1. – Abbiamo così messo il piede sopra la soglia dell'estetica, intesa questa come critica del bello in particolare e teoria dell'arte. Questa arte della critica filosofica riflette su l'attività estetica allo scopo di cercare il fondamento al criterio valido per ogni giudizio estetico. Se io affermo ch'è bello un paesaggio o un quadro, e se implicitamente un giudizio analogo guidava la mano del pittore, ci dev'essere un principio a cui farne risalire la ragione o il torto, ci dev'essere un valore in cui consista il fine e quindi la norma dell'opera d'arte e da cui dipenda il piacere della contemplazione del bello. Perchè asserire a priori che l'estetica non debba servire all'arte e alla critica d'arte, sol perchè è filosofia? Anzi, a priori, gli artisti e i critici di letteratura e d'arte hanno tutto il diritto d'aspettarsi dagli estetisti l'orientamento per i loro giudizi e di dichiararsi poi insoddisfatti di quella filosofia, che non sia riuscita a dargliene uno convincente.
Certo, l'estetica filosofica non può «servire» al criterio d'arte nel significato comune di quel termine: vale a dire che non può sostituire l'attività o anche la sensibilità estetica quando manchino; non può essa fornire i fini e i mezzi attuali dell'arte creando le capacità e il gusto estetico. Allo stesso modo che la logica non serve a ragionare e l'etica a operar bene: in tal senso, la filosofia non serve a niente... Ma come queste due parti della filosofia dànno al pensiero teoretico e pratico la consapevolezza dei fini e dei mezzi, dei limiti e delle condizioni, delle distinzioni e dell'unità de' suoi valori, e appunto servono a illuminarci circa il principio formale di quei contenuti e atti, sul quale fondare il criterio per giudicare della lor realtà o bontà, così l'estetica è chiamata a illuminare e dirigere l'attività estetica come una norma può e deve dirigere una qualsiasi attività, universalmente e non particolarmente. Laddove invece una filosofia che non sia applicabile al concreto e non si possa trasformare in norma di vita, ritorna ad essere essa medesima un fatto della vita (per es. il piacere di ragionare per ragionare, magari in correttissima terminologia filosofica, visibile nel dilettantismo filosofeggiante o in certi libri di paranoici), distaccato dagli altri e accanto agli altri.
La filosofia spesso ha deluso le esigenze estetiche per altre ragioni. Di solito considerò questo problema come secondario e subordinato a quello teoretico e a quello pratico, e violentemente lo trascinò a seguir le sorti delle soluzioni di questi altri problemi e quasi a venir riassorbito in essi: ora travolto dal rigorismo etico sotto le onde dell'iconoclastia, ora ridotto dall'intellettualismo teoretico a formar quasi una gnoseologia minore: il valore estetico si perdeva durante la stessa ricerca. Basta che il filosofo continui, per tradizione o per abito mentale (raramente egli è «artista»; più spesso è soltanto un po' «letterato»), a riguardare l'estetico dal punto di vista d'un altro valore – per esempio, logico –, perchè gli diventi impossibile giunger più a una positiva conclusione estetica: sia che svaluti la bellezza e l'arte chiamandole illusione, imitazione, fantasia, soggettività; sia che ponga l'arte in cima a tutte le umane potenze, quasi il fiore dello spirito, dichiarando che il bello è rivelatore del mondo assoluto, o anzi ch'esso è l'assoluto e che l'artista è in contatto diretto con la realtà più vera, più essenziale, più religiosa; nell'uno e nell'altro caso sapremo, se mai, che valore noetico ha l'arte, non sapremo che cos'è o dev'essere l'arte come tale.
Spettacolo interessante! la filosofia è ancor oggi a questo bivio, dovuto al suo persistente realismo logico ed etico. È costretta a convenire nella distinzione del valore estetico, a convenire che il bello non stia nè nella realtà d'un oggetto, condizionata dalla nostra attività teoretica, perchè un oggetto non è bello in quanto oggettivamente reale e la verità d'un contenuto non aumenta nè diminuisce la sua bellezza; nè che d'altra parte possiam porre tal bellezza nei valori morali, che può implicare ma non è obbligata a farlo per esser bellezza, e anzi ne vien menomata quando si lasci dirigere da fini pratici invece che estetici. In tal caso la filosofia, pur se filosofia idealista, per mantenere la distinzione si getta all'empirismo, e nega che si possa ricondurre l'estetico a un fondamento e a una norma che superi il fatto individuale d'esser volta per volta quello che è o si fa: il bello non è che il piacere del bello; l'arte non è che attività spontanea, assolutamente arbitraria e creativa, e ogni opera d'arte è affatto individuale, imparagonabile con le altre e indeducibile da un criterio che la superi; l'estetico è soggettività pura, immediatezza prima del sentimento, mera intuitività, ecc. ecc. Ma esteticamente parlando, questa conclusione, che il bello e l'arte non sono nulla, non son neppure pensiero, perchè immediatezza e spontaneità, e, infine, sentimento, rimanendo empirica, è scettica.
Allora, per superarla, la filosofia ritorna all'opposta tesi, cancellando la distinzione e immedesimando il bello nel pensiero conoscitivo e nel volere pratico, e cercando di far rientrare l'attività estetica in quella logica e morale come un lor grado minore, come una conoscenza dell'individuale ma non ancora logica, come un sentire non ancora volere; o come semplice «momento» soggettivo dello spirito, astrattamente immediato e irreale, ma che si concretizza e realizza annullandosi (in quanto arte) nei successivi momenti della conoscenza oggettiva (scienza e religione) e dell'autocoscienza del pensiero (storia e filosofia). Ma così il bello ritorna a valere realmente sol in quanto abbia dei contenuti veri, e idealmente sol in quanto sia ispirazione etica. E l'estetica filosofica è filosofia sol in quanto riconduce l'estetico ad altri valori, e non può più offrire alcuna norma all'artista o al critico d'arte in quanto tali: è quella filosofia estetica che non è più estetica, ma filosofia senza aggettivi.
Non questo ci chiede il lettore non appena, fatto esperto delle aporie e contraddizioni alle quali va incontro il giudizio empirico che si suol dare in materia estetica quando anche i più intelligenti (e gli stessi artisti) cercan di giustificare il perchè di tal giudizio e il perchè del loro piacere e dispiacere estetico, si rivolge a noi sperando di trovare qualcosa di analogo a ciò che gli dice l'etica circa le sue esigenze morali, o la noetica circa le sue conoscenze; e fosse pure, s'intende, nel contrasto dialettico delle scuole e degli indirizzi filosofici. Il lettore non crede che un suo giudizio, «Il tal quadro è bello», sia da considerarsi assoluto e valga per sè stesso, empiricamente (arbitrariamente); crede che la validità di tal giudizio empirico dipenda da «qualcosa», ch'egli deve presupporre affinchè ciò che gli sembra bello lo sia veramente, sia bello anche in sè, sebbene questo in sè non riguardi un trascendente, un oggetto rappresentato in parole, ma quell'esistere, e magari le parole stesse in quanto valgono esteticamente. E giustamente pretende che la filosofia glie lo definisca.
2. – La filosofia odierna (ripeto) sbarra questa via alla critica con una pregiudiziale: soggettivo è il bello, soggettivissima l'arte e ancor più soggettivo è il giudizio o criterio estetico. Non vi troveremo sotto altra natura che quella dell'io, il sentimento.
Ma per chi si pone dentro l'estetico, la questione della soggettività di questo valore diventa, semplicemente, una questione naturalistica, riguardante le cause naturali del sentimento e dell'attività estetica; o storica, rispetto al loro divenire nel tempo. Non avremmo difficoltà a consentire circa la natura soggettiva, e anzi umana, di questo (come d'ogni altro) valore! Ma qui prima urge definire l'estetico esteticamente, non obbiettivamente (nelle sue cause naturali e circostanze storiche), perchè tanto ciò che nella coscienza estetica apparirà la soggettività del bello (l'«animazione del mondo», la «liricità»), quanto ciò che ne apparirà l'oggettività (il bello stesso, come forma), sono ormai in funzione di questo valore sensibile e non viceversa. Sotto tale aspetto critico, l'estetico, come abbiam visto, non è deducibile nè da un concetto obbiettivo (nemmeno del «soggetto»), nè da una norma di tipo pratico, ossia trascendente l'esistenza. Dove lo porremo noi dunque?
Io risponderei: Dove lo posero sempre gli artisti che fecero l'arte! quell'arte che diventa, poi, per il contemplante, il bello artistico, e che c'insegna anche a cercare, e ci aiuta a trovare il bello in natura, giacchè dai poeti abbiamo imparato a godere il gorgheggio dell'usignuolo, da Giorgione a incantarci d'un umido fondo verde, dal Perugino a commuoverci d'un esile volto, da Leonardo a sentire la spiritualità e dal Caravaggio la corporeità degli oggetti fra ombra e luce. (Del resto, basta uscire da un cinematografo per sorprenderci a cercare negli aspetti di persone e cose prima del tutto indifferenti la lor espressività). È dunque buona norma di prudenza, oltre che di modestia, interrogare prima di tutto la coscienza artistica, per sapere in che cosa essa faccia consistere l'arte.
Non è necessario indagar questa coscienza istituendo l'analisi di supposte facoltà creatrici dell'arte dal subconscio di un'«ispirazione», che ne sarebbe la misteriosa essenza, quasi che l'arte si compia, o anche soltanto s'inizi «nello spirito» prima del suo attuarsi nella real forma sensibile, anche il tentativo, l'abbozzo, lo «studio» sono arte, ma incominciano ad esserlo sulla carta, sulla tela, nella creta e, breve, in quella «materia» di cui l'arte è formata: non se ne cura lo spettatore mancante di sensibilità – che nell'arte cercherà i contenuti (le cose rappresentate, le idee) e salterà la forma –, ma essa è la delizia e il fine (estetico) dell'artista. Il quale, per lo più, è un serio e buon operaio che lavora le sue tante ore della giornata molto pacatamente, senz'altra ispirazione che il tema da svolgere o quella che gli deriva da' suoi stessi mezzi, facendo; ma si trattasse anche dell'artista che piace ai romantici, frenetico e dionisiaco, ispirato e immaginoso, tutto questo tumulto di sentimenti e di fantasmi, utilissimo per le dispute dei cenacoli, può naufragare nei più deplorevoli saggi, se non è accompagnato da una «facoltà» molto più modesta, ch'è la sensibilità estetica, la capacità (e l'abilità!) di accordare la forma sensibile a quelle vaste elucubrazioni e profondità spirituali.
Conosciamo troppo bene gli artisti e la loro vita per credere una parola di quell'esoterismo sul divino afflato dell'arte, che a sua volta è un'invenzione della letteratura romantica, su reminiscenze platoniche. Le buone intenzioni, son tutto in etica, ma nulla valgono in arte, dov'è questione di formare in concreto, fosse pure il più umile oggetto («In arte, non s'è padroni del pensiero che quando s'è padroni della forma», diceva anche il più romantico dei musicisti romantici, lo Schumann). E l'ispirazione, che è tanto nella vita religiosa, in arte conta meno della pazienza: perfino al poeta, fu detto, il primo verso viene da Dio, ma gli altri se li deve trovare col suo faticoso lavoro (vedere, per credere, come il Leopardi elaborava i suoi canti più «sinceri»); la «spontaneità» e la «semplicità» dell'arte non sono invece che le forme raggiunte dal gusto più squisito e dalla tecnica così perfettamente conquistata, da sparire come tecnica («l'arte che tutto fa, nulla si scopre») e sembrare natura, immediatezza – fare come la natura, consigliava il Kant all'artista (il che è diverso dall'esserlo!) –: debbo citare Manzoni e Flaubert? Omero, non fu il fiore estremo (e quasi unico superstite) di un'intera, scomparsa civiltà precedente?
La psicologia dell'artista non è diversa dalla psicologia dei comuni mortali (e quindi non spiega l'arte). La vita dell'artista può passare nell'arte, può divenire arte, ma non è ancor arte; e ci sono artisti che prendono i contenuti completamente fuori della loro vita e della lor esperienza umana, e che traggono ispirazione fuori della loro stessa eticità, magari da nient'altro che dalla stessa forma artistica («l'arte per l'arte»); basta pensare, per es., a tutto il Seicento, dal Bernini e dal Borromini al Caravaggio e al Rosa, artisti dalla vita torbida e passionale e dall'arte purissima. Poco monta che Bartolomeo della Porta fosse stato un fanatico savonaroliano e Lorenzo di Credi uno scettico: l'arte di questo è soavemente religiosa, l'arte di quello materialistica e superficiale.
Il problema non è psicologico. Morale o immorale che sia l'artista, sapiente o ignorante, freddo o sentimentale, non se ne deducono affatto gli stessi caratteri per l'opera sua (nè, viceversa, si può risalire, come la simpatia e l'ammirazione c'inducono spesso a fare, dall'opera alla personalità umana dell'artista). E abbia o non abbia egli una propria ispirazione e un proprio contenuto, o li prenda d'accatto e «di maniera», è unicamente nel rapporto alla forma espressiva, chiamata «stile», che gli stessi termini psicologici assumon un significato estetico, diversissimo da quello che avrebbero in psicologia generale: per es., un carattere, un'intenzione realistica possono condurre a un «idealismo» artistico, e viceversa. Se l'artista è un'anima, essa è un'anima alla ricerca del corpo, uno spirito che si attua nell'esistenza, e i suoi valori sono estetici in quanto sono presentativi e non rappresentativi. L'artista, lo giudico con l'occhio e con l'orecchio.
Il fare l'arte (l'attività artistica), non lo chiamerei «creare» (ch'è di Dio), ma, più semplicemente, lo chiamerei «tecnica». È qui, nella tecnica, che un artista è o si fa quell'artista, grande o piccolo, originale o imitatore, iniziatore o interprete: è questa la «virtù» dell'artista (che, quando non è che questo, è un «virtuoso»). La tecnica non è al di fuori dell'arte, «aggiunta» al momento artistico, come materia aggiunta allo spirito: è quel momento, quell'atto concreto. Se un metallurgico vuol incidere il passo d'una vite, se un medico vuol diagnosticare un malato, o un chimico vuol analizzare i componenti d'un corpo, per costoro, sì, la tecnica non è che lo strumento aggiunto al fine per meglio conseguirlo: il tornio, lo stetoscopio, i reagenti e i modi di usarli son tutte cose subordinate allo scopo da raggiungere. La scienza e la morale superano i loro mezzi; non condanneremo il medico se non può oggi guarire il cancro nè l'artigiano che non possiede l'ordigno del suo lavoro. Ma un pittore senza colori, un musico senza suoni, un oratore senza parola che cosa «valgono»? Se il primo non ha tubetti di colore bell'e pronti, se il secondo non ha un piano di grande marca, se l'ultimo non ha memoria, se la sbrighino loro e inventino i loro mezzi («Datemi del fango, diceva il pittore Delacroix, e ne farò carne di donna d'una tinta deliziosa»); proprio perchè i cosiddetti mezzi tecnici non sono più che gli elementi astratti della composizione artistica, della tecnica in senso artistico.
3. – Quando il valore consiste tutto nella forma sensibile, la ricerca del sensibile come tale, del suono, del colore, dell'immagine, diventa essa il fine. Se chiamiamo «tecnica» questa ricerca, la tecnica è l'atto stesso artistico, l'attuarsi del valore, prima di cui non c'è valore. Infatti ogni vero artista appronta la sua tecnica: tutti i mezzi, in quanto «mezzi» – in quanto «oggetti» dati – son buoni e di tutti (magari dei mezzi meccanici) l'artista si può servire; ma è il modo d'usarli, il rapporto sensibile in cui li pone, ciò che fòrma lo stile, inscindibile dunque dalla tecnica. Perciò biasimeremmo l'artista che, per es., sostituisca una fotografia alla propria composizione, ma non il cineasta che componga con fotografie; come biasimeremmo lo scultore che trattasse il marmo pario come la terracotta e non quello che, avendo l'una o l'altra materia, accordasse il suo stile alle loro qualità particolari.
La coscienza artistica si sveglia e si rende autonoma come coscienza tecnica: ciò è ben chiaro nella storia dell'arte; e ancor più nell'abbondantissima trattatistica che gli stessi artisti ci han lasciato dal Rinascimento in poi. Quand'è un artista che scrive d'arte, il suo problema centrale diventa quello tecnico e la soluzione si riduce a una precettistica del comporre. Soltanto i letterati soglion divagare su l'essenza spirituale dell'arte, perchè in letteratura la questione del valore estetico è deviata verso il valore rappresentativo del linguaggio; ma un puro artista, foss'anche un umanista come L. B. Alberti, o un ingegno speculativo come Leonardo, non s'inganna e non c'inganna. Che l'arte sia «cosa mentale», frase citata spesso a rovescio, per Leonardo voleva dire che si debba intender l'arte come intelligenza (e non manualità) tecnica – intelligenza di forme, non d'idee –; tanto che (erratamente) egli ne deduceva che la pittura sia più mentale della scultura perchè richiede un più sottile artificio tecnico, dovendo comporre coi soli colori in superficie.
Se teniamo ben presente questa essenzialità della tecnica nell'arte (e quindi nel giudizio d'arte), per la quale nell'atto artistico (e non prima) s'instaura e si celebra il valore estetico, a differenza degli altri valori trascendentali – il santo può peccare sette volte al giorno, e il sapiente errare, ma non perdoneremo al musico (se non per indulgenza morale) di sbagliare d'un semitono! –, tutti i vecchi problemi d'estetica si troveranno nel loro giusto foco, e non rischieremo di porre l'estetico in un'oggettività teoretica (nell'imitazione) o in una soggettività pratica (il sentimento). Ma naturalmente l'estetista deve partire di là dove invece termina un genere artistico – per es., il «bel canto» è il momento in cui il canto si disinteressa (si purifica) così de' suoi contenuti letterarii come dei fini sacri o profani (dell'ispirazione religiosa o amorosa), per diventar fine a sè stesso –; o dove termina un periodo d'arte – per es., il romanticismo finisce col sensibilizzarsi del tutto nell'impressionismo coloristico di Corot in pittura, di Verlaine in poesia, di Debussy in musica, diventando «arte per l'arte» senza ancor perdere il carattere romantico (soggettivizzante, al quale si oppone poi l'espressionismo immediatista e oggettivante) –: in una parola, dobbiamo partire dall'arte «pura».
Questa è la forma che il non artista ha in fastidio o in disprezzo, preferendo Dante a Petrarca o Beethoven a Mozart – e, in generale, il genio al gusto –; al punto che qualcuno giunge a defenestrare dall'arte quella squisitezza sensibile (per es. il «barocco» o i «decadenti») ch'è l'arte stessa. Ciò perchè noi le domandiamo di esaltare gli altri valori, il sovrasensibile: ma non potremo capire perchè l'arte esalti (e renda eterni, attuali e in sè) i valori umani se prima non ci chiediamo in che consista il suo proprio valore.
Questione dunque d'intenderci. Io chiamo «arte», per es. in musica, la pura musicalità, che incomincia con la nota uscente dal suo alone tonale e diviene figura musicale e incontro di figure nel ritmo e nel complesso armonico dei temi sonori; in pittura, il colore, a seconda, chiaro e distinto e per sè valente nell'unificazione della «linea» presso i fiorentini, o tonalizzato con gli altri nelle velature del colorismo veneto, o dissolto, come mosso n'è il disegno, nello «sfumato» leonardesco, o drammatizzato nel chiaroscurismo di Renbrandt o nel luminismo del Caravaggio; ecc. ecc. Per valutare musicalmente la musica e pittoricamente la pittura, non ho alcun bisogno di «tradurre» i suoni in altro: per es. in sentimenti particolari miei o, tanto meno, nelle disgrazie domestiche dell'autore che avrebbero ispirato la tal sonata o il tale notturno; e di riferire un ritratto al modello, un paesaggio al paese, una battaglia alla storia. Tutto questo può essere il contenuto prima dell'arte, perchè l'artista prende i contenuti da qualunque parte, dal mondo e da sè medesimo, dalla natura e dalla vita (o anche da niente, inventando); e fu detto giustamente che la natura (e l'esperienza tutta quanta, propria ed altrui) è come un immenso vocabolario dal quale l'artista può attingere le sue ispirazioni, i suoi temi, i suoi motivi – la «materia» stessa, un blocco di marmo o una tavolozza o la tastiera del piano, non sono, per così dire, serbatoi di «temi giacenti» per l'artista? –; ma, sia egli poi fedele e obbiettivo oppure libero e fantastico di fronte ai contenuti, essi divengono ispirazione, motivo, tema in senso proprio, ossia artistico, sol in quanto soggettività e oggettività del puro rapporto formale di suoni colori ecc.
La «realtà» dell'arte non va oltre questa sua forma esistenziale che si attua componendo suoni colori ecc. in un atto, chiamato «stile» proprio in quanto sensibilizza, e in tal senso realizza, l'artista. Il «valore» (artistico) di questa realtà estetica è, senza dubbio, sentimento, ma sentimento sensibile, sentimento della forma – per es. la drammaticità del tale incontro di suoni in Beethoven, il patetico di tale incontro di colori in Corot –, che, se è soggettività (o «ispirazione» in senso proprio), «è» in quanto massima oggettività, esistenzialità della forma stessa. L'autore siattua in quei suoni o colori, il contemplatore esiste, diviene, non è più altro che la sua unità sensibile. Tal'è l'emotività puramente estetica, che dunque ha la sua eticità, ben diversa dalla moralità pratica perchè non si obbiettiva in un fine trascendentale, ma nell'immanenza al sensibile trova quella spiritualità, quel trascendersi senza trascendere la forma sensibile, ch'è tutto proprio del mondo estetico.
Del pari, questo mondo estetico, che «è» in quanto «esiste», possiede la sua logicità, la legge della sua forma o rapporto sensibile; ma è una legge interna ad esso, che non lo trascende: legge propria d'ogni stile, e, a differenza dalla logica reale, in perfetto accordo con l'eticità estetica sopradetta (per es. il sentimento dell'architettura greca è il sentimento dell'armonia delle parti componenti l'unità visibile del tempio greco): appunto perciò concludiamo che l'arte è appagante (è piacere), felicità raggiunta, che non supera la sua esistenza. Ma non appena vogliamo astrarre queste leggi logiche di uno stile, che cosa troviamo, se non leggi tecniche, regole del costruire, del comporre l'unità sensibile di quell'arte?
A questo punto, si dica pure che l'arte è sintesi d'intuizione ed espressione, di sentimento ed immagine: però questa sintesi non rimane nel puro soggetto, nello spirito, perchè è medesimezza di soggetto e oggetto. Esiste. L'espressione è proprio espressione, atto; l'intuizione è proprio immagine, forma sensibile.
4. – Siccome la forma artistica, oltre che valere per sè, esteticamente, come pura arte (e quindi nell'arte pura), può anche rappresentare al pensiero logico e pratico (come ogni sensibile) qualcos'altro che chiamano il suo contenuto – il «tema» oggettivo e l'«ispirazione» soggettiva –, nasce il problema del rapporto di forma e contenuto in arte, che ci deve introdurre a comprender l'unità dei valori nel sensibile, e ha dunque la più alta portata metafisica.
La soluzione sarebbe per tutti intuitiva, se non avessimo che le due grandi arti madri e adunatrici di tutte le altre nello spazio e nel tempo, l'architettura e la musica. Liberate dalle arti vicine – l'una dalla scultura e dalla pittura, l'altra dalla poesia, dalla danza e da ogni altra «rappresentazione» che la musica accompagna, commenta ecc., loro accordando il proprio accento soggettivo (come il tono della voce soggettivizza la parola parlata) –; e prese nel loro momento più tipico, l'una come architettura classica, l'altra come musica romantica (ossia nel significato storico di questi due termini: pensiamo per es. al Partenone e agli «Scherzi» di Chopin), nell'uno e nell'altro caso la forma è unicamente presenza, esistenza sensibile, che in tutto coincide con l'oggettività della cosa o con la soggettività del sentimento: essa non deve rappresentare o richiamare altre cose o immagini esterne all'arte, nè per somiglianza, come invece accade nelle arti figurative (per es. una statua di Atena), nè per associazione di contiguità, come accade nella letteratura (per es, la narrazione in parole del Messo nei «Persiani»).
Un tempio è per sè medesimo un contenuto, percepito e pensato come una «cosa» con quei tali scopi pratici e religiosi; ma l'artista stesso «fa» questa cosa, in cui trova anche la sua ispirazione. Per esempio, l'artista greco era psicologicamente realista, esteticamente idealista. Il tempio greco è logicissimo, essenzialmente spaziale e statico: non c'è un pezzo che non sia strettamente necessario all'edificio, dalla base all'architrave e da questo al frontone; e non c'è un elemento che non mostri anche la sua logica funzione, dal plinto al capitello e al fastigio, o che serva, come in altri stili, a mascherare la struttura e la sua ragione pratica. Tuttavia, quell'architettura interpreta la statica e l'uso pratico trovando in sè, ne' propri mezzi formali, lo stile che presenta e visualizza esteticamente quei valori secondo il gusto ellenico, in quella chiarezza e armonia che tutti sanno, e che costituisce un'idealizzazione del reale in quanto appunto, come già dicemmo, è un artificio tecnico, una ricerca di forma pura; come appar evidente anche nel suo esito dallo stile doricizzante al corinzio e da tutta l'arte ellenica a quella ellenistica.
Il «contenuto» del Partenone è il Partenone, la forma stessa in quanto esiste o può esistere sensibilmente; un'altra forma, per es. l'Erettèo, sarebbe un altro tempio. La realtà in sè di questa cosa non è più che la finalità realistica dell'architetto, il quale l'ha interpretata, tradotta, attuata in quella forma. In altri termini, un valore logico, una finalità obbiettiva – ciò che si può chiamare l'«intellettualismo» greco, l'intenzione di costruire un tempio statico, equilibrato ecc. – s'è attuata in una forma estetica, ch'è il «bello» artistico in quanto piace per sè stesso, ma che realizza quel fine come armonia semplicità chiarezza ecc., caratteri della forma visibile; lo realizza per tutti, in un'esistenza. Prima di questa esistenza non v'ha nè arte, nè oggetto o contenuto artistico: ci sono dei fini, del valori concettuali, rappresentati per es. dalle parole con le quali Pericle dà un'ordinazione; soltanto nell'opera d'arte quei valori si rendono presenti, valorizzati esteticamente perchè interpretati dallo stile che ne attua l'esistenza.
E d'ora in poi potremo chiamare classicità dell'arte, in senso più largo, la ricerca della forma estetica (del bello artistico), ossia la forma raggiunta, il valore (qualunque esso sia come finalità trascendentale) interpretato sensibilmente, secondo il gusto. Perciò ogni stile diventa classico, e tale apparisce alle età successive; ogni artista, almeno, tende a raggiungere una classicità, una forma definitiva. Classica è per noi anche la cattedrale gotica, sebbene la si definisca romantica perchè soggettivante e trascendentale di fronte all'intellettualismo greco e al naturalismo romanico, di cui rompe l'equilibrio e la staticità nello stile verticale, instabile e dinamico, del sesto acuto, e ne màschera la schiettezza murale nelle sovrastrutture ornamentali. E classica diverrà a suo tempo quell'odierna architettura detta (psicologicamente) «razionalista», perchè anche il fine utilitario deve trovare la sua forma, che pur nella valorizzazione del nudo utile sia uno stile, una sintesi formale, una suggestione sensibile. Il medesimo si dica d'ogni arte, e della stessa musica, l'arte romantica per eccellenza. Infatti già chiamammo «classica» la musica pura settecentesca: ma se Mozart o Cherubini sono musica pura (fine a sè stessa), Chopin e Schumann son anch'essi pura musica (forma); quindi, per es., Beethoven è un romantico rispetto ai primi e un classico rispetto ai secondi, come questi lo sono rispetto a noi.
Insomma, «classico» e «romantico», quando non usiamo questi vocaboli in senso storico, non designano due opposti stili, Apollo e Dioniso, ma l'oggettività (forma) e la soggettività (liricità) di ogni stile, il carattere estetico e il carattere poetico d'ogni arte. Se noi scegliamo i due momenti storici in cui prevalse l'uno o l'altro carattere e le due arti in cui meglio si attuarono, non è per opporli od escluderli reciprocamente, ma per distinguere il valore logico e il valore etico dai corrispondenti stili delle due arti che ce li realizzano artisticamente, ossia per dimostrare che la realtà logica del Partenone è tutta passata nella forma esistenziale dell'arte (tutto il mondo classico, che cos'«è» più se non arte?), come or ora vedremo che il sentimento o soggetto artistico passa tutto nell'interpretazione musicale, nei sensibili che si chiamano suoni (una sinfonia di Brahms che cos'è, se non un artificio tutto sensibile, e io che l'ascolto che cosa più sono, se non queste vibrazioni?) per ora, nell'arte, non c'è un contenuto sotto la forma, un valore sopra il sensibile...
5. – Avviciniàmoci meglio al secondo esempio. L'Andante della «Patetica» è già musica romantica e l'Allegro dell'«Appassionata» si può considerare a dirittura appartenente allo «Sturm und Drang» (con quel cantabile gridato nel tumulto ritmico del tempo), sebbene non siano infrante le regole della sonata settecentesca. Che cosa dunque indichiamo storicamente con la parola «romantico»? Null'altro che la soggettività (il sentimento), o meglio la soggettivazione del sensibile, l'accordo di questo alla finalità, alla trascendentalità dello spirito. Si può dire che il romantico è l'etico dell'estetico. Pertanto si può anche in generale chiamar romantico l'artista che psicologicamente è «idealista», pur se tecnicamente fosse «realista» (come Masaccio) o «sensista» (come Wagner); e romanticismo in particolare furon la letteratura e l'arte religiosa, patriottica, moraleggiante ecc., quantunque si debbano considerar come tali anche i contrari (il verismo, l'immoralismo, l'indifferentismo ecc.), ch'erano in germe nell'ironia romantica e nel concetto di «arte liberatrice» non solo dal mondo esterno, ma anche dal sentimento.
Ciò intanto implica aver essi romantici compreso un po' meglio di certi loro epigoni, che la soggettività dell'arte non è la soggettività psicologica, la vita: se i sentimenti e i fini umani sono, secondo loro, contenuti e motivi d'ispirazione preferibili a quelli descrittivi e oggettivi tradizionali del classicismo; se parve loro necessario (per i fini umani e storici assegnati all'arte) riaccostarla alla vita e alla natura e renderla più «spontanea» e «sincera», la subiettività artistica è però anche per essi la soggettività della forma estetica inconfondibile con quella dei contenuti spirituali presi a parte e ad essa confrontati dalla critica di letteratura e d'arte. Voglio dire che anche ai romantici apparve essenziale definire in che modo un contenuto, sia pur scelto di preferenza fra i valori attuali, storici ed etici, nei quali vive l'artista (per es., l'atmosfera napoleonica per l'«Eroica» di Beethoven, la morte cristiana per l'Ermengarda manzoniana), divenga subiettività artistica, e, possiamo oggi dire in una parola, dopo il Croce, «liricità». (Napoleone non è mai poeta anche se vuol rivoluzionare il mondo; Beethoven è un gran lirico anche se privatamente gli stesser più a cuore le scappatelle del nipote che le vicende dell'aquila napoleonica).
Infatti, per l'estetica romantica, il mondo della natura viene sostituito nell'arte da un mondo fantastico creato per accordarlo con la soggettivazione lirica (o meglio «Einfühlung») in cui consiste il soggetto propriamente artistico. Concezione profonda, benchè parziale (perchè la fantasia non basta per essere artista, tutt'altro! nè tutta l'arte è fantastica e animistica) e ambigua (perchè induce a credere che l'arte stia nel fantasma mentale, come il sogno, mentre che l'immagine estetica è concretezza sensibile, realtà del fantasma); ma giusta se pensiamo specialmente a quella letteratura, che il romanticismo metteva al sommo di tutte le arti, perchè più ideale (Hegel), e al centro, perchè tutte la debbono servire (Wagner).
Però la letteratura romantica, da Schiller a Byron e a Victor Hugo, artisticamente è assai inferiore alla sua musica, oppur si converte in poesia musicale (dalle liriche di Goethe allo «Stundenbuch» del Rilke). La musica è l'arte che nel romanticismo raggiunge le sue più alte vette perchè è l'arte più soggettivante; insomma, l'arte più lirica. Ora, la musica è unicamente musica: è tutta forma, fatta tutta e soltanto di suoni; se qualcosa ne resta fuori – un'intenzione dell'artista, un pensiero indotto, e infine quell'alone affettivo che circonda quest'arte – fin che se ne distingue e non vien tradotto nelle leggi tecniche dello stile (sian esse armoniche come in Bach o dissonantiche come in Bloch; siano diatoniche, cromatiche, semitonali o comunque imponga lo stile), non appartiene all'estetico, e il giudizio estetico non riguarda tale soggettività più che non riguardi la natura oggettiva dei suoni (non attende di «capire» un'armonia dal rapporto matematico fra le vibrazioni meccaniche, o il ritmo musicale dal metronomo). E anche se un richiamo obbiettivo (per es. nel titolo «La Pastorale») giova ad orientare l'uditore profano, per semplice associazione d'idee, verso la sorgente ispiratrice dell'autore, non è mai costitutivo del valore musicale.
Tutto ciò che vi poteva essere prima dell'arte, e che si chiama ispirazione dal punto di vista della sua eticità, passa nella musica, diviene musica, e scompare (artisticamente) come contenuto; tanto che alcuni lo chiamano forma (perchè spirito). Ma la forma artistica è lo stile, l'attuazione sensibile! Il soggetto si attua completamente e non parzialmente, assolutamente e non relativamente (a differenza dell'atto pratico, «espressione» naturale e non artificio espressivo del volere) in quell'atto ch'è una traduzione sensibile dello spirito – una stilizzazione dello spirito – realizzante un universo più largo del sentimento, di cui cancella i limiti e fini particolari accordandolo con la forma di un esistere, che la sola sensibilità (appartenente all'io come al non io) gli suggerisce. La liricità non è l'io pratico, che vale nella finalità, nel dover essere del suo esistere sensibile in antinomia con questo; è una trascendentalità senza trascendenza (e infatti senza concetto), una trascendentalità nel sensibile, immanente alla forma.
Il che va poi ripetuto per tutte le arti: la «dolcezza» di Raffaello o la «terribilità» di Michelangelo, non riguardano nè i contenuti obbiettivi (p. es., agli Uffizi, il tondo di Michelangelo rappresenta una Madonna come un'altra Madonna è quella raffaellesca del cardellino), nè i contenuti subiettivi (un presunto temperamento dolce e religioso di Raffaello e una presunta fierezza di Michelangelo!), ma unicamente lo stile, di cui quei sentimenti sono la risultante, non la causa. La dolcezza dell'uno sta tutta nell'armoniosa coerenza della linea curva, la terribilità dell'altro è nel contrasto inerente al suo stile fra dinamismo della linea e staticità del rilievo plastico: queste invenzioni tecniche sono il loro valore lirico.
In altri termini, la «materia» diventa «spirito» (soggettività del valore) nella forma, senza cangiar di realtà (senza passare dal sensibile al sovrasensibile); e questo è il prodigio e il fascino dell'arte: di tutte le arti quindi, se prescindiamo dai lor contenuti, dal fatto cioè che vogliamo rappresentare («illustrare») qualcosa di esterno ad esse (per es. un paesaggio, un accadimento ecc.), ciò che complica il problema. Una pennellata di bianco o di carminio, al pari di una nota isolata, non ha valore estetico: ne acquista uno grandissimo nello stile (ossia nell'unità formale) per es. dell'arte «barocca», quando diviene l'impasto robusto, la «pennellata» ribollente, il «tocco» rapido e sicuro di un Ribera; lo scatto di colore violento nel velame d'ombre di un Mattia Preti (con quei «toni» di rosso-vivo, di verde tenue, di giallo smagliante, mentre l'ombra annulla, come in Caravaggio, ciò che la luce non vivifica); le biacche luminose e vibranti, argentine, in quella saporosa ricchezza d'impasti dalle tonalità trasparenti e preziose di un Gius. Maria Crespi (per es. nella Fiera di Poggio a Caiano agli Uffizi o nella Confessione della Regina di Boemia a Gio. Nepomuceno a Torino). Quel colore che obbiettivamente e analiticamente è una materia chimica o un elemento di fatto che sfuggiva all'osservazione comune, nel rapporto stilistico del colorismo viene valorizzato e diventa l'intima bellezza, la succosa polpa, per così dire, della materia stessa, interpretata qualitativamente: la sua liricità. Infatti, si dice che allora il colore «canta».
6. – Ma ora, tra una sinfonia romantica, finzione tutta formale di sentimenti, e un tempio classico, ch'è un reale oggetto co' suoi usi pratici, dovremo collocar l'arte che vuol rappresentare un contenuto a lei esterno, un percetto (mettiàmo, un tempio romano in un'acquaforte di Piranesi) o a dirittura un concetto (come nell'«Epipsychidion» di Shelley). Ciò conduce l'arte a imitare la conoscenza e la ragione.
Chi potrebbe negare che ogni arte, ciascuna co' propri mezzi, sia o possa esser imitatrice? Anche se non lo divenisse allo scopo oggettivo e ideologico ora detto, che raggiunge il suo massimo sviluppo in letteratura; anche se i contenuti rappresentati non fosser che un pretesto per comporre un «bel pezzo», come accade specialmente in pittura (p. es. una «Venezia» del Guardi o una «natura morta»), non c'è artista che non si serva di forme già esistenti in natura o nell'arte stessa: se ne serve appunto perchè forme, e in ciò consiste l'imitazione nel senso tecnico che c'interessa studiare. Per quanto s'inneggi all'arte «creatrice», essa non nasce dal nulla artistico e non crea dal nulla reale. Per esempio, anche senza uscir dalla musica, la più creatrice e la men contenutista di tutte le arti, prima di tutto non v'ha stile musicale che non derivi e sviluppi le sue forme da altre esistenti, spontaneamente (come Beethoven rispetto a Haydn) o volutamente (come Tzchaikowsky rispetto al primo); in secondo luogo, non soltanto, per il musicista, tutto diviene musica – le voci della natura e i canti del popolo, i cieli e gli orizzonti, i fiumi e i venti, come le vicende i riti le feste le parole degli umani –, ma egli si può anche proporre una musica «descrittiva», intenzionalmente imitativa di danze carnevali e baccanali, di mormoranti foreste e d'uccelli cinguettanti, in tutto simile alla pittura: l'odierno «espressionismo» musicale è per es. rivolto a descrivere l'immediato mondo sensibile, da Strawinsky a Honneger (per es., la gazzarra della fiera nel «Petruschka», con quel nostalgico organetto del vecchio tempo).
Riflettendo su questi esempi, sembra che si debba distinguere, una prima volta fra imitazione dall'arte, abborrita dai creativisti, e imitazione dalla natura, che ogni maestro consiglierà sempre (perchè l'arte rinasce «ritornando» all'osservazione della natura); una seconda volta, secondo che l'imitazione appare un mezzo tecnico a scopo artistico e formale, come nei classici, oppure sembri necessaria a rappresentare la natura e la vita, come presso i romantici. La discussione su tali quesiti è utile sol perchè ci riporta all'unico problema strettamente estetico, il problema dello stile.
La prima distinzione interessa anche la «originalità» dell'opera d'arte. Però, la più modesta cultura musicale ci farà riconoscere la stessa figura musicale cento volte in cento diversi autori senza che ciò diminuisca la loro originalità, perchè una variazione nel «tempo», una diversa armonizzazione, anzi, un diverso «accento» (per es. il «Corale e fuga» di Frank rispetto al corale «Auf Wasserflüssen Babylon» di Bach) bastano a costituire un nuovo inconfondibile stile: gli alunni di Leonardo sono di solito deboli artisti, non perchè imitano il maestro (anche il Sodoma e il Luino lo imiteranno), ma perchè lo impoveriscono. La critica analitica, sempre alla ricerca di elementi imitativi, non resterà mai senza frutto, perchè ne troverà sempre in tutti – lo stile si sviluppa dallo stile (p. es. Leonardo dal '400 fiorentino; le prime opere attribuitegli, non possiamo chiamarle che «bottega del Verrocchio») ma non frutterà mai per la definizione di uno stile.
Questo, prima di essere «l'uomo», è, io direi, «gli uomini», la razza e il tempo, la scuola e l'ambiente, onde la quantità di errate attribuzioni nei cataloghi delle gallerie d'arte. L'individualità dell'opera d'arte segna un grado del suo sviluppo: perciò l'originalità non è creatività assoluta, ma corrisponde soltanto a quel momento (dato a pochi e a pochissime delle loro opere) in cui lo stile appare «definitivo» (per es. il bozzetto dei Magi) perchè ha raggiunto o trovato la massima espressività stilistica, quella che non lascia più nulla fuori del valore formale, che parla e dice tutto con la sola sua forma, e diviene un assoluto, il «bello artistico» puro, universale nella sua singolarità, sovrasensibile (simbolico) nella sua esteticità. Allora non si tocca più, perchè non appartiene più nemmeno all'arte, ma è un «modello» di essere: non suscettibile di sviluppi, ma sol applicabile come «stilizzazione» (nel significato particolare al gergo artistico) adoperata per «abbellire» qualcosa, ossia retorica. La retorica non è tanto questione di sincerità (i retori sono spesso sincerissimi) quanto di gusto. Un artista di gusto, che voglia dar «carattere», ossia stile personale, all'opera propria, rifuggirà invece dall'imitare uno stile definitivo, un bello artistico (per es. Raffaello), a differenza dallo stile in formazione (p. es. i «primitivi»): adoperandolo, o lo indebolisce, facendo un bello senza stile (calligrafico od accademico), o lo esagera, rompendo quell'unità sensibile, quella «linea», che ne costituiva appunto il bello.
Ma proprio il medesimo si dovrebbe osservare anche circa l'imitazione della natura. Un «bello di natura» (per es. una «bella» donna, un tramonto a Capri) mal si presta perciò a venir «riprodotto» artisticamente, se non debolmente (da «cartolina illustrata»; un artista forte, una volta se ne serviva solo a sfoggio di virtuosismo pittorico, ora preferisce un carro di spazzatura che alzi le sue stanghe verso un cielo pallido sur una piazza desolata. Il precetto della originalità dell'arte non esclude dunque l'imitazione, ma la vuole «artistica»; si tratta di sapere come l'arte sia imitatrice. Ora, per intenderci subito, all'antitesi posta dall'estetica romantica fra l'arte «creatrice» a lei cara e l'arte «imitatrice» dell'estetica classica – mal posta, io direi, perchè il creare è una metafora che, se mai, riguarda la forma, e l'imitare degli antichi riguardava il rapporto ai contenuti –, vorremmo sostituire il concetto di «interpretazione» già apparso di sopra, che ci sembra più proprio a comprendere in che modo uno stile imita una forma già data.
Invero, nè l'imitare (p. es. riproducendo un bastimentino o una scarpetta in piccolo), nè lo inventare (p. es. un uomo con dieci gambe o altra fantasticheria qualunque) sono per sè arte; la stessa fantasia non è che natura (dell'artista) ma non basta a nutrire l'originalità artistica, che riguarda lo stile e non i contenuti in sè: il Rembrandt, quantunque sia un ritrattista, è più originale del fantastico Rubens. D'altro canto, nessuno ha mai preso per arte una copia, un calco, una fotografia, o per artista un autopiano o un pantografo: ogni volta che una forma vien riprodotta come quella forma e uno stile come quello stile, il valore estetico che possono conservare appartiene evidentemente al modello.
Però, intanto, appunto perchè si tratta di forme, non è nemmeno da escludere che possan diventare o ridiventare artistiche se sono usate come mezzi artistici (anche se meccanici): la sola scelta di un «soggetto»; il «taglio» p. es. d'una fotografia e la ricerca di luci, prospettive ecc.; la semplice collocazione d'un quadro e magari il modo stesso in cui uno sa regolare il suo autopiano, ecc. ecc., sono un minimo di arte ma, in quel minimo, son già arte. Infatti, in questa medesima sfera d'attività finiamo con l'incontrare l'esecutore che, pur lavorando su un'opera d'arte già perfetta, conquista una propria originalità e un proprio valore artistico «interpretandola». Orbene, io dico che interpretazione era anche quella che il Caravaggio fa di un cesto di frutta, e, alla fine, quella che Michelangelo fa del Giudizio universale (il problema è uno solo, per tutti i casi elencati a pag. 292).
7. – Consideriàmo alcuni semplicissimi esempi d'arte figurativa, o «imitativa» che dir si voglia. Poniàmo prima che uno scultore, per decorare un capitello (e dunque per un fine interno all'arte) prenda a imitare la foglia dell'acanto. Chiameremo questa, obbiettivamente, il «tema» da svolgere – il contenuto logico da interpretare esteticamente –; essa diviene pertanto il «motivo» stilistico dell'ornato: vale a dire che il nostro scultore, una volta scelto il tema, lo svolge con un'interpretazione più o meno libera lasciandosi guidare dalla sola forma per comporre una «linea» regolata unicamente dal gusto. Questa sarà la sintesi estetica, tutta forma, or semplice severa e geometrizzante, ora, secondo il gusto del tempo, fastosa tumultuosa e ridondante, ma sempre lontana dal «vero», anche se questo l'avesse ispirata. Non diversamente, una danzatrice, imitando le movenze dell'amore (ossia, non una cosa, ma un atto espressivo di finalità umane), comporrà una linea dinamica e musicale, un'arte nel tempo, sia che armonizzi i suoi gesti in quella semplice «grazia» propria dello stile classico, sia che si sbracci e si scosci nello stile burattinesco e grottesco, volutamente sgraziato e disarmonico che (come in musica) risponde al gusto odierno.
L'arte è sempre artificio sensibile, finalità estetica, benchè non apparisca perfetta se non quando sembri natura perchè non si scorge più lo sforzo che lega il mezzo al fine, sì che essa appare in sè («come la natura»), regolata da leggi interne al sensibile stesso; tal che diremo artificiosa e (di nuovo!) retorica, non l'arte raggiunta, ma quella natura che non riesce a raggiungerla (p. es. una danzatrice stupida appare «affettata»). Ma se il primo decoratore, con paziente lavoro d'un tecnicismo soltanto logico, riproducesse esattamente il modello (come la famosa uva del classico esempio, che gli uccelli andavano a beccare), farebbe una cosa «senza stile», buona per illustrare un libro di botanica perchè analiticamente «vera» (come una fotografia), una «natura» forse bella in sè ma brutta in arte; e tanto varrebbe imbalsamare delle reali foglie d'acanto (come certe orribili applicazioni di conchiglie marine e simili). Per questa via s'arriva a identificare l'arte con la natura, col solo risultato d'impoverire quest'ultima invece di fare anche del (cosiddetto) brutto un bello artistico.
Infatti – è necessario avvertirlo? – il decoratore, per abbellire un capitello o una cornice, o anche per creare un oggetto, p. es. un ninnolo, che piaccia per sè stesso, non ha punto bisogno d'ispirarsi alle eleganti foglie del tradizionale acanto, o a un festone di fiori e frutta: la cosa più ripugnante si presta del pari alla stilizzazione estetica. «In natura, scrivevo altra volta, un rospo ci sembra brutto e una rosa bella, benchè il rospo formalmente possa esser bello quanto la rosa. Gli è che i valori estetici in natura son ancora impliciti in quelli pratici più urgenti (come la ripugnanza destata da un vero rospo) e in essi attratti e assorbiti; incominciano a emergere quando, come nel caso d'un fiore o d'un frutto, ne possiamo ricevere un piacere disinteressato. L'arte, cangiando in fini estetici i rapporti sensibili, che in natura eran mezzi rappresentativi, ed esplicando così il valore delle forme sensibili, permette a tutti di goderlo e apprezzarlo: un rospo in ceramica lucida smaltata, con le sue belle chiazze di verde vivido, col suo ventre bianco tenero quasi palpitasse, rivela, pur nella sua stilizzazione esagerativa, che un vero rospo non è senza bellezza, e insegna a cercarvela». Siamo ora padronissimi di chiamar «fantasia» la libertà dell'artista di fronte al modello, il libero modo con cui egli si serve di forme esistenti per comporne una nuova (per es, un mostro), che mette in valore rapporti di linee superfici e volumi, di luci e colori, di movimenti ed espressioni, ecc.; ma resta inteso che anche il fantastico è qui la raggiunta realtà sensibile (che «si fa» sotto le dita e nella materia artistica, non prima) obbediente alla sola ragione stilistica. Insomma, la fantasia artistica riguarda la forma, non i contenuti. Lo stile è la ricerca d'una forma capace di esprimere per sè stessa un valore, che nel caso fin qui contemplato è il puro valore estetico, il bello.
Opponiàmogli or dunque l'esempio apparentemente contrario, del ritrattista o del paesista, o di un'arte che comunque intenda descrivere o narrare il «vero», restando fedele al modello. Sia questo la natura o la vita umana, è un mondo, per ora, fuori dell'arte, che l'arte vuol imitare: esigenza che (a parte il ritratto, antichissimo, e il paesaggio che come fine a sè stesso dàta dal '600) è tutta contemporanea, coincidendo col nostro storicismo e attualismo, ossia con un realismo contingentista, di cui l'arte, come sempre avvenne, è l'interprete dalla parte del senso, come la filosofia lo è dalla parte della ragione.
Ma il vero dell'arte non è il vero della scienza e della pratica. Queste, ripeto, analizzano e accumulano gli «elementi» (p. es. i connotati d'una persona) utili alla sintesi logica (anche una fotografia non è che un'analisi che serve per riconoscere, per rappresentare una persona, ma non le somiglia che da un punto di vista); l'artista invece, con due soli tratti, può presentare l'oggetto, sostituire addirittura la cosa. Non nego che vi sia chi cerca la somiglianza «copiando» punto per punto, analiticamente, il modello; ma gli sarà più difficile raggiungere tanto la vita quanto l'arte. I ritratti di Giulio II° o dell'Inghirami agli Uffizi sono, invece, il tenace papa e il cardinale umanista; e sono anche belli, son arte. La «verità» di quei ritratti consiste nella loro stupenda individualità – individualità ch'è un esistere qualitativo, un concreto còlto dall'artista nella pura sintesi a posteriori: quel vero insomma che l'uomo comune non vede (lo vede analiticamente, astrattamente, perchè lo pensa rappresentativamente), e l'artista glielo fa vedere (gl'insegna che «esiste») –; ma nel ritratto artistico, com'è stato detto, son unitamente presenti l'artista e il modello, e la personalità dell'artista al pari dell'individualità del contenuto apparisce come stile, espressione formale, unificazione in quella linea e in quel rapporto coloristico, che al primo sguardo diciamo «Raffaello». Perciò il vecchio papa consunto nel fuoco del suo sguardo e il grasso cardinale dall'occhio strabico vivono d'una bellezza immortale, esprimente, ma esteticamente – cioè come presenza, non come rappresentazione logica – tutto il loro «essere» (il reale).
8. – La «Madonna del cardellino» è invece «idealizzata», non soltanto rispetto ai citati ritratti, ma anche in confronto, p. es., della più realistica e alquanto volgare «Madonna della seggiola». Adunque, con quel primo termine si suol alludere al fatto che il pittore, per interpretare l'oggetto preso a tema, «crea» (e qui la parola ha un senso ancor più ristretto) un tipo di bellezza, un modello di ciò che l'oggetto dovrebb'essere se esistesse in natura – perciò appunto egli fu chiamato «figliuolo» o «nipote» di Dio –, il che avvenne specialmente in accordo con le finalità etiche e religiose (deontologiche) quando il pensiero stesso si volgeva ai valori in sè, al razionale e all'ideale. Come il realismo empirista mette in valore artistico (sensibile) l'esistere (la «natura») – presente al contemplatore come individualità del contenuto artistico –, così l'idealismo realistico avrà messo in valore, ma sempre sensibilmente, il dover essere, il fine obbiettivato (lo «spirito»), idealizzando i suoi contenuti in un bello che tale sarebbe – ossia, «piacerebbe» – anche in natura; però, la «verità» degli uni non è men bella, se artistica, dell'«idealità» degli altri, e quest'ultima lo divenne alla medesima condizione, di avere uno stile. Una Madonna dipinta non è bella o brutta perchè così ci apparirebbe se l'incontrassimo per via, ma perchè esprime o no il valore dell'oggetto (sia pur oggetto inventato invece che visto) in un valore tutto visivo di rapporti coloristici o luminosi somma soggettività, onde si può dire che l'arte è soggettivazione del mondo e del soggetto stesso (della finalità dell'artista), a condizione di esser anche assoluta oggettività, esistenza sensibile; onde si può dire che la sola arte attua totalmente un valore.
Se il fine obbiettivo dell'artista (l'«imitazione» o «finzione», il tema da interpretare) sono gli oggetti, reali o ideali, ch'egli vuol rappresentare, il fine artistico riman sempre quello di presentarli come valori intuibili nella forma stessa: come «espressione», si può ben dire, del valore in sè, soggettivato perchè umanizzato e realizzato perchè sensibilizzato. Tale valorizzazione sensibile si chiama stile; e in quanto raggiunge una forma definitiva, senza residuo rappresentativo – senza rinviare a un concetto e a un'aspirazione di altro, oltre il sensibile, che esprima meglio il valore –, si chiama il bello artistico. Il problema artistico è pertanto sempre il problema dell'immanenza del valore nei rapporti sensibili, della risoluzione di tutti i contenuti nella forma estetica.
Se dunque facciam confluire nell'arte tutti gli altri valori che le sono storicamente impliciti – tanto che lo stile d'un fittile o d'una seggiola, nonchè d'una statua e d'un tempio, basterebbe a renderci intuibile e attuale l'intiera mentalità d'un popolo e d'un tempo –, potremmo collocare a' due lati di quelsensismo (o estetismo) artistico del primo esempio, sul quale insistemmo per chiarire l'essenza del bello, l'idealismo (o meglio, spiritualismo) e il realismo (o meglio, naturalismo) della grande arte: i due poli di questa, come di tutto il pensiero. Ma in primo luogo, anche qui bisogna poi intender questi termini tecnicamente, in concreto, rispetto allo stile, e non in astratto rispetto ai fini psicologici: un artista ellenico idealizza anche il reale, mentre che un tirrenio (etrusco o romano) interpreta realisticamente anche le divinità, gli eroi e le anime dei morti. La moralità dell'arte non è che l'eticità della sua tecnica; quindi, p. es., oggi «serietà» e «onestà» artistica son come a dire «verità»: sincerità e naturalismo tecnico.
Inoltre, que' due poli che si antinomizzan nel pensiero esplicito, s'implicano nella sintesi estetica, che li dirige ugualmente verso la linea comune della pura arte, del valore formale. Se per es. il trascendentismo conduce spesso all'arte «piacevole» (al cosiddetto «edonismo»), ossia ad esprimere il nostro ideale in una forma bella in sè, come se fosse in natura, il realismo conduce del pari all'arte per l'arte che tratta la natura come se fosse bella, ossia esprime il valore formale anche del disvalore ideale. Voglio dire che il naturalismo, non pieno dell'eticismo, pur quando intende raggiungere il nudo e arido «vero», si spiritualizza proprio nella valorizzazione che la ricerca stilistica compie anche dei disvalori – dell'empirico individuale e contingente, del male e del dolore, e, insomma, del «brutto» in natura –, e, com'è stato ripetuto, ce ne libera: non perchè l'arte faccia diventar piacevole il doloroso, bene il male e vero il falso, chè anzi questi disvalori verranno evidenziati ed esagerati nell'artificio estetico (un letterato ci farà piangere su ciò che nella vita ci passa con indifferenza sotto gli occhi): ma perchè risolve in unvalore esistenziale – in un'espressione «definitiva», abbiam detto, ossia in accordo con la finalità che qui è obbiettiva – ciò che rimaneva un disvalore fin che veniva rifiutato o negato per altro, in cui ponevamo il dover essere e il piacere.
Infine (e per conseguenza) le opposte finalità del pensiero logico e pratico s'appàgan l'una l'altra incrociandosi, per così dire, sul terreno estetico: come l'arte classica, per es., unifica il fine oggettivo e reale (intellettuale) con la forma soggettiva e ideale, così quella romantica attua il fine etico in una forma realistica, in un'espressione ch'è o vuol essere «naturale». Però, tal naturalezza sarà sempre quella d'una tecnica e d'uno stile. Inventi od interpreti forme esistenti (espressioni di sentimenti o rappresentazioni di oggetti), il sentimento artistico (liricità) come la cosa figurata dall'arte (contenuto) saranno sempre invenzione o interpretazione stilistica di suoni colori chiaroscuri rilievi ecc, che potenziano quei valori nel sensibile divenuto fine a sè stesso; come l'amore, stretto parente dell'arte, può risolver nell'amplesso i più profondi bisogni della specie, le più alte e platoniche aspirazioni della persona. Ne consegue, come osservammo, che il lirismo romantico non è nè lirismo nè romantico se non quando trova la sua espressione formale, il suo «classicismo».
Il giudizio e la critica d'arte implicanti sempre l'opera e l'autore (senza di che sarebber giudizi sul bello in natura), e astrazion fatta dai giudizi puramente storici o in quanto storici s'avviano nelle stesse due direzioni, e dovrebbero incontrarsi nel medesimo punto, costituente il fondamento del criterio artistico. Di solito (presso i profani, sempre) il giudizio d'arte va alla forma raggiunta, alla definitività espressiva, da cui riceve il valore; e di qui risale all'artista, prestandogli anche i valori morali dell'opera sua (egli sarà un angelo se sa far gli angeli e un «maledetto» se è un pessimista). Ciò che allora conta è l'«opera» e il «monumento»: chiamo così quella forma artistica che vive ormai in sè, staccata dall'artista, perchè appunto definitiva, com'è dei «capolavori» che costituiranno, nell'opinione comune, l'arte «classica» d'un dato periodo. Presso gl'iniziati invece, presso i raffinati e gli aristocratici dell'arte, il giudizio si rivolge di preferenza all'intenzione dell'artista, all'ispirazione, alla ricerca e al tentativo del nuovo; e allora si preferiscono i «primitivi» ai grandi maestri, l'abbozzo e il non finito al «quadro» e all'opera definitiva e non proseguibile se non per imitazione pedestre. Trattandosi di temperamenti artistici, coloro godono l'arte in quanto si sentono all'unisono con l'artista, che lasci loro il modo di collaborare all'interpretazione e quasi di sostenerlo e incoraggiarlo.
Questo secondo modo di giudicare va incontro al pericolo di scambiar per arte gli sgorbi d'un ragazzo sui muri e per stile i fregacci a colore su tela da sacco d'un artistoide improvvisato a Montmartre. Se ci mettiamo a lambiccare sui significati che noi stessi possiamo dar loro, la più supina imperizia e la balbuzie più idiota diverranno «simboli» d'infiniti valori, perchè tutto possiamo far dire a ciò che non dice niente. Ma l'arte è arte se costruisce, se impone sensibilmente, se attua il valore. Sì, anche il frammento, il «particolare» è artistico (un frammento di Saffo, un pezzetto di Michelangelo), e anzi piace più dell'insieme; ma quando in quel pezzetto c'è, inconfondibile, lo stile dell'opera intiera cui esso ci spinge a risalire con l'immaginazione, perchè l'espressione d'un vero artista è compiuta, senza parti neutre, in ogni punto. Sì, il bozzetto è arte (i «Re Magi» di Leonardo...), ma perchè c'è già tutto l'autore in quanto stile, anche se il contenuto vien sol accennato. E il «non finito» è, sì, una qualità artistica, specialmente in poesia, dove il verso è piuttosto evocazione che descrizione, e una parola scelta e collocata a quel modo, diffonde quell'arcana trascendente infinitezza, che diciamo liricità: ma proprio quella parola ci vuole, definitiva, insostituibile, stile raggiunto e, insomma (lo ripetiamo fin alla sazietà) esistenza, in cui consiste il valore esteticamente attuato.
9. – Anche la prima, più comune maniera di giudicare l'arte non va esente da errori e pericoli. Un capolavoro, già lo dicemmo, verrà apprezzato dal pubblico per i suoi contenuti, saltando la forma, proprio perchè non c'è più che la forma in cui quelli venner tutti risolti; lo spettatore o il lettore gode e soffre del tema svolto senz'addarsi ch'è l'arte quella che gli fa amare e odiare ciò che nemmen lo sfiorerebbe se soltanto conosciuto (rappresentato logicamente, saputo). Ne deriva questo curioso paradosso il loggione applaude, per mediocre gusto artistico, un Jago ampolloso e declamatorio, perchè ancor sente l'artificio, ossia il dislivello fra il contenuto e la forma; ma getterà tòrsi di broccolo all'attore perfetto, come se fosse un reale odioso Jago; reale Jago ch'egli poi, viceversa, saluterebbe affabilmente se abitasse di casa accanto a lui. Ma non si creda che la critica dei competenti eviti lo stesso errore quando confonde lo stile con la natura psicologica dell'artista, e dice per es. che Manzoni scrive «come si parla» (perchè stilizza la parlata toscana) o che Dante «va significando» quel che Amore gli ditta dentro (perchè interpreta dei contenuti vivi e non convenzionali)... Anche di qui nasce il paradosso, di riconvertire i valori stilistici (realtà sensibili) in realtà psichiche, e Michelangelo diventa il «ribelle» per antonomasia (la sua arte, ripeto, è tutta stile e perfin maniera: si confrontino i due «prigioni» del Louvre!), Manzoni il più paterno e buonsensaio degli uomini, ecc. ecc., salvo le amare delusioni della ricerca biografica!
Per gli uni e per gli altri c'è poi anche il pericolo di farsi, d'una forma e d'uno stile, sol perchè piace universalmente e tradizionalmente, un modello, e quindi un fondamento del giudizio estetico. Noi per es. siamo ancora sotto l'influenza del modello romantico, onde gran disprezzo di ciò che s'era fatto prima (si rifiuta perfino la grande arte «barocca») e che si fece dopo. Se unica poesia sono «I Sepolcri» e «La Sera del di' di festa», D'Annunzio e Pascoli diverranno oreficeria senza poeticità (ma anche Orazio e Petrarca, nonchè: Ovidio e Catullo).
Ma «poesia», in senso letterario, non è che il linguaggio in quanto si fa arte. Nel momento in cui la parola parlata e scritta prende per fine diretto la forma e poi per suo mezzo cerca d'attuare quei valori e quei fini, logici ed etici, che il linguaggio, in quanto espressione naturale della vita associata, rappresentava soltanto, in quel momento istesso (e non prima) acquista liricità, poeticità; che sarà per lo meno quella soggettività inerente all'accento indovinato, alla frase trovata, che, consapevolmente, almenoaggiunge valore alla cosa detta e al sentimento espresso, come l'accompagnamento musicale, fin dalle origini della poesia, potenzia e mette in valore i contenuti recitati. E come un artista mimico, non è artista in quanto si muove e gestisce come tutti, esprimendo naturalmente bisogni ed affetti o comunicandoli agli altri interessatamente e praticamente, ma in quanto imita gesti e movimenti – li interpreta, li stilizza –, così il linguaggio per sè stesso non è arte, ma è la materia dell'arte letteraria, che cercherà la propria forma, più o men imitativa del vero, comunque espressiva d'un «meglio» estetico (sensibile) che culmina nella poesia.
Pertanto la linguistica non appartiene necessariamente all'estetica, o vi appartiene come tutte le scienze che han per oggetto un fatto di espressione, un mezzo dell'arte, che sarà anche estetico, mentre che per noi il linguaggio è sopratutto logico. Tuttavia, la nota tesi del Croce era suggerita da un concetto più profondo, chiarendo il quale muoveremo l'ultimo passo verso la definizione del rapporto fra il valore sensibile e il dover essere spirituale, di cui la definizione del bello artistico non è che il termine medio.
Invero, c'è una gran differenza fra la «materia» delle arti (i colori del pittore, le note del musico ecc.) e le parole, materia letteraria: la parola era già formale (è la «forma del pensiero»), sintesi volutamente prodotta come «espressione», atto umano, per sostenere e rappresentare l'obbiettività d'un valore qualsiasi (anche pratico) preso logicamente, ossia «fuori di me» (fuori dell'io attuale) e comunicabile quindi agli altri. In che, questa forma logica, va a coincidere con la forma estetica? questa espressione va a coincidere con lo stile artistico?
Quel cubo rosso mi rappresenta percettivamente una casa; ma le parole «rosso» e «cubo» sono l'aggettivo e il sostantivo destinati a rappresentare una qualità e una sostanza in sè; e ancor più i termini «causa» e «cosa» che connotano il valore reale, presente in tutte le percezioni (come sentimento del conoscere e del riconoscere), ma preso ormai obbiettivamente. Se dunque formiamo un discorso di tali «concetti» in parole, in quanto ha un fine obbiettivo e utilitario esso è un atto che esprime, come ogni atto, il fine e vi si accorda, ma vi s'accorda nel dover essere rappresentato dai contenuti (nel valore obbiettivo del giudizio), non nell'esistere della forma (nell'atto stesso) che per ora resta un semplice mezzo e non ha un proprio valore.
Il linguaggio tecnico e scientifico, cioè la forma del linguaggio teoretico – e quindi, poi, tutto il linguaggio in quanto logico (in quanto pone il valore nell'obbiettività delle rappresentazioni) – è «prosa». Per farsi letteraria e oratoria, la prosa si deve dirigere invece all'arte, alla poesia: si deve soggettivare. Ma soggettivare a mo' dell'arte (tipo, la musica) che subiettiva i suoi contenuti (o almeno, la sua materia, le note, i colori) sensibilmente, facendo esistere la finalità (o almeno il sentimento) in una sintesi attuale, reale per sè (tipica, l'architettura) ma non in sè (fuori di noi); chè anzi questa forma sensibile è l'essere dell'io, la forma del sentimento (o il fine sensibilizzato).
Infatti l'arte letteraria costruisce per immagini, come le arti figurative, con la differenza che si deve accontentare di evocarle per mezzo di parole: inferiorità largamente compensata dalla possibilità che han le parole di immaginare qualsiasi contenuto. Tutto il pensiero, anche la scienza (come nei dialoghi di Galilei), anche la filosofia (da Platone a Schopenhauer e a Nietzche), può acquistare stile letterario: ma bisogna che concretizzi l'astratto logico, che attui il valore spirituale e rappresentativo (il dover essere) in una presenza, in un'evidenza attuale e sensibile (l'esistere come «immagine»), ch'è la pietra di paragone del valore artistico del linguaggio (Napoleone dev'essere esistito, Madame Bovary esiste).
Ora, la tecnica artistica di quest'arte letteraria è di nuovo tutta rivolta al mezzo estetico, alla parola (confrontare l'epistolario del Flaubert), che di materia diviene spirito, di strumento diviene fine. L'immagine cerca la sua forma: il suono, l'accento, l'inflessione, il timbro; i ritmi, le pause, le coincidenze e le rime; gli accordi e i contrasti, di suono, di colorito e chiaroscuro; i tropi e i traslati e tutte le figure e i modi della composizione stilistica; ma sopratutto l'unità assoluta, definitiva, di senso e di espressione, la icasticità della parola e la sua capacità evocativa (potete concepire i «Sepolcri» fuor della loro forma?).
Di solito, la poesia viene invece distinta dall'arte, e poi aggiunta, ora a un particolar genere letterario, dando così luogo ai canoni dell'arte poetica, ora a tutte le arti come la lor comune liricità. Quella distinzione non chiarisce le idee se prima non si sdoppia il problema del rapporto di forma a contenuto, che in estetica non è che il problema dell'unità o coerenza stilistica, mentre che in teoretica s'allarga nel problema della unità o immanenza dei valori, in quanto trascendentali (questa si può dire la liricità dello spirito), nella forma sensibile, unità estetica che si attua particolarmente in letteratura.
Infatti per un pittore, il contenuto può essere nient'altro che un pretesto per ottenere un rapporto di colori; ma se questa è l'arte, tutti sentiamo che la letteratura è qualcosa di più dell'arte e ci obbliga ad allargare il problema. Anche se ci limitassimo a chiamar «arte poetica» la tecnica de' suoni accenti e ritmi d'un particolar genere letterario detto per antonomasia «poesia», l'elemento sonoro del verso conta meno come musica in sè che come accordo della forma sonora al senso e al contenuto: una pausa, una rima, un'arsi e una tesi sono ben povera bellezza formale se non riguardano il significato. Dato il carattere obbiettivo e logico (cioè grammaticale) del linguaggio, inscindibile pur dal valore espressivo ed emotivo del fonèma – anche una semplice interiezione o il tono della voce divengono linguaggio sol in quanto servono a rappresentare altrui i nostri sentimenti –, allorchè da mezzo pratico di comunicazione qual era il linguaggio naturale passa in fine artistico, vi trasporta i propri valori rappresentativi de' quali non si può mai spogliare del tutto essendo fatto per essi.
Non soltanto dunque la linguistica, ma neppur la filologia si esaurisce nell'estetica in senso stretto. La letteratura esigerebbe un'estetica allargata, connessa al problema metafisico dell'immanenza del pensiero più alto alla sua più semplice forma.
10. – Ma ritorniàmo un istante indietro, e concludiàmo prima circa gli stessi problemi nelle arti figurative (imitative) come la pittura. Che cosa intendiamo noi per «contenuto» d'un quadro, se non ciò che il quadro ci presenta? È contenuto per noi che guardiamo, ma per se, è la forma istessa, il dipinto. In che stava dunque l'interesse del porre questa forma pittorica in rapporto con un altro contenuto, con un oggetto esterno e anteriore ad essa (il modello)? Stava nel bisogno teoretico di distinguere arte e natura, stile (presentativo) e realtà (rappresentata), bello e vero.
Confrontando queste due cose, dicemmo che l'arte imita la natura e la storia (e tanto più se vuole rappresentare, «illustrare» il tal contenuto esterno); ma che, in quanto è forma e figura, ne risulta sempre un'interpretazione, ottenuta con la scelta di questo o quel mezzo tecnico (come la plasticità dei romani, il cromatismo dei bisantini, la linea o «contorno» dei gotici ecc.) che serve a tradurre il contenuto (esterno) analitico e molteplice – poi che in natura linee e colori luci e ombre piani e volumi ecc. son lì semplicemente vicini e per caso e ci servono unicamente per rappresentarci gli oggetti fuori di noi – a tradurli, dico, in una forma sintetica e unificante, la quale poi ci aiuterà a trovare i valori formali anche in natura. Ilvalore di quella forma – si chiami esso oggettivo perchè si tratta d'una figura più o men «verisimile» ma pur sempre stilisticamente coerente (p. es. in Raffaello, benchè le figure aderiscano al vero, sono però la melodiosità dei contorni, la subordinazione delle superfici colorate, la «composizione» ecc. quelle che lo interpretano con la serena grazia e l'armonica dolcezza distintive dell'Urbinate); o lo si chiami soggettivo perchè sentimento «espresso» dall'opera d'arte (l'umido tenero d'un fondo giorgionesco, la vibrazione lenta della penombra leornardesca, il solido e profondo del luminismo caravaggesco ecc.) – sta tutto quanto compreso nei puri rapporti sensibili, che nel contempo formano la figura obbiettiva, ma con la espressività o «carattere» dello stile: rapporti che hanno in sè la loro legge interna, ch'è la detta coerenza stilistica, unificante il contenuto alla forma, e non viceversa .
Questa considerazione, che vero contenuto artistico non siano i contenuti esterni richiamati o rappresentati dall'arte – sotto il quale aspetto, l'arte ha relativamente ad essi soltanto un valore «illustrativo» e vale in sè come arte «decorativa»: in tale rapporto, il problema dell'arte si circoscrive come problema della pura forma (della forma bella), per distinguere e non per unificare i valori –, ma che il contenuto divenga interno all'arte nell'interpretazione stilistica, consistente nel rendere ogni valore presente e unificato nella forma, è implicita, se non erro, nell'odierna teoria fondamentalmente giusta della «pura visibilità» delle arti figurative (le arti che fingono un oggetto). Paragonata col modello esterno, l'arte appare loro astraente e deformante, e queste divengono le leggi dello stile contrapposte ai criteri del verismo (o meglio, «verisimilismo»).
Certo, la stessa unilateralità del mezzo artistico, tanto più necessaria quanto più esso serve a unificare i contenuti nella forma (p. es. colla luce nel luminismo pittorico, col disegno nel bianco e nero, col rapporto dei piani in scultura ecc.), rende l'arte «astraente» di fronte al modello; ma questa astrazione o scelta tecnica condiziona la concretezza medesima dell'arte, la sua potenza d'attuare un valore nella forma d'un rapporto sensibile: dipingete al vero la Venere di Milo e turberete l'effetto estetico della «linea». Perciò (d'accordo!) sarebbe fuori dell'arte chi giudicasse che nei bisantini fu un «difetto» trascurare il chiaroscuro, o nei gotici la prospettiva. Tanto varrebbe il dire che un fantoccio meccanico, perchè cammina davvero, è più bello della Nike Samotracia che corre sol per effetto del modellato: di qui si giungerebbe a porre il massimo dell'arte nella natura, che in tal senso è l'opposto (l'estremo dell'arte nel senso dell'obbiettività è l'architettura). La prospettiva dei fiorentini o il rapporto tonale dei veneti diverranno a lor volta due mezzi d'interpretazione artistica sullo stesso piede della purità dei colori dei bisantini e del semplice contorno dei gotici.
Del pari è giusto affermare, che l'arte «deforma» il vero perchè modifica e storce, più o meno, le forme della natura, se pur non ne prescinde del tutto lor sostituendo figure fantastiche, come in tanta storia dell'arte orientale ed egizia, prefidiaca e romanza; ma deforma il reale esistente per costruire la propria realtà, l'espressività della forma artistica. Anche qui, pertanto, sarebbe fuori dell'arte il ripetere per es. che l'arte dei «primitivi» era «scorretta» o «infantile» (perchè deformatrice): essi non dovevano affatto correggere le loro anatomie e prospettive o scorci per la semplice ragione che vedevano e sentivano a quel modo, che quella era l'espressione adeguata alla lor ispirazione. Tanto varrebbe imputare a un musicista di esprimersi musicalmente invece che con parole naturali.
Così, l'odierna critica e storia dell'arte – parlo di quella che guarda l'arte non soltanto da erudito (ossia col documento) o da letterato (ossia con l'immaginazione), ma la guarda proprio da artista: la guarda con gli occhi – è venuta sempre più orientandosi verso un espressionismo estetico che, intendendo lo stile come espressione dell'impressione soggettiva, trasporta il contenuto artistico tutt'affatto dentro il soggetto, e respinge ogni contenutismo oggettivo, ogni «verismo». L'artista trova sempre in sè medesimo, nel proprio modo di sentire, e quindi di vedere, il suo vero contenuto.
Appunto perciò (aggiungono) egli deforma il modello la deformazione del vero obbiettivo diventa anzi l'indice della soggettività o liricità dell'arte, e si potrebbe dire, della sua romanticità. Ogni volta che l'arte cerca il proprio contenuto nell'ispirazione, sia essa mistica oppur lirica, o anche soltanto impressionista, s'allontana dall'imitazione del vero e costruisce le sue figure liberamente, obbedendo al bisogno di esprimere, come avvenne nell'arte medievale e, in genere, nell'arte dei «primitivi». Se dunque oggi, di nuovo, un «novecentista» (un Matisse, un Picasso, un Utrillo) deforma la natura, per es, figurando una Vergine senza rispettare le proporzioni e tanto meno la regolarità dei lineamenti (ossia, come direbbe uno del pubblico, facendola «brutta»), egli, concludono, ne avrebbe il diritto in quanto lo faccia unicamente per cercare una forma più espressiva.
Ma eccoci di nuovo sul ciglio d'un abisso, se non ci tratteniamo in tempo, prima che qualche pseudo pittore o scultore approfitti di un tal criterio per gabellare come arte qualunque «composizione» (o scomposizione) la sua imperizia tecnica e la sua vanità ci vogliano ammannire, col pretesto che l'arte è espressione d'un contenuto tutto soggettivo, e anzi pura creazione del libero spirito umano. Prolungando questa tesi, l'arte per eccellenza è senza forma, ossia deformatrice al punto da negare ogni forma (per non cadere nè nell'«illustrazione» nè nel «decorativo»); lo stile è l'espressione immediata, naturale come la parola, e il gesto, anzi lo stesso fare umano e pratico (futuristicamente!): la vita (la natura dalla parte del soggetto), ossia, di nuovo, l'opposto dell'arte, che nel senso dell'espressività culmina invece nella musica.
Ma come il contenuto artistico, se esiste, incomincia ad esistere in quella figura che lo attua stilisticamente (lo esprime artisticamente), e la sua soggettività non l'esime certo dal dovere d'obbiettivarsi nell'arte, così la libertà o creatività dell'artista non viene dispensata dall'obbligo di cercare la forma estetica (anche se non l'intende edonisticamente, come imitazione di un bello già dato e convenzionale), ch'è poi estetica appunto in quanto è più espressiva (che la natura) di quel valore. Se no, in che l'arte supera la natura?.
11. – Per noi è ormai facile rettificare il soggettivismo estetico, affinchè non divenga un contenutismo come quello oggettivo.
L'oggettivismo era presto corretto. Non possiamo porre il bello artistico in un contenuto oggettivo della conoscenza, in una cosa o causa trascendente la forma che ce le rappresenti soltanto. P. es. il contenuto di questo rettangolo bianco è la sua materia (è un rettangolo di carta) rispetto a quest'oggetto, l'arte non consisterà nel presentarmi un nuovo foglio di carta, ma, o nell'ornare decorando quest'oggetto, nel qual caso si rende autonoma come pura arte, rètta unicamente dal gusto della forma divenuta fine a sè medesima; oppure nel realismo artistico, dove «realtà» non è un oggetto trascendente la forma, ma la finalità realistica, che l'artista esprime ed attua nello stile. Superfluo qui ripetere, che l'artista lo può fare scegliendo e inventando forme più espressive di quelle naturali per interpretare la realtà della natura (e di noi stessi come natura), superandola: il contenuto, da oggetto s'è mutato in finalità oggettiva, e da «natura» in «spirito».
Ma neppure lo spirito è mai un contenuto in senso proprio, se non per lo psicologismo che lo obbiettìva in una sostanza o causa su l'analogia degli oggetti della conoscenza. Per noi, lo spirito – lo s'intenda empiricamente come «io» («io esisto» non è che la posizione pratica della sensazione), o filosoficamente come finalità rivolta al più che l'io (dover essere trascendentale), e quindi anche all'essere, al non io (presente come stimolo e opposto come limite nell'esistenza stessa dell'io) – è sempre valore e non è mai uno de' suoi contenuti.
Il mondo, lo sappiamo, è un mondo di forme, ed il valore si attua nella forma. Tra le forme distinguiamo gli atti (forme del corpo), perchè non soltanto ci rappresentano obbiettivamente noi stessi e il nostro rapporto col mondo, ma anche perchè attuano subiettivamente la finalità (appagando il sentimento), e così la esprimono (per gli altri). Esprimere, non è rappresentare conoscitivamente, ma comunicare per partecipazione la subiettività di un valore (se uno scoppia in una risata tutti ridono con lui, e non solamente se ne rappresentano la gioia). In natura, l'espressività d'un atto non è che la subiettività d'una forma. E in arte?
Uno che arrossisca di vergogna o se la dia a gambe per la paura, sebbene «esprima» benissimo questi sentimenti e fini subiettivi, non è per nessuno un artista: artista è, p. es., l'attore che «imita» il pudore o la paura, ossia prende per suo fine quei gesti che nella vita erano spontanei oppur pratici e, condivida o no quei sentimenti, li rende tragici o comici o farseschi nello stile. Di nuovo parrebbe, che dei contenuti, questa volta soggettivi, passino con la loro espressività nell'arte a renderla espressiva.
Ma no: l'artista che semplicemente trasporta in arte un vero riso e un vero pianto, è l'ultimo degli artisti, il più povero e inespressivo. Di nuovo, l'arte, o «aderisce», come pura arte, al contenuto che prende a pretesto o che vuol illustrare, e ci darà un riso e un pianto stilizzati, resi belli per sè, divenuti elementi della pura forma; e pertanto si può dire, «idealizzati»; ovvero l'eticità di quel dolore o di quella gioia arde l'anima dell'artista, strabocca oltre il contenuto nell'idea morale per farne un simbolo tragico o comico di dolore o di gioia (e magari il riso diverrà tragico e il pianto, comico), e allora il «carattere» o espressività dello stile interpreterà in tal senso la figura ridente o piangente: ma sempre con gli elementi stilistici, attuali nella forma, inesistenti prima di questa nel contenuto soggettivo, nell'ispirazione. Infatti, a un pittore basta un chiaroscuro movimentato (anzi, a un fotografo, il giuoco delle luci) per rendere espressivo anche il vero, per dar «carattere» (soggettività) alla figura.
Ma dal momento che i sentimenti e le finalità dell'artista, divenendo finalità del gusto, debbono risultare come valori sensibili dal loro esistere in quella forma (chiamata poi, perciò, «bella», a modello di nuove stilizzazioni e a guida della contemplazione estetica), la continua diatriba dell'espressivismo contro l'estetismo, che quasi oppone lo stile alla forma, la subiettività dinamica dell'espressione all'obbiettività statica del «bello», la liricità romantica alla purità classica ecc. ecc., si riduce a una questione tecnica riguardante la libertà dell'artista di fronte al tema. Ora, l'artista in quanto fa della pura arte (come nella pura musica) è padronissimo de' suoi mezzi, diretti sol dal gusto; ma è proprio in quanto egli si proponga d'interpretare con essi un altro valore (come l'architetto che intende costruire un'abitazione o una chiesa), che vi deve accordare la forma, se non vuol appunto ch'esso resti un contenuto esterno a cui l'arte s'aggiunge, ma non lo attua.
Perciò, quando un valoroso critico e storico dell'arte (il Marangoni nel libro citato) chiede perchè, se un letterato può dire che una donna ha «un collo di cigno», non si concederebbe a un pittore di disegnarla in tal guisa, risponderei subito che il «collo di cigno» in letteratura è una metafora, ossia un'immagine (di cattivo gusto) evocata accanto a quella dell'oggetto in questione; ma in pittura, o si figura una donna, o un cigno (o, se mai, l'una accanto all'altro), per la ragione che diceva Orazio dell'uomo cavallo, della donna pesce e del cipresso sulle onde. Il disegno è contorno di qualche cosa e ne deve interpretare la realtà. Per quanto subiettiva, un'arte figurativa finge le forme degli oggetti, e i suoi valori spirituali si debbon esprimere nella concretezza propria della figura, nel che sta appunto il bello artistico di tali arti: ci debbono far sembrar reale lo spirituale, ivi compresa la spiritualità del reale, la poesia della natura.
Poesia: ecco la soggettività estetica, l'eticità del bello. Ma chi la cercasse nella sola soggettività empirica d'un sentimento e pratica d'una finalità, non la troverebbe mai, così come il bello non s'incontra dalla sola parte dell'oggettività percepita o pensata. Lirico, non è l'amore, è il ramicello di fiori col quale l'amante «batte alle chiuse imposte». Il primo libro dell'Etica spinoziana, per quanto altri lo chiamerebbe «un poema d'idee», non è poesia; lo è l'ultimo canto del Paradiso, dove quelle idee sono vedute («O somma Luce...»).
Fin che soggetto e oggetto si antinomizzano e si trascendono, per quanto l'uno salga all'eticità e libertà dello Spirito e l'altro alla Ragione e al determinismo della Natura; o fino a che il valore, ideale o reale, trascenda il sensibile, adoperandolo come strumento e ostacolo da superare, o come contenuto a posteriori delle forme a priori, avremo il pensiero e l'azione, non avremo la poesia. Essa scaturisce dall'incontro dei valori trascendentali e antinomici dentro la forma sensibile: subiettivazione del mondo (sentimento del finalismo immanente all'oggetto, come quando diciamo «riso della terra» o «lacrime delle cose»), a condizione che l'io si senta nel più che l'io che lo rasserena e lo concilia con l'Essere. Perciò appunto, e con licenza parlando! (preferisco dirla grossolanamente che riprender le noiose tiritere sulla «catarsi» artistica) è più lirico far pipì in piena campagna che sparare una revolverata al seduttore della propria sorella.
12. – Psicologicamente, la poesia è sentimento? Si rinnova la questione fatta sul «bello» ed è questione d'intenderci. È sentimento in quanto è sensibilità pura: vale a dire, non sentimento dello stimolo sensibile (come un'emozione) – soggettività dell'oggettività antinomizzata, e pertanto valore pratico (volere) e conoscitivo (dover essere) rappresentati per mezzo, del sensibile e realizzati per mezzo dell'atto –, ma trascendentalità del sensibile senza trascendenza. Quel valore che si realizza nel pensiero pensato e perciò nell'atto voluto, è già in atto esteticamente; e con ciò dimostra (accerta) la possibilità della sua realtà, ideale, dell'accordo cioè di sovrasensibile e di sensibile. Poesia, allora, è il sentimento del trascendentale (dello «spirito») dalla parte del soggetto, indipendentemente dalla realtà in sè; bellezza è lo stesso sentimento dalla parte dell'oggetto, indipendentemente dalla praticità per noi,
Ma come son aride queste definizioni! Poesia e bellezza, quando si presentano in natura, sono unite come sentimento di un bello esistente, già dato, che accorda l'io col mondo e con la vita. Bello e poetico insieme è il fiore blù della genzianella, allorchè lo incontriamo sui pascoli d'alta montagna: tutto il mondo e noi stessi possiam essere o non essere; l'ieri e il dimani, la finalità e la causalità, ogni vero e ogni bene, ogni principio e ogni fine, che cosa «sono»? Tutto fugge, nello spazio e nel tempo, fuori di me, e Dio mi sembra infinitamente lontano e inaccessibile: ma quel fiore blù esiste, è attuale, infinitamente piccolo nella sua concretezza ma infinitamente poetico nel suo valore, simbolo del mondo, bello dell'esser sensibile, del sentirlo e dell'esser visto, dell'esser io lui e lui me. «Perchè» sia bello, non so: esso è puro anche del conoscere; so che testimonia di valori reali e spirituali insieme, senza che ce li dobbiam rappresentare per concetti inadeguati e schematici.
L'arte è lo stesso «sinolo», divenuto un fine dell'attività e del pensiero. Esplicando il valore sensibile in cui ora essa implica gli altri (inversamente al pensiero logico ed etico), attinge l'unità formale (il bello) per mezzo dello stile (l'espressività, la liricità). Per questo appunto – per la sua artificiosità, per esser voluta – l'arte oltrepassa la natura. O meglio, ne oltrepassa tutto ciò che questa ha d'analitico, di astratto, di rappresentativo, e che il buon gusto artistico inesorabilmente rigetta, per far esprimere le sole forme delle cose (arti figurative), anzi la materia stessa (come suoni e colori); s'allontana (intendo dire) dalla natura «contenuto» (conoscitivo) per ritornare a lei nel concreto sensibile, nell'espressività della forma. Se a un «brutto» di natura facciam esprimere la sua bruttezza, diventa artisticamente bello perchè esplica nella forma l'essenza di quella (prima creduta) bruttezza. Questa, che al puro gusto era un disvalore, può infatti venire valorizzata almeno in quanto realtà espressa nell'arte dal realismo artistico.
Si deve concludere, che le arti figurative, interpretando il reale logico, v'immanentizzano espressivamente i suoi valori subiettivi e obiettivi, attuati nella forma; e che qui l'accordo di soggetto e oggetto nel sensibile è concreto, perchè è un fare una cosa, «poieticamente». Ma come accordare nel concreto artistico i valori puri e assoluti? Essi eran già «forme», espressioni cercate col linguaggio, «atti puri» in cuiesiste il pensiero puro, perciò detto formale; e spetta invece alla letteratura estetizzarle, farle valere anche per noi oltre che in sè; ridiscendere, direi, dalla poesia (o trascendentalità) del sensibile alla sensibilità (o immanenza) della poesia pura.
Perciò, come dicemmo, la letteratura è qualcosa di più di un'arte, o, se preferiamo dir così, non è mai pura arte. Vi s'accosta però due volte, al principio e alla fine d'ogni suo ciclo di sviluppo: in principio come «teatro», arte plebea imitatrice della vita, che sta al livello della mimica; in fine, come alessandrinismo o parnassianismo di raffinati della bella forma indifferente ai contenuti, «verso che suona e che non crea», che sta al livello della danza. L'una ascende alla poesia drammatica ed epica, l'altra discende («decade»?) dalla lirica. Ne' due casi, la ricerca del principio dello stile letterario sarebbe la medesima riguardante, p, es., un'arte figurativa, in quanto per un verso è imitatrice, ossia illustra un contenuto, e per l'altro è un edonismo decorativo e formale. Ma proprio per questo in letteratura esse sono considerate forme «minori».
All'estremo opposto sta la prosa scientifica storica e filosofica, l'esposizione e la spiegazione teorica, l'enunciazione pratica e dialettica: prosa, linguaggio tecnico, mero artificio destinato a presentare il pensiero nella sua purezza. Una formula matematica, un giudizio sintetico a priori, un principio puro pratico o una legge universale, ecco dei valori puri, che esistono unicamente nella forma che li esprime, forma sensibile per sè pratica, artificio tutto subiettivo per attuare un dover essere totalmente obbiettivo nel valore. In questo caso non esiste che il soggetto pratico – esiste in un contingente sensibile, la parola, sempre sostituibile per convenzione con qualunque altra –; il valore obiettivo (universale e necessario) è tutto un dover essere. L'arte letteraria si proporrà invece di render sensibile – di far esistere, di presentare nella forma espressiva del valore – i contenuti ideali del linguaggio logico ed etico. Così la prosa diviene, almeno, eloquenza e arte del persuadere; così la letteratura diviene alla fine poesia letteraria. In questo momento, la parola (la forma espressiva) ha raggiunto la sua necessità e universalità ideale: è insostituibile.
Valorizzare, esteticamente, il linguaggio: dall'accento che intensifica e sottolinea la modalità d'un sostantivo, d'un aggettivo, d'un verbo, al canto che la estetizza formalmente; dalla scelta della parola più pura e più propria, ossia pregnante per tradizione ed uso di un più chiaro e distinto significato, alla costruzione d'immagini che traducano, ossia interpretino e provino sensibilmente i valori del pensiero. Allorquando il linguaggio ha raggiunto l'accordo perfetto della sua capacità emotiva o espressiva con la sua capacità evocativa o immaginativa – l'accordo, per così dire, di valori musicali e di valori figurativi –, siamo alla poesia nel significato più stretto della parola. Essa è l'arte della letteratura, e la letteratura è arte, ripeto, sol in quanto è poesia.
Conclusione: – Mentre su l'Acropoli biancheggia il Partenone, per le vicine pendici qualche povero ilota ancor oggi costruirà il suo abituro di pietre e fango. Il passante qui storce lo sguardo e mormora: «Che brutto!», non soltanto in confronto con quell'armoniosa chiarità, ma perchè la vista di questa catapecchia gli rappresenta la miseria fisica e morale. Egli del resto è pronto a chiamar brutto anche il tempo nuvolo, e bello il sereno. Ma un pittore troverà bellissima la desolata casupola, bellissime le nuvole cariche di pioggia; e forse preferirà impiantar qui il suo cavalletto anzichè presso i Propilei. E anche noi dovremmo dar tutti i torti al primo passante, il quale ci rappresenta l'ignoranza e la confusione di quei valori che abbiamo pazientemente distinto... Ma, prima di dichiarare in fallo la coscienza comune (il «senso comune»), conviene cercar di comprenderne le ragioni.
Le ragioni del pittore, le conosciamo. Esteticamente, il tempo sereno val quanto la pioggia. Se noi contempliamo il mondo sensibile così come si presenta; e se la forma sensibile divien l'unico criterio del nostro giudizio, non più basato sui valori morali e ideativi mediati dalle (astratte) sensazioni, tutto è parimenti estetico in quanto possiede qualità intuibili, appartengan esse, obbiettivamente, al delicato corpo d'un efebo, ispiratore del Cristo apollineo che Michelangelo ha posato sulle ginocchia della Vergine in S. Pietro, o al ripugnante cadavere che, con non minore bellezza, ispira il Cristo morto del Mantegna alla Brera. Allora, si dovrebbe concludere che in natura, o tutto è bello, o niente lo è e il bello ve l'aggiunge l'arte.
Ma l'arte non crea un valore inesistente. Lo stile, come pura arte, consiste sol nel prendere come fine dell'attività quel valore sensibile che di solito è mezzo ai fini intellettivi: nel porre in valore il sensibile (di un oggetto come d'una persona, d'un atto pratico come d'un gesto e d'una parola), mostrandoci che ogni valore esiste in quei rapporti di colori suoni ecc. che costituiscono la forma di quella cosa, di quella persona, di quel pensiero parlato o comunque espresso. La teoria dello stile introduce a comprendere che se in ogni atto umano (il piallare del falegname come lo scrivere del filosofo) si esprime la finalità subiettiva, questa però si attualizza come valore formale (del tavolo piallato come del trattato scritto) in quanto la finalità si accordi con l'esistenza; e la «bellezza» comprova, vorrei dire, la bontà obbiettiva dell'atto. Adunque, dal problema della pura arte – dal «momento» estetico distinto – si è ritornati al problema della realtà dei valori, della lor reale unità.
Ogni cosa vale sensibilmente in quanto esiste necessariamente in quella data forma; essa è così il nostro stesso esistere attuale ed immediato, dal quale il pensiero esplicito attuantesi nella forma logica della parola e del giudizio risale conoscitivamente al dover essere spirituale – al dover essere nominale a priori, voluto dal sentimento –, per ridiscendere al dover essere reale, all'Essere in sè del sensibile fuori dell'io attuale; senza però riuscir mai del tutto a colmare l'antinomia. A metà strada, per così dire, fra la «cosa in sè», realtà del pensiero puro ma tutta a priori e senza più alcuna certezza teoretica – siamo certi ch'essa sia necessaria per pensare (siamo certi del pensiero), ma non della sua esistenza assoluta –, e la nostra esistenza sensibile, realtà empirica a posteriori senza universalità, troviamo la «natura» come un accordo concettuale, sintesi di pensiero (come finalità e dover essere) ed esperienza percettiva (ossia, in fondo, sensibile).
Ma il criticismo, stringendo le somme, trova che questa sintesi non è che un compromesso fra i «contenuti» sensibili dati soggettivamente e il valore formale che li implica obbiettivandoli, e quindi li adopera come mezzi ma li nega come fini, Infatti, o l'accordo si attua praticamente, nell'atto pratico, nel «fare», e consiste nel conformarsi alle condizioni date dall'esperienza: ma questi rapporti di fatto vengon tuttavia subordinati al nostro fine che sempre li supera, e la natura, concepita come vita, appare concatenata teleologicamente. Oppure l'accordo si esplica teoreticamente, nelle forme del pensiero, che si rappresenta il mondo per mezzo di espressioni formali, di giudizi e leggi di natura; ma se qui la ragione si conforma al dato empirico, lo fa sempre provvisoriamente, per una specie d'analogia induttiva: la convenienza ai contenuti non è che il metodo per aggiunger certezza all'ipotesi e garantirne l'applicabilità pratica, ma la sintesi è a priori, è dalla parte del dover essere obbiettivo.
Ebbene, l'arte è un accordo come la natura, ma, si potrebbe dire, arrovesciato, perchè la sintesi avviene dalla parte dei sensibili. In questo arrovesciamento – ch'è il suo artificio, la sua «finzione» –, il valore, come finalità e dover essere (e solo in tal senso) divien contenuto implicito della forma sensibile, pensata e voluta in quanto tale, ed esplicata nello stile. L'arte è anch'essa pensiero e attività (non è sol intuizione e dato); ma è pensiero senza concetto, perchè non cerca le rappresentazioni – non è conoscenza, di nessun grado –, bensì l'immanenza del loro valore obbiettivo all'immagine percettiva, e subiettivo all'espressione istessa (p. es. al linguaggio, in letteratura). Ed è attività – non è contemplazione e fantasia –, che si dà per fine l'atto medesimo, il fare sensibilmente, sia che fingendo imiti, sia che inventi formando una presenza o figura che attualizza i valori senza trascendersi.
Se dunque chiamiamo bello artistico il grado di tal accordo dei valori reali e ideali, ispiratori dei temi e motivi dell'arte, alla forma che li interpreta – grado misurato dal piacere estetico che ne risulta, come in generale il piacere misura l'accordo dell'atto al fine –, il bello artistico è quella forma definitiva, quella sensibilità tutta raggiunta, la quale ci dimostra con l'esperienza, quantunque sembri miracolo, che un valore, per quanto universale e assoluto, si può attuare in un particolar sensibile senza residuo; e che l'unità di soggetto e oggetto, antinomizzati nei concetti opposti di spirito e natura, è lì sotto i nostri occhi, in quei materialissimi suoni colori ecc. ne' quali il divenire dello spirito ormai esiste per tutti, reale realtà del soggetto nell'oggetto divenuto tutto forma (universalità dell'arte).
Qui volevamo noi giungere, chè il miracolo dell'arte c'insegna a scoprire il miracolo della natura, l'inseità, per così dire, dei valori soggettivamente sentiti nei sensibili obbiettivamente conosciuti. L'arte c'insegna a contemplare, primo e ultimo «momento» del pensiero; ci educa questa coscienza della forma, dove l'io fa da contenuto, materia che aspira a una forma, sentimento (si può dire «anima» o «inconscio») che si attua nella esistenza, finalismo che si realizza causalmente.
La contemplazione estetica giudica nella forma sensibile i valore spirituali, che in tal rapporto chiama «bello di natura». Lasciandoci guidare dal solo gusto, giudichiamo il fine dalla forma dell'atto, l'anima dalla forma del corpo, Dio e l'Essere dalla forma del mondo, il pensiero dalla parola. È un giudizio per partecipazione, in quanto nell'unità sensibile la soggettività resta un contenuto della sua oggettività o presenza. Di qui la parentela, ugualmente notata dal Kant, fra eticità ed esteticità d'una forma bella. Aveva dunque la sua ragione quel passante che giudicava brutto l'abituro dell'ilota. Tal giudizio è estetico, perchè disinteressato (senza finalità nostra) e aconcettuale (senza rappresentazioni); tuttavia l'esteticità viene attratta nella sfera pratica dalla partecipazione del nostro sentimento al sensibile, simpateticamente sentito come espressione d'una finalità fuori di noi.
Ma basta che la contemplazione si affini e divenga gusto essenziale della pura forma, di cui senta l'assoluto valore nel mero rapporto qualitativo (p. es. coloristico), adeguandovisi in tutto il sentimento (p. es. come liricità di rapporti tonali alla Corot, o drammaticità di chiaroscuri ecc.); basta che l'occhio spazi per una sintesi più larga (p. es. guardando quella casupola di contro al vasto cielo), e che il senso incontri un rapporto, una forma nuova, ed ecco che l'io a sua volta si sentirà nel «più di me», che al tempo stesso è presenza del suo esistere al suo volere. Sotto questo punto di vista, la «natura», concettualizzata come «io» e «non io», è la forma della lor essenziale identità, e quindi anche della lor coincidenza pratica. Infatti acquistiamo quel senso concreto della forma, che si dice anche senso tecnico, e che dirige l'atto pratico senza regole nè concetti, avendo negli occhi e sotto i polpastrelli la premonizione del modo in cui si debbon incontrare la finalità soggettiva e la sua obbiettiva attualità; mentre che, in quanto è meditazione contemplativa, vòlta alla metafisica unità del Bene col Vero, giudica il vero dal bello, arazionalmente, formandone un simbolo e un mito.
Con ciò non intendo concludere à un pancalismo o a un misticismo estetico: «ancor più preziosa della filosofia è la prudenza!» scriveva Epicuro a Meneceo. La critica del bello qui ha giovato unicamente a dimostrare, che il mondo sensibile, oltre che contenuto teoretico e mezzo pratico di concetti e di fini che lo trascendono, è pensabile per sè stesso come forma dell'esistenza, e perciò anche esistenza e prova (l'unica!) di quei medesimi valori detti formali: «momento» della coscienza in cui la realtà del valore subiettivo e il valore della realtà obbiettiva coincidono assolutamente (metafisicamente); e a conciliare così l'antinomia sui sensibili.