VI. Il bello

1. – Oggi c'è un bel sole; sole di marzo, dopo la pioggia, con l'aria limpida e fresca. Gli alberi sono ancora spogli, ma c'è una vibrazione di vita anche nelle cose morte. Qui davanti, una gran piazza; oltre la piazza, in fondo, case su case, rosse e gialline, arrampicate per il colle; da quest'altra parte, il viale che conduce a quella striscia di mare blù cupo, sotto il cielo chiarissimo. Odo un ronzar di veicoli, e gli appelli rauchi delle automobili, or vicini ora lontani. Mi sento vivere; sento tutti i miei movimenti, tutte le mie facoltà sveglie.

Questo è il mio piccolo mondo, limitato e contingente. Ma ancor più limitato, ancora più contingente è ciò che di esso esiste intuitivamente, ciò ch'è attualmente presente, la semplice contiguità de' molteplici (quel rosso, quel blù, questo suono...), la semplice continuità dei diversi (quel bruno che muta di posto passando davanti a quel rosso...), sintesi tutta a posteriori dei sensibili nella sensazione data. Ad essa io però non m'arresto un solo istante; interpreto il dato e lo supero; analizzo e giudico teoreticamente, scelgo e valuto praticamente: quella striscia blù è il mare, voglio andare al mare. Quando di proposito mi fermo al dato e mi ripiego a considerare la sintesi sensibile in sè stessa, si discioglie in un pulviscolo d'impressioni effimere alle quali, lo veggo bene, la sola conoscenza può dare un costrutto, una realtà, un valore, che immediatamente le trascende: già percepivo quel cubo rosso come una casa (una cosa), questo movimento come un fatto (un effetto). E se m'intestardisco a fissare qualcuna di quelle impressioni per definirla, ossia per conoscerla in sè, mi trovo in possesso di un'idea astrattissima e generalissima, come «rosso» e «moto».

I sensibili altro valore non avrebber dunque oltre quello ch'essi posson rappresentare, obbiettivamente come fenomeni di sostanze e cause che noi dobbiamo porre al di là della sensazione, subiettivamente come stimoli pratici che valgono per dei fini, che parimenti mettiamo fuori di essi. Però, intanto, è innegabile anche il reciproco: non c'è valore, reale o ideale, oggettivo o soggettivo, che sia rappresentabile (conoscibile), se non per mezzo del sensibile. Qualunque cosa sia per me o in sè il mare, non posso percepire nè pensare al mare, se non lo percepisco e penso in quella striscia blù che vedo, in questa parola che scrivo o dico, o in un'immagine, sempre sensoria, dell'una o dell'altra, che me lo rappresentano o ricordano. Nè posso conoscer me stesso, se non mi rappresento la mia personalità in un'impressione come questa, in un sentire interessarmi e commuovermi piuttosto per questo che per altro stimolo; e il mio volere e pensare medesimo, in un esser attento e attivo, in uno sforzo più in un senso che nell'altro, sia questo il fare o l'inibire un atto pratico, oppur sia un atto teoretico, un giudizio in parole segni e simboli.

Ma c'è di più. Questa capacità del sensibile di rappresentare, pur limitandolo, l'intelligibile, e la reciproca necessità dello intelligibile d'attuarsi sensibilmente, non riguardano un carattere estraneo ai valori rappresentati, anche se questi valori, per voler essere universali e assoluti, praticamente negano la particolarità e contingenza sensibile: essi sono «valori» – per es. il vero teoretico, il bene pratico – in quanto possono o debbon esistere. L'esistenza è ciò che aggiunge realtà a un concetto o a un'idea, ciò che li rende validi per sè (assoluti e universali) e non soltanto per noi, nel qual caso resterebbero dei meri desideri e fini soggettivi, delle finzioni e ipotesi senza probabilità nè apoditticità.

Ora, il carattere di esistenza probabile o necessaria – o tanto più quello di esistenza certa e «storica» –, è il sensibile che lo fornisce al mondo intelligibile dei concetti e delle idee. Solamente in quanto i loro contenuti esistono sensibilmente e la loro forma sensibilmente si attua o si può attuare, i concetti sono reali oltre che logici e le idee sono etiche oltre che morali... Insomma, per quanto si cerchi, non abbiamo altra prova della realtà d'un contenuto conoscitivo che la sua convenienza o rappresentabilità col sensibile, e non abbiamo altra prova del valore d'una forma in sè, ossia della verità ideale, che la sua presenza in quanto sentita: la realtà di quella casa è provata da questo cubo rosso che vedo, ma anche la mia idea di Bene e di Dio trova la testimonianza per la sua certezza solo in quanto è sentita.

Ma un sensibile è «soggettivo» perchè «illusorio», fenomenico? È illusorio solo quando crediamo reale l'oggetto in sè. Quando invece riconosciamo che un oggetto in sè (il trascendente del realismo ontologico) è un dover essere ossia una conoscenza formale e pratica, mentre che «reale» è la sua convenienza ai contenuti dell'esperienza, ai sensibili, questi diventano il dato presente e immediato, l'assoluto a cui si relativizza il sapere, la prova teoretica della sua verità trascendentale, della sua realtà o illusione. Con ciò non si cade nell'empirismo: un dover essere, un'idea formale (un valore trascendentale), è pur reale in quanto ha un'esistenza (e ce ne possiamo formare un concetto di natura), che ci prova il suo valore, ce lo fa almeno sentire (e ce lo fa attuare come volere).

Un sentimento è illusorio perchè soggettivo? E una sensazione in genere, non prova nulla della realtà d'un valore perchè lo rappresenta soltanto soggettivamente? Al contrario: proprio perchè la sensazione è la natura, la realtà del soggetto – è l'esistenza, l'unica esistenza del soggetto come oggetto, intesi questi non come due concetti praticamente opposti, l'uno del dover essere e l'altro dell'essere, ma come intuizione o presenza dell'unico «io» (anima e corpo!) –, proprio perciò la sola sensazione prova l'oggettività di qualcosa, il «non io» dell'«io».

Questo fluire sempre nuovo di sensazioni che si compongono e si scompongono nell'esperienza diretta e intuitiva, è l'unico modo in cui l'Essere, qualunque esso sia, è presente a noi, o meglio, ripeto, è l'esistenza stessa dell'io in quante parte e partecipe del mondo. Chi, per religioso timore, o per isterico ribrezzo del mondo sensibile, lo nega totalmente per gettarsi in braccio al puro intelligibile; chi per conquistare l'in sè del valore rifiuta i valori sensibili, è il solo che alla fine dovrà logicamente concludere che l'assoluto è illusorio e che nulla esiste.

2. – La nostra piccola constatazione, della realtà esistenziale dell'io sol in quanto sensibile, può avviare il pensiero teoretico a una soluzione del suo problema ultimo, allor che non si consideri più il sensibile qual contenuto conoscitivo – come faceva il sensismo ricercando la genesi della conoscenza: e si capisce che in quel caso i contenuti sensibili divengono illusori relativizzandoli alle idee razionali (che pur debbon valere per essi perchè sono da essi rappresentate) –, ma si consideri in quanto esso medesimo è sintesi formale e valore in sè, che qui (e qui solamente) significa anche «in me».

Il problema è questo: la forma (il valore), teoretica e pratica, trascende ogni volta i suoi contenuti sensibili, proprio perchè li prende a contenuti, mentre pure son essi che le dànno realtà esistenziale e quindi rappresentabilità teoretica. Ma se il valore puro o formale è trascendentale rispetto ai contenuti dell'esperienza, questa non lo potrebbe mai nè rappresentare nè provare, nè minimamente suggerire o provocare, se a sua volta non si presentasse in una forma, con un valore proprio ed in sè (o almeno, per sè), che intuitivamente ce lo faccia sentire. «Esiste» questa forma, non più (o non ancora) del sensibile, ma, proprio, forma sensibile?

Ebbene: teoreticamente parlando – idest, giudicando al modo indicativo tempo presente – non esiste altro che la forma, e non esiste altra forma che quella sensibile! Poi, per trasferto psicologico e per dialetticismo logico, il predicato dell'esistenza passa dalla forma, in quanto rappresentazione, al valore rappresentato. Perciò dico: esiste quella casa rossa, passa quest'automobile, trasferendo l'esistenza dal sensibile alla cosa e al fatto percepiti e pensati nelle sintesi conoscitive. Allora il filosofo facilmente conclude, che dunque altro invece non esiste che la percezione e l'idea, dimenticando che il percetto si realizza nel sensibile, e l'idea si attua nei percetti, o almeno nelle immagini e nelle parole, senza le quali sarebbe impossibile il pensare. Difatti, le idee pure le chiamiamo valori formali proprio perchè non si posson rappresentare che in pure forme, in parole.

Io dico: prima di tutto esiste il sensibile, come tutti ammettono, anche se lo credono un'apparenza (esisteranno le apparenze) e se contemporaneamente ammettono l'esistenza in sè d'un Valore assoluto (pur figurandoselo, i più, sensibilmente, ossia miticamente). Esistenza e sensazione sono i nomi astratti, uno logico e l'altro psicologico, dell'intuizione o presenza immediata; salvo a trasferire poi l'esistenza ai valori mediati, che l'intuizione «mi rappresenta», e che in tal modo divengono «reali». Pertanto, ogni valore (trascendentale) esiste, si presenta, in una forma sensibile (almeno la parola e l'immagine fonetica), di cui apparirà contenuto dal punto di vista estetico; mentre dal punto di vista logico la forma sensibile diviene essa contenuto, che diremo reale (in quanto esistenziale) dei nostri concetti. Da ciò discende assai chiaro il fondamento critico dell'estetica: ogni forma, e quindi anche la forma in quanto unicamente sensibile, ha il suo valore immanente; o meglio, quel valore ch'è trascendentale come rappresentazione logica ed etica di ciò che dev'essere realmente e idealmente, è immanente in quanto è valore sensibile, valore estetico, valore che «si presenta» sensibilmente.

La filosofia prima e dopo Kant, degradando il sensibile ad apparenza fenomenica e subiettiva, sperò di vanificarlo in tutto: quello che esiste, perchè deve esistere (in sè), è la cosa (o l'idea). Purtroppo questo realismo perdura anche in Kant. Dal criticismo si dovrebbe concludere, che il molteplice e vario dell'esperienza, la sensazione, è l'esistere del soggetto (del sentimento), il suo empirico attuale realizzarsi, e quindi l'essere (o il divenire) dell'io in quei rapporti obbiettivi, detti natura, ch'egli stesso pone quando accorda e unifica i sensibili nelle sintesi delle categorie che ne «debbono» costituire l'essenza (nel mentre che gli si oppone come soggetto e spirito assoluto, che per mezzo del volere si determina per antinomia pratica): il Kant invece continua a pensare, con una contraddizione in termini dovuta all'antico animismo, che i sensibili sian di natura soggettiva, nostra rappresentazione o immagine di un'identica esistenza fuori di noi. I termini «rappresentazione» ed «esistenza», in quel sopravvivente realismo, vengon sempre usati con significato inverso a quello che avrebbero in un criticismo coerente.

Si rilegga, per esempio, questo periodo che scelgo di proposito dalla «Critica del Giudizio» («Analitica del Bello», paragr. 2°): «Per dire che un oggetto è bello... bisogna considerare ciò che la sua rappresentazione produce in me e non ciò in cui io possa dipendere dall'esistenza dell'oggetto». Il Kant voleva distinguere il giudizio estetico («Quel palazzo è bello») dagli altri giudizi di valore, per es. economici («Esso è ben inutile») o morali («Ed è una vana pompa»), per giungere a definire analiticamente il fondamento del gusto (il valore del bello), come piacere disinteressato.

«Quel palazzo» fa da contenuto comune di tutti questi giudizi; ma – argomenta il Kant – in quanto esso esiste realmente, diviene una condizione dalla quale dipende che siano o no appagati i miei fini e interessi, e in tal caso il mio giudizio su quell'oggetto è pratico, definendo l'accordo o il disaccordo tra le finalità (l'utile, il bene) e la realtà dell'oggetto (implicante a sua volta un atto conoscitivo, almeno la percezione). Il giudizio estetico invece è indifferente all'esistenza di quel palazzo perchè non si fonda su concetti, nè pratici nè teoretici (non è una conoscenza); esso giudica unicamente la rappresentazione («Vorstellung»), intesa dal Kant come immagine subiettiva del reale sensibile: ciò che «io» vedo e contemplo (fosse pure un fenomeno, una finzione, un'allucinazione), al solo intuirlo e «rifletterlo».

Subiettivato, quasi inconsapevolmente, l'oggetto estetico – la forma sensibile –, bisognava obiettivare, ossia universalizzare, il soggetto estetico, il sentimento prodotto dall'immagine, affinchè questo divenisse il fondamento soggettivo, sì, ma anche universale dei giudizi di gusto. Il Kant deduce allora l'universalità del giudizio estetico «è bello» dal carattere disinteressato del piacere su cui si fonda, disinteresse che rende il giudizio presumibilmente valido per ogni persona di gusto: quasi un a priori del sentimento. In tal guisa si apriva la via a tutto il soggettivismo dell'estetica contemporanea; ma la si chiudeva a ogni possibilità di comprendere l'unità metafisica di sensibile e sovrasensibile, intravista dal Kant ma rimasta un arcano e «inesplicabile» accordo.

3. – Rettifichiàmo avanti tutto l'uso del vocabolo «rappresentazione». Per ognuno esso indicherà qualcosa che «ci» rappresenta qualcos'altro (il tale attore rappresenta un personaggio, un quadro rappresenta una foresta, ecc.). Ma in psicologia, «rappresentazione» suol denotare la reviviscenza d'una sensazione o immagine precedente, e rappresentarsi allora indica il ripresentarsi di qualcosa alla memoria, sia un vago fantasma, sia un preciso ricordo; o sia nelle cosiddette associazioni percettive o immaginative. Noi sappiamo già che pensare di tale adattamento funzionale chiamato memoria, che interpretammo naturalisticamente. Sappiamo che una immagine riprodotta si realizza o tende a realizzarsi nel sensibile attuale, o che almeno si rinnova come innervazione similare: comunque, la immagine detta «mentale» è della stessa natura della sensazione; se non è che una sensazione riprodotta e più organicamente condizionata, è pur sempre oggettiva come qualsiasi altro dato sensibile. È vero che, nel confronto che il pensiero istituisce fra i suoi oggetti per fondarne il valore di verità, diremo poi che un'immagine mnemonica è illusoria rispetto alla corrispondente sensazione, come diciamo che nella medesima percezione (per es. del solito bastone immerso nell'acqua) il tatto è più vero della vista. Ma criticamente, ciò che attualmente esiste ed è presente (e quindi reale) è la rappresentazione e non l'oggetto rappresentato: se la rappresentazione è mnemonica (per es. se immagino un mio amico lontano), è ben questa immagine riprodotta che, appunto perchè presente, anche se più debole e men chiara perchè ridotta a un'innervazione visiva, mi rappresenta ciò ch'è inattuale (anche se deve esistere in sè).

Il giusto senso del termine «rappresentazione» – quello in cui l'abbiam sempre adoperato noi – è dunque logico, non psicologico: indica il valore conoscitivo d'un esistente, non la sua natura, Quel cubo rosso che veggo (oppure la sua immagine riprodotta, oppure la parola «casa», oppure l'immagine della parola ecc.) rappresenta quella casa (oppure una casa in genere, oppure un oggetto, una sostanza ecc.). Ciò ch'è presente mi rappresenta il suo valore conoscitivo, il suo dover essere, il «di più» di quello ch'è attualmente. Tal di più si può ridurre all'unità percettiva (il «reale» del senso comune) per cui nella sensazione data si realizzano le immagini che l'hanno sempre accompagnata (quel cubo m'apparisce anche solido ecc.) nel qual caso il conoscere è piuttosto un riconoscere; o invece il di più può riguardare l'idea, il valore in sè: ma conoscenza e rappresentazione sono la stessa sintesi logica nel suo farsi attuale, percettivo e ideativo.

Ora, se il Kant per «rappresentazione» avesse inteso il valore logico dei sensibili, avrebbe dovuto invertire l'uso dei termini nel periodo sopra citato: i sensibili (le linee, i colori, etc. di quel palazzo), in quanto esistenze presenti e attuali – quello che sono – formanti un’immagine,presentano un proprio valore estetico, distinto da quelli pratici e teoretici che otteniamo per concetti; in quanto invece rappresentano un oggetto, un reale che deve esistere in sè e che perciò ci può esser utile ecc., non sono più estetici, ma reali e pratici. Il che (si noti bene) non contrasta nemmeno col fenomenismo kantiano, se inteso criticamente (e non realisticamente). Proprio perchè quelle linee e quei colori esteticamente sensibili ci rappresentano nel contempo un dover essere in sè (una cosa in sè), che nelle costruzioni concettuali (nelle sintesi rappresentative) diviene un essere per me (un mio concetto), nel valore estetico si ritrova al tempo stesso la prova dell'unità e della distinzione fra sensibile e intelligibile!

Purtroppo, per il Kant, come per l'idealismo in genere, rappresentazione («Vorstellung») significa invece, nuovamente, il duplicato, di natura soggettiva, del sensibile stesso: l'impressione psichica d'un imprimente stimolo fisico: grossolana analogia materialistica, come quella del sigillo e della cera usata nel parallelismo aristotelico fra reale e conoscenza del reale, a cui questa concezione rimonta. Come l'immagine «mentale», per l'ipotesi dell'anima centrale e cerebrale, sarebbe il doppio psichico d'una sensazione là depositata conservata e a tempo opportuno richiamata dalla miracolosa facoltà della memoria psichica, così poi anche la sensazione primordiale viene a sua volta reduplicata da questo psicologismo, che teme di perdere l'anima se non considera quel rosso e quel suono traduzioni soggettive d'un rosso e d'un suono esistenti fuori di noi.

Ma non è difficile raddrizzare un tal concetto. Se uno realisticamente ammettesse che esistono un rosso ottico e un suono acustico i quali poi diventino, mutando natura, un rosso e un suono «nella coscienza», dovrebb'esser proprio il criticismo ad avvertirlo dell'equivoco, dovuto al confondere la subiettività o relatività logica dei sensibili (perchè qualità contingenti di fronte alla obbiettività dei concetti che ci formiamo sulla loro analisi); con una supposta natura psicologica di quei sensibili che nel contempo definiamo fisici... Se questo suono è un'eccitazione acustica per mezzo dell'aria, la causa e l'effetto sono la stessa cosa, la stessa natura, e ve lo dimostro facendovi vedere e udire l'esperimento della campagna pneumatica; e se questi contenuti non fossero fisici, tanto meno lo sarebbe la loro spiegazione concettuale!

Per cavarsi d'impaccio restando fedeli al kantismo, ossia restando «nella coscienza», l'empiriocriticismo tedesco (per es. Mach e Avenarius) trovò quell'acuta soluzione, a cui s'accosta una veduta del positivismo criticista (per es. Ardigò): i sensibili per sè non sono ancora nè fisici ne psichici, nè oggetti nè soggetti, perchè tutti questi sono concetti che vi si costruiscono sopra nelle sintesi conoscitive; il soggetto sì costituisce per «autosintesi» e l'oggetto per «eterosintesi» di quegli stessi elementi, secondo che si unificano sui due piani paralleli di rapporti esterni o interni a noi (?!). Ma, se sintesi vuol dire unificazione e rapporto esistente tra i contenuti sensibili, non possiamo parlare che di eterosintesi: anche se riguardiamo i sensibili in rapporto a noi (questo «noi» è dunque già dato?), conosceremo l'io obbiettivamente, come corpo e natura empirica, e non l'io soggetto unificante; e se sintesi indica il valore a priori della categoria unificante, come norma che informa della sua finalità soggettiva quelle oggettive unificazioni, tutto è autosintesi, e la stessa sintesi a posteriori era già, come vuole l'idealismo assoluto, autosintetica, dovendo contenere in sè il principio del suo divenire conoscenza e idea.

Per noi, la coscienza non è una cosa, dentro e fuori della quale accada qualcos'altro; e tanto meno una cabina di trasformazione del mondo fisico in mondo psichico o viceversa: quel termine esprime soltanto un rapporto di valore. La coscienza sensibile è il rapporto fra la praticità del sentire e la sensibile presenza o esistenza, intuita come esistenza del sentito; rapporto che diverrà coscienza conoscitiva (pensiero): pensiero teoretico (esplicativo) in accordo all'esistere sensibile; pensiero pratico (normativo), come volere e dovere, in antinomia con esso. Perciò il dato sensibile, valendo come la sola esistenza obbiettiva – ossia (individualmente) reale – dell'io, nonchè esser «neutro» (come vuole l'empiriocriticismo), è proprio l'attualità o immanenza (l'esteticità o presenza) del «valore», definibile nel rapporto tra finalità soggettiva e realtà oggettiva (rapporto di coscienza); e rimane poi sempre a rappresentarlo nel pensiero, dove il sentimento testimonia della finalità e l'intuizione sensibile della realtà.

4. – Ed ora rettifichiamo anche l'altra premessa dell'estetica kantiana, quella che fa consistere il valore estetico nel sentimento di piacere disinteressato, che in noi desta la sola presenza sensibile (egli dice la rappresentazione, ma abbiam corretto), indipendentemente dalla cosa rappresentata (egli dice esistenza) e dai rispettivi sentimenti e interessi pratici. Così l'esteticità del sensibile viene ad interiorizzarsi ancor di più ed a rifugiarsi nella mera soggettività d'un sentimento, in base al quale noi giudicheremmo universalmente del bello. Ma come un sentimento può costituire un valore universale?

Il Kant, come tutti ricorderanno, introduce una sottile distinzione fra i tre giudizi: «è buono», «mi piace» (ossia «è gradevole»), ed «è bello». Il primo è un giudizio morale di valore universale, perchè si fonda sopra un principio (il dover essere morale) assoluto ed (eticamente) necessario. Quando invece io dico che la tal cosa mi piace o mi dispiace, il valore di un siffatto giudizio rimane, secondo il Kant, individuale (qualunque sia poi la quantità degli oggetti che piacciono e dei soggetti a cui piacciono o no), nel senso che il giudizio resta subiettivo, fondato su l'interesse mio o altrui (ma ciascuno per sè) per quegli oggetti: chi dice «mi piace», non pretenderà mai che il suo criterio valga universalmente (anche se, di fatto, quella cosa piacesse a tutti). Ora, anche il giudizio estetico è fondato sul piacere, è un giudizio subiettivo; tuttavia erra, conclude il Kant, chi sostiene che il bello sia ciò che piace. Il piacere estetico essendo disinteressato, l'estetico non è il gradevole: il giudizio «è bello», benchè fondato sul mio piacere come il giudizio «mi piace», vale però universalmente come il giudizio «è buono». Perchè?

Qui, intanto, c'è una piccola confusione, nella quale il Kant s'aggira per molte pagine. «Mi piace il vino delle Canarie» (prendo il suo esempio), non è un giudizio di valore, è un giudizio reale, non diverso, per es., da: «Questo è vino delle Canarie», se non nel contenuto psicologico invece che geografico o altro di simile. Tutt'e due questi giudizi, particolari nella quantità dei contenuti, sono però universali, universalissimi, come qualunque altro giudizio storico, nel valore formale: se sono veri, debbon essere veri in sè (categoricamente). D'altra parte, tutti i giudizi, anche etici ed estetici, si posson presentare nella forma logica del «mi piace» o «è gradevole» – quel palazzo mi piace esteticamente, mi dispiace moralmente –, quando appunto riguardano la realtà della cosa e del fatto, e non la norma dell'azione diretta a un fine: infatti, io dico «è buono» di un atto ed «è gradevole» di un oggetto (posso giudicar buona anche una cosa ma sol in quanto la penso fatta per uno scopo, come «Quel palazzo è un insulto alla miseria»).

Inoltre, un giudizio che soltanto « esprimesse » il sentimento subiettivo di piacere o dispiacere, kantianamente non sarebbe mai nemmeno un giudizio (un pensiero, una conoscenza, sempre fondati su l'a priori); sarebbe un'esclamazione («Che buon vino questo...»), pari a un gesto, a un atto pratico, a un contenuto. Per divenire un giudizio di valore, è d'uopo che il piacere sia preso come finalità, riducibile a una regola della condotta – nel qual caso avremo un giudizio edonistico –, del tutto simile al giudizio morale (apodittico), con la differenza che il fine pratico si relativizza al piacere (condizionalmente) come il fine teoretico all'esistere sensibile (onde il rapporto prammatistico, il valore utilitario come praticità del teoretico).

Subordinatamente alla prima, anche l'altra distinzione kantiana fra piaceri interessati e piacere estetico disinteressato non è senza confusione. Non potrei sentire un piacere estetico se non avessi un interesse estetico, chiamato appunto il «gusto». Essere o no interessato è un attributo, non dei sentimenti – de' quali dire che sono interessati è pleonastico e dire che sono disinteressati è improprio – ma dell'attività, e riguarda quindi i fini del volere: è interessata l'attività che si pone per fine il mio piacere e non può dunque presumere (per le ragioni esposte dal Kant sul «mi piace») che la norma della sua condotta divenga norma universale; è disinteressato il volere che si propone un fine indipendente, ossia trascendente il piacere – il soggetto empirico come l'oggetto empirico –, anche se accompagnata dal piacere com'è per eccellenza il caso del pensiero puro. Ma se un giudizio puro è disinteressato perchè universale, non se ne deduce che un giudizio estetico sia universale perchè disinteressato. La definizione soggettivistica kantiana del bello lo escluderebbe: se quel palazzo è bello perchè mi piace disinteressatamente – se la bellezza è un «dono» che gli uomini fanno al mondo –, posso sperare che piaccia anche agli altri, non trattandosi d'un mio particolare egoismo; ma che importa questa totalità numerica? un intero teatro applaudirà a un'opera d'arte mentre che un comizio finirà a bastonate; tuttavia, qui si combattono degli imperativi morali, là si combina un consenso di sentimenti individuali.

D'altra parte, la contemplazione estetica, essendo piacere già raggiunto, pago di sè, che non si trascende, è senza finalità: se non la possiamo chiamare interessata, perchè non ha un fine subiettivo, non la dovremmo neppur chiamare disinteressata non avendo fine obbiettivo. Resta che disinteressato sia, proprio, il piacere... Ma un piacere disinteressato non è più nemmeno piacere; e infatti il Kant esclude dall'estetico, non soltanto il piacere che ci vien dall'utilità d'una cosa o dalla praticità in genere, ma anche il piacere sensibile, il piacere che una sensazione produce come tale, per es, il sapore d'un frutto, e perfino il colore; quasi che ogni qualità sensibile non potesse entrare in un rapporto estetico per un uomo di gusto. Ciò conduce il Kant a intendere la bellezza come un piacere, non del senso (come «Mi piace il vino delle Canarie») ma della pura intuizione visiva (come il disegno) e uditiva (come la figura musicale), escludendo i sensi più organici e più caldi: il che lo trascina a dividere, oltre che a distinguere, la bellezza dagli altri valori, considerando bella la pura linea (bellezza libera) che fa piacere per sè stessa, salvo ad aggiungersi, per così dire, dal di fuori (come bellezza «aderente») agli oggetti che hanno altri valori (e quindi puramente ornamentale). Sulla stessa via di un'errata divisione dell'oggetto estetico, il romanticismo lo limitò alla «fantasia» e lo escluse dalla sensibilità, come se quegli alberi laggiù non fossero sensibilmente belli, e come se il bello fosse soltanto invenzione per mezzo d'immagini riprodotte e nuovamente combinate, e non fosse la sensibilità quella che le realizza.

5. – Frattanto, però; il discorso è passato dalla discussione sulla pura soggettività del bello come piacere estetico alla inevitabile ricerca d'un oggetto bello; il che ci riporta sul vero terreno del valore estetico che, se fosse solo sentimento, non sarebbe un valore – e il giudizio «è bello» sarebbe una constatazione psicologica come il giudizio e mi piace» –, e se è un valore, dev'essere il valore di un rapporto cosciente, di un rapporto di soggetto a oggetto.

Noi qui attendevamo il Kant, perchè sentivamo tutta la novità e l'importanza metafisica dei concetti esposti nelle brevi linee sopra citate in nota: prima di porre qualunque rapporto fra noi e il mondo sensibile (dice in sostanza il Kant), e indipendentemente dalla realtà del mondo e dalle idealità in antinomia pratica con esso (antinomia mai del tutto placata nelle sintesi approssimative della conoscenza), il pensiero trova, nella semplice intuizione dello stesso sensibile, un valore che giudica universalmente, benchè senza concetto, perchè piacere senza interesse. Ma (torniamo a chiedere), poi che «senza interesse» non è ormai che un ripetere, che tal sentimento è senza rapporto ai fini pratici e all'essere reale – condizione negativa, distinzione (ma non divisione) dell'estetico dal pratico e dal teoretico –, perchè, a che condizione positiva ci piace dunque l'estetico?

Anche noi siamo convinti che il giudizio «è bello» sia un giudizio di valore alla pari di «è buono», e tuttavia distinto da questo come dal giudizio di realtà «è vero». Nel contempo, siamo anche noi convinti che il primo, nella sua forma spontanea, si basi di fatto sul sentimento piacevole della contemplazione estetica, senza derivare il proprio criterio da alcun principio; ma ciò non toglie che un tal principio ci debba essere (e che la filosofia lo debba cercare). Infatti, il medesimo si potrebbe dire di tutti i giudizi di valore, presi nella lor forma empirica: anche il giudizio «è buono», sulla bocca di tutti, s'ispira al sentimento suscitato alla vista d'una buona azione, appunto in quanto che questo sentimento basta a rappresentarmi spontaneamente il valore morale: ma non definisce il bene; come pure, nelle conoscenze percettive, il sensibile basta a rappresentarmi una «cosa» in una sintesi spontanea. Ciò non autorizza la critica a concludere, che il principio e il fondamento d'un giudizio morale o teoretico siano il sentimento o il sensibile; anzi, per non cadere nello scetticismo empirista, la critica è obbligata a ricercare le condizioni a priori per le quali sia possibile il valore pratico o teoretico di quei giudizi sentimentali o percettivi.

Piuttosto osserviamo che la critica della ragion pura e della ragion pratica non sarebbero mai state scritte, se il vero e il bene fosser cose già date e bastasse aprir gli occhi per contemplarle; e chi crede di posseder quei valori sol perchè percepisce e agisce, chi non dubita e non ha crisi morali, può fare a meno d'indagare che cosa debbano essere in sè. Sol in quanto il vero e il bene sono la faticosa e dolorosa ricerca degli uomini, l'inappagata loro aspirazione suprema, sol in quanto cioè sono attività e pensiero, sopravviene la filosofia per offrire ad essi un fondamento e un criterio.

Ebbene, anche per il bello, non è mica detto che sia solamente contemplazione, valore già dato, bellezza «di natura»; nè che si tratti soltanto d'intuizione o sentimento, immediatezza e spontaneità (vita) che non divenga poi altro. Noi non crediamo a tutto ciò: e pur mentre distingueremo ancora la cosiddetta bellezza di natura dall'arte, intendiamo quest'ultima come pensiero e attività tesi a un proprio fine; e questo fine ha bisogno che la filosofia lo ponga in forma pura, per apparire all'autocoscienza come principio del bello e come finalità dell'arte: come valore. È ciò che ora ci proponiamo.

Intanto, dicevo, lo stesso Kant è costretto a dare un oggetto al soggetto estetico, al piacere, e tal oggetto è l'«immagine» come forma (sensibile), come «figura»: l'immagine in quanto presente nella sintesi a posteriori (spieghiamo noi) indipendentemente da ciò che rappresenta e che vale praticamente. Il bello dunque, se non è il fenomeno, ossia quell'empirica oggettività che chiamiamo «sensazione», non è nemmeno il solo sentimento, empirica soggettività. Ma forse fu il timore di confondere – facile confusione, trattandosi della medesima esistenza immediata – fra real sensazione, presa in senso astratto e psicologico (o meglio, fisiologico, trattandosi d'un concetto di natura), e forma sensibile, qualità o rapporto fra le qualità sensibili, ciò che spinse il Kant a rifiutare ogni obbiettività dell'estetico (e quindi ogni ragione di questo valore) per rifugiarsi nel mero piacere soggettivo. Egli forse dubitava che, dicendo che l'estetico appartiene al sensibile, si dovesse inferire che dipenda dal concetto reale, dal «fuori di me» rappresentato dal sensibile.

Mai come qui il timore fu figlio della colpa! La confusione c'era già infatti nello stesso Kant (è l'ultima che gl'imputeremo) laddove spiega la ragione del piacere estetico come una causalità naturale interposta fra l'immagine, che «produce in me» un piacere (e dunque dovrebb'esser qualcosa fuori di me), e il mio piacere che ne sarebbe il «prodotto» soggettivo. Kantianamente, il «produrre in me» è un concetto causale che serve benissimo (purchè sia meglio precisato) se riguarda il rapporto tutto quanto oggettivo fra l'oggetto collocato nello spazio esterno al mio corpo, per es. quel palazzo percepito solido e rappresentato dal sensibile, e l'eccitazione sentita la quale, come sensazione «interna» (per le risonanze organiche e per i richiami mnemonici d'ogni eccitazione) rappresenta, parimenti, la realtà obbiettiva dell'io, il corpo (la vita). Qui però la sensazione fa da contenuto del conoscere: è il contenuto dell'idea semplice del sensibile (per es. «rosso» astratto per analisi) e dei concetti sui sensibili ottenuti per sintesi causale (come quello in discussione). Diverso è il discorso sulla sensazione in quanto è forma, attuale esistenza: ivi compresa la forma dei detti concetti, attuale almeno come linguaggio. Forma, in tutto e per tutto, d'ogni (implicito) valore: il presentarsi (intuitivo) di questo e il suo attuale farsi (pratico) in una figura sensibile, che ne diviene la contingente individualità.

6. – Fin che la sensazione fa da contenuto del pensiero, essa non è che un dato, un punto di partenza, un limite e una condizione del conoscere. Il Kant, in sede gnoseologica, la chiamò – provvisoriamente – «sintesi a posteriori» perchè pensava all'analisi, ch'è l'operazione conoscitiva (attività pratico teoretica, almeno come guardare, fissare, osservare e quindi distinguere) che vi òpera sopra, sia ch'io mi contenti di rilevare e distinguere nel complesso della mia presente sensibilità questo acuto fischio di sirena che mi lacera l'udito, sia che di proposito adoperi i più perfetti mezzi e strumenti d'indagine scientifica per risalire alle cause, e cioè a quelle sintesi che su l'analisi costruiscono i concetti reali, sostituendo alla sintesi empirica ed extrarazionale (contingenza qualitativa del fatto) l'identità e universalità dell'idea.

Però, anche per il Kant, la sintesi a posterioriesiste così come si presenta nella sua contiguità di qualità diverse e qualunque sia l'essenza a cui si voglia e si possa risalire per spiegare la diversità qualitativa e la contiguità contingente. Invero, le «qualità» di cui discorriamo sono già idee – il primo farsi dell'idea: l'idea elementare –, ma si tratta di generalizzazioni d'analisi, che non contengono (e i loro termini, come «rosso» e «diverso» non rappresentano) altra realtà oltre l'esistenza attuale o possibile di sensibili. In una data sintesi a posteriori noi possiamo sempre fare (con l'attenzione) un'analisi astraente che conduce a un'idea di rapporto, ossia a una sintesi conoscitiva; ma, per ora, questa è una generalizzazione (universalità, possibilità all'infinito) dell'esperienza: per es., rapporto (o idea) di diversità del colore dal suono, del suono «do» dal suono «mi» ecc., che diviene molteplicità in genere; rapporto di estensione (per es. di quel rosso nella contiguità d'altri colori); e rapporto di continuità o durata (per es. di questo suono rispetto ad altri sensibili contigui che variano mentr'esso dura o durano mentr'esso varia), che divengon rapporti spazio temporali in genere; ecc. ecc. Anzi, nella medesima superfice rossa possiamo distinguere un'infinità di punti e linee, nella medesima durata un'infinità di momenti, e concepir poi quel rosso e questo suono come l'unità d'elementi in uno spazio e in un tempo puramente nominali che li contengano, convenendo questa scomposizione e ricomposizione al bisogno di misurare. Ma se, per misurarlo, io dico che quel rosso è il risultato di 50 per 30 cmq. di rosso, non ne muto minimamente il valore reale, che coincide con l'attuale o la possibile esistenza d'un rosso.

Anche considerando la forma più pura (più vera) del sapere teoretico, la matematica, ch'è l'ultimo grado astraente del conoscere per analisi dei semplici contenuti intuitivi, essa, certo, vale come sintesi a priori costruita su l'analisi – basterebbero, per convincerne, le idee di unità, (ossia di quantità), di x più 1 (ossia d'infinito) e di x = 1 (ossia d'identità) costruite sulla molteplicità qualitativa –; ma queste sintesi sono formali e la loro realtà coincide con l'applicabilità delle formule (nessuno esige che un'equazione matematica, per essere vera, si debba realizzare in sè, fuori dell'esperienza): sono verità trascendentali ma non trascendenti le esistenze. Ora, dello stesso tipo, come sappiamo, sono tutte le sintesi puramente a priori, che sono valori in quanto fini obbiettivati in giudizi sintetici a priori, norme e regole per conoscere e per agire. E noi sappiamo che tutti i concetti «reali» s'intercalano fra quei contenuti astratti della pura analisi e queste idee pure a priori che divengono valori logici proprio in quanto si applicano a giudicare per analisi o a unificare (spiegare) per sintesi le qualità e i rapporti qualitativi dell'esperienza. Il che è come dire che le esistenze non sono intelligibili che nel dover essere ideale, ma questo non è realizzabile che nell'esistere o attualità dell'essere.

Perciò, conclude la gnoseologia, in quanto il sensibile è contenuto dell'analisi (per diventare oggetto della sintesi), essa lo può impoverire e spogliare di tutte le sue qualità – al solo isolarlo lo impoverisce! –, fin a ridurlo a semplice rapporto quantitativo spazio temporale: di tutte, ma non dell'esistenza, nè quindi della certezza che accompagna la presenza o, in proporzione, la «possibilità» del sensibile. E in quanto poi questo diviene oggetto nella sintesi a priori, essa può sostituire alle qualità sensibili, per antinomia pratica o per opposizione dialettica, tutti i valori puri, che chiamiamo «spirito», dettati dal volere che dirige l'attività stessa e glie li pone come fini (trascendentali): ma questi valori, rappresentabili in sè come veri, diverranno reali in rapporto all'esistere, che pertanto è l'attuarsi dello «spirito», nel quale rientra la «natura» come finalità obbiettiva del conoscere.

Allora, in sede metafisica, dobbiamo seguire il cammino inverso a quello della gnoseologia, ritornando dalla dialettica all'estetica, che ci definisca l'esperienza pura, la pura esistenza sensibile. Orbene: in quanto il sensibile non è più o non è ancora un astratto contenuto (a posteriori) di concetti (per es. il concetto stesso di «sensazione»); nè quindi più vale soltanto come rappresentazione di cose e di fatti (di sostanze e cause) posti fuori ed oltre di esso, che cos'è, se non pura forma, la forma di tutto? Come «esiste», tutto, e quindi anche ogni «valore», reale o ideale che sia, oggettivo o soggettivo, se non in un contingente rapporto di qualità, sensibilmente? Questo rapporto, noi lo chiameremo per antonomasia «immagine» (o «idea» da «video») allorchè di nuovo lo riferiremo a un oggetto in sè (per es. l'immagine di quel palazzo); oppure lo chiameremo «espressione» (o «figura», da «fingo») allorchè lo riferiremo a una finalità o soggetto in sè (per es. l'espressione di questo pensiero): ma quell'oggetto e questo soggetto, che antinomizzati ed esplicati (nel pensarli) divengono gli a priori dei contenuti sensibili, sono sempre, inversamente, contenuti d'una forma estetica (almeno verbale) che implicitamente li «presenta» uniti, e perciò appunto li può rappresentare in sè: può diventare, come vide il Kant, condizione esistenziale del giudizio reale (condizione della facoltà di giudicare obbiettivamente, veracemente). Basta ricomporre la sintesi a posteriori e considerarla per sè medesima (vale a dire, non più a posteriori), per trovare la sua propria forma, il suo immanente valore.

Il ripiegarsi della filosofia dalla dialettica trascendentale all'estetica ond'era partita, segna l'esito naturale del criticismo verso una metafisica dell'esperienza pura, nella quale infatti s'aggira il pensiero nuovo di questi ultimi cinquant'anni, dalla «filosofia dell'immanenza» alla «metafisica del finito»: nominalista e prammatista, contingentista e intuizionista, soggettivista e attualista. L'insidia mortale che vi si nasconde sta nel pericolo di adeguare tutto il Valore alla mera esistenza: di prendere l'intuizione sensibile, l'estetico, come conoscenza, o a dirittura possesso dell'assoluto reale; e di prender l'attualità come eticità, spirito tutto in atto. Il che è rinunciare all'a priori scoperto dal criticismo, al trascendentale stesso logico e pratico; e ritornare al nominalismo medievale, salvo, come allora, il rifugiarsi nella mistica intuizionistica.

7. – Evitiàmo d'incedere fra sì dolose ceneri e ritorniàmo al Kant, nel quale almeno appar chiara l'intenzione di distinguere criticamente il valore estetico dagli altri valori, definendo al tempo stesso i loro rapporti. Per il Kant infatti, l'intuizione estetica, quantunque sia condizione della conoscenza – non solamente come dato e limite a posteriori, ma anche in quanto la contemplazione disinteressata condiziona psicologicamente il giudizio obbiettivo riflettente –, non è una conoscenza, mancando di concettualità (il bello non è il vero); e il piacere estetico, quantunque preluda e introduca alla coscienza etica, con la quale lo sentiamo affine, non è un sentimento morale (il bello non è il bene), mancando di normatività come di finalità pratica.

Però, egli aggiunge (e ciò segna il momento metafisico della sua estetica), la forma sensibile, tal quale si presenta immediatamente nell'intuizione di un «bello di natura» (dato cioè nella sintesi a posteriori), rivela un misterioso accordo fra il mondo sensibile e il mondo intelligibile, per i quali la forma estetica fa, per così dire, da terreno d'incontro; come, psicologicamente, l'immaginazione diviene la facoltà media fra il sentire e il pensare. Infatti il Kant chiama anche «idee dell'immaginazione» i valori estetici, per dire che sono idee senza concetto, valori dati nell'immagine o forma fenomenica della sensazione, sentita in accordo con l'intelletto ma non dipendente da questo.

L'accordo kantiano fra sensibile e sovrasensibile, sentito come piacere della pura contemplazione dell'immagine, sarebbe dunque esso il principio del bello e del sublime, com'è la ragione del piacere estetico. Voglio dire che, criticamente, il fondamento del giudizio di gusto non è, nemmeno per il Kant, il piacere, ma la sua ragione, l'accordo intuitivo di sensibile e intelligibile; o meglio, la soggettività o finalità implicita nella semplice «apprehensio» del dato, e quella, aggiungerei, che noi stessi implichiamo nell'arte («exibitio») quando appunto adoperiamo una forma o immagine sensibile per esprimere quei valori, che il pensiero invece esplica ne' suoi giudizi conoscitivi.

Adunque, per intanto, l'aver detto che il valore estetico è soggettivo perchè fondato sul sentimento estetico, era un malinteso. Ogni valore appare psicologicamente condizionato dal sentimento perchè ogni giudizio, in quanto giudizio «di valore», è mosso dal sentire: perfino il più teoretico dei giudizi è pratico in quanto la sua modalità è ispirata dal dubbio o dalla certezza subiettiva. Ma da tal punto di vista (empirico) il Kant poteva concluder lo stesso per il valore morale, come ha fatto l'etica del sentimento (dagli inglesi al Brentano), e per la realtà medesima riducibile a un sentimento di attesa, come fece l'empirismo (dallo Hume allo Schuppe)! La critica kantiana è fatta apposta per dimostrare, che un giudizio morale e un giudizio reale sono validi obbiettivamente e non soggettivamente, in quanto enunciano un principio obbiettivo (universale) totalmente a priori o in quanto ne dipendono; e la loro subiettività empirica non ci serve che a rappresentarci soggettivamente la finalità che si realizza in quell'atto o in quel giudizio.

Ma qui, o rinunciamo a servirci della critica kantiana, o dobbiam penetrarla meglio di quanto sia stato fatto. Siamo alle conclusioni del vecchio filosofo al suo lungo faticoso lavoro: il suo criticismo converge tutto verso le poche pagine introduttive alla terza Critica; verso questo arcano, sentito accordo fra il sensibile, su cui e per cui costruiremo i concetti reali, e il sovrasensibile, trascendentalità del valore, dover esser a priori che chiameremo spirito, e che per il Kant è una realtà assoluta, sì, ma puro-pratica (non teoretica, come la realtà di natura) proprio perchè non relativizzabile al sensibile, all'esperienza.

Ora, si potrebbe chiedere: l'accordo fra l'intelligibile noumenico e il fenomeno sensibile, non l'aveva già posto, il Kant, nella conoscenza fenomenica (teoretica)? che cos'è questa, se non il momento in cui il pensiero, che come finalità e libertà (come pura ragione) si antinomizza sempre al sensibile, incontrandosi con la molteplicità di quest'ultimo la prende a contenuto della categoria facendosi «intelletto»? non è, il concetto reale, l'accordo più vero fra i due mondi, il relativizzarsi del fenomeno al valore a priori e il costituirsi reale di questo in conformità all'esistenze oggettive, alla necessità fenomenica?

Giustissimo! risponderebbe il Kant. Ma, avanti tutto, la conoscenza non è un accordo come unità già data e certa in sè (un'esistenza, noi diremmo, come la sintesi a posteriori): è un processo di unificazione sempre più vasta dal particolare all'universale della categoria pura (l'essere è il dover essere dell'esistere). Inoltre, è unificazione dei contenuti per opera del pensiero, non unità di contenuto (oggettivo) e di pensiero (soggettivo), chè questo anzi si esclude dalla sintesi (si nega) per raggiungere l'obbiettività dell'oggetto dato, la necessità di natura; e quindi, di nuovo, si antinomizza ad essa come spiritualità, finalità puro pratica. Allora, da una parte la molteplicità del sensibile potrebbe sembrarci senz'alcun valore, senza trascendentalità, e non si capirebbe che ragione abbia il pensiero di oggettivarsi in essa come necessità e natura quando potrebbe liberamente obbiettivarsi come finalità e spirito; dall'altra parte, in quanto il pensiero è autore delle sintesi conoscitive, il suo mondo potrebb'essere nient'altro che il sogno d'un visionario, e la stessa facoltà di conoscere e di giudicare non avrebbe alcun fondamento.

Il fatto, dunque, che nel sensibile, così come si presenta alla semplice contemplazione della sua forma unitaria, troviamo (sentiamo) un valore (il bello) dato dall'accordo con la finalità in genere – soggettività del fenomeno indipendente dall'azione (oggettiva) che il fenomeno produce come causa naturale sulla natura del soggetto (il corpo, come noi abbiam corretto di sopra) –, risponde all'esigenza metafisica, che la «cosa in sè», il dover essere dalla parte del fenomeno, nell'incontro estetico si unifichi con la libertà noumenica o finalità pura; e si possa pensare che la natura in sè abbia conformità con lo spirito: il che (aggiunge il Kant) ci può anche servire di canone nell'indagine sulla natura, mentre ci autorizza a pensarla come intelligibile, a giudicarla anche in sè.

Queste le conclusioni metafisiche dell'estetica kantiana, alla quale riallacceremo la nostra. Se ci riesce di epurare il criticismo dai residui del realismo psicologista – chiamo così il dualismo, cioè il credere che una realtà fuori di me divenga o produca un realtà in me, oppure il viceversa spiritualista –, codesta vaga premonizione kantiana d'un arcano accordo di soggetto e oggetto sospesa a un sentimento estetico di valore puramente subiettivo, uscirà, mi pare, dalle nebbie così care ai posteriori romantici, e acquisterà consistenza filosofica, ossia razionale.

8. – Rifacciàmoci un istante a quella finestra che aprimmo all'inizio del presente capitolo: quel rosso è la casa d'un mio buon amico, quel blù è il mare dove desidero andare; qui passa un'automobile, là una prudente mamma prende in braccio il suo bambino per attraversare la strada.

Tutti questi son giudizi «determinanti», già impliciti nella percezione dove quel rosso rappresenta una casa o l'atto di questa donna rappresenta l'amor materno. Queste determinazioni deduttive presuppongono, si capisce, un precedente processo «riflettente» che, su l'analisi comparativa dell'esperienza, raggruppando alcune qualità più stabili e inferendone alcuni rapporti più costanti, abbia formato i concetti, come casa e mare, o come amicizia e prudenza; e si capisce del pari che ciascuno li avrà formati, non per illuminazione divina e per scienza innata, ma diversamente scegliendo e valutando, e poi generalizzando, fra gl'infiniti aspetti dell'esperienza sol limitata dalle capacità sensibili – limiti che gli strumenti e i mezzi d'osservazione posson allargare –, secondo il proprio interesse e sforzo conoscitivo: quella casa non sarà la stessa «cosa» per un ingegnere e per la mia domestica, questo amor materno non avrà lo stesso «valore» per me e per quel bimbo. Se poi ci fosse qui un osservatore più esatto, quel rosso diventa l'area ottenuta moltiplicandone la base per l'altezza e la velocità di questa macchina diventa lo spazio percorso diviso per il tempo; ossia, trattandosi di concetti astraenti, ci vorrà un linguaggio (un artificio sensibile) per rappresentarceli.

Tutto ciò riguarda l'operazione conoscitiva, la genesi della conoscenza. Ma, determinante o riflettente che sia il nostro pensiero, particolare o generale, concreto o astratto – riduciàmoci, se vi piace, a pensare soltanto: «quel rosso è rosso», idest «è vero quel rosso» (in sè) –, un tal giudizio, implicito e spontaneo nella percezione o esplicito e voluto in una proposizione, pone un valore (che nel nostro esempio è «reale») sempre trascendentale rispetto all'esistenza o presenza del dato e all'attualità della parola. È la constatazione dell'a priori kantiano. Se ne inferisce, per ora, che ogni cosa vale oltre il sensibile, oltre l'esistenza e presenza attuale.

Il termine «valore» che adoperiamo in filosofia corrisponde perfettamente al termine psicologico «coscienza». La critica o riflessione filosofica sui valori diviene perciò analisi della coscienza. Criticamente, valore è il detto rapporto dell'a priori (universalità del valore) con l'a posteriori dato sensibilmente: non rapporto (causale) fra enti, ma dislivello, antinomia sentita come finalità (pratica), e conosciuta come opposizione (dialettica) del dover essere all'esistere. Nell'analisi della coscienza, ciò diventa il «rapporto di soggetto a oggetto»; ma diremo oggetto prima di tutto il sensibile, e poi, di conseguenza, tutto il restoin quanto si adegua e relativizza all'esistere sensibile nella conoscenza teoretica: la percezione già realizzata nel sensibile, e la stessa ragione come concetto del sensibile, scienza e sapere «reale». E diremo soggetto della coscienza la finalità: il sentimento avanti tutto, non come esistenza e sensibile organico (che ritorna fra gli oggetti dati), ma in quanto praticità, antinomismo sentito nell'esistenza medesima; quindi, il volere come dislivello fra l'esistere e il fine sentito (e poi rappresentato conoscitivamente). Il rapporto tra la finalità e l'oggetto costituisce il valore di questo: pratico in quanto dover essere soggettivo (obbiettivato in norme e principii), teoretico in quanto oggettivo, legge e dover essere dell'oggetto, «inseità».

Allora, chiameremo «verità» l'obbiettività o universalità del valore: la conoscenza pura. Tutti diranno ch'è vero Dio, che son veri una legge morale, o un principio di giustizia, o una norma d'utile, o anche una formula matematica pura: tutti i fini, obbiettivabili nel pensiero – attività (reale) di cui il volere si serve per esplicare le finalità implicite nel suo esistere come sentimento e per universalizzarle superandolo – si posson dire veri «in sè», assolutamente. Ma questa, chiamiàmola così, teoreticità del valore pratico (l'«idea» kantiana), questa verità, per la critica non è sinonimo di «realtà»; ne costituisce soltanto la condizione a priori. Per la critica, come per la coscienza, reale non può esser che l'«accordo» del vero universale – che divien categoria, dover essere della «cosa in sè» – con l'esistere: l'essere. Tale accordo è la sintesi teoretica, il «concetto» kantiano, percepito, o appercepito col pensiero.

E qui, dalle conclusioni tratte dal criticismo passiàmo a quelle che vorremmo trarre dall'hegelismo. Come l'antinomismo pratico di soggetto a oggetto non è divisione di due cose o nature, ma opposizione, voluta perchè sentita, della finalità o libertà subiettiva all'esistenza sensibile o necessità obbiettiva, così il loro accordo non è che il processo, il «divenire» per cui l'una si «attua» nell'altra.

Che significa il termine «atto»? Noi tutti chiamiamo così quella parte del mondo sensibile (per es, il movimento di ritrarre la mano dal fuoco) in accordo, appunto, con le nostre finalità, perchè attua, realizza, fa esistere il fine in una successione sensibile. Si può dire che in un atto pratico il fine è «immanente», proprio in quanto la soggettività esiste oggettivamente, è reale di fatto, è vita. Ma l'atto pratico non è che una parte del mondo esistente obbiettivamente come necessità (una parte della «natura»); e il fine pratico non è che un momento della finalità (dello «spirito»), la quale si sente impedita dall'esistere che ne limita la libertà, e non si può attuare mai tutta in esso. Perciò l'atto pratico si converte in processo e atto conoscitivo (pensiero e giudizio). Da una parte ci rappresentiamo il fine stesso preso in sè, universalmente – in opposizione all'oggetto dato –; e così il soggetto sensibile (il sentimento) si trascende: ma la rappresentazione obbiettiva del valore, nella sua forma pura, non può esser dunque che una norma, un modello, un archetipo, che ci serve per dare giudizi di valore e non per «fare», per attuare la finalità nel sensibile (modificando il mondo) e, insomma, non immanentizza il valore. Dall'altra parte ci rappresentiamo l'essere reale – per mediazione di soggetto e oggetto –, come natura e nostra stessa natura, riflettendo su l'analisi dell'esperienza e determinando (in giudizi esistenziali) il sensibile come essere in sè; e non è che una parentesi conoscitiva, un mezzo per reagire sul mondo sensibile e per modificarlo. Il più certo de' nostri giudizi sarà: «Quel rosso è rosso», obbiettivazione dell'oggetto ottenuta per sola analisi dell'unità sensibile già data; il più vero sarà: «A = A», obbiettivazione della finalità teoretica ottenuta per sola sintesi (a priori), e che chiameremo concetto formale in quanto s'attua in un mero simbolo, in un sensibile ch'è un atto destinato a rappresentare un principio universale, che nessun dato a posteriori bastava a reggere distintamente. Fra quei due estremi del concetto e giudizio esistenziale e del concetto e giudizio puro si formano i concetti reali in cui verità ed esistenza si mediano, graduandosi nelle rappresentazioni probabili, dai concetti storici al naturalismo scientifico.

9. – Se il giudizio a sua volta si realizza percettivamente e si attua praticamente; se l'attività pensante, e la parola in cui si esprime, sono mezzi transitori per ritornare alla cosa e alla vita, è esatto dire che il pensiero «diviene» il suo oggetto; o meglio, che nel sensibile si attuano quei valori intelligibili che ormai gli resteranno immanenti. Immanenti, in quanto il sensibile esiste e li rappresenta: in tal senso, l'esistere (come s'è enunciato di sopra) è l'attuarsi dello spirito (nel quale rientra la natura come finalità teoretica del conoscere). Infatti, ad ogni istante, nel dato a posteriori troviamo dei valori già prima pensati.

Tuttavia, la conoscenza – la s'intenda criticamente come sintesi formale a priori su l'analisi dei contenuti dati, o la s'intenda hegelianamente come spirito (finalità) che si attua in una forma (sensibile) – non realizza che in parte l'antinomismo kantiano di soggetto a oggetto, di finalità a esistenza, di valore come dover essere a priori e di attualità e contingenza a posteriori. Proprio per questo c'è sviluppo, c'è divenire della conoscenza: perchè in ogni conoscenza c'è un valore trascendentale che non s'immanentizza ancor del tutto nell'oggetto e nell'atto. In modo più semplice basta dire, che la conoscenza è rappresentazione obbiettiva del valore soggettivamente sentito: siccome ormai l'esistenza che rappresenta i valori è la forma sensibile, il sovrasensibile è ciò che la supera, non soltanto praticamente (dalla parte del soggetto) come finalità, ma anche teoreticamente (dalla parte dell'oggetto) come verità. Infatti, per rappresentarci un valore, e tanto più quanto è più puro, noi dobbiamo, come s'è visto, scegliere (per analisi) o a dirittura inventare una particolar forma sensibile, che nell'un caso per semplice somiglianza (per es. un'esperienza scientifica), nell'altro per semplice contiguità (per es, una proposizione verbale) ci rappresenti e sostenga i valori del pensiero.

Allora, nella riflessione filosofica, che riflette l'antinomismo conoscitivo, si riapre il dualismo come antitesi tra forme (o atti) «puri» e forme (o esistenze) «reali», che la contemplazione estetica, secondo Kant, dovrebbe placare, e il superamento dialettico, secondo Hegel, dovrebbe comporre nella sintesi idealistica. L'importante era giungere su questo terreno, e porsi avanti le forme sensibili come il vero e unico «concreto» esistente, su cui esercitare la critica.

Fintanto che noi consideravamo il sensibile come contenuto e punto di partenza della conoscenza, e gli atti come strumenti de' nostri fini, li dovevamo trascendere per raggiungere il valore puro: la cosa in sè del contenuto fenomenico, il principio a priori dell'atto volontario. Ma se ormai riguardiamo (contempliamo) il sensibile – perchè ci rappresenta e conserva quei valori – come esistenza e attualità del pensiero (o, in termini hegeliani, come realizzazione dello spirito), è il sensibile medesimo che ci appare in sè (di fronte alle finalità soggettive), appunto in quanto esistenza e presenza attuale. Se poi ci chiediamo, a che questo esistere si riduca, col prescindere dai valori rappresentati, ecco ch'esso appare sola forma e non più contenuto (salvo a divenirlo d'un nuovo pensiero).

Difatti il termine «forma» altro non indica che l'unità del puro sensibile: il rapporto, potremmo dire, fra gli (astratti) sensibili presi per sè. Quel rapporto che, come contenuto, è la sintesi a posteriori, si presenta formalmente come un'immagine esistente, prima dell'analisi conoscitiva e della scelta pratica, e perciò cede poi l'esistenzialità ai valori che rappresenta e li fa reali. Li fa reali in quanto vi s'accordano, e si accordano in quanto sono concetti probabili, ossia provati appunto dall'esperienza scelta a rappresentarli (come accade nella scienza). In quanto invece i valori si antinomizzano, il pensiero «forma» le «idee»: però, che altro sono queste forme pure, se non atti e parole, ossia ancor esse dei sensibili, scelti e, per così dire, dematerializzati dalle contiguità sensibili empiriche per rappresentar meglio un valore universale, ma pur sempre immagini e figure esistenti, almeno come linguaggio?

Perciò, in conclusione, tutto, ripeto, esiste in una forma e ogni valore si attua formalmente: il corpo è la forma dell'anima, e il mondo in sè ha una forma, o meglio infinite forme, fra le quali scegliamo analiticamente le più rappresentative del suo dover essere e del nostro particolar essere, come s'è detto nell'esempio di più persone affacciate alla stessa finestra, ossia di fronte alla stessa sintesi a posteriori.

Orbene: diverso è l'atteggiamento del gusto e dell'interesse estetico; chiamo così l'interesse diretto alla forma sensibile, il gusto del puro sensibile. Non più «operazioni» conoscitive, non più analisi, non più rappresentazione di «altro» oltre il «contenuto» sensibile. Il sensibile vale per sè, come forma, rapporto (dicevo sopra) fra gli astratti (dall'analisi) elementi della sintesi a posteriori, la quale è presa in sè, a priori. So benissimo, s'intende, che quei rettangoli di colore sono case, quel blù è il mare ecc.; so anche che queste «qualità» delle «cose» sono al tempo stesso sensazioni (eccitazioni visive ecc.) unificate per mezzo della memoria: ma se riesco a guardarle e a sentirle, non come case o mare, visioni e ricordi ecc., ma come figure – per es. macchie di colore in reciproco accordo o disaccordo, accordo o disaccordo di suoni fra loro, ecc. – io sono artista (oltre che uomo pratico e conoscenza teoretica). Qui il termine «accordo» (o «disaccordo») acquista il suo preciso significato (estetico), che per metafora trasportammo al rapporto conoscitivo posto fra il sensibile e il valore rappresentato (che dev'essere invece assoluto, identità teoretica o antinomismo pratico).

L'intuizione estetica è l'apprezzamento o valutazione del sensibile «senza concetto», il valore del sensibile per sè medesimo, o, tout court, il valore sensibile, che ormai si potrebbe chiamare formale, ma coincide perfettamente col valore esistenziale. La coscienza estetica, attualità di questo valore, si distingue dalla conoscenza perchè non supera il sentimento in un soggetto assoluto nè come «io» nè come Spirito. Errato è l'intender l'estetico come una natura soggettiva, perchè l'esistere è del soggetto come dell'oggetto e l'analisi della stessa sensazione può astrattamente risalire all'uno come all'altro nei concetti reali. Ma del pari errato è il dirlo soggettivo in quanto il giudizio estetico è un giudizio di valore basato sul sentimento di piacere che accompagna l'accordo sensibile, già che in tale «accordo»; anche per il Kant, sta il valore estetico, e il piacere n'è un risultato.

In tal caso possiamo soltanto concludere che il giudizio estetico non può risalire (nemmeno filosoficamente) a un principio puro a priori: non può, perchè il sensibile diviene il fine e l'oggetto assoluto (e non relativizzato ad «altro ») di tale attività o giudizio. Ma ciò non implica che quel valore – che, in luogo di antinomizzarsi al sensibile, si attua tutto in esso, vi si trova immanente – sia soltanto soggettivo, sia senza esistenza, chè anzi è il valore del puro esistere preso per sè. Perciò dunque il giudizio estetico esplica un valore trascendentale (universale) e al tempo stesso immanente nei contenuti: il bello è l'universalità del concreto.

10. – Se il bello è il rapporto di valore immanente al sensibile nella forma data, tutto ciò ch'io vedo, odo o comunque gùsto, è bello o no, prima di tutto, in quanto si presenta attualmente, senz'altra condizione che d'esser un sensibile sentito in quanto tale. Perciò i rapporti estetici tendono a raggrupparsi secondo le sfere della sensibilità, e quindi anche le arti si distinguono poi con lo stesso criterio (dei suoni, colori ecc.); non v'ha sensibilità senza esteticità. Se i sensibili organici, e via via quelli tattili o termici, olfattivi o gustativi, presentano minor esteticità della vista o dell'udito, ciò dipende dalla più intensa praticità dei primi che, per esser più sentiti, vengon immediatamente trascesi dal volere; e sopratutto dipende dalla minor possibilità di rapporti esistenziali, ossia di forme e configurazioni di tali sensazioni.

L'estetica oggi nega che esista un bello sensibile, e quindi in natura; e lo riporta all'arte sperando di ridurlo tutto a spirito: sì, perchè l'arte sarebbe creatrice del bello, e ne sarebbe creatrice perchè fantastica. Ritorneremo su questa «fantasia creatrice», misteriosa facoltà occulta dell'arte. Osserviamo però che, se è vero che un letterato lavora con delle immagini (riprodotte), un pittore invece lavora co' suoi tubetti di colore e un musicista con le note del suo piano. Anzi, di più, un regista adopera uomini e cose reali per comporre le sue scene, una danzatrice forma le sue figure col suo stesso corpo. Del resto, il letterato medesimo è tale in quanto evoca immagini percepibili in parole, e la sensibilizzazione dell'immagine è il fine artistico della letteratura e si chiama poesia (come meglio vedremo).

L'arte è un fare e implica un fine, il fine estetico; come lo distingueremo dagli altri? Semplice artiere chiunque produce, fa un «oggetto», per un qualunque fine pratico (per es. farà un coltello). Sarebbe invece artista chi per es. esprimesse la stessa utilità, o magari la stessa materialità, o un qualsiasi altro valore nella forma di quell'oggetto medesimo: il nostro coltellinaio, divenuto artista, snellirà la lama, allungherà la punta, irrobustirà la costola e affilerà il taglio del suo coltello per imprimervi il senso d'un bel coltello di buon acciaio pronto a colpire e a penetrare, inesorabile e sicuro... Arte è prima di tutto questo artificio sensibile; e la fantasia dell'artista non è la facoltà fabulatrice comune ai sognanti mortali, sufficiente per il giuoco, contenuto e materia (come il resto) dell'arte; ma è disciplina che sceglie e inventa forme che rendano sensibilmente i fini; realistici o idealistici che siano.

A rigore, l'arte non è nemmeno obbligata a proporsi «il bello», se con questo termine intendiamo la forma sensibile che fa piacere (come tale). In questo senso, il bello è un risultato, è il valore estetico raggiunto, contemplato, conclamato: l'esistere di un bello (nel tempo), il «fatto» e non il «fare» dell'arte. Un buon artista rifugge anzi dal proporsi un bello esistente, qual'è quello contemplato in natura o in un'opera d'arte (in uno stile raggiunto), perchè il valore estetico è definitivo nella sua attualità sensibile e il riprodurlo lo indebolisce, il proporselo induce al calligrafico o al decorativo, all'arte (appunto) «piacevole». Lo «stile» è la forma esprimente la finalità artistica; piaccia o non piaccia, lo diranno i secoli. È soggettivo? Sì, in quanto vien riferito alla natura dell'artista; ma è valore proprio perchè immanentizza il sentimento nell'esistere in sè della forma. Nell'opera d'arte l'analisi trova sempre l'artista e il suo oggetto, ma l'opera supera l'artista: ecco il miracolo dell'arte, la ragione per cui qualche pezzo di calcinaccio colorato, un rapporto spaziale fra balcone e portale sottoposto, una frase di suoni o una semplice parola, ci possono riempire di sgomento e di stupore; e niuna ricerca sulla vita e sulle fonti di un artista adegua minimamente i motivi e i precedenti dell'opera alla grandezza terribile di quell'accordo di colori o di suoni. Perchè? Per ora cerchiamone il come.

«Esprimere un valore» è diverso dal fare una cosa, come dal rappresentarsela (conoscitivamente). L'arte può, come nell'arte applicata o nell'architettura, fare un oggetto per un fine, per es. pratico, che lo trascende, ma non è questo che la caratterizza; infatti può esser anche arte libera, come la pittura o la poesia, e il suo fare reale consisterà solo nel costruire delle forme sensibili. Del pari, l'arte può rappresentare, imitando o simboleggiando, un oggetto o un soggetto, ma può anche non rappresentar nulla – non trascendersi nella rappresentazione di qualcosa oltre il sensibile –, come nella pura musica o nella pura danza. Esprimere un valore significa dunque attuare formalmente una finalità, accordare il puro sensibile al fine (al valore subiettivo, l'inverso della conoscenza).

Pertanto sarebbe fonte di malintesi anche il definir l'arte come spontaneità del sentimento (vita) oppur dell'immaginazione (fantasia), senza interporre una vera e propria finalità artistica, consistente nella ricerca di quell'accordo tra la finalità in genere e l'espressione. L'arte è pensiero dell'arte. Non è artista chi esprime gesticolando un dolore, sì bene l'attore che trova un gesto espressivo di quel dolore, bello o brutto che sia in sè; non è artista il bimbo che scarabocchia un'immagine (che piacerà o no esteticamente a «noi»), ma il disegnatore – sia pure un «primitivo» – che vuol rendere in una forma (spesso, perciò, esagerando) ciò ch'egli vede e sa di vedere.

Qui appare il criterio di unità e distinzione fra bello di natura e arte. Tutto è bello o brutto in natura, nella sintesi a posteriori (cioè, di fronte a un contemplante), perchè ogni «cosa» ha una forma sensibile, quel cielo di nuvole bianche come questo palazzo, il gorgheggio d'un usignuolo come l'uccellino del Siegfried. Parimenti, ogni «atto» (natura, ossia vita umana) esprime una finalità, il gesto di quella madre come il Laocoonte, più o meno esteticamente. Ma se lo stile dell'arte, quand'è raggiunto, contemplato, ritorna a esistere come il bello di natura – con la sola differenza che il giudizio d'arte tien sempre conto di quel rapporto fra l'intenzione o finalità dell'artista e la sua attuazione sensibile –, il giudizio intuitivo «è bello» riguarda, in quanto estetico, unicamente quest'ultima. Intendo dire, che il bello non è un volere, un dover essere: è l'unico valore ch'è tale in quanto esiste, in quanto è raggiunto, immanente al dato – e quindi l'unico piacere che appaghi il volere, che sia solo piacere –; pertanto ciò che conta, anche nell'arte, è questo esistere e il modo com'è espresso nella realtà in sè di un'opera d'arte.

Insomma, la mia tesi va in senso opposto a quello dell'estetica corrente: non esiste realmente altro valore che il bello, che vale in quanto sensibile, e perciò pròva empiricamente la possibilità dei valori trascendentali e ce li «presenta»; l'arte è quell'attività che si pone per fine la stessa forma sensibile, e sensibilmente si attua, diviene esistenza: fa esistere il soggetto spirituale in una presenza, che riman poi nello spazio e nel tempo a rappresentare i valori umani in una forma esistenziale. Il pensiero estetico è quel pensiero che non riferisce ad «altro» il valore dell'esistere intuitivo fuorchè alla sua forma sensibile: la chiama bella se vale per sè, in natura, anche se son io che la contemplo e fu l'artista che la volle a quel modo. Allora, la filosofia dell'arte ci deve svelare il segreto del come un valore, esplicito e antinomizzato nel pensiero, si attua, si fa sensibile, «diviene» realmente e non per sola mediazione conoscitiva; infatti, tutto il pensiero può passar nell'arte. E la riflessione sul fondamento del criterio artistico apre la via a risolvere il problema del bello in natura: voglio dire, a comprendere l'immanenza d'un valore riferibile alla cosa in sè, all'essere universale, e non solamente alla soggettività di un fine umano.

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