I. L'Antinomia sui sensibili

1. – Il mondo sensibile è tutto ed è nulla.

Per la filosofia, il mondo sensibile non è nulla. Come conoscenza e verità teoretica, la sensazione, prima e dopo Platone, non è nulla di reale; tutt'al più, essa è creduta una realtà soggettiva, psicologica, la più soggettiva delle realtà. Un colore, un suono, una sensazione organica, che valore reale posson avere? Non soltanto questi sono elementi empirici sparpagliati, semplicemente contigui nello spazio e nel tempo, i quali attendono dalla memoria e, attraverso questa, dall'intelletto la loro unificazione, nei rapporti, appunto, di spazio e di tempo, e poi nelle categorie logiche che li fanno diventare la tale cosa o il tal fatto e in questa guisa ce li fanno comprendere: cosicchè anche il più opaco sensismo, nonchè quello d'un Gassendi, di un Locke, di un Condillac, deve finire col riconoscere in essi dei semplici contenuti di una forma logica, dei punti di partenza all'attività pensante, dei fenomeni organizzati dalle categorie superiori; ma perfino l'esser queste sensazioni suoni colori dolori ecc., e l'esser in genere sensazioni, questo loro «essere», dico, si realizza ed «è» insomma suono o colore o dolore sol in quanto è idea.

L'idealismo è inoppugnabile. Conosciamo teoreticamente qualcosa, fosse pure una minima sensazione, come quella tal cosa, in quanto la pensiamo, la realizziamo nell'idea di sensazione o di quella sensazione. Il sensibile in sè, fuori della mediazione del pensiero, non è dunque nulla, o meglio non può essere nulla: è un non essere.

Meno ancora i sensibili hanno valore alcuno rispetto all'attività pratica e quindi alla filosofia della pratica. Il senso, lo spregevole senso, è negato dalla ragion morale; il mondo materiale viene respinto dalla volontà etica, che tale è appunto in quanto nega e supera il dato sensibile, il fatto, la materia. Se chiamiamo corpo la materia in quanto è senso, ebbene, il valore morale è morale in opposizione al corpo, e lo si chiama anima e spirito. Anzi, fenomeno interessante, questa energica negazione dei sensibili da parte del pensiero etico reagisce anche sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma, sono pur essi idee e hanno quindi per lo meno diritto di cittadinanza nel mondo delle idee accanto alle altre, se pure gerarchicamente più in basso, tuttavia di solito gonfia le gote contro l'empirico, lo respinge dal proprio sistema, rifiutando perfino di vedere nella filosofia empirista quello ch'essa è veramente: non un'opposizione all'idealismo filosofico, ma una correzione rispetto al problema dei contenuti conoscitivi del pensiero teoretico.

Anche per la scienza la sensazione non è nulla. La scienza, sì, osserva il dato empirico, il fatto, il sensibile; ma l'osserva al solo scopo di superarlo, sostituendolo con elementi e rapporti d'ordine razionale. La storia delle scienze fisiche è tutta aperta a testimoniarci che il dato sensibile non è che un punto di partenza, un soggettivo illusorio, una qualità seconda, a cui è còmpito della scienza sostituire una realtà più vera, oggettiva e universale, e alla fin dei conti razionale, possibilmente matematica. Questa luce che vedo, per il fisico è mera soggettività; egli se ne serve soltanto di punto di riferimento empirico per giungere a leggi matematiche, ossia all'enunciazione di rapporti costanti, rispetto ai quali, non solo questa luce visibile, ma anche altri elementi d'ordine immaginativo, come la rappresentazione alla Fresnel d'ondulazioni eteree, di cui si deve servire per analogia con l'esperienza comune, non sono che momenti e gradi di passaggio per giungere alla costruzione razionale del vero scientifico. L'epistemologia odierna ha messo ben in evidenza questo contrasto interno che si dibatte nel pensiero scientifico fra una necessità puramente empirica, che lo lega all'esperienza, e la sua incoercibile aspirazione ad una perfetta concettualità, e razionalità formale, in cui starebbe il coronamento del sapere obbiettivo; fra il doversi contentare di enunciare positivisticamente leggi come constatazione di rapporti osservati a posteriori, e il bisogno di raggiungere le cause determinanti logicamente i fatti. Certo, malgrado tutto l'induzionismo da Bacone a noi, la scienza accetta il fatto sensibile solamente perchè ed in quanto non ne può fare a meno: l'accetta cioè provvisoriamente, su l'esempio del grande Leibniz, per tentar di ridurlo a una legge a priori, e adopera l'induzione e l'esperimento solamente col proposito di farne un metodo, non di prova, ma di riprova e controllo della veridicità delle ipotesi.

Tutto ciò non può far meraviglia se si considera ciò che i sensi sono anche nella vita comune. La nostra vita è costituita dalla nostra volontà, e i valori di essa riguardano le finalità del nostro volere. Orbene, la volontà al senso non s'arresta mai: essa lo adopera come un semplice segno di qualcosa che ne sta al di là e che costituisce il proprio fine. Nessun volere s'appaga mai dell'essere sensibile; nessuno spirito umano si loderebbe di non aspirare a qualche cosa oltre il sensibile; nessun pensiero sarebbe pensiero se non contrapponesse, al sensibile, i valori superiori e se non reagisse al mondo dei sensi in nome d'un mondo della ragione.

2. – Tuttavia, filosofia scienza e vita, appunto perchè trovan nei sensibili un ostacolo alle aspirazioni dello spirito (ostacolo che chiamano vile materia, empiricità, male e carne), debbon implicitamente riconoscervi un valore di necessità. Che dico? Non possono a meno di fare i conti con esso, di subire l'esistenza del senso. Allora, per un altro verso, il mondo sensibile può apparirne il solo mondo reale e cacciare l'anima, lo spirito, la ragione nel mondo delle illusioni: una sensazione, intendo dire una sensazione pura, razionale, non ancora conoscenza e idea – ciò che tocco vedo sento immediatamente –, è il sassolino che fa sempre inciampare la magnifica corrente dello spirito umano alla ricerca dei valori superiori. Allora, la filosofia cede il posto all'empirico, s'adatta ad accettarlo almeno come il necessario contenuto delle forme conoscitive, almeno come la necessaria resistenza alle ali dell'intelletto. Allora, la scienza deve riconoscere, che per quanto alta e profonda sia la legge che ha scoperto, il più piccolo contrasto ad essa, osservato in un fenomeno particolare, basta a capovolgerla. Allora, la psicologia stessa è obbligata a convenire, che non soltanto nella percezione, ma in ogni grado e forma rappresentativa c'è un elemento sensibile in cui essa forma si attua; in ogni attività, per quanto nobile, dello spirito, c'è un sentimento, un «gusto», una sensibilità che la règola e dirige.

Il pensiero è pensiero in parole e in atti sensibili; i suoi valori valgono realmente come sentimenti che spingono le nostre attività: che vale la legge morale se non palpita in un cuore? che cos'è la stessa ragione, se non diviene un bisogno, direi un istinto, o in ogni modo un sentir le cose intuendole come valore? Non soltanto un buon ingegnere è quell'ingegnere che ha ridotto a senso tecnico le sue conoscenze teoriche, e così un buon medico ecc.; ma anche un sapiente è un saggio, e un filosofo è tale se vivono sensibilmente il loro sapere e la loro filosofia, nel che si distinguono dai semplici scolari o imitatori, i quali possono ripeterne con grande esattezza gli ammaestramenti e i concetti, ma non vi aderiscono con l'anima, non li sentono: comprendere significa sentire! Perfino l'erudito, il puro erudito, è un vero erudito quando il materiale ch'egli amorosamente raccoglie si riscalda della sua sensibilità fatta squisita e si dispone secondo una scelta diretta, per così dire, più dal fiuto che dalla ragione; o meglio, dalla ragione che sente e respira.

Non basta. La vita del pensiero, mai pago del sensibile, del fatto, del raggiunto, e così ardentemente teso a raggiungere una realtà sempre più profonda oltre il sensibile, a inseguire un'idealità posta sempre oltre le esistenze sensibili, ecco che, riguardata da quest'altro aspetto, apparisce pur tutta presa dal mondo dei sensi, tutta dedita ad attuare sensibilmente i suoi fini, a non riuscire a porre la felicità se non nel sensibile. E ciò non soltanto nel quadretto umoristico che si potrebbe abbozzare, del religioso che al mattino si preoccupa del suo caffè e latte e alle dieci del suo uovo a bere e poi via via delle più corporee, delle più materiali abitudini che pur comprendono tanta parte della sua vita; ma la volontà stessa, fosse pure generosa volontà d'attuare la legge della ragion pura, fosse pur volontà e desiderio di Dio, in che può collocare il suo fine ultimo se non nell'attuare concretamente, e cioè sensibilmente, in un individuale atto sensibile, questi valori universali?

Se desidero una cosa, è ben vero che non mi contento mai di ciò ch'essa è sensibilmente – mettiamo, quest'arancio che vedo, quel manifesto che raffigura i picchi delle Dolomiti ergentisi dalle selve di abeti, o semplicemente la parola (per es. «Monte Cristallo») –, ma è anche vero che il mio desiderio s'appagherà soltanto nel trasformare queste sensazioni rappresentative in nuove sensazioni reali (il sapore dell'arancio, la visione di quel paesaggio alpino ecc.): benchè già si scorge che i termini «rappresentativo» e «reale» non riguardano ciò che una sensazione è per sè stessa, ma il valore che noi le diamo. Parimenti, se amo una persona, bramo vederla udirla toccarla, unirmi con essa, possedere qualche oggetto di lei: non conosco l'amore insensibile... Anche la stretta di mano fra conoscenti, l'abbraccio fra amici non sono una mera convenzione, ma un bisogno e, direi, un simbolo di sensibile unione. Anche qui il «materiale» e il «morale» riguardano il valore etico; ma la madre copre di baci il corpo della sua creaturina, e perfino il più profondo misticismo spasima d'unirsi sensibilmente col Valore assoluto. Onde gli equivoci del materialismo; ma qui si tratta del fatto che un valore, per esistere, bisogna ch'esista sensibilmente pur se vale in quanto nega e respinge i sensibili: la forza di certe virtù rigide e perfin selvagge sta nell'impeto della lor nascosta sensualità.

Appunto: i fini intellettuali e morali, le idee e gli ideali, han valore teoretico e pratico in quanto s'oppongono al mondo dei sensi e lo trascendono all'infinito, per attingere la conoscenza delle cause universali e necessarie e delle leggi assolute; e il pensiero umano è pensiero in quanto fòrza i sensi e sale a Dio: pur nondimeno tutto ciò, se esiste, esiste sensibilmente, come mio individuale essere empirico, e all'individuale sensibile, alla «cosa» e all'«atto», deve ritornare, se non vuol piombar nell'astratto. L'astratto, nella conoscenza e nella pratica, è dopo tutto esso medesimo null'altro che l'illusione d'un concreto, che l'insufficenza del nostro ingegno o la debolezza del nostro volere non ci han permesso di raggiungere: ipocrisia e viltà. Allora, «cogito ergo sum» significa: posso dubitare di tutto, ma non posso dubitare del mio pensiero perchè lo sento: lo sento sensibilmente, proprio, come dubbio; questo è il suo esistere, che non dipende dal mio volere – perchè il volere è sempre diretto a ciò che ancora non è – fare che non sia. Quanto alla realtà di ciò di cui dubito, per esempio del mondo o di Dio, e alle idee che me ne vado formando con l'atto di pensare in cui s'attua quel dubbio, anch'esse esistono come giudizi e parole: come realtà in sè, debbono esistere, ma la sola prova che ne posseggo è la certezza che accompagna l'idea chiara ed evidente. Certezza, come ognun vede, è di nuovo un sentire; di nuovo, nell'interno del pensiero pensante, il suo essere reale si sdoppia contrapponendo il valore di realtà – il suo dover essere universale e necessario (a priori) – all'esistenza di essa realtà come sensibile, anzi come mero sentire, dubbio e certezza (almeno di tal dubbio). L'antica saggezza indica col dito il cielo delle idee assolute; ma non appena ringiovanisce, «Dafür! esclama: Gefühl ist alles»...

3. – Assurdo è il sensismo, se ci fosse un sensismo del puro senso: una teoria che negasse l'idea, ossia se stessa: ma la sensazione esiste. Non è nulla ancora, non è nulla fuori del pensiero – intendo ormai dire che non è una realtà logica, poichè questa realtà di cosa o fatto determinato glie l'attribuisce il pensiero –, ma esiste. Anzi, a ben considerare, esistere significa proprio e soltanto esser o poter essere sensibile.

Difatti, se l'esistenza è quel valore che corrisponde al sentimento di certezza che ci dà un oggetto, la certezza riguarda prima di tutto il sensibile e tanto più quanto più è tale, come il tatto e il senso organico. Non si confonda la certezza con la fede. Fede e certezza son due forme di credenza: la prima può esser mille volte più energica della seconda, perchè può rispondere a un bisogno mille volte più urgente di quello di riconoscer come esistente ciò ch'esiste (chi per es. ha fede nell'anima immortale o in Dio, colorisce il suo oggetto d'una sicurezza intrepida, tutt'affatto volontaria); ma questa credenza apodittica riguarda il dover essere, non riguarda il semplice essere esistenziale delle cose. La certezza dipende da una necessità e in fondo da una passività: sono certo di questo foglio bianco perchè mi s'impone; son certo che se uscissi da questa stanza, questo foglio resterebbe ancora qui sol perchè son certo che ritornandovi ne avrei ancora la sensazione. La fede è una credenza attiva e quindi libera, laddove la certezza è un'obbligazione, un riconoscere che qualche cosa non dipende da noi. Tal'è appunto la sensazione. E se esistenza vuol dire l'esserci qualche cosa d'assoluto, d'in sè, che non dipenda da noi, il sentimento della realtà poggia tutto e soltanto sui sensibili.

Si può obbiettare che noi siamo ancor più certi della verità d'un ragionamento. Lo stesso Locke riteneva, con tutto il razionalismo, che il ragionamento «more geometrico» rappresentasse il modello della verità certa. Infatti siamo certi, per prendere il classico esempio, che la somma dei tre angoli d'un triangolo è uguale a due retti. Sì, la somma dei tre angoli è uguale a due retti se è vero il postulato d'Euclide sopra le parallele dal quale questa conclusione si deduce; ma se il postulato delle parallele va a gambe in aria, come nella geometria riehmanniana, anche la conclusione viene a mancare. In altri termini, le verità matematiche sono tali condizionatamente ai principii da cui si deducono. E i principii? Il razionalismo ne faceva delle verità categoriche sol perchè attribuiva un assoluto valore alla ragione: oggi le matematiche son da considerarsi come scienze costruttive e ipotetiche, per cui, ad esempio (come dice il Poincaré), «non ha più senso chiedersi se la geometria è vera o falsa».

Ancor più chiaramente: pur considerando, secondo la tradizione, le scienze matematiche come scienze astratte e deduttive, la loro verità e quindi la loro realtà è puramente logica, e noi vi crediamo in rapporto alla verità dei principii da cui deducono e alla realtà degli oggetti da cui astraggono: è vera la geometria in quanto è vero lo spazio geometrico; se questo è un astratto, essa è tutta quanta astratta e formale, vale a dire che le sue conclusioni, giuste in sè, saranno vere sol in quanto sono reali i punti le linee le superfici i volumi dello spazio euclideo; e se passiamo ad una geometria ad n dimensioni, avremo conseguenze diverse, la verità delle quali sarà sempre condizionata dalla convenzione iniziale e dalla realtà dei concetti assunti come principii. In ogni modo, la certezza di tali verità non è reale, ma formale: siamo certi del giusto ragionamento, non della vera ragione.

Del pari siamo certi che due più due fanno quattro ottenendo questo risultato coll'aggiungere (1 più 1) più (1 più 1). Ma che cos'è l'unità matematica? L'uno quantitativo è un'individualità reale o non piuttosto una misura di questa? Invero, le matematiche sono scienze astraenti piuttosto che astratte, e il loro valore è normativo, ossia utile alla misurazione, piuttosto che reale e obbiettivo. La matematica non scopre leggi di natura, ma inventa formule logiche, per cui la sua verità è ineccepibile sol nei limiti e nelle condizioni entro cui si elabora. Difatti oggi la matematica, o si chiude in sè stessa come ricerca puramente formale, e in questo senso non ci dà altra certezza che quella conveniente al rapporto stesso di non contraddizione che ne regge lo svolgimento analitico; oppure s'applica come scienza positiva alle ricerche fisiche, e in questo senso diventa un semplice strumento di misurazione che abbrevia l'esperienza e ci permette per via di riduzione di giungere a risultati che l'esperienza sensibile non ci darebbe.

4. – Ma a parte tutto ciò, il ragionamento in generale in che senso è certo? Vorrei rispondere con un giuoco di parole: è certo se ha un «senso». Il ragionamento non è la ragione. È strumento di conoscenza, non è la conoscenza; anche un idiota (anche una macchina) può ragionare benissimo e non capir niente: basta che ragioni a fil di logica, secondo i principii d'identità e contraddizione. È in questi che abbiam fede: deve esistere qualcosa d'identico perchè ci sia una realtà, sebbene non se n'abbia alcuna esperienza perchè tutto muta nel mondo sensibile. Dev'esserci un'unità a posteriori corrispondente all'unità a priori del nostro intelletto. Allora, la conoscenza consiste nel cercare, ossia nello scoprire l'identico a traverso le differenze: la sostanza d'una «cosa» è la presunta unità delle sue proprietà permanenti identiche a sè stesse, la causalità d'un «fatto» è la presunta identità del rapporto fra cose diverse o proprietà varianti delle cose, ecc.; ma che prova abbiamo noi che all'unificazione del pensiero corrisponda l'unità reale, se non quella della spontaneità dello spirito? che certezza, se non quella che s'appoggia sulla conferma dei sensibili? Perciò la scienza – che come teoria a ciò è destinata: adeguare il sensibile all'intelligibile nella cosiddetta legge di natura – da questo punto di vista apparisce il tentativo più serio di riprova empirica delle idee metafisiche, che ne rimangono, per dirla col Meyerson, il «postulato segreto».

Il contrasto fra scienza e filosofia è un trascurabile episodio de' nostri giorni, contrasto fra l'acriticismo d'alcuni scienziati tutti dediti alla tecnica e l'arazionalismo d'alcuni filosofi innamorati del soggetto puro; ma del resto venne già risolto col prammatismo e poi a sua volta superato. L'eccezione dimostra l'esattezza del criterio, che la scienza segue fedelmente le sorti della filosofia (e cioè del pensiero umano) a cui deve servire di raccordo empirico, collocandosi fra la metafisica, che riguarda l'universale (assoluto come dover essere), e la storia, che riguarda il particolare (assoluto come essere), per dare alla lor sintesi filosofica la certezza teoretica su l'analisi dei reali sensibili. Infatti nei secoli del razionalismo la scienza seguì prevalentemente l'indirizzo cartesiano e ci aprì il velario sopra un mondo assoluto, in cui forze in sè movevano le masse, intese come sostanze materiali in balìa di forze assolute, l'inerzia e la gravità, misteriosamente agenti a distanza, in uno spazio e in un tempo assoluti: è lo spettacolo della natura newtoniana, chiamata divina perchè vera razionalmente (matematicamente), in realtà certa materialisticamente come sistema di sostanze (corpi) e cause (forze) in sè. Quando il criticismo filosofico dimostrò che il pensiero non può trascender se stesso (teoreticamente); che la «materia» non è che l'ipostasi d'elementi sensibili più costanti presi astrattamente, come il movimento e il peso, a far da sostrato agli altri e a spiegarli (Berkeley); che la realtà delle sostanze e la necessità delle cause sono valori di natura sensibile, credenze ottenute per analogia con la certezza delle impressioni abituali (Hume); o meglio, che le categorie della conoscenza teoretica – a priori, sì, perchè la loro necessità e universalità è indeducibile dall'esperienza, ma di valore oggettivo – sono relative ai contenuti sensibili, e non valgono se applicate al di là di questi in un mondo che trascenda l'esperienza (Kant): allora anche la scienza entrò a vele spiegate nel fiume del relativismo immanentista. Comte prosegue Kant e non contraddice Hegel: il suo fenomenismo non è che il riconoscimento dell'impossibilità teoretica di raggiunger la realtà in sè: ci dobbiamo contentare di fermare i rapporti costanti fra i fenomeni in leggi che valgono solo per essi.

Che cos'è dunque il reale oggi per la scienza? Quello che è per la filosofia! La filosofia, a riguardarla tutta quanta nel suo corso storico, è un immane sforzo mille volte iterato per trasferire il valore d'esistenza, e quindi la certezza reale, dal mondo sensibile a quello intelligibile: cento volte l'onda dell'uman pensiero ascende fino all'assoluto, fin a Dio, per elevare un sistema metafisico che non sia soltanto sentimentale ed etico, ma anche razionale e teoretico; altrettante volte deve, criticamente, ridiscendere nei confini dell'esperienza soggettiva e convenire che, se l'essere totale e perfetto implica perchè tale l'esistenza, nulla ci assicura ancora che un essere perfetto esista, fuor che il suo attuarsi in noi e nella nostra esperienza: la prova logica, reale e causale, di Dio val più della prova ontologica.

Pertanto la scienza, senza cessar di postulare l'unità e identità in sè dei reali (per obbedire al principio e alla legge dell'intelletto), trasforma l'unità della materia nell'equivalenza delle energie; considera queste come una pluralità di aspetti dell'esperienza irriducibili ad altro (energetismo), oppure, poichè le energie si trasformano una in altra, modifica il vecchio atomismo in una concezione dinamica del mondo fisico chimico, in cui gli atomi diventan masse apparenti prodotte da centri d'energia elettro magnetica che si materializzano e dematerializzano condensandosi o radiando nell'etere. Però, se chiedete a un fisico d'oggi che cos'è un campo elettro magnetico, risponderà ch'è un rapporto algebrico; e se gli chiedete che cos'è l'etere, vi dirà ch'è una convenzione formale. Il vero scientifico è l'idea del reale (un reale più vero); ma il reale è l'esperienza e niente più: il più positivo degli scienziati oggi la pensa come il più idealista dei filosofi: la conoscenza teoretica è idea che si obiettiva nell'atto sensibile, e cioè si realizza realmente e non metaforicamente.

La scienza, resa esperta dal contingentismo e dall'attualismo contemporaneo a non annettere alcun valore reale alle «etichette sulle bottiglie vuote», si dà per còmpito di costruire un sistema di leggi, non solo relative ma anche relativizzate all'esperienza, misuratrici dei fenomeni e non realtà oltre i fenomeni. L'ultima espressione della fisica odierna, lo Einstein, rappresenta il punto di vista più aderente al criticismo contemporaneo, che, pur opponendosi allo scetticismo dei prammatisti, secondo i quali è vera quell'ipotesi che ottiene maggior successo nelle applicazioni ai sensibili, fùga le ultime vestigia del razionalismo newtoniano. La realtà scientifica non è un trascendente: l'assoluto è il rapporto unitario fra i relativi, il «continuum» fisico definito pensando tutte le possibilità dei rapporti fra la misura e gli oggetti misurati. La scienza è semplicemente misurazione, quantitatizzazione di relazioni; giacchè spazio tempo movimenti non sono enti assoluti ma relazioni logiche fra elementi analiticamente astratti che si definiscono l'uno con gli altri. La scienza è obbligata ad astrarre per ridurre il molteplice all'uno (per es. tutto il mondo fisico a energia elettro magnetica e questa a movimenti, ossia a rapporti spazio temporali misurabili quantitativamente); onde possiamo obbiettivamente concepire il cosmo come un campo di forze, non più esistenti in sè come l'inerzia e la gravità, ma definibili sol geometricamente nel rapporto delle quattro coordinate spazio temporali a cui ogni movimento si può ricondurre tuttavia questo schema astratto di configurazione geometrica in cui sono possibili tutti i rapporti di movimento senz'altra ipotesi che la riducibilità delle qualità sensibili a rapporti geometrici, è vero sol in quanto giova a stabilire il corrispondente sistema delle dieci equazioni che definiscono l'invariante misura valida per qualunque osservatore in qualsiasi sistema di riferimento. È Cartesio, ma divenuto relativista.

5. – D'altra parte, il relativismo – quello filosofico, da Protagora in poi – sembra non ci voglia lasciar posto ad alcuna certezza reale, fuor che del soggetto stesso conoscente: allora scoppia, tragica («questione di vita o di morte», diceva il Feuerbach), l'opposizione fra il senso comune, realista, il quale crede assoluti e fuori di noi, anzi indipendenti dal nostro pensiero gli oggetti della sua certezza, e il pensiero riflesso, idealista, che ci avverte che gli oggetti, tutti gli oggetti, sono oggetti perchè conosciuti, e cioè nostre idee. Sono sicuro che sul mio capo esiste il cielo stellato, che esiste in sè, che esistette prima di me, che esisterà dopo di me: nel contempo io son anche convinto che il cielo stellato è una mia esperienza; che comunque io lo conosca si tratta sempre d'un atto del mio pensiero; che cielo stelle ecc. son miei concetti, e anche le qualità su cui me li sono formati, come luci colori distanze ecc., sono sempre idee o almeno rappresentazioni, per cui non posso parlare d'un cielo indipendentemente da me o, per analogia, da uomini che lo veggano o che lo possano aver visto in un tempo passato o futuro, che anch'esso è una mia rappresentazione analogica. Insomma, ritorna l'antinomia del certo come essere reale in noi e come dover essere fuori di noi affinchè sia reale in sè: c'è un'esigenza logica che m'obbliga a credere che ci sia qualcosa d'assoluto fuori di me, e c'è un'esigenza critica che in pari tempo mi astringe a riconoscere che tutto ciò che dico esistente, esiste in una mia attuale o possibile esperienza e perciò in relazione con me. Quel cielo stellato, che dovrebb'essere anche s'io non fossi mai nato, anche se nessun uomo avesse mai aperto gli occhi a contemplarlo, che cosa mai potrebb'essere in sè, dal momento che tutto quello che è, è il nostro modo di vederlo e di pensarlo?

La soluzione non ce la può fornire la scienza che, come abbiam visto, partecipò per la tesi quando la filosofia fu in prevalenza dogmatica, e partecipa per l'antitesi ora che la filosofia è critica. Una volta stabilita l'impossibilità d'estendere di là dall'esperienza, in un mondo assoluto, le categorie che ci servono a organizzare l'esperienza nei concetti di realtà oggettiva – se preferite, la chiameremo «natura» o realtà empirica degli oggetti conoscibili, dei quali fa parte anche il soggetto empirico –, e una volta convenuti su l'incoerenza di voler conoscere teoreticamente la sostanza in sè (materia o spirito) e la cosa in sè – sol riuscendo a reduplicare in astratto elementi tolti all'esperienza –, la realtà scientifica non è, per così dire, più reale della realtà data sensibilmente: la seconda legge della termodinamica è più reale della prima! La scienza è una precisazione dei reali, un approfondimento del conoscere obbiettivo, spesso (come appunto la prima legge della termodinamica) una traduzione in termini e in formule semplificate in modo da essere utili alla previsione dei fatti e alle applicazioni pratiche: il vero del reale, appunto. Del resto, il vero, anche in generale, non è altro che il progresso, il divenire della conoscenza: definisce l'essere reale degli oggetti che già le appariscono esistenti, ma su questa esistenza (sensibile) fonda la certezza del loro (più) vero essere. Che quella nube sia rossa e che il sole laggiù scenda nel mare, mi risulterà erroneo quando esaminerò meglio questi fatti, ma l'illusione è esistente e in tal senso reale al pari delle nuove osservazioni sperimentali, in confronto con le quali determinerò (in generale) la verità del rapporto più costante.

Riuscirà la filosofia a strappare il valore di certezza reale alle esistenze sensibili per trasferirlo in qualcosa d'assoluto corrispondente alle forme pure della ragione?L'idealismo trascendente alla Parmenide e quello gnoseologico platonizzante sono stati mille volte convinti di evidente paralogismo; ma l'idealismo soggettivista, e cioè relativista, in che crede, se non crede nel soggetto sensibile? Infatti, non appena abbiamo dichiarato con l'antico Protagora che l'uomo, solamente l'uomo è misura «delle cose che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono», l'acutissimo Socrate ci porta a concludere, essere inoppugnabile allora la sentenza sfuggita dalla bocca di Teeteto: «La conoscenza è sensazione!»

Dopo quel memorabile dialogo molt'acqua è corsa sotto i ponti, e la sensazione oggi si chiama idea per indicare, nonchè la sua natura soggettiva, il suo valore intellettivo, e la si pone qual primo momento del processo del divenire delle idee, ossia dei reali: ma perchè primo? che ragione ci forza a incominciare la conoscenza dai sensibili, anzi a «porre» il sensibile, detto poi il più soggettivo degli oggetti, come il modo più oggettivo del soggetto? Tanto oggettiva, questa soggettivissima realtà, che ci obbliga a uscir di noi stessi e a pensarla, incoerentemente, come fenomeno d'una cosa in sè; e sia pure questa inconoscibile!... «Le cose direttamente percepite sono idee o sensazioni, chiamatele come volete...» diceva lo stesso Filonous, da cui parte l'idealismo contemporaneo, nel dialogo di Berkeley: «Ma poichè io so che non son io il loro autore, non essendo in mio potere determinare a piacere quali particolari idee dovrebbero impressionarmi aprendo i miei occhi od orecchi, esse devono esistere in qualche altra mente che vuole che m'appariscano».

So bene che c'è un modo semplicissimo di risolvere le antinomie del pensiero: accettarle come constatazione di fatto – constatare che il pensiero procede sempre per opposizione di soggetto a oggetto, ponendosi come oggetto (non io) e opponendosi come soggetto (io) –, e promuovere il fatto a legge e principio, riconoscendo in un terzo momento, quel della riflessione, che dunque il pensiero è la sintesi dell'antitesi, nella quale ciascun degli opposti si realizza come oggetto e soggetto per l'altro. Però, questa è una legge psicologica, che spiega, direi, la «natura» del pensiero, ma non giustifica il valore reale del conoscere; esprime in modo unitario la dialettica delle forme, non ci dice perchè l'idea si specifica, esiste in una particolar sensazione, e come dalla sintesi (che significa realmente questo termine?) dell'intelligibile, definito come soggetto puro, col sensibile, definito soggetto empirico, salti fuori l'oggetto reale.

D'altra parte, allorchè la filosofia (e si dica pure l'idealismo filosofico, ch'è tutt'uno), decisa ormai a non evadere l'esperienza, è forzata a concludere che l'universale sempre si attua in concreto nell'individuale (e la filosofia stessa nella storia), è difficile evitare la conversione del sistema in un radicale empirismo, come già avvenne dopo Hegel, dove tutto dev'essere com'è, salvo a chiamare idea l'essere attuale sensibile; e tanto varrebbe accogliere le conseguenze estreme coraggiosamente e brillantemente tratte dall'intuizionismo francese: l'essere è l'esistere immediato, intuitivo, e il conoscerlo è il... sentirsi vivere. Sennonchè, una ragione che afferma l'irrazionale, la contingenza, che ragione è?

6. – Il problema della intelligibilità dei reali è ancor aperto perchè appunto il mondo sensibile contiene un elemento in sè, il suo esistere, irriducibile, e cioè indeducibile dal pensiero puro, e al quale anzi apparisce condizionata la realtà della ragione medesima. Ora, perchè siamo certi della realtà sensibile (anche se la sistemiamo in un vero e in un bene ideale)? Se il sensibile ha un valore teoretico e pratico e diviene una cosa e un fine soltanto nella sintesi conoscitiva del nostro pensarlo, come può esister in sè? Come la più soggettiva e la più empirica delle nostre conoscenze può essere condizione d'ogni realtà conosciuta obbiettivamente? E come evitar di precipitare o nel nominalismo scettico o nel realismo trascendente il soggetto nella «cosa in sè»?

Una soluzione di ripiego fu quella dell'empirio criticismo tedesco: la sensazione è un dato, un contenuto per sè arazionale e senz'alcun valore nè logico nè pratico, nè oggettivo nè soggettivo. Il valore glie lo darebbero dunque le «forme» del pensiero, l'attività teoretica e pratica. Anch'io credo che i contenuti sensibili non si debbano, in quanto tali, intendere come soggetti o come oggetti, perchè oggetti e soggetti lo divengono proprio per opera dell'attività conoscitiva: infatti li pensiamo come oggetti e come soggetti mettendoli in rapporti logici d'identità o contraddizione con sè stessi o con altri contenuti ugualmente ideativi, nonchè mediando (relativizzando) l'idea di oggetto con quella di soggetto e viceversa. In altre parole, quando conosciamo il sensibile, l'abbiamo già trasceso in quell'oggetto, ossia in quell'idea, di cui esso non è più che la «rappresentazione»: questo rettangolo bianco è un oggetto perchè mi rappresenta una cosa, per es. un foglio di carta, o me stesso, la mia sensazione, appunto, di bianco. Il conoscere va sempre, l'abbiam detto, oltre i sensibili; mentre che ora in essi dobbiam noi rimanere evitando di trascenderli.

Ma anche il dire che il sensibile è un dato neutro e senz'alcun valore, è una contraddizione in termini, perchè in tal caso non sarebbe nulla, non se ne potrebbe parlare affatto. Il Kant pose i sensibili come contenuti, per sè (o meglio, per noi) ciechi, delle forme, per sè vuote, dell'intelletto; ma ciò in astratto, allo scopo di definire i limiti e le condizioni della conoscenza teoretica: quei contenuti, a lor volta considerati, cioè conosciuti, sono per il Kant fenomeni, sono cioè l'apparire a posteriori (indipendente da noi) del mondo in sè, del mondo che dobbiam pensare debba esistere assolutamente quantunque non si possa conoscere teoreticamente. Insomma, il fenomeno kantiano è nientemeno che il conoscibile del noumeno, verso cui risaliamo organizzando quei contenuti nelle forme conoscitive, che pur esse valgono in quanto rinviano ad un assoluto affermato almeno praticamente come un dover essere. Se invece, con l'immanentismo empirio criticista, togliamo al sensibile non soltanto ogni valore teoretico, ma anche il valore assoluto che lo condizionava presso Kant, che «dato» è più esso? dato da chi? O non c'è più niente, e la conoscenza è forma vuota; o c'è soltanto il contenuto arazionale, che non cerca alcuna forma, non avendo alcun valore.

Per me, il problema dei sensibili in quanto tali è metafisico, non è gnoseologico: di essi non abbiamo una conoscenza mediata, ma un'intuizione immediata e diretta; meglio ancora, essi sono il nostro esistere, il nostro partecipare dell'essere. Anche la coscienza di questo «nostro» che ora dico, vien dopo, si fa conoscitivamente, parlandone appunto; e del pari la coscienza di essere, contrapposto a noi; ché sopra il sensibile si formano indifferentemente così le idee d'oggetto come quelle soggettive, la natura e lo spirito. La conoscenza è sempre attività oggettivante e perciò dualizzante: la conoscenza teoretica oggettiva i contenuti prescindendo da se stessa, dal soggetto attivo, dal pensiero pensante, e organizza l'esperienza in un sistema di concetti e di leggi che chiama natura; la conoscenza pratica organizza il pensiero stesso, le forme o i fini che dir si voglia, prescindendo dai contenuti, in un sistema d'idee deontologiche e norme che chiama spirito; e questi due mondi a lor volta s'oppongono assolutamente (eticamente) oppure cercano accordi condizionandosi a vicenda (utilitaristicamente). Ma un contenuto, un sensibile, per la conoscenza è già un'idea: conosco questo bianco (ripeto) almeno come idea astratta di bianco (le «idee semplici» del Locke) e me ne servo per definire l'oggetto bianco o me stesso come senziente questo bianco. Sono già dentro l'oggetto, e lo stesso contenuto apparisce secondo i casi come un oggetto, dirò così, oggettivato o come un soggetto oggettivato, la natura in sè o la natura mia, la fisica o la psicologia.

Dico che l'attività conoscitiva adopera il sensibile come segno (questo bianco, la parola «bianco»), vale a dire come rappresentazione di qualcos'altro intelligibile (una «cosa» o me stesso) che vuol definire teoreticamente o di cui si vuol servire praticamente; ma non vàluta affatto il sensibile in sè medesimo, o lo vàluta come un dato, un limite a posteriori privo di valor positivo: l'empirico, il molteplice, il nulla logico ed etico; anche la gnoseologia pertanto ci può sputar sopra. Tuttavia noi viviamo di sensazioni: esse sono ciò che noi sentiamo, anzi, evidentemente, non sentiamo che il sensibile; questo solo appare come evidente e certo, certo d'una necessità immediata, metafisica, come quella di Dio. Ora, come provare, come giustificare razionalmente (filosoficamente) tal valore positivo del mondo sensibile, che tutti sentono come necessitato in sè, ma che per la detta ragione sfugge a ogni prova conoscitiva e mediata?

7. – È questo problema ch'io m'accingo a risolvere nelle pagine seguenti. Per me, la sensazione è il solo ponte che ci riunisca al cosmo; il solo che congiunga le opposte rive di quegli abissi scavati dalla conoscenza umana, che si chiamano dualismi. Tagliar questo ponte per meglio avanzare nel mondo delle idee, negare il sensibile per affermare assoluto il sovrasensibile, rifiutare la realtà dell'essere come contingente esistenza per attinger quella dell'essere come dover essere in se, è nobile atteggiamento del pensiero puro pratico, dominante in fondo anche tutta la filosofia: ma ciò costituisce l'«illusione metafisica», l'illusione del volo al di sopra dell'aria che lo condiziona.

Senza dubbio, se il nostro pensiero potesse creare liberamente i suoi oggetti, formarli cioè indipendentemente dai sensibili in giudizi e in atti puri, noi costruiremmo il mondo assoluto e necessario, il mondo metafisico, l'intelligibile della ragion pura, l'incondizionato. Ciò in effetto avviene in quanto il pensiero è libero, ed è libero in quanto è volontà, chè volontà e libertà sono sinonimi, l'una e l'altra indicando non una «cosa» (reale) e un «fatto» (causale) – contenuti, questi, della conoscenza o volontà teoretica –, ma un rapporto di valore, una finalità. In altre parole, il pensiero è libero in quanto vuol esserlo: il che costituisce l'atteggiamento pratico del pensiero puro, il pensiero come volere, la «ragion puro-pratica» kantiana.

Ora, in quanto il pensiero è libero, e cioè si vuol liberare da tutte le condizioni empiriche – tanto più se le riconosce come suoi contenuti conoscitivi empirici –, esso corre a formarsi le idee assolute e universali in opposizione ai sensibili, e conformi alla trascendentalità del pensiero stesso. In tal caso però, i contenuti del pensiero, le idee assolute, sono formali; coincidono cioè con le stesse forme del volere e si riducono a un'obbiettivazione dei fini, che così divengono i valori prodotti dall'attività pura. Sono idee trascendentali esprimenti il dover essere, la categoria; meglio, sono norme categoriche, imperativi morali (anche se a fine teoretico), postulati della ragione; e metton capo al principio stesso dell'incondizionato e dell'assoluto, al postulato della libertà, che non è altro se non l'autonomia del volere il quale si dètta la propria legge formale in opposizione a tutti i contenuti esistenziali.

Il mondo intelligibile è dunque un mondo deontologico, un mondo di pure forme trascendentali: di forme che debbono trascendere all'infinito l'esperienza per valere come fini ultimi, puro-pratici, del volere: è il mondo dello spirito. Or come le forme a priori, i valori spirituali (il dover essere pratico) divengono conoscenza e oggettività anche teoretica, valori reali, la «natura» e la «storia»? Come il trascendentale, il dover essere (per noi), diviene trascendente (essere in sè), e il valore si realizza? Come la finalità o libertà diventa causalità, e l'universale si particolarizza, il dovere si attua in potere, il diritto in fatto; come la categoria formale acquista i contenuti reali e l'idea si fa concetto?

Realtà implica esistenza, per quanto arricchita di tutti i valori ideali che in questa si realizzano convertendo l'esistere in essere. E l'esistenza? Se qualcosa può e deve esistere per ipotesi o per certezza teoretica, se qualcosa esistette o esisterà per conoscenza storica o scientifica, si tratta sempre d'illazioni mediate e d'analogie unicamente fondate sulla prova di qualcosa che esiste, che è presente, immediatamente; e questo qualcosa diciamo sensazione. Essa soltanto, la sensazione immediata (si può anche dire «intuitiva», metafisica), ci può rappresentare conoscitivamente il soggetto e l'oggetto.

Conoscere significa rappresentarsi, per mezzo di un sensibile – e sia pure l'immagine o la parola, che sono sempre sensibili – una cosa o un fatto (percezione) e i loro valori concettuali e ideali (appercezione). Ora, queste conoscenze sono teoretiche (e non soltanto pratiche), queste rappresentazioni sono reali (e non fantastiche), questi valori sono veri valori (e non soltanto fini soggettivi), universali e necessari, se l'attività conoscitiva, il pensiero, per quanto diretta oltre l'esperienza sensibile, si relativizza ad essa, relativizza i fini ideali ai mezzi esistenziali, si concettualizza.

Con ciò non diciamo, col sensismo, che la conoscenza reale consiste nella sensazione: al contrario! la sensazione non è conoscenza. Il sensibile diviene intelligibile nelle unificazioni che lo trascendono nei concetti di natura e di storia; ma queste sintesi sono teoretiche, questi concetti sono reali, se la percezione e l'appercezione in cui si attuano o i giudizi esistenziali in cui si esprimono sono il risultato dell'analisi sulle esistenze sensibili. Mentre che il pensiero pratico, la volontà cosciente di sè, corre a' suoi sbocchi determinando i propri fini ideali nell'opposizione pratica (antinomismo etico) coi sensibili, trascendendo assolutamente il soggetto e l'oggetto empirici; esso si fa pensiero teoretico, ossia volontà cosciente dell'oggetto (e di sè come oggetto), sol in quanto si ripiega sui sensibili e sui propri sentimenti per adeguarvi i fini, per riunificare il soggetto e l'oggetto, il volere e l'essere. Tali unificazioni reali, dal più empirico dei percetti al più razionale dei concetti, non cessano dunque di essere sintesi a priori, razionali appunto perchè trascendentali (e, in fondo, pratico teoretiche); ma non sono, non debbono esser più trascendenti l'esperienza e quindi la sensazione.

La critica della conoscenza non può far a meno di considerare le forme conoscitive in un necessario rapporto con i contenuti sensibili e di ancorare i valori reali alla presenza di qualcosa che esiste per sè stessa: diciamo che la sensazione «esiste» appunto perchè apparisce «in sè», necessariamente. Inseità è il termine filosofico dell'esistenza reale. Definendo la sensazione come l'immediato esistere in sè, non voglio affatto includervi il carattere dell'alterità (del «fuori di noi»), che la filosofia attribuisce all'in sè, perchè «io» e «non io» sono concetti che si costruiscono parimenti su l'analisi della sensazione, la quale è un sensibile com'è un sentito. Il suo valore teoretico (quello che diviene il contenuto dell'idea di sensazione) è unicamente la necessità della sua presenza, il non dipender questa dall'atto del pensiero che la pensa, e quindi che la deve pensare come in sè, relativizzandosi ad essa se ed in quanto la vuol conoscere. Con ciò non indichiamo un dualismo di sensazione e pensiero, di esistere ed essere: lo stesso pensiero esiste sensibilmente, e perciò deve incominciare con l'affermare la propria esistenza di fatto, indipendentemente da tutti gli altri valori che riconoscerà come suoi prodotti – «Cogito, ergo sum... sensibiliter», bisognerebbe incominciare a dire! –; e la volontà tutto può volere fuor che sè stessa in quanto spontaneamente vuole.

8. – Ora, mentre tutti c'intendiamo quando parliamo della necessità o realtà della natura, perchè, comunque la si spieghi, essa è il mondo dell'esperienza sensibile; quando invece parliamo della realtà dello spirito, della sua necessità e universalità, ci confondiamo e ci azzuffiamo. Gli è che può avvenire un colossale equivoco. Spirito ha due significati ben distinti, uno naturalistico e l'altro filosofico in senso stretto. Quando facciamo della filosofia, ossia della critica (anzichè dell'indagine teoretica diretta), spirito significa valore, pratico teoretico religioso o qualunque altro esso sia, che gli oggetti dell'esperienza (e noi stessi fra gli oggetti) prendono in rapporto coi fini del nostro volere il che si chiama anche pensiero. Un oggetto è utile buono giusto santo vero, in quanto lo giudichiamo; e lo giudichiamo in quanto vogliamo goderlo e usarlo, modificarlo, adorarlo, conoscerlo: e difatti lo godiamo, miglioriamo, onoriamo, studiamo, realizzandovi i nostri fini. Allora, questi valori (utile, bene, verità, giustizia, santità...) si dicono spirito, ma sono inconfondibili con l'oggetto e il soggetto empirico, ossia col sensibile, presi separatamente, fuori del loro rapporto pensato. Nè una sensazione varrebbe se non vi s'attuasse il fine pratico o teoretico del pensiero, nè il fine stesso, come desiderio o volontà, varrebbe praticamente o conoscitivamente, se non s'attuasse in una realtà in qualche modo esistente, ossia sensibile. Ma lo spirito, come valore, non è la vita, è il pensiero. Perciò credo che gli animali, pur avendo vita psichica, non abbiano spirito, non creino valori.

All'inverso, quando indaghiamo l'esperienza direttamente, ossia formandocene i concetti reali e obbiettivi, lo spirito è quella parte dell'esperienza, che sentiamo come soggetto, ma del pari obbiettiviamo nei concetti di psiche, anima e simili. Vedremo che qui è aperta una grossa questione, che cercherò di risolvere a suo tempo; ma resta sempre la necessità di distinguere lo spiritualismo naturalistico e teoretico, che ricerca un essere spirituale concreto, l'io empirico, come sostanza (per es. «anima») e causa (per. es. «attività volente e conoscente»), in relazione con le altre (sia pure di contrasto fra l'«in me» e il «fuori di me»), dalla filosofia, intesa come critica dei valori, fra i quali è il valore di verità. Insomma, riappare il duplice punto di vista: altro è chiedersi di che natura sia una cosa – ch'è volerla spiegare teoreticamente –, altro è giudicare del suovalore rispetto a noi (e agli stessi fini teoretici del sapere), ch'è un volerla criticare filosoficamente. L'indagine diretta, il senso comune e la scienza ch'è il lor prolungamento, sono naturalistici; la conoscenza riflessa e la filosofia (in senso stretto) sono idealistiche. Però, quando l'idealismo dice che lo spirito è reale, il solo reale, si confonde col naturalismo spiritualista, dimenticando spesso di giustificarsi del passaggio. I due atteggiamenti del conoscere non s'oppongono fra loro che in questo punto, nel punto in cui si incontrano: laddove il cerchio delle conoscenze naturali s'interseca con quello dei giudizi di valore, l'uno cercando di abbracciare la natura dei giudizi stessi di valore, l'altro il valore del concetto di natura; ed è chiaro che il punto più delicato del problema sta proprio in questo territorio prodotto dall'intersecarsi delle due inchieste. Rispondere negando il valore della natura, col pretesto che noi stiamo ora pensandola come valore (reale), e che quindi siamo noi la natura di tal valore, inverte il problema, ma non l'evita: che cosa siamo, «noi»?

Siccome prima di tutto e necessariamente noi sentiamo, preferisco ricondurre la critica su la idea medesima di sensazione, in accordo con la quale ci dobbiamo costruire i concetti di natura, e in opposizione alla quale sogliamo pensare noi stessi come spirito. Allora vedremo che qui non v'ha una distinzione reale – nè pertanto è possibile una contraddizione teoretica fra l'essere sensibile (esistenza) e il fine o dover essere del pensiero –, ma un antinomismo pratico, rappresentato (o meglio, simboleggiato) dal sentimento, il quale diviene in tal modo il valore pratico o soggettività del sensibile allorchè lo pensiamo in sè stesso, la sua natura trascendentale, il volere. E vedremo che nei concetti reali – ne' quali il volere, come attività teoretica, tende a unificare l'esperienza e a universalizzarsi – il sensibile è del pari la rappresentazione dell'intelligibile, che l'ha trasceso nelle forme logiche, e tuttavia lo deve mantenere come contenuto esistenziale, prova oggettiva e perciò appunto rappresentativa del reale come natura.

A questo punto il mondo sensibile, spogliato dei valori che, pur da esso condizionati, lo trascendono nelle idee pratiche e nei concetti teoretici, dovrebbe apparirci un mondo spento, il non essere: praticamente ridotto a un sentire senza eticità e quindi senza vera praticità; teoreticamente, a un semplice dato esistente, a una mera «sintesi a posteriori» per sè alogica ed extraessenziale... Ma no! Se riusciremo a metterci da un punto di vista strettamente riflettente , se cioè riusciremo a guardare esteticamente (sensitivamente) il sensibile – idest, a considerare il sensibile secondo il sensibile, per sè medesimo, senza trascenderlo –, ebbene, allora comprenderemo che l'unità sensibile, la sintesi a posteriori, la forma o «figura» sensibile (e poi lo «stile» dell'arte), che divien contenuto rappresentativo dei valori logici ed etici, possiede un proprio valore immanente, che chiamiamo bellezza: bellezza «di natura» (ma non natura, concetto!), se data nella unità della sensazione, vale a dire nel sentimento della forma sensibile in quanto tale «materia», invece, delle forme logiche e «stimolo» dei sentimenti pratici); «arte», se volutamente cercata e prodotta, quando il bello divenga a sua volta un fine del pensiero, che gli presterà i propri valori (formali), i quali a lor volta vi divengono dei semplici contenuti da tradurre in forme sensibili.

Ma, avanti che il bello esprima in forma artistica i valori trascendenti il sensibile, in un idealismo o in un realismo estetico, di forma classica o romantica, e intèrpreti sensibilmente il vero e il bene, il mondo e Dio in opere sensibili, che divengon così le esistenze reali in cui si traduce lo spirito dei tempi con suoni colori marmi parole; prima dell'arte, dico, la folata sensibile così com'è in ciascuna esperienza implica già nella sua unità di oggetto e soggetto, cioè di sensazione sentita, tutti quei valori che il pensiero esplica nelle proprie forme trascendenti: la sensazione – preso questo termine in concreto e non analiticamente (p, es. «bianco» o «suono do») rispetto alla conoscenza –, l'esperienza pura insomma, riflette nella sua bellezza individuale i valori universali, nella sua unità concreta l'unità razionale e n'è la sola prova reale, e perciò il senso, come «gusto» estetico, introduce il pensiero logico ed è educativo dell'etico...

Tuttavia, essendo, per me, l'estetico il valore dei sensibili in quanto tali – in quanto, proprio, sensibili –, il problema estetico non è nè logico nè pratico: è metafisico, riguardando un essere in sè, sia pure in quanto individuale esistere sensibile, come il problema religioso riguarda in sè il dover essere universale sovrasensibile. Ora, per raggiungere un tal punto di vista, bisogna dimostrare che sia possibile pensare i sensibili senza trascenderli; che cioè sia possibile l'immanenza del pensiero al mondo sensibile; e risolvere l'antinomia sui sensibili.

9. – Ebbene: oso dire che tutto il pensiero filosofico dopo Hegel è prevalentemente diretto a questo fine. Se non ci soffermiamo a divergenze che solo la vicinanza ci fa sembrar grandi, e se non c'impuntiamo su secondarie soluzioni di problemi e non ci perdiamo a seguire le sopravvivenze della filosofia prekantiana, questi cento anni che corrono dalla morte di Hegel ci appariranno quasi unicamente dedicati a restituire al fenomeno, al «divenire», ai fatti o accadimenti, al contingente e attuale, all'immediato e irrazionale, al soggettivo ed empirico – vale a dire, infine, alle esistenze sensibili – quei valori, che il razionalismo aveva relegato in un mondo oggettivo e assoluto, necessario e reale in sè. Il programma della filosofia contemporanea c'è già nello Schelling, come uno de' suoi lampi fra nubi: lo spirito filosofico non deve arrossire di alcuno dei gradi per i quali è passato, ma i vari sistemi non ebber mai altro scopo che di spiegare il puro e semplice «fatto», dal quale incomincia e al quale deve alla fine metter capo ogni ricerca, che in fondo è un «empirismo filosofico», avente per suo vero obbietto quel dato di fatto immediato, non ancora nè soggetto nè oggetto, che si tratta di giustificare.

Del resto, in che consiste la scoperta di Giorgio Federico Hegel? Il mondo non ha più potuto ignorare o dimenticare il filosofo di Stoccarda; in questi ultimi cento anni niuno ha più potuto formulare un'idea senza fare i conti con lui. Perchè? per il suo spiritualismo metafisico? per il suo conservatorismo politico? per il suo tradizionalismo etico? Al contrario: perchè l'idealismo hegeliano è un essenziale realismo; è un idealismo realistico e perciò assoluto, contrapposto al realismo idealistico del precedente illuminismo.

In fondo (per dirla alla buona) Hegel viene incontro all'uomo comune e gli raddrizza gli occhiali. L'uomo comune deride l'idealismo perchè crede d'esser lui il «realista». Per realtà egli intende ciò che si può vedere toccare provare: l'esperienza, insomma; e da questa divide le idee e glie le contrappone. Per es. dirà che reale è la scatola di fiammiferi che sa d'aver in tasca, perchè la può prendere e adoperare; irreale (ideale) chiamerà un cerchio perfetto o il paradiso, che non ha mai incontrato in terra e solamente spera di trovare in cielo. Ebbene, Hegel non solo gli dà ragione, ma rincara la dose: le idee pure platoniche, le idee assolute – che son poi le idee dei valori presi in sè, verità e bellezza, bene e giustizia, riassumibili nell'idea di Dio – non hanno altra esistenza che d'esser nostre idee attuali, puramente soggettive. Sono forme, modelli di ciò che lo spirito aspira a raggiungere, ma non li possiamo prendere come realtà esistenti fuori di noi, in un mondo trascendente e divino. L'idea si realizza nell'esperienza, Dio si attua nel mondo, i valori spirituali son immanenti nei lor contenuti reali.

In altre parole, la realtà per lo Hegel non è qualcosa di già dato come perfetto immobile e identico a sè stesso: è il «divenire», il farsi delle conoscenze stesse, tutte relative l'una all'altra, non essendovi di assoluto che il processo medesimo in cui quei valori si attuano. Perciò ha torto, non soltanto Platone, che pensa esistenti in sè i modelli ideali, l'Essere delle cose (che invece «divengono»); ma ha torto anche il nostro brav'uomo, quando crede che la sua scatola di fiammiferi esista «fuori di lui», esista e permanga come una cosa in sè, indipendente dal suo divenir quella cosa nel pensiero attuale che la costruisce, la conosce come un oggetto...

Ma come! esclamerà il nostro sedicente realista: questa scatola, il mondo, la stessa natura, non esistono fuori di me? non son dunque reali?... Buon uomo! risponderebbe Hegel: prima di tutto sei stato tu ad ammettere che reale è la sola esperienza. Di che esperienza parlavi se non di quella che conosci, ch'è idea della tua coscienza? Le realtà di cui tu parli sono le verità che tu formi nel pensiero, unificando prima le sensazioni soggettive nella rappresentazione, per es., di una «cosa»; e poi unificando ancora queste esperienze nell'idea di corpo, di mondo, di natura in concetti sempre più vasti. Reale però è sempre e soltanto questo atto del pensiero, questa sintesi oggettiva, questa esperienza, e non l'oggetto preso in sè, come se fosse dato dal di fuori.

In secondo luogo, che cosa intendi quando dici «fuori di me»? Io e Non io, «soggetto» e «oggetto» sono idee che si formano, come tutti i valori, in relazione l'una con l'altra; c'è l'una perchè c'è l'altra, e quindi si mediano a vicenda. Per es. questo bianco è prima un sensibile soggettivo; poi io lo oggettìvo, ne faccio una cosa (un foglio di carta), negando il soggetto per affermare l'oggetto; infine riconosco appunto che esso è l'oggetto del mio conoscere e porta le impronte del pensiero. Insomma, il pensiero procede sempre per antitesi e per sintesi di queste antitesi; ma la realtà, l'esser oggetto, non è che l'attuarsi del pensiero nel perenne divenire delle idee.

Questa legge si chiama la «dialettica» del pensiero, che produce gli oggetti per negazione del soggetto e produce i particolari soggetti per negazione dell'oggetto. Ma la filosofia, l'autocoscienza, riconosce negli oggetti e nei soggetti empirici null'altro che le costruzioni di uno Spirito che diviene, si evolve, realizzandosi come mondo. Non soltanto il mondo è il mondo delle idee che si fanno, e non dei morti «fatti» (nel senso del realismo ingenuo che li prende come «dati» già così esistenti), ma le idee sono la realtà nel suo sviluppo, di cui la natura è una parte astratta. Guardando da questa altezza, tanto la natura di cui parla la scienza, quando la scatola di fiammiferi del nostro buon uomo, sono sempre una parte dello spirito, che sempre la supera in qualcosa di più universale e necessario. Pensare la natura in sè è un'astrazione, perchè si astrae dallo spirito in cui si attua l'idea di natura – idea e realtà sono la stessa cosa, astratto è chi le divide –, ma del pari, il soggetto empirico, il mio «io» come natura, è l'attuarsi temporaneo del divenire dello Spirito, quando si limita di fronte al «non io» da lui stesso posto nello spazio. Non si cade nel solipsismo, perchè «io» è qualcosa in quanto conoscenza, ed è conoscenza in quanto contenuto (particolare) d'un pensiero che ora lo pensa e quindi lo supera.

Anche nel campo dei valori morali e religiosi, come ognun sa, per lo Hegel vige la stessa legge dialettica che vale per il vero teoretico. Anche qui non c'è che lo Spirito come principio dell'Essere, ragione universale, il quale si realizza nei particolari momenti del divenire. Non ci sono il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, Dio e l'uomo: il male è la negazione di ciò che prima sembrava bene ed ora riconosciamo male avendolo superato in un bene più universale. La giustizia si attua a traverso l'ingiustizia; la libertà si conquista negando il nostro particolare egoistico arbitrio per riconoscerci nello spirito più vasto della famiglia, della società, della nazione. La storia umana culmina nell'avvento dello Stato etico, ch'è la sintesi delle antitesi individuali e sociali, quando lo spirito limitato dei singoli e delle classi riesce a trovar la sua piena libertà nell'ossequio alla legge che glie la garantisce e potenzia.

Dalla «Fenomenologia dello Spirito» alla maggior «Logica», da questa all'«Enciclopedia» e alla «Filosofia del Diritto», l'opera dello Hegel apparisce lo sforzo meraviglioso di spiegare realmente e in concreto l'attuarsi di quei valori spirituali, che il realista comune proietta in un mondo trascendente e irraggiungibile. Dall'alto del suo panteismo Hegel mira lo svolgersi di questi valori nella storia della natura, che in fondo è la storia del pensiero obbiettivo, e nella storia degli uomini, ch'è il realizzarsi dell'idea etica, l'universalizzarsi (qui come là) del pensiero diretto. A questo punto può sorgere la riflessione su noi stessi come Spirito assoluto; e sorgono infatti le attività pure e disinteressate: l'arte che simboleggia il soggetto puro (il sentimento) nelle immagini estetiche; la religione che l'obbiettìva nelle rappresentazioni mitiche ponendo un Essere trascendente in cui il soggetto empirico si annulli; la filosofia che compie la sintesi riunendo la soggettività e l'oggettività dei Valori nel concetto di Spirito che si svolge come pensiero.

10. – Questo immane sforzo è riuscito? Sì, è riuscito nel senso che doveva. Ha diretto gli occhi degli uomini verso il gran fiume del divenire, e ne discesero l'evoluzionismo e lo storicismo moderni. Ha indotto la scienza a intendere le leggi della natura quali modi d'interpretazione dell'esperienza unificata in rapporti astratti, come la storia l'unifica e rivive in concreto. Le nuove correnti si affermarono (incominciando dal Feuerbach e dalla «Sinistra» hegeliana) negando Hegel, criticandolo, espurgandolo, riformandolo e a volte convertendolo in un radicale empirismo: ciò che del resto era previsto nel sistema hegeliano. Però, se l'idealismo hegeliano ci ha insegnato a compenetrare la natura col pensiero, ci ha pure indotto a rifiutarci di cercare il reale in un'idea che non si attui in un fatto contingente. La filosofia contemporanea è per tre quarti filosofia della contingenza. Ce ne vogliamo persuadere?

Basterebbe istituire un parallelo tra la filosofia dopo Hegel e quella prima di Kant per osservare come le due direzioni del pensiero siano rivolte in senso diametralmente opposto. Il razionalismo è un'induzione (ciò che fu detto il suo dogmatismo trascendente, la sua metafisica) dal contingente al necessario, dal relativo all'assoluto, dal divenire molteplice e mutevole all'essere identico ed uno: costruzione analogica, e quindi «impossibile» secondo Kant; ridotta poi a sistema deduttivo «more geometrico» per sussunzione dei contingenti particolari negli universali necessari. Al razionalismo non interessa il contingente, che per esso non è altro che il casuale e va ridotto all'incontro di cause necessarie; queste sole interessano il realismo prekantiano (il realismo «idealista», il platonismo in genere). Al contrario, il nostro idealismo («realista», dunque!) muove dall'assoluto – dato come semplice condizione a priori e per sè vuota categoria (necessaria al pensiero) – verso i relativi contingenti nei quali si realizza l'essere come divenire attuale e storico. Ciò che ora importa sono le qualità, le concrete specificazioni del dato universale, che si chiama pensiero e spirito proprio in omaggio all'esperienza...

S'intende che, come c'è sempre stato un nominalismo critico per frenare i voli del realismo dogmatico, così c'è anche oggi un ontologismo metafisico tendente a liberare il nostro idealismo dai vincoli dell'esperienza per obbedire al segreto bisogno religioso d'ogni filosofia; ma è nella «nostra» esperienza, nella concreta coscienza, che noi moderni cerchiamo l'Essere, e non fuori di essa. Reale, per noi, è l'esperienza; filosofia è per noi la critica dell'esperienza, che già si propone di non uscirne mai totalmente. Dopo che la critica dello Hume ebbe dimostrato l'impossibilità razionale di uscire dal soggetto, e quella di Kant ebbe ridotto l'Essere trascendente alle esigenze trascendentali del pensiero in esso presenti (ossia immanenti) mutando in un problema critico interno il problema ontologico dei razionalisti, si apriva un'èra unicamente destinata a considerare i valori nella contingenza dei fatti di esperienza, e il fenomenismo o positivismo del secolo XIX° non fu che un aspetto particolare di ciò che più universalmente fu l'hegelismo.

Ho sempre udito con stupore, dalla bocca dei nostri hegeliani, il vanto d'aver ucciso essi il materialismo, sol perchè han combattuto il positivismo. Ma il materialismo appartiene all'antica mentalità illuminista, essendo una di quelle forme di sostanzialismo che i precritici inglesi e il Kant avevan già superato; laddove l'empirismo o positivismo contemporaneo è un relativismo fenomenico di tipo kantiano che, dichiarata inconoscibile teoreticamente la sostanza e la causa assoluta o essere in sè dei fenomeni, e conoscibili soltanto questi, si propone di non trascendere il dato e fatto dell'esperienza, proprio come farebbe un hegeliano coerente. Allora, la conoscenza si obbiettìva solo in quanto traduce l'esperienza empirica in rapporti generali universalmente validi, ottenuti per astrazione di elementi e di costanti verificabili induttivamente.

Di qui al prammatismo, e da questo all'intuizionismo è breve il passo, che l'«ignorabimus» di Dubois-Reymond potè affrettare, ma che tutta la critica della scienza fatta da scienziati (dal Maxwell al Poincaré) già di per sè calcava come necessario sviluppo dello stesso positivismo. Bergson è l'ultimo accento sull'indirizzo comtiano: quell'indirizzo chiaro concreto positivo dello spirito francese, che segna il passo al soggettivismo posthegeliano, con minor ingegno ma con maggior intelligenza e coerenza delle correnti affini del praticismo anglo americano o del volontarismo e irrazionalismo che in Germania metton capo alla filosofia del «come se» (Veihinger).

Reale è l'esperienza nel suo continuo farsi, nello svolgersi sempre nuovo della sua attuale «durata»: l'esperienza dunque come soggetto, «spirito», «slancio vitale». Questa realtà la possiamo afferrare sol per intuizione diretta; l'intelletto invece non fa che tradurla in schemi astratti praticamente utili e in abbreviazioni comode per la memoria obbiettiva e la previsione dei fatti. Le leggi scientifiche sono ipotesi di comodo, strumenti di lavoro teoretico buone in quanto applicabili per organizzare l'esperienza e per intervenire in natura.

In mezzo a questo nominalismo si colloca la filosofia della contingenza nel suo più stretto senso, quale fu rivelata a sè stessa nei brevi semplici scritti del Boutroux; e diviene il centro teoretico della speculazione diretta al sensibile, verso il quale s'avviavano, per chi ben guardi, anche le scuole tedesche del secondo Ottocento che ne sembrano più distanti, come da una parte l'empiriocriticismo e la «filosofia dell'immanenza», e dall'altra tutto quel soggettivismo che si equilibrò nella «filosofia dei valori» e intese il conoscere come un mezzo del volere e l'oggetto come uno dei modi dell'attività spirituale.

Quello che realmente oggi importa è il contingente, l'attuale, l'individuale, che gli schemi logici impoveriscono, uccidendolo nella oggettività di natura: il contingente, ricco delle sue qualità sempre nuove e originali, che l'intelletto riduce a rapporti quantitativi per adeguarlo in misure convenzionali; il contingente, che non è l'incontro casuale di cause necessarie, ma si attua ogni volta con caratteri irreducibili di originalità e libertà, testimone della creatività dello spirito nella sua continuità sempre diversa. Ciò che dicesi natura, «oggetto» della scienza, è tuttavia spirito, soggetto che si depotenzia obbiettivandosi, o meglio automatizzandosi e facendosi materia col rinunciare a ciò che v'ha di sempre nuovo e libero nell'individuale esperienza per fissarsi nelle ripetizioni e somiglianze uguagliatrici di fatti e caratteri costanti...

Ma non diversamente parlano, in fondo, i nuovi hegeliani, che intendono l'oggetto come una posizione astratta del pensiero, e concludono che il reale è il farsi attuale, il costituirsi individuale e originale dello spirito. Perciò anche il nuovo hegelismo sfocia nello storicismo e nell'attualismo, che sono perfettamente conformi all'indirizzo del nostro tempo.

Tuttavia, se reale è l'esperienza, il contingente storico e di fatto, anzi l'attualità dell'atto, è altrettanto illogico inferirne oggi la realtà di un soggetto, l'essere dello spirito, quanto lo era ieri indurre alla realtà dell'oggetto e della natura. Il contingente è l'esistere sensibile: l'essere, soggettivo od oggettivo che sia, lo trascende sempre. Che diritto abbiamo di parlare di soggetto e di oggetto, ossia che diritto abbiamo di pensare? Che prova troviamo nel sensibile dei valori trascendentali, se non la prova del valore sensibile stesso, del valore estetico?

Son questi i problemi che si agiteranno, sotto vari aspetti, nelle pagine seguenti. Esse possono presentare qualche difficoltà per il lettore non filosofo – lettore ignaro dei tormenti e delle gioie che forman la nostra passione, della disperazione di certi istanti in cui per noi la realtà si dissolve affondandoci nel terrore del nulla, e della sovrana gioia di risalire a un'unità d'intelligente coerenza e di penetrante certezza –; mentre poco m'illudo di richiamar l'attenzione dei filosofi, come spesso avviene quando non sanno in che scuola classificare un autore che prende a maestri specialmente i suoi antagonisti e più ama ed ammira coloro, di cui meno si fa servo e seguace.

Nondimeno, esprimere la propria opinione ed offrire i risultati delle proprie ricerche sui problemi ancor aperti della filosofia, non è sol questione di soddisfazione personale e di vanissima gloria. Per chi professa filosofia da una cattedra a inesperti alunni, è anche e principalmente un elementare dovere, il dovere di mettersi in condizione di venir giudicato dagli studiosi; tanto più anzi, quanto più modesto e men noto è l'autore.

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