II. Il soggetto e l'esperienza

1. – Se conveniamo di chiamare col nome di «esperienza» i contenuti del nostro conoscere, e quindi lo stesso conoscere in quanto divien contenuto di nuovi atti conoscitivi, l'esperienza in fondo è l'esser presente, l'esistere sensibilmente, sia tal sensibile quell'albero che frondeggia al vento o questa pagina scritta; e quali che siano i valori pratici o teoretici di questi, che nel pensarli divengono gli «oggetti» del pensiero, o meglio i suoi «dati» rappresentativi di quei valori.

Facciamo la stessa distinzione gnoseologica col dire, che isolando un momento della nostra esistenza, troviamo sempre qualcosa di dato a posteriori, che ora noi valutiamo e pensiamo. E come i nuovi valori che si generano col pensiero s'aggiungono all'esperienza, così l'esperienza data implica naturalmente il pensiero pensato. Tali valori di fatto, oggettivi e soggettivi, sono però impliciti in un sensibile (come avviene nella percezione) che li rappresenta agli effetti pratici e teoretici del pensiero o giudizio esplicito che vi s'aggiunge: quel verde rappresenta un albero, questa parola rappresenta un'idea. Voglio dire, che qualunque valore, per quanto generato nel pensiero e per quanto trascendente il sensibile – noi, l'esperienza, la trascendiamo in ogni istante, ogni volta che vogliamo qualcosa –, esiste come dato, e fatto soltanto in un'esistenza sensibile, in un'esperienza, contenuto delle nuove forme conoscitive.

La filosofia ha dunque avuto torto quando ha concluso, che l'immediata sensazione è senza valore, è un non essere, perchè non è ancora o non è più idea. Prima di tutto, essa diviene non essere proprio quando diviene idea mediata e opposta all'idea di essere (come dover essere): quando cioè non è più sensazione. In secondo luogo, l'esistere sensibile possiede, relativisticamente, tutti i valori rappresentativi, e li conserva implicitamente ossia li attua. Infine, se si obbietta che tali valori, essendo tutti ideali, e soltanto rappresentati dai sensibili ma prodotti dal pensiero conoscente, si servono del sensibile come semplice mezzo e strumento privo per sè di alcun valore, bisogna ricordare che tutti i valori sono veramente tali se sono reali, e son reali se esistono; e per noi non possono esistere che sensibilmente: l'esistenza sensibile diviene allora l'unica prova che qualcosa esiste realmente e non metaforicamente, perchè anche il pensiero non esiste che in questo modo. La sensazione implica tutti i valori possibili – e quindi ne condiziona, naturalisticamente, il pensiero – perchè, metafisicamente parlando, tutto l'essere converge ad attuarsi in quella particolar sensazione contingente, dalla quale si può tentar di risalire conoscitivamente verso il tutto. Se i valori emergenti nella lor universalità e necessità con la coscienza, non fossero in tal senso innati, sarebber essi le «ombre» e la sensazione l'unico reale!

Per noi, la sensazione è il solo concreto reale, da cui la conoscenza astrae – e si astrae – per analisi, come meglio vedremo. Ma quando la sintesi (a priori) ottenuta per mezzo di quest'analisi vuol ritrovare il concreto, vuol essere una nozione concreta teoretica o vuol attuarsi praticamente, deve ritrovare la sua unità col sensibile: infatti diciamo ch'è concreto quel pensiero che unifica l'universalità del valore con l'individualità del fatto (la filosofia alla storia), e che realmente è pratico quel soggetto che si attua oggettivamente, vale a dire sensibilmente, chè soltanto nella sensazione soggetto e oggetto coincidono: quel verde è un verde sentito.

In luogo di «sentito», è più proprio, a questo punto, dire «intuìto». Intuizione e sentimento indican lo stesso soggetto astratto dal suo oggetto; ma il primo è un termine gnoseologico, è il soggetto sensibile riguardato dal punto di vista noetico – la natura soggettiva del conoscere che diviene oggettivo nell'idea –; il secondo è termine psicologico, designando la natura soggettiva di quel rapporto fra l'esistere e il dover esistere (essere), che si dice volere. In altri termini, il sentimento è provocato dallo stimolo attuale, ma diretto ad altro che si attuerà a traverso un atto pratico (per es., il piacere di questa rosa veduta è diretto al suo profumo); l'intuizione è invece il sentimento dello stimolo sensibile, il piacere del colore in quanto tale, il sentimento del sensibile. Perciò la chiameremo intuizione estetica: ma intanto essa è anche la natura conoscitiva del pensiero prima de' suoi valori pensati; e quindi, come ha profondamente veduto il Kant, la possibilità o condizione dei giudizi riflettenti, dei giudizi cioè oggettivi, che valutano i sensibili in quanto tali, riunendoli nelle leggi di natura.

L'intuizione non va dunque intesa come un primo grado della conoscenza teoretica, e nemmeno come «conoscenza dell'individuale», se conoscere significa oggettivare i contenuti intuitivi unificandoli nelle forme universali (anche se individuale è il contenuto!), e prima di tutto in quelle spazio temporali. Altro è dire «conoscenza intuitiva», ossia, kantianamente, conoscenza formale e a priori di contenuti puramente intuitivi (per es. matematica), altro è dire intuizione conoscitiva, che sarebbe una contraddizione in termini. No: intuire è partecipare immediatamente dell'essere, sentirlo come esistenza, anzi esisterlo a quel modo, sentendo. È ben vero, ripeto, che il termine «intuizione» è gnoseologico, ma sol in quanto intuire è condizione (astratta, ossia «naturale») del conoscere. Mentre che per conoscere ci vuole un soggetto che oppone a sè il suo oggetto, per es. percependo quell'albero come una cosa fuori di noi, nella pura intuizione soggetto e oggetto costituiscono un solo valore esistenziale: chi intuisce è quella stessa sensazione che viene intuita, dove l'esistere non è che certezza.

2. – Fu proprio l'urgenza di distinguere l'intuizione dalla conoscenza, e di distinguerla radicalmente, quella che spinse l'intuizionismo francese all'estremo opposto, dell'intender l'intuizione come la sola vera conoscenza: vera perchè reale possesso della cosa, immedesimazione del soggetto nell'esistere immediato, presenzialità dell'oggetto nel soggetto. Nulla di male se si convenisse di chiamare conoscenza l'intuizione, il presentarsi di ciò ch'esiste contingentemente in una sensazione come tale, e quindi l'unità esistenziale di conoscenza e realtà; ma bisognerebbe trovare un diverso termine per indicare il conoscere teoretico e pratico – per es. il termine «giudizio» o «valutazione» –, che secondo quel nuovo nominalismo non sarebbe altro che il sovrapporsi d'un'astratta e prammatistica simbologia verbale al concreto conoscere intuitivo: mentre io credo che il pensiero conoscitivo produca, nel rapporto di soggetto a oggetto, i valori ideali, trascendenti l'empirico esistere sensibile, che senza di esso pensiero non s'attuerebber mai. Se l'intuizione rimanesse sensazione, esistenza dell'essere com'è, non diverrebbe mai intuizione anche del sovrasensibile nel sensibile, intuizione dell'assoluto, esistenza (e prova) del dover essere come valore. Infatti l'intuizione – vale a dire la sensazione riguardata dal punto di vista della conoscenza – è prima e dopo il pensiero conoscitivo, come l'unità è prima e dopo le analisi e valutazioni teoretiche e pratiche, prima come condizione, dopo come risultato reale.

Quanto all'odierno idealismo, gli siamo più vicini di quel che possa sembrare, sebbene sopra un piano diverso che capovolge le posizioni, come spesso accade tra filosofie molto affini. L'idealismo non vuol uscire dal pensiero pensante: se noi ora parliamo della sensazione, esso dice, questa non è che un'idea, e un'idea astratta perchè posta come qualcosa in sè, posta come non io dal soggetto pensante che si nega per oggettivare il suo oggetto. Di concreto non c'è che il pensiero stesso, concreto perchè sintesi di soggetto e oggetto che si definiscono per reciproca mediazione, prius logico rispetto a tutte le sue idee, e perciò anche prius ontologico e metafisico rispetto a tutti gli oggetti e soggetti particolari in cui si attua.

Giustissimo. Ma ciò, se non erro, significa che il pensiero, «concreto» in sè stesso – non soltanto perchè dato necessario. punto di partenza di tutte le idee, ma anche perchè unità di soggetto pensante e di oggetto pensato, si consideri questa come una sintesi di fatto, una sua essenza o «natura», oppure come la necessaria sintesi di soggetto e oggetto nell'autocoscienza che riconosce suoi gli oggetti conosciuti –, è «astratto», o meglio astraente rispetto alle idee che produce nelle operazioni conoscitive, quando si consideri il valore d'una di queste idee per sè stessa, come l'idea stessa di sensazione.

Ripeto: la conoscenza, concreta come pensiero pensante (si può dire, natura del pensiero? non è questa natura un'idea anch'essa?), ne astrae per costruire i suoi oggetti (si può dire, i suoi valori, e non son questi, in quanto oggetti, la realtà o natura?). Di fatti, il pensiero teoretico vuol giungere all'Essere assoluto, alla «cosa in sè», e, in generale, ci dà un oggetto senza soggetto, quantunque soggettivo come pensiero; e il pensiero pratico vuol giungere al soggetto assoluto, allo Spirito, e ci dà un soggetto senz'oggetto, quantunque oggettivo nel valore perchè in sè. L'uno perviene così alla necessità della legge naturale, l'altro all'obbligatorietà della norma morale.

Allorquando però riflettiamo su questi valori conoscitivi e risaliamo con l'idealismo al pensiero che li genera, troviamo che esso pensiero, in concreto, è attività e spontaneità: parole, dal Kant in poi, pregnanti di quel significato arcanamente mistico e spiritualistico, che s'era dovuto trasportare dal mondo «esterno» del razionalismo a quello umano dell'immanentismo. Ma spontaneità e attività non sono i caratteri coi quali definiamo psicologicamente (ossia, naturalisticamente) il sentimento e il volere, vale a dire il soggetto empirico, il soggetto sensibile? Dove e quando, questo soggetto, se non nell'unità reale ch'è il nostro individuo in ciascuna sensazione, anima e corpo, io e mondo, natura d'ogni valore e valore primo, intuitivo, della natura?

O meraviglia! L'attività formale del pensiero, che, messa in rapporto (conoscitivo) co' suoi contenuti, determina tutti i valori trascendenti il sensibile, è dunque essa medesima concreta soltanto nella sensibilità, entro cui sorge come spontaneità e attività vivente – caratteri coi quali indichiamo l'esperienza intuitiva del nostro esistere, il sentire e il volere – e sulla quale reagisce finalisticamente. E come reagirebbe, del resto, come attuerebbe i suoi fini, se non di nuovo per mezzo d'un sensibile? determinando «albero» quel verde, «bene» codesto atto, «vera» questa parola? Il vero e il bene, i valori cioè del pensiero puro, sarebber essi, proprio, gli astratti, se non si realizzassero in esistenze. Il pensiero, dico, astraendo in quanto òpera per distinzione e analisi dell'esperienza, concretizza le sue idee ogni volta che le relativizza all'esperienza – le concettualizza, si potrebbe dire –, come attua i suoi fini ogni volta che li realizza sensibilmente.

Naturalmente bisogna intenderci bene sul significato col quale adoperiamo le parole. Per l'idealismo, «concreto» e «reale» sono termini che vengono a coincidere. Anche per noi: ma il primo riguarda la natura dei contenuti conoscitivi – nel nostro caso, la natura del pensiero su cui riflettiamo, che per me è sensibile –; il secondo riguarda il valore dell'atto conoscitivo – e pertanto il valore della nostra attuale riflessione – che per l'idealismo, giustamente, è pensiero. Incontriamo dunque il nodo che dovremo sciogliere, formato dall'interferire di due problemi, l'uno sulla natura del valore, l'altro sul valore del concetto di natura come esistenza. Sensazione e pensiero conoscitivo sono i due capi di tal nodo, che la spada affilata della fede nel Soggetto puro come Pensiero assoluto può recider d'un colpo, ma soltanto la pazienza obbiettiva e disinteressata può sciogliere teoreticamente.

3. – Ma prima di tutto, che cos'è il «soggetto»? Questa domanda, teoretica e scientifica, induce all'errore di voler determinare il soggetto come un qualche cosa, come un... oggetto, su l'analogia della conoscenza oggettiva. Errore (disvalore teoretico), che può aver benissimo un valore pratico, almeno temporaneo fin ch'io non riponga il valore pratico in un bene che sia anche oggettivamente reale. Intendo dire che se io, mosso da un'esigenza pratica e religiosa, concepisco il soggetto in uno spirito puro e in sè, reale e immortale al tempo stesso, non commetto un errore pratico, valendo quell'idea metafisica a' suoi scopi, a rasserenare la mia vita e a sorreggere la mia volontà: l'errore incomincia nell'istante in cui pretendessi di razionalizzare quell'idea fra i concetti veri, intendendo per vero il reale costruito su l'esperienza, il reale oggettivo così nella natura come nel valore, l'oggettività dell'oggetto.

In somma, prima di rispondere a una qualsiasi domanda, bisogna convenire intorno ai fini, al metodo e ai limiti della ricerca: il non curar ciò è la sola causa d'incomprensione fra uomini, nazioni, razze; e la filosofia è diventata critica a tale scopo riconosciuto. Posso giudicare un oggetto, una parola, un atto secondo i più diversi criteri di valutazione – riducibili ai due «usi» del pensiero (come li chiamava Kant), pratico e teoretico, soggettivo e oggettivo, prescrivente il dover essere o determinante l'essere, dei quali usi vedremo meglio l'unità nel valore –: confrontare, per esempio, quanti criteri si mescolano in un giudizio penale. Un giudizio, mettiamo, morale è dunque giusto o ingiusto secondo la coscienza etica e non secondo la ragione logica: eticamente io faccio bene a condannare un malvagio anche se determinato da cause naturali fu il suo reato. E di solito noi non vogliamo affatto cercare un accordo fra i diversi criteri del nostro pensiero, e in particolare fra il criterio teoretico esistenziale e quelli pratici e deontologici: se, per es., fate osservare alla pia madre mentre accende un cero per lo scampato pericolo del figlio, ch'è assurdo riportare al volere divino invece che al caso umano la salvezza d'uno che valeva quanto gli altri suoi compagni periti, la offenderete inutilmente, Ma spesso, anche se quell'accordo fra i valori lo volessimo, non lo possiamo raggiunger di fatto nella coscienza viva e fattiva. Basta sorvegliarsi mezz'ora per constatarlo.

Ora, la filosofia, com'è, nella sua parte critica, riflessione sui valori dei nostri giudizi e quindi precisazione e impostazione dei problemi, così è, nella sua parte positiva e costruttiva, axiologia, unificazione dei valori come razionalità e realtà, in cui tutti si debbono coordinare. Per quanto apertamente o segretamente spinta da un intento pratico o religioso, per quanto deontologica e universalizzante, la filosofia si distingue dall'etica pratica e dalla religione per il suo fine essenzialmente teoretico, oggettivo, realistico, ossia, in ultima analisi, in accordo con l'esperienza, sia pur quest'accordo dialettico, mentre che nella vita l'opposizione è proprio pratica e non teoretica... Un'ora fa udii squillare il mio telefono: una voce femminile mi chiese se rispondevo in persona; quindi aggiunse alcune parole incoerenti che terminarono in un rider lento e stanco come quello di certi dementi. Riappesi il microfono rabbrividendo e mi passò per la mente l'idea fantastica, che quella fosse stata la voce d'una persona morta (mia madre) che mi telefonasse!! È un'interpretazione come un'altra, e per me anzi più importante d'un'altra; ma in sede di riflessione io debbo riconoscer l'incoerenza teoretica di prestare a uno spirito forze e attività che ho prima definito materiali: di concepire cioè l'anima come un ente per sè esistente e pur agente fisicamente sulla materia.

Ritornando al nostro assunto, di definire il concetto di soggetto – e, di conseguenza, il concetto del concetto in quanto questo è un «prodotto» del soggetto –, avvertir prima che il soggetto non può esser un oggetto, che l'io non può esser «in sè», è tanto ovvio, che sembra un ridicolo giuoco di parole. Tuttavia, se noi ne inferiamo, com'è logico, che dunque il puro soggetto non è un reale, non esiste, non è niente, perchè il concetto di essere è oggettivo, si riferisce alle cose e ai fatti (alle sostanze e alle cause), cosicchè non appena l'applichiamo all'io ne facciamo uno «spirito» che duplica il mondo oggettivo ma su l'analogia di questo, tutti insorgeranno. Come, «io» non esisto? non c'è lo spirito? ma come ci sarebbe l'oggetto di nessun soggetto? non è questi l'autore anche di quella realtà oggettiva che tale diviene in un giudizio esistenziale, in un concetto reale ma sempre concetto? Allora, per sfuggire alla stretta, non potendoci più fermare alle due sostanze cartesiane o ai due attributi spinoziani, ci si getta al partito dello Spirito puro: reale è soltanto lo spirito, il concetto puro: che dona poi il valore di realtà ai concetti empirici via via nel divenire del pensiero.

Questa soluzione è sempre stata, in varie vesti, la più profonda ed attraente, quantunque rovesci il senso comune del «reale»: io sono la realtà in sè, assoluta e universale, lo Spirito che s'attua nel suo divenire come (mia) esperienza. Il Soggetto, infinitamente più vasto e più ricco de' suoi particolari molteplici oggetti, fra gli altri valori che attua, che oggettiva, produce anche il valore di realtà empirica, di natura, che si riduce ad una unificazione degli oggetti secondo categorie che il soggetto stesso, come pensiero, trae da sè medesimo (a priori) appunto per realizzare, per far essere, spiritualmente, quel molteplice che in sè non è nulla.

Tuttavia il nostro problemino si ripresenta, inesorabilmente, come prima: o il reale (esistente) è platonicamente l'idea pura, e in tal caso i concetti empirici e lo stesso «io» empirico sono irreali e illusori e non possono esistere in sè; o hegelianamente lo spirito si attua, si realizza (come esistenza ontologica) negli oggetti storici d'un attuale storico soggetto, e quello spirito è un dover essere – come valore – ma non un esistere, perchè l'esistere del soggetto, dell'io, non è fuori dell'esistere dell'oggetto, della relazione al non io.

4. – Non sono soltanto le esigenze metafisiche e religiose (che, del resto, sarebber panteiste o almeno averroiste) quelle ch'hanno sempre costretto la filosofia a ritornare dagli oggetti al soggetto e dalla natura allo spirito: fu anche e sopratutto l'impossibilità di definire teoreticamente il soggetto spirituale senza ridurlo a natura oggettiva, perdendone quindi il valore trascendentale. Il ragionamento che regge e preme tutto l'idealismo è, in fondo, questo: non potendo lo spirito, il pensiero, esser una delle sue cose, è necessario, per non ripiegare sopra un illogico dualismo, che le cose in sè siano spirito, come sono infatti idee in noi.

Ora, io dico, questa tesi contiene una grande verità; ma bisogna aver il coraggio di portarla fin in fondo. Il Kant ci aiuta molto più dello Hegel nella bisogna, appunto perchè è più conseguente alla critica della conoscenza.

La detta verità sta nella constatazione gnoseologica, essere il soggetto quello che definisce gli oggetti; che dà realtà, oggettività, all'esperienza; che conosce i sensibili come cose e fatti (sostanze e cause), li conosce cioè oggettivamente, assolutamente; che strasforma in essere l'esistere delle sensazioni, alienandole da sè stesso; che, insomma, muta la sensazione (chiamata per ciò soggettiva) in idea sempre più oggettiva e reale, quanto più prossima all'unità in sè, postulata dal pensiero. Ma appunto per tutto ciò, il soggetto è indefinibile teoreticamente, nessun oggetto potendolo a sua volta comprendere.

Il soggetto non è dunque una realtà, se «reali» sono le sostanze e le cause – anche se le riduciamo a pure relazioni fra le differenze sensibili –, sempre ideedei sensibili. «Io» non posso oggettivarmi senza perdermi, non posso rendermi assoluto da me stesso senza ridurmi al non io: onde l'impossibilità della psicologia, sulla quale ritorneremo. E se «essere» significa, come infatti significa, essere in sè di ciò che apparisce sensibilmente, lo spirito, ripeto, non è niente, se non per grossolana analogia naturalistica. Mettersi alla ricerca della realtà dello spirito nello spazio e nel tempo, è un problema mal posto. Allorchè vogliamo realizzare lo spirito, a rigore non possiamo che realizzarlo negli oggetti, per es. nelle relazioni corporee, come quando dico: io vedo, io cammino (ma anche: io ricordo, io faccio, io penso). Perfino il Valore assoluto, Dio, non realizza il suo spirito che attuandosi in una Persona...

In altre parole, il soggetto in sè è irreale (è ideale, e poi diremo che è pratico invece che teoretico): la realtà teoretica del soggetto è sempre un oggetto. La realtà di quel verde sentito è quel verde conosciuto, per es. come proprietà organolettica (e sol in tal senso organico chiamata «soggettiva» dai filosofi). La realtà dell'anima è il corpo come individuo organico e centro attivo di rapporti con l'ambiente. E la realtà dello spirito in universale è il divenire del mondo, si chiami poi idea o cosa è lo stesso. Non ci posson essere due realtà, una oggettiva e una assolutamente soggettiva, ma una sola, comunque si voglia chiamare, che però riguarda sempre l'essere in sè e non il mio attuale soggetto, che, appena lo conosco, è già il passato, la storia, il fatto.

Nessuno è mai riuscito a definire lo spirito puro se non per negazione degli attributi reali, come quando è detto inesteso, libero, formale, noumenico e simili; appena si tenta di definirlo positivamente, si cade in una contraddizione in termini, come quando lo si chiama una sostanza, un «continuo» (di che?), oppure si crede che vegga, che senta, che voglia senza occhi nè nervi nè muscoli. Nondimeno tutti seguitano a parlare di «distinzione» (in senso strettamente teoretico!) dell'io dal non io, con evidente preconcetto intellettualista.

Che cosa intendiamo col verbo «distinguere»? Se questo termine riguarda la conoscenza teoretica, distinguo due cose fra di loro, come quell'albero e quella casa, perchè diverse unità sensibili mi rappresentano oggetti diversi; oppure distinguo due qualità fra di loro, come verde e sonoro. Ma in che senso distinguo quell'albero o quel verde da me? O distinguo quell'albero dal mio corpo, quel verde dal mio occhio che lo vede – o magari dalla sensazione (senso interno) di riposo che n'è l'effetto organico –, e si tratta ancora di distinzione fra oggetti. O voglio proprio parlare del soggetto di quell'oggetto, del sentito di quel sensibile o del conoscente di quel conoscibile, e non si tratta più di oggetti e di proprietà oggettive diverse, perchè il verde sentito è lo stesso verde sensibile, l'albero conosciuto è la stessa idea di quell'albero.

Si tratta di distinzione pratica, o meglio, di opposizione di soggetto a oggetto: quest'ultimo termine è infatti volontario, soggettivo, e lo intendiamo per suggestione, non per dimostrazione; anche quando lo applichiamo alla natura in sè, come quando parliamo di due forze che «si oppongono» – come, del resto, quando parliamo d'idee opposte, ossia contraddittorie –, facciamo una metafora poetica, animando il mondo in sè (l'idea stessa di forza è soggettivante), oppure trasferiamo in un rapporto oggettivo la negazione soggettiva che il soggetto fa su l'accordo di due termini. In sè, due forze e la loro risultante, o due termini e la loro proposizione, si compongono e non s'oppongono. L'in sè non ha che un solo ribelle, l'io; questi lo nega come esistere in sè del sensibile (e quindi anche di sè stesso), e in tal modo lo fa essere, teoreticamente, spingendolo al dover essere, all'idea; ma per ciò appunto sarebbe un errore (sempre dal punto di vista teoretico) sperar di trovare in questa direzione il soggetto puro, negando l'oggetto in sè: negando l'oggetto, si ritorna al soggetto indistinto come sensazione, al suo esistere attuale nel sensibile. Nell'ordine ideale, il soggetto è sol la legge, la forma, la norma o praticità dell'oggetto.

Insomma, «io» non può mai significare «io sono» – se non nel senso della mia realtà individuale di uomo con le tali qualità obbiettivamente distinte –, ma significa «io voglio». Non è universale e oggettivo, ma vive singolarmente, attualmente: la sua esistenza è sensazione, anche se i suoi superbi fini si dirigono all'eterno del dover essere infinito e in sè. Per cui il solo modo di salvare il soggettivismo idealista sarebbe quello di affermare assoluta la sensazione, e tutto il resto relativo ad essa... Perchè no? Se non intendiamo parlare dell'assolutamente assoluto, di quell'assoluto cioè che dev'essere totalmente indipendente da noi, e che perciò è un impossibile teoretico ed è solo conoscibile come un nostro postulato pratico; e se invece intendiamo per assoluto quel termine a cui tutti i valori della conoscenza si debbono relativizzare, assoluta (gnoseologicamente) sarebbe proprio la sensazione, contenuto rappresentativo d'ogni conoscenza teoretica ed esistenza attuale di quel soggetto che in essa vive praticamente e se ne serve rappresentativamente. Convengo però che questa è una svolta pericolosa, di quelle così frequenti in filosofia, dove a un tratto si viene a invertire totalmente l'uso dei termini e per giuoco sofistico si passa da una tesi alla sua perfetta antitesi: infatti, l'idealismo attualista può passare in un radicale empirismo dichiarando assoluto e reale in sè l'attuale esistente, e inesistenti il passato e la storia e ogni altro oggetto in quanto tale. Non è questa precisamente la nostra via.

5. – In un trafiletto della sua Rivista critica (maggio 1930) Benedetto Croce molto spiritosamente canzonava il filosofo che passa tutta la vita a chiedersi, se il calamaio che gli sta davanti è «io» o «non io». Eppure che cos'altro ha sempre fatto la filosofia tutta quanta (e lo stesso Croce filosofo), se non aggirarsi intorno al problema del rapporto di soggetto a oggetto, ch'è il problema essenziale e forse unico della riflessione critica? Rimane del tutto fuori della filosofia chi ignora la posizione così argutamente comicizzata nella scenetta del calamaio; è filosofo chi tenta una qualunque via per tradurre in termini e giudizi oggettivi, ossia per razionalizzare, quel che ognuno sente come opposizione, o se preferite, come distinzione pratica (coscienza) di sè e del mondo.

Ora, le vie non son molte. Noi, partendo da questo sentire pratico invece che da un supposto essere teoretico (anima o spirito) – partendo quindi dal rapporto volontario invece che da una causalità oggettiva –, direi che scegliamo la via del senso comune, se non fosse ancor più comune l'illusione per la quale, non potendo noi parlare d'alcunchè di oggettivo senza presupporre il soggetto che conosce e parla, siamo portati, quando vogliamo definir quest'ultimo, ad attribuirgli l'oggettività de' suoi oggetti e a trasferire in lui quei concetti di sostanza e causa che valgono per gli altri oggetti, per gli oggetti in sè, che per esser tali non debbon essere soggettivi. Ci troviamo così presi fra il concetto volgare, che il soggetto sia un oggetto, un'anima, e quello filosofico, che l'oggetto sia un soggetto, spirito. La concezione dialettica, della realtà del solo rapporto di soggetto e oggetto in cui l'uno è per l'altro e non assolutamente, non ha impedito ciò, perchè questo rapporto venne hegelianamente inteso come mediazione teoretica d'idee distinte, mentr'è prima opposizione pratica di volere ed essere, antinomismo kantiano d'uso pratico e teoretico della ragione.

Ma, dicevo, per esser più semplici e più chiari, ragioniamo partendo dal senso comune, col quale dai secoli dei secoli gli uomini soglion farsi le idee che loro servono nella vita di quaggiù. Non voglio nemmeno guardare soltanto «dentro di me» – non credo alla «introspezione», credo all'«esperienza», tout court –, e del resto la mia introspezione non sarebbe più tale per il lettore: guardo fuori della finestra. Ecco là un grosso signore che corre dietro un tram già in moto e riesce, alla bell'e meglio, ad issarsi sul predellino con la grazia d'un plantigrado inseguito. È una di quelle azioni della vita, comune in cui l'uomo presenta il minino di quell'interiorità e personalità che distingue gli individui: qui pare che si esteriorizzi completamente in un automatismo, per cui vive la vita d'uno qualunque, purchè sia grasso e impacciato come lui. Forse, in questo istante, egli ha dimenticato totalmente sè stesso, tutto preso nello sforzo d'arrampicarsi sul tram senza cadere.

Orbene, tutto ciò che fa questo signore, è eminentemente psicologico, e parlandovene io vi faccio della scienza morale e non della fisica. Vi farei della fisica se cercassi di calcolare, per esempio, la velocità de' suoi frettolosi passetti in rapporto a quella del tram, o il rapporto fra il suo peso e il suo sforzo muscolare per compiere il salto sufficente a raggiungere il predellino, ecc. Ma io vi parlo della sua «premura», del suo sguardo ansioso al tram fuggente, del suo decidersi impaurito e tuttavia energico a raggiungerlo, non senza un'occhiata di rancore, appena su, a quel generico tram che non attende la gente grassa... È la differenza che passa fra l'ingegnere che studia di che materiali è formato un ponte romano, che sforzo può sopportare, a che leggi statiche obbedisce e quali problemi tecnici presuppone risolti, e lo storico che risguarda il medesimo ponte rispetto ai fini a cui era destinato, agli istituti ed atti politici che ne determinaron la costruzione, e cosa via.

L'oggetto di cui parlo è lo stesso, come contenuto della mia conoscenza, quel signore che corre o questo ponte che resiste fermo da secoli. Non parlo di due cose, l'anima, e il corpo di quel signore, la materia e lo spirito di questo ponte; parlo del signore grasso e del ponte arcuato. Per me si tratta sempre di percezioni, per il lettore d'immagini, nell'un caso come nell'altro, di gruppi di rappresentazioni oggettive, ossia reali, che ormai spontaneamente si attuano nei sensibili (presenti in sensazioni e parole), e non son più quindi che semplici dati. Ma parlandone ora psicologicamente o storicamente, noi colleghiamo questi dati in rapporto ai fini soggettivi, teleologicamente: diciamo, per esempio, che quel signore corre perchè vuol salire su quella vettura in moto; ch'è esitante perchè teme, ossia non vuol rompersi una gamba ecc,

Questi fini e queste volontà sono reali? Sì, ma sempre nei loro mezzi ed atti, ne' quali attuano i loro valori pratici, di cui io partecipo per suggestione, rivivendoli, e non per rappresentazione obbiettiva. Se io voglio obbiettivare il valore stesso, non ho altro modo che di rappresentarmelo formalmente e non realmente: lo obbiettivo in una norma, in una legge, in un dover esser insomma, corrispondente alla trascendentalità del desiderio di fronte – cioè in opposizione pratica – all'essere dei contenuti percettivi e ideativi. La normatività è il carattere obbiettivato del volere in tutte le sue forme concrete, desiderio, proposito, comando; tra la norma banalissima «Andar cauti nel salire sul tram!», in cui ci possiamo rappresentare il soggetto che ora muove quel signore, e la legge morale, non c'è differenza che nel valore pratico sempre più universale, dall'utilitarismo all'eticità, per es., del «Neminem laedere».

Ripeto: non mi posso figurare e non vi posso rappresentare teoreticamente il soggetto volontario di quel signore, se non esprimendolo in una norma formale, che sarebbe il «principio» che règola la sua azione pratica e quindi me la «spiega» teleologicamente. Però, il valore pratico è un valore (utilitario, giuridico, etico, religioso ecc.) e io tale lo giudico in giudizi di valore (p. es. utilitari: «Ha saltato bene») non già nella pura forma vuota, ma nel suo applicarsi ai contenuti reali e nel suo farsi; ciò costituisce la «positività» della legge, il fatto del dritto, la volontà reale del principio ideale. Il valore, il dover essere, è valore reale nell'essere.

Se, ascendendo verso una legge etica sempre più universale e pura, come fece il Kant, io finisco per spogliarla di tutti i contenuti reali, per emanciparla (formalmente) da tutte le possibili condizioni, e mi rappresento la pura volontà come forma assoluta del dover essere morale – «Agisci in modo che la tua volontà sia autonoma!» –, ebbene, io non esprimo più che una tautologia, mettendo in forma razionale, come postulato, il carattere trascendentale del volere, anzi, direi, del sentire. Il volere è volere in quanto è libertà, in quanto vuol liberarsi dal dato di fatto per raggiunger qualcosa di più, che ancora non è, e perciò lo sentiamo come spontaneità del desiderio, negazione del dolore sentito e affermazione della gioia che verrà. Ma la libertà, ipostatizzazione formale di un'esigenza reale, è un reale in quanto realizza il suo principio, ossia lo attua in rapporto alle condizioni di fatto, alle quali s'oppone come sentimento e si relativizza come atto e rapporto di mezzo (oggetto) a fine (soggetto).

6. – Abbiamo preso un esempio qualunque per toglierci dalle astrattezze, ma ognuno potrà poi generalizzare. Ci troviamo a quel nodo ch'è nel centro della filosofia, il rapporto di soggetto a oggetto: qual'è il criterio, quale il fondamento della lor distinzione e della loro unità?

Non c'è bisogno d'ascender, come Dante, fino a l'empireo, per vedere «la forma universal di questo nodo» e il legame fra «sustanzia et accidente», tra forma e contenuto, tra pensiero pensante e sensazione pensata, che ne costituiscono i due capi. Rimaniàmo per ora nella sfera del mondo empirico e riflettiàmo sul modo in cui vi si possa intendere la distinzione e il rapporto di soggetto a oggetto. Quel signore frettoloso è un esempio d'attività pratica, soggettiva, e ci aiuta a comprendere che cosa sia il soggetto e come si relativizzi a sè gli oggetti; noi che lo risguardiamo siamo invece esempio d'attività teoretica, oggettiva, e ci relativizziamo a quell'oggetto. Nondimeno apparirà ben presto anche l'artificiosità di questa divisione puramente didattica e superabilissima.

Noi diciamo che quel signore che corre ha un'anima, è un soggetto, non perchè corre (anche il fiume corre), ma perchè i suoi atti si presentano collegati in rapporto di mezzo a fine fra di loro e con l'ambiente. Non appena ne sentiamo la finalità, inferiamo la soggettività d'un qualsiasi contenuto del nostro conoscere: anche il tram, che corre per trasportare i passeggeri, in ciò implica un soggetto volente; attua un fine; realizza un valore (il valor d'utile). Riducendo a schema, possiamo dire che esiste una serie di sensazioni le quali, oltre che rappresentarci degli oggetti (quell'uomo che raggiunge il tram in moto) ci rappresentan anche un soggetto, apparendo collegate teleologicamente.

La stessa sensazione, che percepisco come un «qualche cosa», come un oggetto, la percepisco, simpateticamente, come finalità e soggetto; come riconosco un passo agitato, così rivivo la fretta di quell'uomo. Si noti che, rispetto al modo di conoscere, ora io e lui non siamo diversi se non per differenze particolari: io, percependo il mio uomo in corsa, valuto (penso) – per es. giudicando utile quell'atto – e posso esprimere il mio giudizio col verbo «è», che esplica appunto la realtà del valore soggettivo in un suo contenuto oggettivo (su ciò ritorneremo); ma il medesimo farà anche quell'uomo se pensa a ciò che fa: egli percepisce il tram, la strada, le proprie innervazioni motorie ecc. e via via sceglie questo o quell'atto mediante un giudizio d'utile. Non è qui la differenza fra il teoretico e il pratico e noi possiamo riferirci al pensiero di costui come al nostro che lo rispecchia.

Ora, se questo signore, per un ghiribizzo alla Pirandello, sorprendendosi tutto affannoso e ridicolo dietro il suo tram, tutto esteriorizzato ne' suoi mezzi e fini pratici, si fermasse su due piedi e si chiedesse: «Ma chi son io?», cercando d'isolare il suo soggetto dagli oggetti che or ne divengono i mezzi e i fini, che cosa potrebbe rispondere? Il fine, scisso dal suo contenuto rappresentativo – si tratti di raggiungere una vettura o si tratti di qualunque altra più universale finalità – si riduce al volerla; il volere, scisso da' suoi mezzi oggettivi, si riduce al desiderare; e il desiderio, scisso dall'oggetto desiderato, si riduce a sentimento. Ma che cos'è il sentimento?

Che cosa sia obbiettivamente, non lo possiamo dire che facendone, di nuovo, un oggetto dell'attuale conoscere – il quale include un nuovo sentimento, il dubbio conoscitivo, che i nostri antenati filosofi chiamavano «inquietudine» – e rimettendolo naturalisticamente nell'ordine delle cause naturali, come dimostreremo esaurientemente più tardi. Qui c'è tutta una psicologia dei sentimenti che, o è classificatoria e tautologica, e in tal caso raggruppa i sentimenti in affetti, interessi, passioni e simili, unificati a lor volta nel temperamento, nella personalità e nel carattere, che ci dànno un quadro, puramente descrittivo, della continuità del soggetto empirico e del suo modo di comportarsi in occasione degli stimoli ambienti: ma il tutto rimane appoggiato alla nostra soggettiva esperienza; questi affetti non sono che in potenza, tendenze e impulsi soggettivamente appesi nel vuoto d'un vago spiritualismo. Oppure se ne cerca, scientificamente, la realtà obbiettiva, il come e il perchè naturale; e allora il sentimento diviene, ahimè! il coefficente organolettico e corporeo d'una sensazione – tanto se si tratti del dolore atroce d'un viscere dilaniato che, estrema passività, assorbe e annulla ogni altro valore e ci riduce a belve urlanti, quanto se si tratti del benessere gioioso, della cenestesia armonica esuberante ed esultante d'un mattino di maggio che ci dispone a ogni più nobile impresa –; l'affetto diviene istinto o bisogno, memoria e adattamento biologico, tropismo verso certi stimoli rappresentativi in un senso più che in un altro; il temperamento diviene la specie antropologia e la persona ne divien l'individuo in azione e reazione con l'ambiente... Sol in tal direzione può, deve muoversi la scienza teorica: il soggetto deve ritornare ad essere un «essere» nel gran fiume dell'Essere.

Sotto tal aspetto, il mistero che vela ancora tanta parte delle manifestazioni fisio psichiche (e in cui si rifugiano il medianismo e le pseudo scienze affini), e il non poter ancora spiegare nemmeno perchè un gattino appena nato già fa la gobba e rabbuffa il pelo al passaggio del primo cane che vede, o perchè una prepotenza ci muova a sdegno, è ignoranza (impotenza e disvalore teoretico) ma non è trascendentalità e valore pratico.

Ma, salvo a cercar poi la conciliazione fra causalità e finalità, fra essere e dover essere, fra valore teoretico e pratico, il nostro discorso qui è un altro. Nel soggetto vogliamo rimanere. Se questo puro soggetto è un sentimento, in che mai un sentimento – un mal di pancia come l'amore dell'umanità o la curiosità di sapere, il più empirico come il più spirituale – è soggettivo e non è l'oggetto e il corpo? Era ben tale la nostra questione, questione critica e filosofica, non ricerca scientifica; quest'ultima dipenderà dalla prima e non viceversa.

Orbene: per una critica coerente, per una critica dunque del tipo dell'Hume, il soggetto non è oggetto sol in quanto non vuol esserlo: desidera, e in questo caso esige, di non esserlo – anche se sa d'essere un oggetto fra gli altri, svilupperebbe il Kant –; sente che non lo dev'essere, concluderemo noi. Questo sentimento di libertà e d'autonomia da tutti i contenuti oggettivi e pertanto dalle stesse condizioni reali della propria esistenza costituisce l'unico fondamento dell'io a credersi «io», il solo diritto a volere e ad agire come soggetto: esso fonda e dirige tutti i valori e tutte le attività in quanto pratiche. È un'illusione? Sarebbe illusione se fosse una conoscenza teoretica o se per tale la volessimo far passare, come esigeva appunto il razionalismo entro cui si muoveva ancora la ricerca dello Hume; ma si tratta della conoscenza pratica, si tratta, in una parola, della «coscienza», che non è cosa ma valore della cosa.

7. – Abbiamo lasciato il nostro uomo in mezzo alla via, che rifletteva su sè medesimo in quell'atteggiamento che diciamo «critico» o filosofico. Egli è lì, centro del suo piccolo mondo, che percepisce e appercepisce: percepisce in quanto prende le sensazioni attuali – le giudica conoscitivamente, le adopera praticamente – come segni e mezzi dei valori rappresentativi connèssivi nella passata esperienza e reali nella memoria (ch'è della stessa natura sensibile): per es. prende quell'oggetto lucido e mobile per un tram in corsa; appercepisce in quanto, reso attento da un interesse presente, con una nuova analisi e sintesi dei contenuti scopre nuovi rapporti e li unifica in nuove rappresentazioni di valori pratici e teoretici.

Ma adesso egli vuole, supponevamo, percepire le proprie percezioni, appercepire sè stesso, nel suo attuale, immediato, esistenziale e presente rapporto di soggetto a oggetto, punto di partenza di tutti i valori. Perciò, in luogo d'abbandonarsi al pensiero spontaneo, che conduce sempre oltre l'esperienza attuale, oltre il pensiero pensante e la sensazione pensata, verso un oggetto e un fine in sè – s'arresti poi al vicino salumaio o proceda fino all'Essere assoluto, qui non importa –, egli ha dovuto fare il cammino a ritroso e riflettere, con pensiero indiretto, sopra quel suo modo di conoscere. Ha così scoperto che tutti gli oggetti, ivi compresi i suoi atti e il suo corpo, sebbene siano o debban essere «fuori di noi» nello spazio e nel tempo infinito e in tutte le altre relazioni entro cui li abbracciamo, esistono attualmente per noi e si presentano in sensazioni, che ce li rappresentano; e scopre che questo «noi», a sua volta, quantunque sia e debba essere reale soltanto negli e per gli oggetti, come lor valore soggettivo e nostro fine obbiettivo, si realizza di fatto come attuale sentimento di quella sensazione o immagine.

Tutto ciò risulterebbe chiaro ed evidente per chiunque, se, con un'ipotesi ancora più semplice, mettessimo il nostro uomo nella condizione della statua di Condillac, tale cioè che acquistasse a un tratto la prima sensazione del primo senso che le si desta, e non si potesse pertanto riferire a null'altro: abbia, per es., la prima sensazione di dolce o d'amaro. Una è la sensazione in quanto esiste, è presente; soggetto e oggetto coincidono; dolce o amaro sono, indifferentemente, soggetto od oggetto, nel senso che, per la conoscenza, un dolce o un amaro può diventare il contenuto rappresentativo così dell'uno come dell'altro. Ma, prima di tutto, la conoscenza è già un uscir fuori dal dolce o amaro immediato, è già mediazione e pensiero; in secondo luogo, la conoscenza è obbiettivante, costruzione dell'oggetto: come dunque parleremo d'un soggetto?

Quando ci accingiamo a rispondere alla domanda: che cos'è il soggetto, che cosa l'oggetto d'una sensazione dolce o amara? siamo facilmente vittime, ripeto, d'un equivoco che ne conduce diritti al dualismo e al parallelismo filosofico, perchè, per conoscere, vogliamo introdurre una distinzione di cose o di proprietà obbiettive – una distinzione oggettiva perchè conoscitiva – fra quell'oggetto e quel soggetto che, in quanto esistono, esistono proprio come unità di soggetto oggetto e non come due oggetti! A una domanda teoretica non si può coerentemente rispondere che con una risposta teoretica (che esclude il soggetto), riguardante l'oggettività, il valore di realtà di quel contenuto: per es., risponderò, che una sensazione dolce è, considerata in sè stessa, una proprietà organolettica; riportata alle sue cause, è il prodotto di stimoli chimici esterni e di fattori organici interni, e che i primi ci dànno il sensibile e i secondi il sentimento spiacevole.

Ma il sentimento non è soggettivo perchè corporeo, perchè reale. Nella sensazione, sensibile e sentito sono, sì, realmente, la medesima unica cosa, l'incontro d'infinite cause naturali, che abbiam tutto il diritto di raggruppare in unità distinte ma sempre obbiettive e unificabili in un'unità o rapporto ulteriore ed in sè, che ci spieghi l'unità reale di soggetto e oggetto nella vita. Tuttavia, nella vita, esiste una dualità pratica, un'antinomia tra sensibile e sentito, presente non come conoscenza, ma come coscienza; ed è questa la posizione in cui ora ci dobbiamo mettere se vogliamo comprendere anche il fondamento del criterio per cui si può parlare conoscitivamente d'un soggetto distinto dall'oggetto.

Io dico intanto che una sensazione, anche presa per sè stessa (cioè vissuta), e rifiutandone le suggestioni rappresentative che ce la fanno diventare un oggetto (concettualmente), già si presenta dualizzata in contenuto e forma, in realtà (come esistenza) e valore (come coscienza). Prima d'esser, conoscitivamente, rapporto – e cioè accordo teoretico – di soggetto e oggetto distinti, è antinomia pratica di sensibile e sentito realmente uniti.

Una sensazione, per ipotesi, prima ed unica di amaro, mentre è presente, mentre esiste – e, potremmo dire, si afferma (è necessaria, è in sè) – perchè è quel tal amaro così dato, si nega e s'oppone a sè stessa perchè sentimento spiacevole, spontaneità del desiderio che vuol liberarsi, trascendentalità del volere su l'essere che pur n'è l'esistenza. In somma, la vita ha un fine – e lo deve quindi avere tutto l'Essere che si attua nella nostra vita –: si acciechi questa finalità d'ogni sua rappresentazione, cioè d'ogni suo contenuto oggettivo e si denomini obbiettivamente, naturalisticamente, «istinto» o «impulso», ebbene, l'impulso è soggettivamente il bisogno che sentiamo di trascendere la sensazione sentita, natura del volere. Vivendo una sensazione, sentiamo il sensibile con un dislivello morale, che non è ancora una differenza reale, una conoscenza teoretica, ma già è una conoscenza pratica, un valore dell'esistenza che supera l'esistente, sentito come coscienza. La coscienza – anche se, a questo livello, la si chiama «inconscio» perchè non ancora conoscenza teoretica – è l'io che s'afferma negando il non io, si afferma come trascendentalità del valore su l'essere, libertà del volere sulla necessità del dato di fatto.

8. – Parole troppo grosse, adoperate a proposito d'una semplice e povera sensazione d'amaro? La filosofia impiegò il termine «trascendente» con significato ontologico trascendenti sono quei valori – e primo fra tutti il valore di realtà – che affermiamo assoluti, indipendenti dal nostro io empirico e universali: l'essere in sè del mondo (la «cosa in sè») e il dover essere assoluto dei valori morali (Dio). Tutta la nostra esperienza esterna e interna, tutto ciò che conosciamo e che vogliamo, perderebbe ogni significato e ogni valore, se non fosse misurato per mezzo di qualcosa d'assoluto da cui dipenda e per cui sia conoscibile razionalmente e giustificabile idealmente. Non soltanto, in generale, non potremmo affermare vera una cosa o buono un atto se non vi fossero verità e bene in sè, ma anche particolarmente, un fenomeno rinvia alla sua causa e questa ad altra fin a una causa prima e assoluta, e una norma rinvia a un dovere assoluto che le fornisca il diritto d'impero.

Davanti a questa evidente necessità di dover spiegare e giustificare il relativo dell'esperienza con l'assoluto trascendente, il molteplice e vario dei fenomeni con l'une noumenico, che anche il nominalismo e l'empirismo hanno sempre dovuto riconoscere, o ci si rannicchia nella comoda casetta dell'agnosticismo, definendo l'assoluto sol per negazione di tutti gli attributi positivi o dichiarandolo illusorio e soggettivo (ma non è questo un assoluto, sebbene scettico, relativismo?); ovvero si cerca per altra via il rapporto fra noi e il mondo trascendente, immanentizzandone i valori.

Tal via può essere quella della «reminiscenza» platonica, o della grazia, o della consunstanzialità dell'anima umana e di Dio, o della partecipazione occasionale ecc.; ma son sempre mezzi mitici d'esplicazione d'un fatto, presente anche nella più modesta conoscenza empirica, la quale implica vi sia qualcosa in sè da conoscere e un corrispondente «principio» innato della conoscenza. Allora il Kant, come tutti sanno, rapì il trascendente all'ontologismo dogmatico e lo trasformò nel «trascendentale» psicologico, che definisce la forma conoscitiva e non più certi suoi contenuti, «inconoscibili» appunto perchè trascendenti. Secondo Kant, la trascendentalità è del pensiero e sta nel valore formale della conoscenza. Ma che cosa significa «forma» per un kantiano? Io l'interpreto così:

Il pensiero, astratto da' suoi oggetti – o meglio, opposto (praticamente) a' suoi contenuti empirici –, ci apparisce (io direi «lo sentiamo») come coscienza d'una libera e spontanea attività, a priori e formale: a priori perchè pura e indipendente (in quanto opposta ai contenuti oggettivi); formale perchè capacità conoscitiva, ragione. Infatti, se ora volessimo esprimere questa purezza, se volessimo attuare, in un giudizio, questa potenza, enunceremmo un di quei «principii di ragione», che vedremo totalmente a priori poichè definiscono la categoria stessa nella sua universalità e necessità.

La cosa è ben evidente se noi, non avendo più da sbaragliare un precedente razionalismo (realista o nominalista che fosse, cartesiano od humiano), invertiamo l'ordine della critica kantiana, incominciando dal dedurre la forma pratica della ragione. Lasciàmo che la nostra volontà, l'«io», si liberi totalmente, com'è sua natura, dall'esperienza empirica; lasciàmo che il pensiero, che n'è la coscienza, corra liberamente e spontaneamente alle sue ultime mete, che ne diverranno la conoscenza puro pratica: avremo un pensiero soltanto formale, che non ha bisogno (come la conoscenza teoretica) di relativizzarsi ai contenuti empirici e prende, per così dire, a contenuto la sua stessa forma, oggettivandola nella legge morale. La forma del pensiero puro pratico è dunque la norma in universale, il «dover essere» assoluto, che il volere prescrive a sè stesso obbiettivandosi in una legge, per applicarla poi come criterio del giudizio morale a proposito di qualsiasi contenuto empirico, e come norma di qualsiasi azione umana.

L'autonomia del volere, soggettiva come spontaneità del sentimento, cosciente come antinomia pratica fra ciò che il volere vuole e ciò che è il sentito, si oggettiva determinandosi conoscitivamente come legge, dovere. Il «dovere» non è dunque più una spiritualità trascendente e in sè (il Dio ontologico), ma una forma della ragion pura, una «idea trascendentale» immanente nello spirito umano, anzi «nel cuore»! È a priori perchè da nessuna particolare esperienza la potremmo dedurre come nessuna la potrebbe esaurire; è formale perchè obbiettivata in un imperativo assoluto, unico modo col quale l'io, il volere, si può oggettivare, si può conoscere, rimanendo puro volere, soggetto senza oggetto: la conoscenza pratica è normativa e non costitutiva dell'esperienza. Quando poi andiamo a cercare per via teoretica quale possa esser l'origine della norma etica, non troviamo di fatto che l'«esigenza» della libertà del volere: la volontà dev'esser libera di dettarsi la sua propria norma perchè vuol esserlo.

Su questo punto, per ora, la critica può soltanto concludere, che il volere trascende sempre l'essere esistente nel dover essere, determinandosi in un rapporto teleologico, che subordina i contenuti (come mezzi) al fine formale, il quale ne costituisce il valore. Valore e fine, nell'uso pratico, coincidono. Essi non esprimono la realtà d'una rappresentazione o d'un concetto, ma la trascendentalità del volere, l'idealità dell'idea. Voglio dire che nel rapporto pratico di soggetto a oggetto – rapporto che, ricordiàmolo, non è di due cose o di due proprietà oggettive, come i rapporti teoretici di sostanze e di cause, ma è d'antinomia implicita nella stessa attività pratica, ed esplicita nel pensiero o conoscenza di questa coscienza l'oggetto (che poi diremo) reale, e il soggetto stesso in quanto realmente esistente, sono adoperati come mezzi e relativizzati come contenuti conoscitivi al fine soggettivo, il quale ne misura il valore.

Sia dato un sentimento, un affetto, un interesse qualunque: son date nel contempo altrettante finalità, implicite nella reazione pratica, concreta e diretta, esplicite nel pensiero pratico che valutando, scegliendo, deliberando, determinerà (nel proposito) i fini e i mezzi dell'azione. Il pensiero pratico giudicherà i valori e i disvalori degli oggetti secondo che questi (e quindi anche gli atti) sono in accordo o in antinomia col fine ideale. Naturalmente, si costituisce in tal modo una gerarchia di fini, più o men coerente e consapevole, sentita come individualità (persona, in opposizione all'ambiente) e carattere (in opposizione alle stesse volizioni proprie spontanee), dove il fine superiore subordina e giudica quello inferiore. Ma la scala dei valori è l'ascesa del volere, del soggetto, a una posizione puramente formale della ragion puro pratica definibile sol idealmente, ove il fine supremo diviene il valore noumenico e la perfetta autonomia coincide con l'obbligatorietà assoluta della legge universale.

La grande innovazione kantiana sta in questa posizione pratica e romantica, alla quale deve risalire ogni «filosofia dei valori». Il valore d'un fenomeno qualunque non è nel fenomeno, che li può rappresentare tutti: è nel noumeno, nel pensabile di tal fenomeno, riducibile alla forma o idea pura in cui si attua conoscitivamente il fine del volere in antinomia col fenomeno dato. I valori son dunque dei puri pensabili di ragion soggettiva, ossia pratica, anche se oggettivati in idee trascendentali e in norme e leggi universali; del resto, ideale e formale non è solamente il valore supremo (l'idea del bene e l'imperativo categorico), ma lo son ugualmente, quantunque subordinatamente, le idee di utile, di giusto, di santo ecc. Il soggetto, non come fenomeno tra i fenomeni, ma come forma del volere e valore d'ogni fenomeno – cioè come spirito – è ormai al centro dell'essere. L'essere stesso è tale, ha il valore d'un essere, non in quanto appare fenomenicamente, ma in quanto dev'essere qualcosa d'assoluto, di noumenico, in antinomia col suo apparir fenomenico: la «cosa in sè».

9. – A questo punto l'attività e il pensiero pratico si converton in attività e pensiero teoretico. A meglio considerare, non si tratta d'una conversione ma d'una reciproca implicanza e corrispondenza de' due «usi» della medesima attività. Teoretica e pratica non costituiscono due attività ex aequo di un mitico spirito sottoposto: se ora ne parliamo teoreticamente – se a nostra volta siamo teoretici perchè vogliamo conoscere la realtà oggettiva di tali «fatti» della nostra esperienza «interna» –, esse ci appariscono intanto una sola attività, dipendente dal volere dell'individuo empirico, la quale, perchè attività volontaria (determinazione teleologica), è sempre pratica, essenzialmente pratica. Dico che, empiricamente parlando, l'attività (e quindi la conoscenza) teoretica non ci rappresenta altro che un caso dell'attività pratica: il caso in cui vogliamo appunto conoscere oggettivamente gli oggetti reali – oggettivare l'oggetto – interpretando il sensibile e ad esso relativizzando gli altri fini del nostro volere. Proprio perchè il volere, per la sua natura sentimentale è impulso a trascender l'esistenza attuale e quindi a modificare l'essere reale (compreso il suo proprio essere empirico), è nel medesimo tempo costretto a conoscere questo essere com'è, oggettivamente. Proprio perchè aspira al dover essere, deve, per attuarlo, fare i conti con l'esistenza e conoscerne la necessità e le leggi; deve, sia pur temporaneamente, adeguarsi al reale, per modificarlo e per servirsene ai fini pratici.

Naturalmente, come la valutazione pratica d'un oggetto, per es. utile, è pensiero pratico che valuta e sceglie tal oggetto come mezzo, conveniente o meno ai fini utilitari e soggettivi, per cui il mezzo temporaneamente diviene un fine pratico – legge della conversione dei mezzi in fini, costante in ogni attività pratica e tanto più, quanto più ricca e complessa è la vita –, così la conoscenza teoretica, nata dal bisogno di valutare oggettivamente l'oggetto perchè sia mezzo all'attuazione dei fini pratici, diventa fine a sè stessa, diventa sapere oggettivo e scienza, da cui il soggetto volontario («emendato» come amore e desiderio di sapere) vuol eliminare quanto vi sia di soggettivo e finalistico. Ma insomma, l'attività teoretica non cessa d'esser pratica, almeno in quanto non lo vuol essere! (Di qui l'errore del prammatismo filosofico: dalla constatazione di fatto, che la conoscenza teoretica ha origine, come esperienza e come scienza, nei fini pratici ai quali deve servire di strumento per la loro migliore attuazione utilitaria, inferisce che il vero, come valore reale costruito nella conoscenza, sia soggettivo e pratico in sè. Ma, proprio praticamente parlando, il vero non dev'esser soggettivo... Altrimenti, anche il prammatismo sarebbe un concetto solo conveniente; e a che scopo?)

La critica pertanto conclude, che un valore è soggettivo in quanto è un fine del volere, in quanto è pratico. Nel contempo deve però riconoscere, che il valore d'una cosa o d'un atto qualunque, per quanto soggettivo – per quanto cioè relativizzi i contenuti (la cosa e l'atto valutati e scelti) alla forma (alla norma e al fine soggettivo del volere) – non sarebbe nè un valore nè un fine, se non si riferisse e in qualche maniera non si relativizzasse a sua volta a tali contenuti; che l'attività e il pensiero pratici devon esser pratici di qualche cosa, «idee» di qualche «concetto»; che infine un valore, una forma, non son valore senza realtà, forma di niente. Per esempio, l'utilità di nessun (oggetto o atto) utile, il fine di nessun mezzo, non sono più nè utilità (valore) nè finalità: si riducono al piacere, ch'è un sentimento, un semplice fatto psichico. E il giudizio pratico, quello che i logici chiamano «giudizio di valore» perchè appunto valuta la convenienza, giustizia, eticità, santità di qualcosa o di qualche azione, deve potersi esprimere col verbo «è» proprio al pari d'un giudizio «esistenziale», o meglio, dev'essere anch'esso un giudizio esistenziale (del valore); se no, che giudizio sarebbe? la proposizione esprimerebbe unicamente il desiderio o la preghiera o il comando e, in una parola, il soggetto, ma non sarebbe una sintesi conoscitiva.

Ritornando al Kant, egli non ha punto separato il teoretico dal pratico, come si suol facilmente credere, ma soltanto i lor usi e il loro dominio; e questi non li ha divisi teoreticamente, oggettivamente, ma opposti per antinomia pratica.

Mi spiego. Se chiediamo all'etica kantiana, «che cosa sia» il bene o il dovere, il Kant corregge subito l'errore della nostra domanda (teoretica) rispondendoci che cosa essi debbono essere per valere come idea e come legge morale. Ossia, egli, per fondare i valori pratici, si pone nella pratica, esigendo l'autonomia e l'incondizionalità assoluta dell'imperativo morale, anche se teoreticamente riconosce che nessun'azione umana si può di fatto determinare secondo la pura ragion pratica. «Fa' il tuo dovere, avvenga che può!» è una norma, una determinazione pratica, non è una conoscenza teoretica; se ci chiedevamo invece che cos'è il dovere teoreticamente, la risposta non avrebbe più determinato il dovere, ma spiegato il potere, l'accordo del dovere con l'essere, e non sarebbe stata questione morale, ma psicologica e storica.

Lo stesso si dica degli altri valori soggettivi, dei valori che coincidono coi fini. Se si vuol parlare del soggetto, bisogna rimanervi dentro: posso giudicare d'utilità e di politica, di diritto e di religione, sol restando uomo economico, politico, civile, religioso; se invece voglio conoscere la realtà d'uno di questi fatti, ne istituisco la diagnosi e la storia ponendo fuori causa il mio soggetto, i miei interessi e le mie esigenze pratiche. Allora relativizzerò quel che prima avevo antinomizzato, unificherò ciò che avevo diviso. La storia vuol e dev'essere sapere per eccellenza oggettivo e teoretico: pur constatando che noi non «comprenderemmo» la storia se non rivivessimo soggettivamente i fini e i valori umani che vi si realizzano – poi che il soggetto non si trasmette per rappresentazioni come l'oggetto reale, ma rivive simpateticamente –, la storia ricostruisce e valuta la loro realtà di fatto; anzi, è il fatto, il contenuto quello a cui domandiamo le suggestioni che ci consenton di rivivere lo spirito dei tempi.

Ma, in sede filosofica e critica – riflessione sui valori stessi e non sui lor contenuti sensibili – non possiamo certo divider più la pratica dalla teoretica, il mondo noumenico dalla conoscenza fenomenica, il dover essere (pensabile) dall'essere (esistente), chè sarebbe un divider la forma dal contenuto: essi infatti s'oppongono per antinomia pratica, ma ritrovan nei contenuti e debbon ritrovare nella forma l'unità reale dei valori. La ritrovano (o meglio, noi la formiamo) nei contenuti, perchè, come s'è ora detto, il fine si attua in un sensibile, il valore vale di qualche cosa, e il dovere stesso assoluto ha bisogno di essere e per essere di subordinarsi al poter essere, alla conoscenza teoretica causale: è un primo modo, empirico, con cui l'attività teoretica, sorgente come mezzo del volere pratico e quindi subordinante i propri valori agli interessi e ai fini pratici (relatività dell'oggetto al soggetto), a sua volta relativizza e (almeno temporaneamente) subordina le finalità soggettive alla realtà oggettiva.

Ma ancor prima, per il Kant, l'unità dei valori si trova – e questa volta a priori – nella trascendentalità della forma, nell'idea pura. Schematizzando, è la medesima «ragion pura» quella che determina i valori etici come idee noumeniche, mentre determina le categorie, i concetti formali per la conoscenza reale. La ragion pura non è che il principio della conoscenza in genere, l'a priori per mezzo del quale affermiamo le «idee» e costruiamo i «concetti», in antitesi pratica o in accordo teoretico con l'esperienza. Tal principio, definibile come «dover essere» necessario e universale – che, applicato, diviene assolutezza e unità oggettiva –, come spinge il soggetto empirico al dover essere ideale, così dirige le esistenze sensibili alle unificazioni reali; è tuttavia evidente, che il reale è sempre un dover essere (uno e assoluto) dell'esistenze empiriche – che il reale è ideale –, e che, d'altra parte, il dover essere dev'essere in sè, oggettivamente (necessario e universale), dev'esser cioè reale... Anche il Bene, soggettivo, per essere, come vogliamo che sia, «vero bene», deve conciliarsi alla fine con la legge dell'universo (stoicismo), e il fine soggettivo deve coincidere coi valori universali.

10. – È forse con ciò risolto il nostro problema, il problema del rapporto di soggetto a oggetto, di forma a contenuto, di pensiero a sensazione, di valore della realtà a realtà del valore? Sì, il Kant lo risolve, ma praticamente, unificandoli nel dover essere; teoreticamente, egli ne dichiara impossibile la soluzione, appunto perchè la conoscenza teoretica non può nè vuole superare l'esperienza; appunto perchè il noumeno, il trascendente, lo si deve affermare praticamente ma non lo si può conoscere teoreticamente, per concetti. Questa soluzione romantica appaga la fede, non la «dottrina» religiosa; e tanto meno la filosofia, la quale se, come accennammo, sente fortemente la spinta delle esigenze pratiche e dei valori umani, vuole però, appunto perchè umanesimo, razionalizzare gli stessi suoi sentimenti. Debbo però immediatamente soggiungere, che il Kant alla fine, nella sua estetica, avviò il romanticismo (e specialmente lo Schelling) alla soluzione anche teoretica del problema, e sarà questa la via che amplieremo nelle nostre conclusioni. Per intanto conviene sostare a ricapitolare le nostre idee.

Allorchè riflettiamo sulla nostra esperienza e sulla nostra scienza, dobbiam convenire (la necessità di questo «dobbiamo» è un sentimento di certezza obbiettiva da mettersi in discussione con tutto il resto: prendiamola dunque provvisoriamente) che tutta quanta si può ricondurre a un rapporto di soggetto a oggetto, implicito nella sensazione, esplicito nel pensiero in cui divien valore. Questo rapporto io lo chiamo «pratico» per definire così la natura o realtà esistenziale di tutti i valori che per esso si costituiscono; salvo l'obbligo che n'incombe poi di determinare lo stesso valore teoretico del concetto di natura rispetto alla soggettività o praticità essenziale del pensiero.

Ma in una pura sensazione, come quella dell'ipotesi a paragrafo 7, soggettività e oggettività coincidono e, per così dire (lo disse il nostro Galluppi), sono prova l'una dell'altra. Invero, una prima e unica sensazione d'amaro – e quindi ogni sensazione per sè stessa – non rappresenta ancora nulla, nè una cosa amara fuori di noi, nè una persona amareggiata da essa; non è una conoscenza (mediata). Se una statua acquistasse per prima quest'unica sensazione e fin che permanga, «amaro» non sarebbe altro che quello che è, ad «essere» qui non potrebbe significare altro che l'esser presente intuitivamente, l'esistere. «Sensazione», per esclusione di tutti gli altri valori, significa per tutti i pensanti appunto ciò: esistenza presente, esperienza intuitiva, esser noi l'oggetto stesso e viceversa (partecipazione al mondo).

L'esistenza sensibile, per es. questo amaro, bisogna infatti viverla (bisogna «esserla», direi!) perchè l'amaro sia amaro. Se con questo esempio facciamo un'ipotesi semplice, essa non è però astratta; anzi, vogliamo definire il concreto di tutti i valori, che per sè presi sono fini astratti e idee formali, Noi diciamo, è vero, che quella statua esiste prima d'aver la sua prima sensazione amara; essa esiste in sè e anch'essa è quello che è, molecola per molecola, atomo per atomo: tuttavia questa esistenza in sè (oggetto) è presunta, ed è presunta da noi che vediamo e tocchiamo la pietra e, prescindendo dal nostro soggetto (non dal vedere e dal toccare, prego!), la stimiamo esistente fisicamente, la conosciamo come realtà fisica. In mancanza di qualunque soggetto, l'esistenza di quella pietra sarebbe come se non fosse, ossia non sarebbe un «valore», nemmeno reale. Perciò appunto siamo ricondotti a cercare la realtà di quell'esistenza nel caso che la statua «si senta» esistere, e, prima che il bianco il duro il liscio ecc. divengano contenuti della conoscenza d'un altro soggetto che li oggettiva nel concetto di pietra esistente in sè, sia essa questi contenuti, esista sensibilmente.

La sensazione non è (soltanto) oggetto – lo dovrebb'essere per un altro soggetto –, nè (soltanto) soggetto – che non esisterebbe di nessun oggetto –; è il loro concreto rapporto, la coscienza originale. Non si tratta (lo debbo ripetere?) d'un rapporto oggettivo, come somiglianza e differenza, spazio e tempo, sostanza e causa ecc.: si tratta dell'antinomia pratica di sensibile (e) sentito, da cui dipenderanno poi anche quei rapporti teoretici, affermati o negati, necessariamente o condizionalmente, secondo la «modalità» con cui appariscono al soggetto, e resi così veri o falsi per mediazione conoscitiva. (Per prendere un esempio, la somiglianza è affermata come identità e negata come contraddizione nel giudizio oggettivante).

Nemmeno si deve intendere il rapporto sensibile di soggetto oggetto, e lo stesso «Antinomismus» in cui lo facciamo consistere (o meglio, «valere»), come una mediazione hegeliana de' due termini, che è già mediazione conoscitiva fra le relative idee di soggetto e oggetto affermate da un'autocoscienza che n'è ormai fuori. La mediazione dialettica è lo esplicarsi teoretico dell'antinomia pratica, ma non è più l'opposizione attuale (assoluta) implicita nel dato stesso, alla quale vogliamo qui risalire.

Analizzando la pura sensazione – senza superarla in rappresentazioni di qualcos'altro (nel qual caso analizzeremmo invece la percezione, la conoscenza) –, il sensibile resta quello che è, l'esistenza o presenza per es. d'un sapore amaro, ed è un non senso duplicarlo in un secondo amaro soggettivo, trasformazione altrettanto misteriosa quanto assurda del primo, che nel caso non esisterebbe. La «coscienza» di quest'amaro sensibile è il disgusto di tal sapore; meglio ancora – poichè un sentimento è la sensazione stessa (salvo a riferirla, in ciò, alla sua parte organica) –, la coscienza è l'antinomia del sentito nel sensibile, la praticità della sensazione di fronte alla sua stessa esistenza intuibile, il «principio» sentimentale (naturale) del volere.

«Ci accorgiamo» d'una sensazione perchè in qualunque modo la sentiamo, la soffriamo; sol per questo l'avvertiamo arche come esistente, la intuiamo realmente. La reciprocità di pratico e teoretico c'è già implicita nella coscienza sensibile e diviene il principio della conoscenza o pensiero esplicito. Che cos'è e che cosa vale una sensazione d'amaro quando non v'è altro che quest'amaro? Evidentemente, essa vale in quanto è spiacevole; il dolore è il valore pratico (soggettivo) dell'esistenza: valore, non perchè dolore, ma perchè questo spinge l'esistente a uscire di sè – come volere – e a «fare», ossia a mutare e divenire, realmente (oggettivamente) in quanto trovi le condizioni adatte, idealmente (soggettivamente) in quanto rappresenti un fine che trascende la sensazione, sua stessa esistenza. Ma nel contempo, quel dolore è coscienza intuitiva del suo esistere, come dell'ostacolo, della necessità reale, per es. dell'esserci un amaro, che vuol superare: è affermazione reale di ciò che nega sentimentalmente.

Pertanto, considerando, naturalisticamente, il «fatto» d'una sensazione, dobbiamo tuttavia ammettere ch'essa non è, come un atomo o una monade astratta, chiusa e finita in sè stessa; mentre si afferma (si scopre, si accetta) come necessità presente, vale dunque realmente per negarsi e trascendersi praticamente, come volontà e aspirazione all'essere totale e perfetto. Trascendenza e immanenza son termini psicologici e correlativi (non son termini ontologici): il primo indica il valore soggettivo e pratico dell'esperienza, il secondo la natura di tal valore, la sua esistenza sensibile.

Difatti, una sensazione è spontanea, è attiva: «diviene». Per restare alla semplicità del nostro esempio, il sapore amaro, in cui per ipotesi consisteva tutto l'essere della statua destata a vita, e con esso quindi l'essere universale (non esistendo ancor niente altro), produce, perchè spiacevole, un atto di difesa, ossia una seconda sensazione appagante. Come e perchè ciò avvenga di fatto – come la sensazione sia motoria – è problema biologico che a noi non interessa. Perchè il dolore della prima sensazione la «spinga» a mutarsi in altra, e come, in generale, il volere introduca un finalismo nell'ordine delle cause naturali producendo degli atti e, in genere, adoperando le forze naturali come mezzi a' suoi fini, è un problema che sembra insolubile sol perchè qui è insussistente. Qui, quel dolore e quel volere psicologico non sono una realtà esistente fuori della lor natura sentimentale e organica; scientificamente si tratta sol di chiarire le leggi biologiche dell'adattamento (memoria ed eredità) per cui un impulso si attua in una certa direzione. Il problema della finalità non è il problema del suo realizzarsi, del suo essere, ma quello del suo valore, del dover essere in antinomia alle condizioni reali del suo attuarsi; è un problema metafisico.

11. – I valori impliciti nella sensazione – la presenza o esistenza sentita come necessità (intuizione reale) e la trascendentalità sentita come libertà (spontaneità del volere) – si esplicano nel pensiero, che li costruisce conoscitivamente in precetti e concetti oggettivi e in idee e norme soggettive. Il passo non è tanto difficile quanto la psicologia delle facoltà occulte può far credere: basta che una sensazione non possa uscir di sè stessa e divenire una nuova sensazione appagante, basta che il volere incontri un limite – e la nostra esperienza, per quanto ricca, è sempre limitata perchè sensibile –, ed ecco che s'accende la luce dell'intelligenza che ci aiuta a varcar quei confini, prima praticamente poi teoreticamente; ecco che il volere si attua in volontà e cosciente e o meglio conoscente (mentre che l'atto pratico si muta in attenzione o atto teoretico) e si rappresenta il fine oggettivo come si rappresenta l'oggetto stesso.

La costruzione percettiva degli oggetti è così remota e abituale che, come osservò il Kant, noi non ce ne accorgiamo più, ossia non ne sentiamo lo sforzo attentivo e la soddisfazione del risultato raggiunto; perciò, di solito, il pensiero si fa cosciente di sè nel caso opposto, allorquando è la ricchezza stessa dell'esperienza umana e civile quella che c'induce a una valutazione e a una scelta fra i plurivoci oggetti o fra i plurivoci fini del nostro desiderio; ovvero quando, come nel caso della scienza e del sapere disinteressato, mettiamo in dubbio le nozioni già possedute, in quel «thaumàzein» aristotelico, in quel contemplare e dubitare, a cui segue quale attività appagante l'«exetàzein» dell'investigazione oggettiva.

Ma, per il nostro discorso, che vuol essere schematico per riuscir chiaro, basta che una sensazione esista e permanga perchè si dualizzi e divenga pensiero, facendosi, per così dire, contenuto a sè stessa. Ora, che cosa dobbiamo intendere per forma e contenuto del pensiero? Questi termini, forma e contenuto, sono particolari della logica, ossia del pensiero teoretico, dove, come vedremo, vanno intesi come condizioni astratte del pensare piuttosto che come realtà del pensiero esistente nella lor unità di fatto. Parlandone in concreto, è meglio parlare di fini e valori, perchè questi termini riguardano appunto la sua natura pratica e soggettiva.

Se una sensazione amara permane invece di trasformarsi automaticamente in altra di sollievo, il volere – e cioè il sentimento di questa sensazione in quanto è impulso ad uscirne –, non trovando un atto, ch'è poi una nuova sensazione (motoriale) appagante, la cercherà, rappresentandosela, almeno, come non amaro: negando l'amaro. E, in generale, il volere si rappresenterà il fine (la felicità soggettiva, il bene oggettivo) almeno negativamente, rifiutando l'esistenza presente; nel che già si contiene un giudizio di valore, sia questo espresso nell'urlo del ferito come nella protesta ascetica del misticismo filosofico attingente Dio per negazione di tutti gli attributi finiti.

Negando (rifiutando, svalutando) la sensazione, s'afferma la volontà, il soggetto, ma lo si afferma come fine e valore, i quali, praticamente, coincidono. La rappresentazione, almen negativa, d'una finalità trascendente il sentito è fondamento del criterio per valutare e scegliere i mezzi, cioè a dire per valutare (conoscenza pratica) l'esperienza sensibile: nel caso più semplice, negandola; nel caso abituale, che presuppone la precedente esperienza, subordinandola a una norma in cui ci rappresentiamo il volere, il soggetto. Intendo dire, che la conoscenza pratica relativizza l'oggetto – a sua volta relativo al sensibile – al soggetto; e in quanto anche la conoscenza teoretica è volontaria e pratica, ponendo il suo fine in un dover essere in sè del dato sensibile, si spiega perchè chiami poi soggettivo il sensibile: soggettivo in relazione all'oggetto assoluto, al dover essere trascendente che «noi» postuliamo. Le due relatività s'invertono dai due punti di vista della conoscenza, pratica e teoretica.

Ma, per venire a quest'ultima, pur rimanendo alla nostra semplificazione schematica, mentre che il volere rifiuta e nega praticamente la sensazione, affermando per antinomia il soggetto come fine e valore, afferma anche teoreticamente l'oggetto come necessità esistente, alla quale la sua spontaneità non si vuole ma si deve adattare. Un sapore amaro apparisce necessità presente, «esterna» al volere (perchè non lo vorrebbe), «objectum» a quel suo stesso sentimento ch'è «subjectum» per il volere. Così sorge la conoscenza teoretica. Stringendo le somme, questa non è che la conoscenza dei limiti della conoscenza in universale, ossia del voler conoscere (pratico), come ha visto la filosofia della «docta ignorantia».

Infatti noi distinguiamo la conoscenza teoretica (l'«intelligenza», come si diceva una volta) dal pensiero pratico (la «volontà») proprio perchè nella prima il valore sembra non coincider più col fine, l'uno essendo oggettivo e reale (universale e necessario) in confronto dell'altro, che quindi appar soggettivo e ideale. Se percepisco l'amaro coma una cosa amara, o se lo concepisco come p. es. la proprietà chimica d'una materia e simili, se cioè mi rappresento il sensibile in una unificazione oggettiva nella quale esso acquista il valore di reale, questo valore non coincide più affatto col fine soggettivo, rappresentato negativamente dal non amaro e positivamente dal dolce o da altra simile idea del desiderabile; anzi c'è antitesi fra i valori pratici che amaro e dolce prendono nel giudizio di valor pratico – dove sono contenuti di una forma soggettiva (finale), che li accetta o li rifiuta secondo la loro convenienza e relatività al fine del volere e ciò che pur si deve chiamar valore (e lo diviene per eccellenza), il valore di realtà, che come esistenza necessaria s'oppone alla libertà del fine desiderato.

È questo un punto delicatissimo, che richiede tutta la nostra attenzione. Anche la realtà, l'oggettività d'un oggetto dato – per es., almeno, la necessità di questo amaro –, quantunque non si concilii con l'attuale fine soggettivo, esplicitamente pratico, è tuttavia un valore in rapporto al soggetto volontario. Lo è implicitamente, di fatto, perchè dolore di quel piacere ch'è fine del volere empirico; lo è esplicitamente, come «costruzione» conoscitiva, che trascende il dato sensibile, come i fini pratici trascendono il dato sentito.

La prima realtà (teoretica) di quest'amaro è la sua necessità o presenza, che immediatamente vale – per il volere che la vuol trascendere «a parte subjecti» (dalla parte del sentimento) – come una alterità, un dover essere indipendente dal sentimento stesso volente, e quindi una trascendenza «a parte objecti». Il sensibile è esistente se esiste in sè; è esistente perchè deve esistere per esser presente; la conoscenza del suo essere dipende dunque da un postulato a priori, la «cosa in sè» kantiana, e tal valore a priori non è che la coscienza dell'assoluto, col quale il volere empirico si sente però connaturato e parte limitata nella sensazione.

Inoltre, proprio per questa coscienza del dislivello fra l'esistere e l'essere – fra l'essere esistente e la sua conoscenza come dover essere in sè –, la conoscenza teoretica si rappresenta le cose e i fatti nelle unificazioni percettive e concettuali, che postulano l'unità del dover essere, ciò che il Kant chiamava «appercezione trascendentale», valore a priori che sta a fondamento di tutte le categorie. Ma postulato significa finalità: quella finalità che trascende anche i fini pratici empirici e li comprende, tanto che li limita nella conoscenza teoretica e li dirige come attività unitaria teoretico pratica. La questione dunque verte soltanto sul fatto, che i fini stessi (e le corrispondenti attività) si antinomizzano anche nel pensiero: l'uno, relativizzandosi all'esistenza, forma i percetti e i concetti dell'essere; l'altro, riguardo allo stesso esistente, ma in antitesi pratica, forma le idee del dover essere, alle quali il primo si relativizza. Anche i concetti reali sono deontologici; ma il pensiero ritornando dalla pratica alla teoretica per conoscere, per comprendere anche sè stesso come parte dell'essere, per razionalizzare i suoi stessi fini pratici – come già praticamente vi deve ritornare per «fare», per trasformare il reale per mezzo delle stesse sue leggi obbiettivamente conosciute –, trova che il suo relativizzarsi al sensibile, l'esperienza, per quanto limitata e parziale, è tuttavia l'unico modo per realizzare il soggetto, per provare il valore di un fine, per «scoprire» in natura quell'unità che garantisca l'unità del dover essere, che ognuno potrebbe «inventare» con una formuletta qualunque, totalmente a priori, come in logica o in matematica. È questione di dar valore a una parola o ad un segno (p. es. al segno =); ma anche questo è un sensibile: perchè, a che condizioni può acquistare un valore reale?

Le unificazioni reali nei concetti di natura, e in generale la conoscenza teoretica, riducendo il soggetto a oggetto, e riportando le finalità soggettive alle leggi oggettive, non uccidono lo spirito, la trascendentalità del valore? E in tal caso, come potranno esse medesime essere valide? Non sono prodotti di quel soggetto, di quel pensiero, che unifica i sensibili appunto perchè li ha trascesi, appunto perchè è pensiero e non sensazione? La filosofia, a queste eterne domande, non può rispondere che ripiegandosi sopra il pensiero stesso teoretico e diventando gnoseologia.

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