Capitolo sesto Così dovea essere

È una fredda e mesta mattina di febbraio... una fitta nebbia occupa lo spazio fra cui invano cerca farsi strada un debol raggio di sole, il viandante, avvolto nel suo ferrajuolo, volge sollecito il passo ove lo chiamano le sue faccende, tutto è triste... tutto inclina ad un senso profondo di melanconia... il passero istesso sulle gronde delle case, oppure su qualche muricciuolo, stassi ratrappito, e par restio di spiegare il suo volo agile e leggiero... Il funebre rintocco d'una squilla solenne e ferale si spande d'intorno... e simile ad una nota di lamento, sembra richiamare il pensiero sulle gioie troppo caduche che rivestono d'un sorriso l'esistenza.

Adelia, curva la fronte dal dolore, eppure calma e serena, nella coscienza di sè stessa, attende l'ora funesta che gli aleggia intorno... Pallida più che le bianche cortine del suo letto, ella giacesi, collo sguardo fisso, entro cui nuotano ancora le memorie di giorni troppo presto trascorsi.

Tutto è silenzio, e solo il soffocato singulto della povera madre, che veglia intenta al capezzale della giacente, turba quella quiete solenne.

La giovinetta si scosse... il suo occhio incontrò l'occhio della madre umido di lagrime... Colla scarna mano si strinse al seno quella fronte venerata... le loro labbra si toccarono, la loro bocca non lasciò sfuggire che un sospiro. Oh qual incomparabile poema d'affetti!... quante pagine del cuore umano svoltesi in un attimo!... quante arcane rivelazioni comprese in un fremito!... qual domanda di perdono!... qual risposta d'affetto!...

Poi, raccolto lo sguardo moribondo... e pur vivo d'una speranza; madre, le disse... non venne ancora?... e ancora bello del pensiero di lui, un ultimo sorriso errò dentro il suo ciglio.

La povera madre non gli fè risposta... e sì che pur, a prezzo della vita sua stessa, vorría confortarla d'una dolce parola. La poveretta comprese il suo pensiero... ed abbandonando, mesta e rassegnata, il languido capo sul suo guanciale... Rivolse ancora i tardi lumi a quel verone, da cui l'anima aveva accolta la prima e fatal nota di quel canto d'amore... poi tutta si raccolse nelle tristi e lugubri memorie del passato... e sorrise... sorrise all'avvenire... che gli offriva il riposo della tomba!... e solo gli increbbe di lei... di quella povera madre che si starà sola a lagrimarla.

Sorgeva il sole del domani... sovra una zolla, allora appena smossa, una povera donna raccolta in uno di quei profondi dolori, per cui il labbro non ha conforto!... per cui la parola non ha nome, pregava muta ed inginocchiata, intrecciando ad una croce una corona di quei fiori che ella tanto aveva amati, e sembrogli che col loro ultimo olezzo gli parlassero l'ultimo amoroso addio del suo povero angelo.

L'istessa sera i vetri d'una casa, che riflettevano la luce di dorati doppieri, tremavano al moto d'una sfrenata danza, Carlo, stretto al seno l'esile corpiccino di gentil donzella, volteggiava, nel vortice d'un waltzer, mormorando all'orecchio della danzatrice la solita menzogna di tutti, e di tutti i giorni: t'amo!...

Ulisse Barbieri.

Share on Twitter Share on Facebook