II.

A questo punto ci si para d'innanzi la Psicofisiologia, che dal Weber e dal Fechner al Wundt e al Lange ha segnato una luminosa parabola ascendente nel campo delle scienze della vita. Essa ci dice che l’organismo in generale, e l'organismo umano in particolare ci si mostrano come un complesso così serrato di processi fisico-chimico-fisiologici da una parte e psichici dall'altra, che, deduttivamente per le leggi generali della materia, induttivamente per le osservazioni esterne ed interne comparate, dobbiamo giungere alla conclusione che una perfetta corrispondenza si verifica continuamente tra i fatti del corpo e quelli della psiche. Vale a dire che, se pure non si vuole dai fatti fisiologici trarre immediatamente quelli psicologici, cioè ridurre i secondi ai primi, come vorrebbe il materialismo, e se invece si vuol considerare il fatto psicologico sempre come un fatto sui generis, irreducibile a qualunque altro naturale, tuttavia e in ogni modo bisogna riconoscere un parallelismo più o meno perfetto tra i due ordini di fenomeni. A queste conclusioni è giunta la psicologia fisiologica, la quale perciò ne impone di porre accanto alla ricerca psicologica come necessario complemento quella fisiologica.

Toccava alla Filosofia, e non alla scienza speciale, portare il parallelismo nel campo dei problemi ontologici, e cercarne la soluzione ultima. Vedremo tra breve come la Filosofia abbia risolto il problema.

Per chi si accinge all'analisi dei fattori più semplici della psiche, è quasi indispensabile affrontare da principio la questione del parallelismo psico-fisico, che presto o tardi ugualmente si farebbe avanti a domandare la sua parte nella trattazione, e che può servire di utile preparazione alle posteriori indagini. Un brevissimo discorso basterà al nostro argomento.

Sappiamo già che non è antiscientifico accettare, provvisoriamente, come elementi fondamentali psichici quelli offertici universalmente dalla psicologia, salvo l’analisi che ne faremo in seguito; e che sono il fatto emotivo (piacere e dolore), quello intellettivo o discernitivo, quello volitivo. Sieno o no quei fatti in sè qualcosa di diverso dai processi fisiologici del sistema nervoso, certo dobbiamo ammettere senza esitazione che ne dipendono in qualche modo; basterebbe a dimostrarlo il fatto semplicissimo che, tolto il sistema nervoso, anch'essi sono rimossi. Inoltre già in parte abbiamo cercato dimostrare quello che la fisiologia comparata potrebbe far apparire inoppugnabile, esser questi fenomeni psichici elementari proprietà non di cellule speciali nervose, ma di ogni elemento nerveo. Tanto basta perchè sia lecito stabilire una proporzione psico-fisica più conforme ai fatti che un semplice parallelismo, dove non è implicato il concetto di azione reciproca; e più feconda scientificamente, poichè ne possiamo ricavare alcune legittime inferenze. Delle quali due sono principali e di somma importanza. La prima è che, dalle associazioni le quali sempre e dovunque si vanno componendo e scomponendo tra i fatti psichici uguali e diversi, bisogna inferire alla continuità dinamica del sistema nervoso. Questa inferenza è legittima: di fatti tacitamente tutti i fisiologi se ne sono serviti; l’istologia sembra che abbia concluso alla mancanza di anastomosi, cioè alla discontinuità morfologica degli elementi nervei; la fisica e la chimica fisiologiche nulla hanno potuto assodare sul modo di propagarsi e sulla natura del moto nervoso, per la difficoltà di questa ricerca; rimane la fisiologia psicologica, la quale, se non ha basi istologiche, non può a meno d'invadere il campo della psicologia o tacere; e nondimeno non vi ha alcuno che dubiti della continuità dinamica del sistema nervoso. È dunque di capitale importanza questa scoperta che scaturisce dal rapporto psico-fisico.

La seconda inferenza è, che dalla estensione del sistema nervoso s'inferisce la estensione del fatto psichico. Anch'essa è legittima dal momento che il rapporto psicofisico è stabilito. Affermare, come si fa di continuo, che il tessuto nerveo è esteso e lo spirito è inesteso è pronunciare due proposizioni non solo contrarie fra loro, ma anche contraddittorie. Osserviamo un caso semplicissimo, il più semplice che sia dato studiare: nell'idra, quale ce la descrive l'Häkel, ogni cellula della coppa esterna è una cellula che comprende in sè tutte le funzioni che poi nell'evoluzione si separano specializzandosi nei tessuti muscolari e nervosi; è dunque una cellula neuro-muscolare, avendo un filamento contrattile verso l'interno e la parte esterna, arrotondata e nucleata, sensibile. Qui avviene il fatto psichico: cioè nelle molecole, o almeno, in alcune molecole, o, sia pure, in una molecola della cellula. Ma dunque il fatto psichico occupa, è la parola più circospetta che si possa usare, una estensione qualunque. Se si toglie l'estensione al fatto psichico, lo si relega al di fuori della cellula, in uno zero a cui non risponde alcun concetto scientifico. La questione non cambia, trasportandola in organismi a sistema nervoso centralizzato. Se in un punto ha luogo il fenomeno psichico, questo punto è esteso, e solo la metafìsica, per ora, può conciliare un fatto inesteso con uno esteso da cui derivi. Si dirà, per esempio, che una impressione di dolore è un fatto interno, mentre la caduta di un corpo è un fatto esterno. Ma che cosa vuol dire, fatto esterno? nulla altro, se non il nostro modo di vedere alcuni fenomeni che sono pure essi interni. Perchè la mia percezione del fatto della caduta di un corpo è fenomeno psichico. Si dirà che si può misurare, e che dunque è esteso, mentre la percezione di un dolore sfugge a quella misura. Che cosa vuol dire misurare? vuol dire fare, mercè la nostra intelligenza, una relazione fra cose omogenee. Così, ad esempio, l'atomo è unità di misura chimica, e si può adoperare, mettiamo, in biologia solo in quanto la chimica entra a spiegare i processi della vita. Potrà dunque misurare il fatto psichico solo in quanto vi ha di comune fra questo e l'affinità dei corpi, cioè nella sua base organica. Adottando una unità di misura più generale e comprensiva, per esempio l’energia, chi può negare la sua attitudine a misurare del pari il fatto chimico e quello psichico? tutta la corrente scientifica dei nostri giorni ne fa fede, e la proposta di sostituire l’energetica alla teoria atomica è sintomo assai significativo. Tutto questo non colma il cosiddetto salto esistente tra la biologia e la psicologia, come un salto del tutto consimile esiste fra la fisica e la chimica: ogni scienza fondamentale studia un fatto nuovo; cioè, psicologicamente parlando, le qualità, ossia i modi diversi con cui tutti i fenomeni ci si presentano all'osservazione, danno ragione di altrettante scienze fondamentali. E fra poco vedremo che questo salto deve esser considerato come qualcosa di primo e di irreducibile senza tema di andar contro l'esigenza scientifica.

Riepilogando adunque, dalla proporzione psicofisica derivano come corollarj, da una parte la necessità di una continuità dinamica del tessuto nerveo, dall'altra parte quella di considerare la psiche estesa come il sistema nervoso.

Lo Spencer, che pure così minutamente e acutamente analizza il parallelismo fisiopsichico, e lo stesso Wundt, che dal suo primo indirizzo doveva affacciarsi alla psicologia scevro di vedute, mi si perdoni la infelice espressione, centralistiche (ossia che v'abbia qualcosa di centrale, inesteso, che riceve le impressioni direttamente, non si sa per qual tramite, e le fa coscienti, integrandole nella loro forma e contenuto, non si sa in che modo, e immagazzinandole, non si sa dove, e riproducendole, per un inesplicabile moto vibratorio); lo Spencer e il Wundt dico, non si propongono la prima conseguenza del parallelismo, quando questo non vada inteso come qualcosa di schematico inerte e vano; e spesso sono tratti a dar contro la seconda.

Lo Spencer spiega i suoi stati di coscienza in questo modo: Il flutto di azione molecolare che si sprigiona da un ganglio imperfettamente organizzato al principio della vita, non trovando canali sufficienti per isfuggire, passerà in parte in un centro superiore, svegliandovi uno stato di coscienza. L'affermazione, che lo stato coscienza si realizza solamente nella sostanza grigia del mantello cerebrale si basa forse sopra un'induzione? Tutt'altro. Le induzioni, e i due illustri psicologi ne fanno continuamente validissime, le induzioni riescono alle leggi generali delle funzioni centrali, quali sono formulate dal Wundt. E sono: 1.° Ogni elemento nervoso è legato ad altri, e questa unione lo fa atto a esercitare funzioni fisiologiche (sappiamo che questa proposizione ha valore solo quando sia fatta per inferenza dalla proporzione psicofisica); 2.° Nessun elemento compisce atti specifici, ma la forma della sua funzione dipende dalle unioni e relazioni sue; 3.° (corollario del precedente) quindi può assumere una funzione vicariante; 4.° le localizzazioni dipendono da queste connessioni funzionali; 5.° Ogni elemento è tanto più atto a una funzione determinata, quanto più le condizioni esteriori l’hanno obbligato a esercitare questa funzione. Se queste proposizioni, e in ispecie quella fondamentale della indifferenza funzionale, sono valide, come si può conchiudere, parlando anche del più semplice degli atti psichici, che questo avvenga per una specie di potere centrale, e diventi cosciente solo nel cervello? Tutto ciò che si può dire, accoppiando l’osservazione ai dati di quelle proposizioni, è che la serie dei fatti più semplici si compie nel seguente modo: 1.° Un'azione esterna al sistema nervoso modifica le estremità nervose; 2.° una eccitazione le segue immediatamente, e quindi è cosciente e locale; 3.° salvo poi la complicazione della eccitazione volontaria che si traduce in movimento. Dal momento in cui l'azione esterna viene esercitata al momento in cui appare la reazione volontaria in forma di movimento passa un certo tempo che costituisce il così detto tempo di reazione, nel quale il Wundt e gli altri esperimentatori includono quegli atti centrali de' quali non c'è prova induttiva; tempo di reazione che, come giustamente osserva il Panizza, non meritava, per la sua estrema relatività a mille fattori individuali, tante e così pazienti ricerche quali furono fatte in questi tempi.

Quanto poi alla riproduzione dei fatti psichici, essa è comunemente attribuita a una disposizione funzionale del sistema nervoso.

Il parallelismo psico-fisico conduce a ritenere i fatti emotivo, conoscitivo e volontario come effetti della modificazione, o, se si vuole, della disintegrazione degli elementi nervosi di qualunque genere.

Però si potrebbe infirmare questa e le precedenti conclusioni quando si dubitasse del valore del parallelismo psico-fisico, per una ragione poco prima accennata, e che pertiene al campo della filosofia. Si può cioè negare al parallelismo ogni valore di scoperta, fin che il fatto psichico non sia ridotto a fatto fisiologico; o, in altre parole, finchè non sia colmato il salto, onde la psichicità di un fenomeno appare come qualcosa di nuovo e completamente staccata dai fenomeni studiati dalla biologia. Per tentar di dissipare questo malinteso scientifico, che potrebbe ripetersi a principio di ogni scienza fondamentale, di cui la trattazione a parte è appunto dovuta alla presenza di questo quid suo peculiare, bisogna affrontare il problema dal lato filosofico; e non per la prima volta, perchè come filosofi lo trattano lo Spencer, il Wundt, l'Ardigò.

Il problema è questo: si può spiegare perchè da un fatto fisiologico, oggettivo, cioè da un movimento della materia, risulti il pensiero, cioè un fatto sentito come affezione del proprio me, ossia di qualità diversa dal fatto fisiologico?

Lo Spencer risponde: no. E giunge a due conclusioni degne degli antichi scettici: la sostanza dello spirito resta inconoscibile; la esistenza oggettiva resta del pari inconoscibile.

Il Wundt da prima nega anch'egli: il punto di vista psicofisico non può cercare di accostarsi al problema dell'essere; il suo compito si limita a dare più estensione ai concetti ipotetici che la scienza naturale ha cominciato a formare. Poi, pur non ammettendo nessuna identità tra i fatti psichici e quelli fisici, sale a un ordine più alto d'idee, e li afferma come due modi di vedere la medesima cosa riunita nell’individuo psicofisico . Questa veduta si trova più completa nell'Ardigò.

Il Bain riconosce il parallelismo, ma al tempo stesso proclama dalle prime righe del suo libro che lo spirito è inesteso.

A tutti questi scienziati risponde l'Ardigò, che in ciò si rivela massimo tra i filosofi del positivismo; egli dice: il domandarsi come l'esteso (materia) diventi l’inesteso (pensiero) è porre male il problema; perchè anche l'esteso è un pensiero e si viene a paragonare con un altro pensiero. È l’abitudine che ci fa considerare come soggettive le note del pensiero, oggettive quelle della materialità. Allora il problema viene ad essere pari a tutti gli altri problemi, dove si ricerca la causalità: solamente che i due fenomeni confrontati non appartengono tutti e due al mondo fisico o al mondo psichico, ma a quella unità che si può chiamare mondo psico-fisico con lo stesso diritto, con cui si foggia, per astrazione, il mondo fisico e il mondo psichico.

Ma che cosa vuol dire, cercare le cause che legano due fenomeni appartenenti allo stesso ordine di cognizioni? Non altro, se non cercare le correlazioni di coesistenza e di successione. Cioè cercare le leggi, basandosi sulla somiglianza. Le quali leggi non danno già le essenze, ossia il perchè ultimo dei fenomeni, poichè l'essenza vera rimane ignota, e quello che chiamiamo essenza non è che l'astrazione dei fatti osservati che si riducono tutti a coesistenze e successioni. Così la sensazione non è una sostanza, opponibile a un'altra, ma una qualità, cioè una proprietà; così non c'è più bisogno di avere da una parte il senso che dia l'oggetto esteso, dall'altra l’intelletto che lo rischiari e lo renda conoscibile con la sua luce ideale. Esteso e inesteso sono proprietà che si posson ridurre sotto una medesima legge (psicofisica) non altrimenti di come si riducono sotto una legge il moto del martello che batte l' incudine e il calore che in questa si sviluppa.

Ecco il pensiero sintetizzato di quanto l'Ardigò svolge nel suo meraviglioso libro.

Al che mi permetto alcune osservazioni.

Parlare di una sostanza vera e ignota, di un perchè ultimo di ogni fenomeno, è togliere una difficoltà per crearne una maggiore, e chiudere la via al monismo scientifico, scopo finale di tutto lo scibile. Le parole, sostanza, essenza, sono astrazioni non solo filosofiche, ma anche metafisiche: difatti l'Ardigò conviene nel dire che nulla vi corrisponde in ciò che per noi è la realtà. E dire, come lo Spencer, che vi è una realtà diversa da quella che noi conosciamo, è fare un perfetto sofisma, perchè anche l'idea di realtà è relativa alla nostra conoscenza. Se la legge con la quale noi, per adoperare l'esempio dell'Ardigò, spieghiamo la trasformazione del moto del martello nel calore dell'incudine non è che una sintesi di rapporti, e non rivela affatto il perchè ultimo che sta in fondo a quella trasformazione, che cosa mai, nel mondo del sensibile, ci porge un fulcro, ove appoggiarci per affermare l’esistenza di questo perchè ultimo? E come si può affermare, sia pure come possibile, l’esistenza di un qualcosa, di cui nulla ci offre un segno? In tal caso non vi sarebbe differenza fra quello che si darebbe, quantunque non provato, come esistente possibile e quello che si afferma, per contrapposizione di ciò che esiste, come non esistente. Cioè, davanti alla nostra conoscenza, il reale in sè e l'irreale avrebbero lo stesso valore. Bellissimo sofisma davvero!

Nel mondo della esperienza non vi è il perchè (essenza) ma il come (rapporto). Chi si fosse fermato alla filosofia del Kant, che partiva da forme aprioristiche di conoscenza, avrebbe potuto trovare una ragione, di ammettere l’esistenza di questo perchè ultimo, nel fatto, che noi lo ritroviamo come un postulato della nostra mente. Ma ciò non sarebbe coerente in noi, che possiamo spiegare la presenza in noi di tale esigenza razionale, come uno dei tanti fenomeni di associazione costruttiva. Ma dunque bisogna esser positivisti sino alla fine, e negare assolutamente questa essenza ultima, alla quale non un solo fatto esiste che possa offrire un punto di appoggio; e la quale ammettendo, crollerebbe tutto l’edificio logico su cui si basano le nostre cognizioni, aprendo la porta allo scetticismo, ch'è figlio primogenito della ignoranza. È questa la risposta più esauriente che si possa dare al famoso ignorabimus di Du Bois-Reymond.

Così al tempo stesso abbiamo garentite le nostre conclusioni tratte dal parallelismo psicofisico, e abbiamo altresì garentita la legittimità della psicologia come scienza a sè, cioè fondamentale, cioè induttivo-deduttiva (astratto concreta), avendole serbato un oggetto, o, dirò meglio, una proprietà sui generis come oggetto di studio.

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