Se quasi universalmente ormai si riconosce nell’associazione il processo comune a ogni fatto psichico, si dubita e si contrasta poi sulla qualità e sulla essenza degli elementi che a quella legge si sottopongono.

In altri termini, non è ancora stabilito quali siano i fattori, o il fattore, elementari e primi della psiche, e in che rapporti si trovino con l'organismo fisiologico. A questo proposito le opinioni sono ancora disparate, e molto ha contribuito ad annebbiare il campo di tali studj il «Realismo trasfigurato» dello Spencer, dove il noumeno cantiano imbarazza ancora l'analisi positiva.

Ma si noti che al progresso della psicologia non era fin qui necessario che questo punto venisse assodato. Se a qualcuno sembrasse imprescindibile risolvere avanti ogni altro il problema degli elementi primi della psiche, considerando che ogni altro fenomeno psichico da essi deriva, si ricordi però che nessuna scienza mai ha potuto indagare i fatti più semplici prima di averne osservato e classificato alcuni di complessità maggiore, perchè alla evoluzione di una scienza basta che il punto di partenza sia un fenomeno di osservazione, e, solo dopo l'analisi e la sintesi di questo, essa potrà ricercare se vi sia, prima, qualcosa di più semplice e di più elementare; e questa scoperta non potrà contraddire, ma più tosto integrerà le ricerche positive già fatte. Così non era indispensabile, e nè pure possibile fino a un certo momento, che la Chimica ricercasse e stabilisse i corpi semplici, e tanto meno che si domandasse il perchè della loro disposizione atomica: di fatti la prima questione è ancora sub judice, la seconda ancora appartiene alla filosofia, e nondimeno la Chimica progredisce a passi di gigante, perchè ha preso le mosse dai fatti.

E così ha fatto la psicologia inglese, che rimane modello di procedimento scientifico, ove, lo Spencer eccettuato, nulla si concede all'ipotesi se il fatto non la stringe d'ogni parte, ove si preferisce la semplice descrizione, arra sicura di ulteriore progresso, a ogni spiegazione gratuita malsicura.

E che avanti d'ora non fossero maturi i tempi per la ricerca degli elementi primi della psiche, lo dimostra il fatto che gli sforzi passati andaron tutti a infrangersi contro dei puri schemi vuoti di contenuto, quali l’intellettualismo e il volontarismo. Solamente adesso che la scienza psicologica ha raggiunto un certo grado di sviluppo, lo studio in quella direzione può essere fecondo di risultati positivi, e basti per dimostrarlo rammentare le ricerche di W. Wundt. Solamente adesso è lecito dai fatti associativi di una certa complessità discendere agli elementi più semplici, esaminare se vi ha qualcosa di riducibile in quei fenomeni detti di sentimento, discernimento, volontà, i quali formano ogni associazione.

Si può fin d'ora opporre che questi fenomeni sono astrazioni, che non rispondono alla realtà delle cose. Difatti nella psiche non avviene mai di trovare alcuno di essi semplicemente, ma sempre in complicazione con altri. Già questa obbiezione mostrerebbe quanto ci troviamo avanti nell'analisi psicologica, e giusto nella direzione che noi seguiamo. Ma si avverta che ogni scienza, e specialmente le più complesse, è costretta a far continuamente di tali astrazioni, a scopo gnoseologico: le quali sono prettamente scientifiche quando rispondono in tutto e per tutto alla realtà, la quale ne abbraccia e associa il contenuto con gli altri fenomeni.

Ora, le tre astrazioni sopra ricordate rispondono ad altrettanti stati psichici, di cui ci diamo pienamente coscienza: tanto è vero questo, che non potendosi dall'un canto ridurre i tre fatti a uno, e dall'altro canto trovandosi essi nella realtà riuniti in ogni nostro fenomeno, mentre dinanzi alla coscienza riflessiva ce li presentiamo come distinti, si venne da ultimo alla conclusione, che fossero tre aspetti, o modi di vedere, diversi dello stesso fenomeno. Vedremo più tardi se questa sia o no la più giusta conclusione che la psicologia ci possa offrire. Ci basti per ora sapere che non si compie opera antiscientifica ricercando a traverso il sentimento, il discernimento e la volontà, queste tre grandi colonne di tutta la scienza psicologica fino a oggi, i fattori primi e più semplici della psiche.

Ora, indagare, valendosi dei risultati dei maestri della psicologia contemporanea, non senza prima sottoporli a rigorosa critica, i fattori primi ed essenziali di quei fatti psichici ormai riconosciuti come certi, cercare al tempo stesso i rapporti che questi fattori hanno fra loro, il che val quanto dire classificarli, integrarli, se sia possibile, in un elemento che basti a spiegare, come fondamentale, tutti i fatti psichici, tutto ciò deve condurre a risultati molto importanti. E, prima di tutto, a scoprire il quid caratteristico, irreducibile, sul quale è basata la legittimità della psicologia come scienza fondamentale: di fatti ogni scienza fondamentale (astratta, secondo la denominazione antica) è tale in quanto ha qualche oggetto nuovo da studiare, che non può esser compreso nel campo delle altre scienze, onde la necessità di adoperare il metodo induttivo, salvo poi a servirsi largamente della deduzione in aiuto di esso. Così al tempo stesso vengono segnati i confini della Psicologia. In secondo luogo, mercè il procedimento sopra esposto si può giungere a stabilire il valore, cioè la qualità del fatto psichico. Da tutte queste analisi emergerà chiaramente la legge psicologica.

E, giacchè siamo a parlare di metodo, non sarà inutile un'avvertenza, oggi che tutti parlano di metodo scientifico, mentre in pratica per lo più si procede a lume di naso, e si ritiene la Logica una scienza formale completamente a sè, studio teorico senza applicazione possibile.

Eppure tutti magnificano il metodo positivo! e per metodo positivo intendono l'osservazione dei fenomeni. Ma l'osservazione dei fenomeni pura e semplice può bastare soltanto a una scienza descrittiva, quale per es. la botanica, illuminata però, quanto alle leggi generali, dalle scienze biologiche. Ma l'induzione che può dare la legge, non consiste solo in osservazioni e in descrizioni, ma più tosto in comparazioni. In altri termini è la ricerca dei rapporti che intercedono tra i fenomeni la chiave d'ogni progresso scientifico. Cioè: la legge è data nello stabilire la dipendenza reciproca dei fenomeni. Non altrimenti si può giungere alla classificazione loro, e alla loro integrazione.

Così, in Psicologia la ricerca di questi rapporti tra i fatti psichici più elementari, e non la descrizione pura e semplice di come ci si presentano alla osservazione interna ed esterna, può guidare alla loro riduzione, cioè al fatto primo e fondamentale. Vale a dire che è necessario porre questi fenomeni elementari in serie progressiva; cioè in una serie tale, che ognuno dei fattori dipenda da quello che precede.

Ho parlato di osservazione interna ed esterna: è necessario stabilirne il valore. Molto spesso si ode parlare dell'osservazione diretta, cioè interna, come di un vantaggio inestimabile che la psicologia abbia sulle altre scienze, essendo i dati di quella inappellabili. L'esperienza interna, dice il Wundt, possiede per noi la realtà immediata . Ma questa differenza fra esperienza interna ed esterna è un'illusione per chi ha compreso il problema della conoscenza, di cui accennerò nel paragrafo II. Lo stesso Wundt poche righe più sotto afferma come proposizione fondamentale, che gli oggetti del nostro pensiero devono esser conformi ad esso. E allora, in che differisce l'analisi di questo calamaio, che ho davanti, da quella del mio modo di sentirlo? Nel primo caso astraggo dalla forma della mia percezione per osservare il contenuto, nel secondo caso faccio l'operazione inversa: nell'un caso e nell'altro io rifletto su un mio stato interno. Poichè anche del mondo esterno noi abbiamo coscienza solamente per mezzo dei nostri stati psichici, cioè non esistendo per noi come reale altra cosa che la nostra psiche, è vano dire che la Psicologia ha un vantaggio nell'osservazione interna: ogni osservazione è del pari interna, variando solo il punto di vista. Non solo: ma le altre scienze meno complicate riguardano oggetti che si mostrano chiari e precisi alla coscienza; al contrario in Psicologia ci è necessità di andare oltre la coscienza chiara e precisa, in quegli stati che ora si preferiscono chiamare sub-coscienti, e persino inferire a quelli detti male incoscienti. Per questa difficoltà appunto è riuscito fin ora impossibile di ricercare i fatti psichici più elementari e i loro rapporti, e di stabilire quella serie che, come abbiamo detto sopra, può dare la legge psicologica. Ora, ammettendo per ora e controllando poi, che questa legge generale sia l’associazione, la serie dei fatti psichici elementari ce ne porgerà il perchè scientifico, cosa che fu trascurata, e giustamente essendo allora immatura, dall'associazionismo inglese.

Se noi, già adulti, ci affacciamo all'osservazione psicologica, quello che maggiormente ci colpisce è la complicazione dei fenomeni psichici. La scuola inglese ebbe il merito grandissimo di scomporre fin dove poteva questi fenomeni, e scoprire l'addentellato che riunisce le unità (?) più semplici in forme svariate e complesse. La teoria dell'associazionismo si riduce a due leggi fondamentali: 1.° Legge di contiguità: «Le azioni, le sensazioni, gli stati di sensibilità, che si presentano l'uno insieme o subito dopo l'altro, tendono ad aderire strettamente in modo, che, quando l'uno si presenta in seguito allo spirito, gli altri possono essere evocati dal pensiero»; 2.° Legge di somiglianza: «Le azioni, sensazioni, pensieri, emozioni presenti tendono a richiamare le impressioni o stati mentali che son loro somiglianti». La fusione, in tutti i gradi e proporzioni possibili, di queste due funzioni, con la complicazione di più impressioni contemporaneamente associate, dà luogo a ogni manifestazione psichica, fino alle più elevate e costruttive.

Il Wundt chiama successive queste associazioni, fatte per analogia, contrasto (che è una forma di somiglianza), coesistenza nello spazio e successione nel tempo. Egli divide queste associazioni successive in esterne, quelle di contiguità e successione, e interne, quelle di somiglianza. Ma volendosi poi spiegare il meccanismo di questa legge di associazione, cioè l'azione reciproca dei fenomeni psichici, onde trovare quale dei fattori fosse quello primitivo e fondamentale; in altri termini, cercando, in parte senza deliberato proposito, di stabilire la serie dei fatti psichici, per giungere, e certamente qui la mèta era chiara, a qualcosa di più oltre la descrizione dei fatti di associazione, cioè a spiegare il meccanismo medesimo di essa; in ciò fare il Wundt dovette accorgersi che, prima delle associazioni successive, vi sono altre associazioni più semplici e immediate. Difatti il Wundt trova che nelle sensazioni stesse c'è già una sintesi, intensiva, come per l’udito, o estensiva, come per la vista. Egli chiama questa sintesi fusione associativa. Inoltre, fra le rappresentazioni, vi è una assimilazione e una complicazione (legamento di rappresentazioni separate) che come la fusione or ora ricordata, costituiscono altrettante forme di associazione simultanee le quali precedono quelle successive.

Intanto l'appercezione, che è atto volontario dovuto all’attenzione, s'impadronisce dei materiali che le associazioni sopra ricordate le porgono, e, ora unendo, ora decomponendo, forma agglutinazioni, fusioni appercettive, condensazioni o spostamenti delle rappresentazioni, riuscendo così alla formazione dei concetti. Tali associazioni son dette appercettive.

Queste ricerche, come dicevamo, hanno condotto il Wundt a trovare, esattamente o no lo vedremo, la causa dell'associazionismo, cioè a dare a questo il vero valore di legge, perchè legge non vuol dire descrizione di fenomeni universali, ma di rapporti.

Il Bain, che non cerca mai di supplire con l'ingegno al manco di esperienza, quando si tratta di spiegare che cosa muova il meccanicismo, se vogliamo usare questa metafora, dell'associazione, si limita a trovarne la causa nella ritentività e nella similarità dello spirito, le quali non sono che i fatti associativi medesimi. Il Wundt fa in vece un passo avanti, rende attivo lo spirito e lo fa autore delle associazioni mediante l’appercezione.

In che modo? In parte già si conosce, perchè abbiamo rammentato che l'appercezione muove le associazioni propriamente dette appercettive. In tal caso l’appercezione è attiva, perchè deve scegliere nel conflitto fra impressioni di valore presso a poco uguale. Ma prima di questa, vi ha un'altra appercezione più semplice, detta passiva. Veramente ogni appercezione è attiva in quanto è atto volontario; bisogna dunque intendere il termine, passiva, nel senso che l'attenzione in tal caso è chiamata in modo univoco: cioè vi ha una impressione che domina, senza contrasto, sulle altre. Si comprende che in questo caso l'appercezione dà luogo alle altre forme ricordate di associazioni, che sono le simultanee e le successive.

Il Wundt così è riuscito a formare una teoria completa e grandiosa dell'associazionismo solo con l’analisi di quegli stati psichici che dai precedenti autori erano dati come unità prime, o non scrutabili ulteriormente, dello spirito. Si tratta di vedere se la stessa appercezione del Wundt e i fatti, che da lui e dagli altri psicologi ci vengono porti come più semplici, siano veramente i primi comparsi nella psiche. Trovati questi fatti primi e più semplici, analizzandoli, cercandone i rapporti, cioè classificandoli, avremo la chiave di ogni altro fenomeno; come ha ottenuto il Wundt dalla appercezione, considerata come fenomeno primo e fondamentale.

Se non che, mentre ci accingiamo a codesta ricerca, una obiezione può venirci opposta: se è vera la teorica degli stati incoscienti; se è vero da una parte che ogni atto volontario ha i suoi precedenti in un atto riflesso, come vuole lo Spencer, e dall'altra parte che ogni percezione è conscia solo nell'ultima fase del suo processo, come vuole il Sergi; quale speranza ci resta e qual garanzia ci si offre di trovare l’inizio di quei fenomeni medesimi, destinato a rimanere nell'incoscienza?

Non è questo il momento di dimostrare errata l’opinione dello Spencer, mentre oggi pare provato, ed è più ragionevole affermare il contrario: che ogni atto riflesso è il risultato di un atto volitivo divenuto prima automatico e poi riflesso. Giova invece discutere l'ipotesi esposta nel libro citato del Sergi, il che servirà di tramite per arrivare fin d'ora a importanti proposizioni.

L'ipotesi del Sergi è la seguente: l’eccitazione si trasmette dall'organo di senso all'apparato centrale, dove si specializza nelle zone corrispondenti e diventa cosciente. Qui, urtando contro i limiti della localizzazione, rimbalza indietro, e si riversa come efferente per la stessa via per cui era venuta, formando così l’onda di ritorno. È questa che reca con sè il carattere psichico cosciente, e dà luogo alla percezione, che consiste nella localizzazione delle sensazioni. Così questa onda percettiva si inizia con una fase del tutto incosciente, che corrisponde alla eccitazione dell'organo, al cammino di questa eccitazione fino al centro corrispondente e termina col risveglio, per così dire, di questo centro.

Perchè meglio si comprenda la funzione della percezione così intesa, il Sergi fa un paragone che rende ancor più visibile il meccanicismo, nel vero senso della parola, di quella; il che già rende diffidente ognuno che sappia quanto complicati siano i fatti psichici, e quanto poco, anche limitandosi alla fisiologia, si sappia del movimento molecolare nervoso. S'immagini, egli dice, un lago, nel quale immetta un canale: se all'estremità esterna del canale si eccita un'onda, questa si trasmette al lago, dove, per l'ampiezza, si perde. Ma limitando fin che basti il lago con una diga, l'onda vi batte contro, e si riflette di nuovo nel canale. Nell'organo nervoso succederebbe il medesimo, salvo che qui vi ha movimento molecolare e maggior fusione di relazioni: al lago corrisponde il cervello, al canale la via afferente, alla porzione d'acqua limitata dalla diga la localizzazione cerebrale.

Allora, non vi sarebbe percezione se non vi fossero localizzazioni cerebrali. La cosa è un po’ arrischiata. Ma chi pone la diga nel cervello? la localizzazione, risponderebbe l'autore, è opera della stessa onda afferente. Ma qui il paragone con l'acqua non dà lume, nè l'autore mi sembra ne dia sufficiente ragione.

Intanto la coscienza è la forma rivelatrice della percezione e si svolge solo nell'ultima fase del processo fisiologico. Eppure la coscienza, e quella specialmente di cui qui si tratta, cioè la contrapposizione del me al non-me, è qualcosa che necessariamente pervade oltre le localizzazioni, associando le rappresentazioni con l'impressione attuale. Perciò sarebbe assai difficile mettere d'accordo tanti fatti fisiologici e psicologici; e, quando vi si giungesse, dovremmo negare la coscienza e la percezione alla maggior parte degli animali, ove di localizzazioni non si può parlare.

Ma il mezzo migliore di confutare le teorie di un positivista quale l’illustre psicologo e antropologo, è il porgli di contro un semplice fatto di osservazione.

Io suppongo di pungermi un dito. Immediatamente ne ho la percezione. Il Sergi afferma: sì, perchè, in me adulto, l'onda percettiva efferente localizza la mia sensazione; ma in un neonato fino al dodicesimo mese non vi ha che una sensazione vaga e diffusa, e i suoi movimenti disordinati e disadatti a sfuggire il dolore lo comprovano. Ma già si potrebbe infirmare il valore di questa prova, basandosi sulle osservazioni del Bain, secondo il quale i moti che accompagnano i sentimenti da principio non sono localizzati; dopo, per acquisizione, diventano propriamente volontari, perchè permane ed è scelto il movimento che mantiene il piacere e allontana il dolore, come quello che aumenta e rialza l’energia organica, e quindi il membro che lo esegue, sè stesso avvalorando: e in tutto ciò non rimane inclusa, anzi più tosto vi contraddice, la mancanza eziandio di localizzazione della sensazione. Ma pure ammettendo che nel neonato vi sia solamente una sensazione diffusa, certo che il bambino è cosciente di questa sensazione: tanto più certo, in quanto appunto non si è ancora formato l'arco diastaltico che allontani il dolore e costringa l'onda nervosa in un àmbito stretto e preciso; tanto più certo, in quanto lo stesso autore non trova una netta divisione, ma bensì un passaggio evolutivo tra sensazione e percezione. Non potendo dunque negare la coscienza al neonato, bisogna allargare il significato di questa, estendendola oltre i limiti della percezione quale è intesa dal Sergi.

Ma ritorniamo all'adulto. Io mi pungo un dito e ne ho immediatamente la percezione. Dove? nel cervello? No, nel dito stesso. Chi non ha gli occhi sigillati dai pregiudizi che anche nei libri di scienza di frequente si addensano; chi si lasci guidare dal buon senso, cioè dalla semplice osservazione, così deve rispondere. Ma gli scienziati aggiungono: per molte ragioni bisogna credere che questa è una nostra illusione; noi riferiamo al dito l'impressione che sentiamo nel cervello.

Quali ragioni c'impediscono di credere che la percezione non sia avvenuta in quel medesimo luogo a cui la riferiamo? L'esperienza, no di certo. E nemmeno la qualità, o, per meglio dire, il modo di questa percezione, che è di tatto perchè si è svolta dove le terminazioni nervose si presentano all'ambiente come papille tattili; e sarebbe di vista se si fosse formata nella retina.

Il Sergi risponde che gli organi periferici (si noti: centri primitivi di produzione) comunicano l'eccitazione ai centri encefalici, mentre però l’immagine rimane nell’organo. Dunque ciò che chiamiamo impressione dovrebbe trasmettersi ai centri superiori già con tutti i suoi caratteri, salvo la coscienza. Ma che cosa mi costringe a questa restrizione, salvo la coscienza? La teoria fisiologica della trasmissione delle impressioni al cervello. Secondo questa antichissima ipotesi, il cervello soltanto, e oggi si direbbe soltanto i centri sensorj situati negli emisferi cerebrali, ricevono le impressioni, che vi portano dall'organo di senso i nervi afferenti. Però, malgrado da tanto si lavori per convalidare questa ipotesi, tutti gli sforzi dei fisiologi per provare le basi anatomo-fisiologiche della trasmissione son riusciti allo scopo contrario: perchè, se degli stessi dati di osservazione raccolti da tanti scienziati ci serviamo senza preconcetto e senza scopo prestabilito, messi insieme sembra che diano risultati contrarj alla teoria, come ha dimostrato con esaurienti argomenti l'eruditissimo e geniale Mario Panizza.

Fino al punto in cui oggi si trova la istologia e fisiologia del sistema nervoso, si può soltanto affermare, che il sistema nervoso è continuo e omogeneo. Continuo quantunque sembri dimostrato che non vi è anastomosi fra i suoi elementi; ma, sia o no esatta e provata la teoria dell'ameboidismo di tutti o alcuni prolungamenti cellulari, che permetterebbero la comunicazione e l’interruzione fra cellula e cellula, ogni fatto fisiologico e ogni fatto psichico sono condizionati da questa continuità del sistema nervoso. Il quale è anche omogeneo, in quanto la fibra (prolungamento cilindrassile) non è altro che la continuazione della cellula; e la differenziazione di struttura si deve alla necessità di collegare i punti distanti.

Perciò ogni cellula nervosa ha in sè tutte le proprietà del sistema intero, salvo la maggiore energia e complicazione che dall'unione delle cellule deriva.

Si dirà: per la legge di evoluzione ogni cosa va continuamente differenziandosi; non dovrebbe credersi già a priori che anche il sistema nervoso si specifichi secondo le sue funzioni? Io rispondo che a priori e a posteriori ciò è vero; come il tessuto muscolare si è specificato in forma e struttura (liscia e striata) nei varj organi, così ed ancora di più si è specificato il tessuto nervoso nei varj organi di senso. Questa è l’unica differenziazione funzionale che abbia ragione di esistere in esso. E la forma e la struttura sua obbediscono alla necessità dei varj organi di senso. Ma non è qui che si vorrebbe giungere da chi avesse mossa la prima domanda: si vorrebbe giungere alla necessità delle localizzazioni cerebrali.

Questa necessità non è fisiologica; di fatti, tutti gli esperimenti fatti cominciando dal Gall e finendo al Goltz, e tutti quelli che si vanno facendo ogni giorno nei laboratorj, benchè quasi sempre con animo deliberato di favoreggiare la teoria delle localizzazioni, han dato risultati che sono molto lontani dal porgere prove certe in proposito. La fisiologia può dire questo, che i gangli e nuclei prossimi o direttamente in contatto con organi speciali servono direttamente a questi e meno direttamente agli altri, aumentando in proporzione dell'energia che l’organo relativo richiede: solo in questo senso possiamo trovare una specializzazione dei centri, la quale è tutt'altra cosa di quella che si vorrebbe imporre dai seguaci del Gall.

Ma i fautori delle localizzazioni furono spinti nel loro indirizzo da una creduta necessità psicologica, alla quale voller poi dare un sostrato fisiologico. Da quando si è scoperta l'esistenza di un nesso inscindibile fra il sistema nerveo e lo spirito, si è posta la sede di questo nel cervello; onde come ultima tra tante conseguenze, quella di credere che il processo psichico e quindi la coscienza, incominci solo allora, quando l’impressione dalla periferia sia stata trasportata al cervello. Inoltre, e qui è la questione nostra, alle diverse facoltà dello spirito devono corrispondere altrettante sedi speciali nel cervello; una per il sentimento, sensoria; una per la volontà, motoria; una per il ragionamento, ecc. Ma oggi la teoria psicologica delle facoltà giace tra le cianfrusaglie della vecchia metafisica; oggi si va sempre più accentuando l’opinione, conforme alle osservazioni, che ogni atto psichico non sia qualcosa di fisso e già dato nell'anima, ma un fatto più o meno complesso formato dalla fusione degli elementi dei fatti anteriori con elementi nuovi. Così che a uno psicologo moderno l'idea di una localizzazione è più d'imbarazzo che di vantaggio, perchè renderebbe più difficili a esplicare fatti semplicissimi.

Già nel passato, ammesso, per esempio, che la sensazione abbia luogo in una data regione degli emisferi, il difficile era poi spiegare come essa diventi emozione e si complichi con fatti discernitivi e volontarj: ci si sbrigava dicendo che fitte connessioni legano i diversi punti della corteccia; ridiscendendo così la via che ci allontana dal concetto preciso di localizzazione. Ma ora anche una semplice sensazione, in psicologia, dev'esser considerata come un fatto al tempo stesso sentimentale, discernitivo e volontario.

Onde cade il sostrato psicologico di quella teoria.

Dopo tutto ciò, ritornando al nostro esempio, della puntura di un dito, nulla ci impedisce di credere quello che a tutta prima pareva già evidente, che la sensazione abbia luogo nell'organo dove avviene, salvo il propagarsi successivo in tutto il sistema, il quale viene così a prendervi parte più o meno direttamente ed energicamente secondo che trovisi in più o meno stretta comunicazione con l’organo. Ripetendo di fatti con una rana decapitata questo o altro consimile esperimento (per esempio, il solito di versare un acido su di una estremità posteriore), essa percepisce egualmente l'impressione, e lo dimostra con movimenti atti a sfuggire il dolore.

Si dirà che la percezione non può avere la medesima intensità e i movimenti non possono essere altrettanto adatti come avverrebbe se la rana non fosse discervellata. Gli esperimenti nulla possono provare della prima quistione, e provano il contrario della seconda: ma d'altra parte si può benissimo ammettere che, se un uomo decapitato potesse conservare per qualche tempo vitalità, esercitando una puntura sovra un suo dito egli darebbe segni di sentirla assai meno adatti, o, meglio, assai meno complessi di quelli che darebbe essendo integro.

Ma che prova ciò? solamente il fatto, cui niuno penserebbe mai a contraddire, che la presenza delle masse cerebrali rafforza e complica ogni atto psichico. Resta però il fatto che la percezione – e quindi la coscienza – ha il suo inizio nell'organo di senso. La sua qualità dipende dal modo con cui l'organo reagisce agli agenti fisici o chimici che lo toccano.

Fin d'ora si può dunque dire che la sensazione e la percezione non sono fatti diversi; la sensazione cosciente è il primo fatto psichico e corrisponde al movimento che avviene nella cellula dell'organo di senso, cioè al primo fatto fisiologico.

Se si rammenta che il nostro scopo era di chiarire le idee su ciò che deve intendersi per coscienza, si converrà che la questione è già molto semplificata. Ma c'è ancora l’ipotesi che fa della coscienza un mero epifenomeno: qualcosa come un'appendice inutile e oziosa di ogni fatto della vita. Il più ingegnoso di quanti io conosco sostenitori di questo concetto, Le Dantec, mentre pure è obbligato ad ammettere una certa quantità di coscienza negli atomi stessi, accostandosi alle idee dello Haeckel, non attribuisce poi alla coscienza alcun valore dinamico, e cerca di spiegare tutti i fatti della vita con le leggi della fisica e della chimica.

Le Dantec aveva in fatti osservato, che specialmente nella vita degli esseri unicellulari, non un solo fatto si presenta, che la fisica e la chimica non sieno sufficienti a spiegare. D'altra parte egli era partito dal preconcetto, anzi dal timore, che, aggiungendo valore alla coscienza, se ne togliesse alle proprietà fisiche e chimiche del corpo vivente.

Questo timore è completamente errato: perchè dire che la coscienza può determinare un fatto, non significa negare che questo si svolga secondo le leggi della fisica e della chimica a cui è soggetto. Ma la coscienza agisce servendosi appunto dei fatti fisici e chimici, come da essi deriva. La funzione della psiche è di proteggere l'organismo e conservare la specie; basta dare uno sguardo alla vita di qualunque organismo per convincersene; questo complica, ma non può abolire le leggi fisiche e chimiche che sono più fondamentali, e dalle quali, in ultima analisi, la psiche è determinata. Come in generale il presentarsi di un fatto più complesso non abolisce i meno complessi poichè ad essi appunto deve la sua esistenza, e da essi ha vita, e su essi e per mezzo di essi opera. Usando di un esempio preso fra quelle azioni dette istintive, dovute secondo Le Dantec, a uno stato adulto del sistema nervoso, se la fame ci spinge sopra un cibo, è ben vero che questo stimolo è determinato da una affinità chimica tra le sostanze organiche e quelle del cibo, come è vero che i movimenti per impadronirsene e ingerirlo sono del tutto esplicabili in sè con le leggi fisiche e chimiche; ma chi fa da intermediario fra lo stimolo e il movimento, sentendo quello e muovendo questo, è la coscienza. La quale non si può dunque considerare come inerte: anzi la sua esistenza e la differenziazione del tessuto nervoso dagli altri si debbono alla importanza della funzione ch'essa compie. Del resto, nel mondo vi hanno fenomeni e non epifenomeni; ogni fatto è legato a tutti gli altri da reciproche azioni e reazioni.

Tirando le somme da tutto ciò che precede bisogna concludere, che dove è psiche quivi è pure coscienza, poi che questa non può differire dai processi medesimi della psiche, che, altrimenti, non esisterebbero come psichici ma solo come fisici e chimici. Se il significato di coscienza fu spesso ristretto a indicare un gruppo di rappresentazioni permanente che costituisce la coscienza del proprio me, bisogna ripristinarlo nel suo valore naturale di fatto, cioè di rapporto psichico; il che si porge naturalmente a una graduazione della coscienza medesima secondo la complessività dei rapporti. Giustamente il Wundt dice che non si può affermare la non coscienza, perchè non si scorgono i limiti della coscienza. Ogni definizione della coscienza è una tautologia. E sbagliano ancor più quelli che, a forza di sentir parlare di coscienza, han finito per considerarla come un fatto a sè, diviso dal sentimento e dagli altri rapporti psichici: sbagliano, perchè la coscienza è in tutti questi come la loro proprietà psichica. In somma la coscienza rappresenta la psichicità dei fatti dello spirito.

Perciò l’unità di coscienza è data non come forma fissa aprioristica ma come composto.

L'unità di coscienza non è punto insondabile, come afferma lo Spencer. E noi ci prepariamo a scrutarla cercandone gli elementi.

Share on Twitter Share on Facebook