Capitolo IV. ANCORA L'ASSEMBLEA DI BORDEAUX.

L'assemblea francese procedè rapidamente alla verifica dei poteri.

Fu stabilito che i deputati avrebbero ricevuto 9,000 franchi di stipendio annuo, 12,000 i questori. Lo stipendio del presidente doveva essere di 50,000.

Grevy fu nominato presidente ed in un programma che presentò ai suoi elettori, riassumeva la sua professione di fede.

«I vostri rappresentanti diranno che se la Francia deve, ad ogni costo, salvare il suo onore, essa non vuole però correre inutilmente alla rovina. Quanto alla Costituzione io non ho qui da fare una professione di fede nuova. Ho detto una volta, e lo ripeto: Io fui, sono, e sarò sempre fino alla morte repubblicano.

Mi riassumo dunque:

La Repubblica sempre:

La pace, salvo rivincita, con tutte le condizioni accettabili.

Ecco il mio programma».

Non erano però con lui che 150 deputati al più, il resto dell'assemblea componevasi di monarchici, e di clericali più o meno bene mascherati e divisi parte in legittimisti borbonici, in orleanisti e bonapartisti.

Nella seduta del 16 febbraio, venne a galla la profonda scissura di questi partiti che preparavano alla Francia giorni nefasti e di cui furono frutto mostruoso le lotte che seguirono poi tra la Comune di Parigi ed il Governo di Versailles.

La sala era popolatissima, – Rochefort è presente, – Gambetta non è ancora giunto.

Si seguita la verifica dei poteri, quando un deputato di destra sorge con impeto e si lagna perchè il giorno innanzi quando i rappresentanti uscivano dall'assemblea, Vittor Ugo aveva ricevuto dalla folla accalcata una clamorosa dimostrazione ed era stato salutato dal grido di: Viva la Repubblica.

Vuole che tali tumulti non si rinnovino e chiede la nomina immediata dei questori.

L'oratore parlando dei deputati di Parigi, dice che essi si sono macchiati nel sangue delle guerre civili e scongiura di fare in modo che la libertà delle discussioni non sia osteggiata.

Queste parole sollevano naturalmente vivi reclami per parte della sinistra liberale.

Il presidente legge frattanto una lettera del generale Faidherbe che rassegna il suo mandato.

Un deputato rinnova la sua domanda per la nomina immediata dei questori onde proteggere i deputati contro gli insulti del di fuori.

Un deputato della sinistra, dice che le grida di: Viva la Repubblica, non sono un insulto.

«Voi non siete giudici!... siete una fazione!...» rispondono molte voci.

Succede una terribile agitazione; si scambiano grida di Viva la Repubblica, emesse dalla sinistra, e di Viva la Francia!... emesse dalla destra.

Il dualismo non poteva essere più marcato.

La conclusione della seduta fu però la nomina di Thiers a capo del potere esecutivo della repubblica francese.

La formola adottata dall'assemblea per questo atto che affidava al dubbio repubblicanismo del signor Thiers le sorti della Francia eccola:

«L'assemblea nazionale, depositaria dell'autorità sovrana,

«Considerando che è necessario, fino a che sarà presa una decisione sulle istituzioni della Francia, di provvedere immediatamente alle necessità del governo e alla condotta dei negoziati;

Decreta:

«Il signor Thiers è nominato capo del potere esecutivo della repubblica francese. Egli eserciterà le sue funzioni sotto l'autorità dell'assemblea nazionale, col concorso dei ministri che avrà scelto e che egli presiederà».

L'assemblea aderì alle conclusioni della commissione. Il signor Thiers, fu nominato capo del potere esecutivo della Repubblica francese dall'unanimità dei suoi colleghi; possiamo dirlo, giacchè, se non tutti si levarono per lui quando vi furono invitati dal presidente, nessuno si levò per la controprova.

Le parole del Lefranc porsero occasione a Luigi Blanc di esporre le sue teorie in fatto di forma di governo. Egli dichiarò essere la repubblica la sola forma di governo legittima, naturale necessaria e superiore anche al suffragio universale. La stessa dottrina fu proclamata dal Gambetta in una memorabile tornata del Corpo legislativo. Ecco le parole di Luigi Blanc:

«Se vi è un'istituzione che abbia per essenza un carattere non provvisorio, questa istituzione è la repubblica (Movimento). E perchè? Per la ragione ben semplice che la repubblica è la forma, non dirò naturale, ma necessaria della sovranità del popolo, perchè il suffragio universale medesimo, nulla può contro la repubblica. (Applausi a sinistra, proteste a destra).

«Leopoldo Laval. La repubblica è dunque di diritto divino?».

«Louis Blanc. Io ripeto che il suffragio universale medesimo nulla può contro la repubblica (nuovo movimento), perchè la generazione presente non può confiscare il diritto delle generazioni future (reclami a destra, approvazione a sinistra), perchè se il suffragio universale stabilisce una monarchia ereditaria, ciò che suppone l'immobilità, il suffragio universale si suiciderebbe e perderebbe, per questa stessa ragione, la sua ragione d'essere. La sovranità d'oggi distruggerebbe la sovranità di domani ciò che implica una contraddizione.

«Io dico dunque, che la repubblica non ha bisogno per esistere d'essere riconosciuta, perchè essa ha la sua ragione d'essere (Interruzioni)...

«Leopoldo Laval. Allora voi volete la repubblica di diritto divino; non è cosa che si possa accettare.

«Louis Blanc. Io ripeterò, terminando, con una parola di cui non voglio citare l'autore, perchè il suo nome è nella memoria di voi tutti: La Repubblica è come il sole. Cieco chi non la vede! (Applausi a sinistra, reclami a destra)».

A proposito della mozione Grévy-Dufaure, non omettiamo di dire, che il titolo di capo del potere esecutivo della Repubblica francese non fu lasciato passare senza difficoltà.

La parola Repubblica spiaceva a molti. 300 deputati desideravano che fosse eliminata. Nella seduta pubblica non apparve questo sentimento, ma nelle adunanze private le discussioni furono vivacissime. Il desiderio della concordia acchetò i monarchici.

Queste lotte succedevano nel seno dell'assemblea nazionale cui solo scopo doveva essere quello di volere ciò che voleva la Francia, ed aizzavasi così quella irritabilità che già serpeggiava minacciosa, allarmata dal dubbio che si volesse tentare il ripristinamento d'un ordine di cose che una grande maggioranza della Francia intelligente, e specialmente di Parigi, non voleva. Erano questioni così mal a proposito messe in campo da lasciar pienamente scorgere come in quegli uomini non vi fosse nè cuore nè patriottismo, e come volessero servirsi del potere che loro fu fatalmente conferito, con un mezzo soltanto di appagare le loro ambizioni personali e sfogare i loro rancori, anteponendo una testardaggine stupida in un'idea, anzichè il vero benessere del paese.

Thiers intanto lavorava a comporre il suo ministero:

Giulio Favres, Esteri.

Luigi Ricard, Interno.

Giulio Dafauvre, Giustizia.

Felice Lombrecht, Commercio.

Generale Le Flò, Guerra.

Giulio Simon, Istruzione.

Ammiraglio Potrhan, Marina.

Carlo Larcy, Lavori pubblici.

Di questi otto ministri, Favre, Ricard e Simon, erano i soli repubblicani – Lambrecht e Dafauvre non erano che orleanisti come Thiers.

Dafauvre era fatto ministro di giustizia... quello stesso che fu ministro d'istruzione pubblica sotto Luigi Filippo nel 1840, dell'interno sotto Cavaignac dopo la rivoluzione 1849, e dell'interno sotto la presidenza di Luigi Napoleone.

Larcy non è che un antico legittimista ed un moderno democratico, uno di quei cinque deputati che fecero al conte di Chambord la famosa visita di Belgrave Ignare per la quale essendo stati vituperati nell'indirizzo della Camera al re Luigi Filippo, furono costretti a dare le loro dimissioni.

Il ridicolo, questa terribile arma di demolizione, mordeva intanto sul suo elevato seggio il signor Thiers, che Rochefort nel suo nuovo giornale il Mot d'ordre chiama «il piccolo uomo che porta un soprabito grigio ed un paia d'occhiali per meglio nascondere i suoi progetti».

L'arguto redattore della Lanterne ricordava i suoi recenti fiaschi diplomatici a Pietroburgo, a Londra, a Vienna ed a Varsavia e dichiarava che la retriva e vigliacca assemblea di Bordeaux non l'aveva scelto a presidente dei ministri, se non perchè lo sapeva deciso a conchiudere la pace a qualunque costo.

Perchè lui e non un altro? diceva egli:

«Perchè lui e non un altro? Che il presidente Grevy mi getti in faccia i suoi questori se l'osa. Non certo per gratitudine del successo delle sue imprese, perchè tutte naufragarono; non nella speranza che egli vede chiaro nella situazione attuale, poichè egli non seppe scorgervi sin qui che confusione».

Lo scelsero o Francia polverizzata! perchè si sa che egli è l'antesignano della pace ad ogni costo; perchè il giorno in cui Guglielmo di Prussia, – personaggio fantastico, metà re e metà mercante d'orologi, – gli domanderà d'Alsazia, Metz e Pondechery, si è sicuri che Thiers I risponderà:

«Permettimi sire, d'aggiungere, a titolo di spillatico, un migliaio d'ettari nel Morvan e altrettanti nella Saitonge».

Conchiudeva dicendo «Thiers accorderà tutto ciò che la Prussia domanderà, compresi i nostri stivali e le nostre camiciuole di flanella».

Petrucelli della Gattina in una sua brillante lettera a un giornale di Firenze, alludendo all'ultima gita del Thiers in Italia, così caratterizza la politica ambigua dell'uomo, al quale ventisei dipartimenti – un quarto della Francia – vollero affidati i destini della Francia:

«L'illustre uomo di Stato, come lo si addimanda oggi nelle gazzette non repubblicane, si presentò costì per sollecitare la mediazione d'Italia, o meglio il concorso d'Italia nella mediazione che egli credeva aver ottenuta per terminare la guerra. Ebbene in quel momento proprio, il degno galantuomo si aveva ancora in tasca la sua famosa lettera a Pio IX, con la quale ragguagliava il santo pontefice che egli, il Thiers, aveva implorata la protezione di tutte le cancellerie e di tutti i sovrani di Europa per deciderli alla ristaurazione del potere temporale ed alla espulsione degli italiani da Roma. L'illustre uomo di Stato non ha ancora riconosciuta l'Italia. L'Italia è ancora per lui un Piemonte impinguato e rimpinzato di Stati rubati ai loro sovrani legittimi. E' dava dunque al papa consolazioni e speranze d'aver toccato il cuore della diplomazia europea in favor suo.

«L'uomo a coscienza sì larga, a delicatezza sì squisita, è oggi l'incarnazione dei voleri della Francia, o presso a poco».

Le previsioni del partito liberale a cui stavano a cuore l'onore e la dignità della Francia, non tardarono a verificarsi.

I primi sintomi d'una sorda indignazione serpeggiarono nel popolo. «Cosa aveva fatto questa assemblea repubblicana?» avea accettata una pace vergognosa – avea stancheggiate le popolazioni e ne aveva snervato quell'entusiasmo da cui si poteva trarre ancora qualche speranza di resistenza all'invasione. Dopo aver limitato con ogni sofisticheria i mezzi d'azione all'uomo che aveva portata la sua spada, la sua esperienza, il suo braccio, il suo nome ed il suo cuore in aiuto della Repubblica, lo aveva insultato, calunniato!... Mentre poteva con un esercito aprirgli una via da Dole nel centro della Germania ove egli voleva avventurarsi coi suoi prodi disposti a morire ma non a fuggire e stancheggiare così il nemico con un piano che avrebbe rivaleggiato colla spedizione di Marsala e colle battaglie di Montevideo, lo aveva imprigionato nei Vosgi!... affidando un posto limitatissimo e di estrema responsabilità quale campo d'azione per un uomo come Garibaldi, che come la folgore aveva bisogno di spazio per correre la sua via.

Una parte della Francia chinava il capo sotto le terribili e vergognose condizioni imposte alteramente dalla Prussia, e bassamente accettate da Thiers, ma coloro che erano disposti a dare tutto per l'onore del loro paese, coloro che avevano già sui campi di battaglia, esposta la vita con spensierata noncuranza, o che volevano morire, se altra speranza di vendicare i patiti oltraggi loro non fosse rimasta, fremevano di sdegno e non trovavano parole bastanti per esprimere il loro odio ed il loro disprezzo contro i negoziatori di Versailles.

Rochefort, scriveva nel Mot d'ordre ch'egli ed i suoi amici si raderebbero le mani fino all'osso prima di acconsentire a quell'atto di vigliaccheria.

Egli aggiungeva:

«Come si doveva aspettare, i signori Thiers e Giulio Favre hanno sottoscritto tutto, alla chetichella, come quelle madri infami che, di notte, si aggirano furtivamente nelle vie deserte, conducendo le loro figlie alla prostituzione.

«Sì, essi hanno tutto sottoscritto, tutto, capite?

«I giuramenti più solenni, li hanno violati spudoratamente. Dell'onore della Francia hanno fatto un letamaio, e, col sorriso sulle labbra, col frak nero indosso, hanno vilmente abbandonata l'Alsazia eroica, e la patriottica Lorena, e Metz, e la fortuna della Francia (cinque miliardi e mezzo, il doppio di ciò che occorrerebbe a continuare la guerra ad oltranza quindici mesi) e la nostra industria, e forse Nizza e Savoia, e certamente Parigi, di cui i lanzichenecchi di re Guglielmo calpesteranno fra qualche ora il lastrico immortale».

Il Blanqui d'altra parte scriveva che la pace non era che la continuazione dei tradimenti. «Quando una mano di furfanti preceduti da un gesuita, s'intitolò Governo della difesa nazionale, intendeva senza dubbio sotto la parola difesa la parola capitolazione».

L'esacerbazione contro l'assemblea arrivava al parossismo ed a questo stato di cose aggiungevasi l'opera infame dei mestatori che volevano ad ogni modo provocare disordini, sia per impedire che in qualche modo potesse consolidarsi un'assemblea francese, sia per trar motivo in moti parziali al saccheggio ed alla distruzione.

Parigi era il centro di questo vorticoso turbinio di passioni. I giorni nefasti della guerra civile si preparavano. Le sinistre faci si accendevano. Per salvare l'onore della Francia e fare che la guerra si chiudesse con uno di quei fatti che costringono al rispetto della sventura, quando a questa sventura vada collegata la grandezza, occorreva alla Francia, un uomo che sapesse audacemente affrontare un partito estremo quale era voluto da una parte rispettabile della popolazione... un uomo insomma che avesse saputo comprometterla.

Occorreva alla Francia un uomo, che elevandosi all'altezza dei tempi e con profonda conoscenza delle cose e della Francia istessa, avesse avventato contro l'esercito prussiano quella massa ardente, febbricitante che si scatenò poi contro le truppe di Versailles... che si fosse fatto un'arma di tutte le passioni, di tutte le esaltazioni, pur di mettere un ferro ed un fucile in ogni mano!... Invece di cercare una pace obbrobriosa che avrebbe portato per frutto la rivoluzione, ed aggiunta all'onta di una disfatta e a quella della capitolazione, l'onta della guerra civile che doveva chiudere l'infausta pagina di questa storia sanguinosa, si poteva non salvare la Francia, ma si poteva farla cadere avvolta in tanta grandezza da ricordare, rinnovandoli, gli eroismi della Sparta antica... Come Sparta, Parigi era il grande focolare da cui poteva partire la scintilla incendiatrice.

Bisognava sfrenare qual tremendo vulcano. Il Louvre e le Tuileries che arsero contese da un popolo furente all'occupazione delle truppe di Versailles, potevano ardere monumento di sublime sagrificio e di indomito coraggio contese alle truppe prussiane!... Si poteva creare una grandezza là dove si è creato un delirio!... Il vandalismo che ha atterrati quei monumenti... che ha distrutta la colonna Vendome per distruggere tutto ciò che era l'espressione d'un passato, perchè quel passato era l'aspirazione degli uomini aborriti d'un governo di inetti e di reazionari!... poteva commutarsi in una virtù! Le lotte tremende ed eroiche di Neuilly, di Points du jours, di Montmartre, si trasformavano in un'epopea... La Francia oggi nulla nel suo governo; avvilita dal fratricidio!... che piange e si morde le mani nella convulsa disperazione del parossismo, poteva elevarsi dalle stesse rovine in cui oggi si è travolta, come uno di quei quadri innanzi alla cui grandiosità maestosa si sente la venerazione del rispetto e l'impeto dell'entusiasmo.

Onta a coloro che tanto in basso hanno spinta quanto potevano sublimemente sollevarla!...

L'entusiasmo che può salvare un popolo è però tal cosa che guai a non saper cogliere in tempo!... Guai se la riflessione rompe l'incantesimo d'un sogno!... L'uomo che saprebbe ora morire sopra una barricata, se anche la fame lo sfinisse, forse perchè nella stessa disperazione trova la fonte del suo coraggio, domani potrebbe entrare furtivo da una porta e rubare quel pane che ieri era orgoglioso di non poter portare alle labbra! I saccheggiatori di Belleville potevano essere eroi! Coloro che saranno i proscritti di domani, quando il governo di Versailles avrà stabilito ciò che egli chiama l'ordine, sarebbero stati forse i martiri dei cui nomi la Francia avrebbe illustrato un nuovo monumento... Fosse pure stato quel monumento una lapide sepolcrale!

Gustavo Flourens che cade scannato dai soldati di Versailles, non sarebbe forse caduto, novello Leonida, sugli spaldi dell'ultimo bastione di Parigi?... difendendo l'ultima barricata dall'invasione?...

I suoi soldati non avrebbero forse intorno a lui, formidabile barricata umana, stesi i loro corpi insanguinati?

Sì! di questi soldati che si difendevano palmo a palmo, vita per vita, si poteva farne gli stessi difensori di Parigi contro l'assalto di un esercito straniero. Le donne che si armarono per difendere i loro fratelli ed i loro mariti si potevano armare per una ben più santa causa, e quel delirio di morire piuttosto che di cedere che ha invaso gli animi in questo ultimo e fatale periodo della rivoluzione di Parigi poteva armare tante braccia da offrire alla libertà francese una superba ecatombe di martiri.

Lo Charivary riassumeva lo stato della Francia quale era prima che incominciasse la rivoluzione del 18 marzo con due lugubri caricature. La prima rappresentava la Francia morente in una stanza, mentre i suoi domestici abbandonatala si impadroniscono già delle sue masserizie. I domestici ci raffigurano i diversi partiti.

La scritta dice: – Mi credono già morta! L'altra, mostra il dimagrito cadavere della Francia in un campo di battaglia. Un nugolo di corvi scende per farsene pasto. La scritta dice: – Altri candidati!

– Lo stesso giornale che aveva pubblicato sempre le sue caricature durante l'assedio, al terminare di questo, ne fece una che rappresentava un Faust alla moda del 1871. L'amante di Margherita che ritorna dalla guerra, le presenta una quantità di oggetti; vi primeggiano gli orologi che ha trovati in Francia.

I giornali del partito estremo si moltiplicano. Al Mot d'ordre di Rochefort tien dietro il Dernier mot di Blanqui: a questi si aggiunge Le cri du peuple di Giulio Vallés, il cui primo articolo è intitolato Parigi venduto: sorge infine un altro giornale con questo strano titolo: Paris-Belleville, Moniteur du XX arrondissement.

Parigi che ha sempre avuto la mania dell'eccentricità, ha sempre una fisionomia tutta sua! Egli è un gran fanciullo, come lo ha chiamato Vittor Hugo, che si lascia sedurre da tutto ciò che ha il bagliore d'un prestigio qualunque!...

Un gran fanciullo che ha bisogno di correre, di saltellare e di far delle pazzie!... Se non può avere illusioni egli se le crea per il piacere di poter credervi... Ed è questa una delle cause per cui il francese passa istantaneamente e con quella volubilità fatale di cui ha dato più di una prova, dall'entusiasmo alla sfiducia!... dalla febbre all'apatia!... e lo si può condurre oggi ad esaltarsi per un delitto come per una virtù; a far sua un'empia come una buona causa!... ad amare, ad idolatrare oggi, per imprecare, per dimenticare domani.

Negli ultimi giorni del carnevale in cui la crisi tremenda della guerra franco-prussiana era alla sua funesta meta, e si chiudeva colla capitolazione che tanta agitazione, tanta lotta destò nella Francia, Parigi non voleva rinunciare al suo istante di buon umore ed il martedì grasso accettò e mise in voga con vero furore una canzonetta che si vendeva e si cantava da girovaghi sulla piazza e per le vie.

La canzonetta era intitolata: La Marche du Boeuf Gras da cantarsi sull'Aria della complainte di Fualdés.

Una grande incisione rappresentava il corteggio tradizionale.

È aperto dal generale Trochu che porta una immensa chiave della città di Parigi. Vengono dietro lui il conte Bismark e re Guglielmo, vestiti ed atteggiati come i re ed i ministri delle opere d'Offenbach.

Il bue grasso è La Francia, condotta da due littori prussiani col classico elmo, e la mazza del carnefice. Il vecchio Constitutionnel le sta a cavalcioni vestito da amorino. Giulio Favre lo segue colla Convenzione del 28 gennaio sotto il braccio: v'è poi una quantità di altre figure e d'allusioni che tralasciamo per accorciare. La canzone finge che il corteo si arresti qua e là, come il solito, e ne trae argomento a scherzi sanguinosi. Comincia:

Bientôt, grâce à l'armistice
(Lisez capitulation)
Dans Paris défileront
Sir Guillaume et sa milice;
Chaons vite, il n'est que temps,
Nos pendules, nôtre argents
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ce monarque s'imagine (!!)
Qu'il a conquis tous nos forts,
Il nous tient, grâce aux efforts
Du general Von Famine.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La prima stazione è alla piazza della Concordia ove non si manca di mostrargli come la giustizia popolare

Punit ici les tyrans!

Ma Guglielmo, dice la canzone, teme di raffreddarsi in quel sito.

La seconda stazione è in un luogo ove perirono molti bambini per lo scoppio d'un obice, e lì egli riceve una deputazione di becchini. Più lungi una di spie:

Voici ton armée fidèle
Le regiment d'espions;
Tu dois à nos bataillons
Une fameuse chandelle.

La quarta stazione è al Giardino delle piante, ove, gli dicono, può andare senza paura poichè

Les tigres et les panthères
Les animaux furieux,
Ne se mangent pas entre eux.

La morale, – poichè c'è sempre una «morale» nelle complaintes – è questa;

Le proverbe dit qu'en France.
Tout finit par des chansons.

Pur troppo per la Francia! Ma poi aggiunge che

En Prusse par des rançons
Tout finit et tout commence

Il mot de la fin è che

Pour vaincre un Guillaume tel
Il faut des Guillaume Tell!

Questa canzone, fece furore, ed ha bilanciato il successo di un'altra complainte sopra il piano di Trochu che principia così:

Un general de Bretagne
Qu'on appelait Trochu tout court,
Concut l'matin d'un beau jour
Un vaste plan de campagne;
Il disait à ses amis:
Grace à c' plan j' debloque Paris.

e che si canta molto nei sobborghi.

La lotta dei partiti arrivava frattanto a quel cozzo formidabile da cui doveva nascere la guerra civile.

Due elementi estremi primeggiano nel popolo francese; l'elemento ateo, materialista, socialista, e l'elemento clericale, bigotto e reazionario.

Sono eccessivi entrambi e formanti fra loro il più fiero ed irreconciliabile contrasto, ed è codesto antagonismo appunto che produce i sussulti e gli sconvolgimenti in mezzo ai quali la Francia si dibatte da ottant'anni a questa parte.

La sua vita è una continua oscillazione fra l'anarchia ed il dispotismo, fra il materialismo e la superstizione. È una vicenda continua di sfrenatezze impazienti o di dispotismo assoluto.

A questi due elementi contrarj messi così in aperta lotta tra di loro dalla eventualità dei fatti, aggiungansi i disastri della guerra, la sopraeccitazione degli animi, lo sfacelo dell'esercito, lo scioglimento d'ogni autorità, e si avrà un'idea di ciò che poteva e doveva nascere da un urto che sentivasi vicino ed inevitabile.

Prima dell'armistizio la lotta civile era impedita dalla pressione della guerra collo straniero; cessato questo motivo che imbrigliava ancora le passioni che già ruggivano, doveva necessariamente, non stornata a tempo, sfrenarsi la lotta fratricida, irresistibile e feroce.

La profonda divisione degli animi si manifestò fino dalle elezioni all'assemblea, la quale riuscì un incomposto miscuglio di repubblicani, di legittimisti e di retrogradi. Mentre l'estrema provincia mandava deputati monarchici e conservatori, Parigi eleggeva i suoi più ardenti e sicuri repubblicani.

Vi fu quindi nell'assemblea una maggioranza che diede il primo e fatale saggio delle sue idee, espellendo quasi dalla Francia Garibaldi. La più bella personificazione della democrazia.

La massa che sentiva invece quel sentimento di riconoscenza per l'uomo che aveva alla Francia portato il suo braccio, e che rispondeva con un'abnegazione senza pari ai dolorosi ricordi di Mentana, ne fu offesa e protestò colle dimostrazioni le più entusiastiche fatte all'uomo che essa non era rea del vile fatto.

Questa massa si staccava dunque dall'assemblea che era pure fatalmente il governo della Francia, per non voler essere complice nè compartecipe di quel suo vigliacco atto di sconoscenza e di bassa codardia.

Tra l'assemblea e una grande maggioranza della popolazione già allarmata da noti precedenti su cose e uomini che la stampa democratica denunciava arditamente al popolo, aumentavansi quindi i motivi di quell'avversione che deve arrivare all'odio il più incompatibile e violento.

Si era aggiunto a ciò la rettificazione d'un trattato che feriva profondamente l'orgoglio del popolo francese ed in ispecial modo i parigini assoggettati, benchè per pochi giorni, alla occupazione straniera.

Il timore che la forma d'un governo repubblicano, carissimo ai parigini, corresse grave pericolo, in vista del colore monarchico del maggior numero dei deputati che lasciavano troppo apertamente intravvedere il desiderio d'una restaurazione, insinuavasi già sinistra ombra negli animi.

Già si parlava di un accordo stretto tra i pretendenti borbonici e gli orleanisti, per rendere più forti i loro fautori insieme riuniti, e rendere quindi più facile il trionfo dell'antica monarchia.

Questi timori, non infondati, rendevano più acerbo lo stato degli animi, e uniti alle cause sopra enumerate accrescevano la probabilità di un conflitto.

Intanto l'ostilità fra l'assemblea personificante nella sua maggioranza il principio reazionario, e Parigi esprimente, pure nella sua maggioranza, quello delle idee più avanzate, questa ostilità si andava più sempre pronunciando. Nè sarà senza interesse la disamina degli ultimi atti dell'assemblea francese che precedettero, e provocarono per così dire la guerra che proruppe improvvisa ed atroce fra i figli d'una medesima terra.

È forza ricordarlo. Più Parigi protestava e gridava contro le tendenze retrograde dell'assemblea, e più questa si atteggiava in modo ostile contro Parigi.

L'elemento parigino che stava in minoranza nel consesso nazionale, dava spesso occasione a scene di scandalo che palesavano apertamente la profonda divergenza delle opinioni, la discordia implacabile degli animi. Tale fu la seduta del quattro marzo.

Vi nacque una scena tempestosissima provocata da Felice Pyat, il quale accusò pubblicamente il presidente di aver soppressa una sua lettera, e il resto della seduta fu poi tutto impiegato a discutere una assurda proposta del signor Guichard il quale voleva che fosse nominata una commissione finanziaria a cui sarebbero sottomesse tutte le modificazioni che le circostanze esigerebbero nel budget del 1871 e che avrebbe a ricercare e ad esaminare tutte le economie che converrebbe introdurre immediatamente nelle spese pubbliche.

Thiers rispose essere impossibile che il budget sia proposto da altri che dal governo.

Intanto i semi della discordia, fomentati dalle mene segrete della reazione, crescevano.

Si tendeva a dividere Parigi dalla Francia, ed a sfrenare contro la capitale i rancori e le invidie della provincia che già covavano da lungo tempo contro questo grande centro dell'intelligenza che dominava la Francia.

Parigi la si chiama un nido di rivoluzioni inquiete, e l'assemblea che vi si trovava a disagio occupata come era da ben diversi interessi personali che non fossero quelli che aveva giurato di mantener in faccia al paese, propose di stabilire il governo a Versaglia oppure a Fontainebleau.

La provincia si associò tosto a questo insulto che si voleva fare alla metropoli su cui abilmente si faceva ricadere la colpa dei mali che afflissero la Francia.

Si coprì di numerose firme di tutte le province francesi, una petizione diretta all'assemblea così concepita:

«Dipartimento di... Comune di...

«Considerando che è urgente di costituire un governo stabile,

«Considerando che Parigi colle sue rivoluzioni periodiche, porta il maggior pregiudizio agli interessi della patria,

«Gli elettori sottoscritti hanno l'onore di domandare ai loro rappresentanti che per lo innanzi la città di Parigi non sia più la capitale della Francia».

La maggioranza dell'assemblea non chiedeva di meglio. Parigi la sorvegliava col suo sguardo diffidente; a Versaglia essa era libera di gettarsi in braccio alle sue aspirazioni reazionarie.

Le mire dell'assemblea trapelavano però da ogni suo atto, già Rochefort, Ran, Malos, Pegrat si erano ritirati in seguito alla votazione nel trattato di pace.

Intanto le petizioni delle provincie per l'esautorazione di Parigi giunsero all'assemblea. I deputati, favorevoli per la maggior parte a quella domanda, oscillarono qualche tempo fra Versaglia, Fontainebleau, Tours, Orléans e Bourges, finalmente decretarono di porre la sede dell'assemblea e del governo a Versaglia. La distanza che separa questa città da Parigi è bastante (si pensò) per impedire che l'assemblea soggiaccia ad un colpo di mano di Belleville o di Montmartre. «Gl'insorti dovranno passare sotto i cannoni di quei forti che i prussiani non poterono ridurre al silenzio. Il Monte Valeriano è a cavaliere della strada di Versaglia: un generale posto sotto la protezione del suo fuoco, con un distaccamento agguerrito, può sfidare tutte le bande indisciplinate che i sobborghi manderanno».

La sola sinistra repubblicana sostenne che Parigi dovesse rimaner capitale, ma fu schiacciata dalla maggioranza antiparigina.

Chi non conosce Vittor Hugo, quel potente scrittore che da Nostra Signora di Parigi all'Uomo che ride, ha lanciati al mondo tanti poemi immortali, che dai Castighi alle Canzoni dei boschi e delle vie ha fatto modulare tutte le corde della lira poetica, la cui magica penna ora diveniva fulmine di sdegno, ora plettro di mestizia e d'affetto? Vittor Hugo fu sempre l'amico di Garibaldi. L'uomo della parola e l'uomo dell'azione, il sommo poeta e il sommo soldato, grandi patrioti, grandi uomini entrambi, erano fatti per intendersi e per amarsi. V'ha una fratellanza necessaria fra le anime sublimi.

All'indomani di Mentana Vittor Hugo scriveva a Garibaldi la Voce di Guernesey canto ardente d'amore e d'ira.

Dopo che Garibaldi partiva quasi scacciato dall'assemblea di Bordeaux, dopo questa seconda Mentana che l'astio francese infliggeva al grande benefattore, fu la voce di Vittor Hugo che si levò a protestare in seno di quella medesima assemblea.

E la parola di Vittor Hugo fu soffocata come quella di Garibaldi.

Nella seduta dell'Assemblea dell'8 marzo, era all'ordine del giorno la convalidazione dei poteri. Quando fu la volta dell'elezione del generale Garibaldi in Algeria, il relatore signor Vente diede lettura delle seguenti conclusioni:

«L'ufficio, considerando che il generale Garibaldi è dimissionario, crede che non v'ha più luogo a decidere, e lascia al governo la cura di provvedere all'elezione d'un nuovo deputato».

La discussione avvenuta allora, pur troppo mostra che i francesi hanno poco imparato dalla sventura; v'è la stessa leggerezza, vi son le stesse intemperanze, le stesse ciarlatanerie del passato, fra cui è soffocata la solitaria voce della verità e della giustizia.

Il presidente. Il generale Garibaldi non è dimissionario di questa elezione, e bisogna che sia deciso in un modo qualunque.

Il signor Richier. Garibaldi non ha il diritto di essere eletto e di far parte d'un'assemblea francese. (Reclami su vari banchi).

Il presidente. Il generale darà la sua dimissione se lo crede conveniente; ma ciò che l'assemblea deve verificare, è la validità della sua elezione in Algeria.

Il relatore dice che non può indicare le conclusioni dell'ufficio sul punto speciale indicato dal signor presidente, per la ragione che l'ufficio non ha trattato in questo modo la questione. Se l'assemblea crede necessario che la questione venga posta all'ufficio gliene riferirà (Interruzioni diverse).

Il presidente. L'ufficio non ha che una cosa da fare; dare conclusioni sulla validità dell'elezione.

Quanto al governo egli vedrà ciò che deve fare in seguito alla decisione dell'assemblea, ed il generale Garibaldi pure.

L'ufficio incaricato della verificazione dell'elezione deve rispondere a questa domanda: l'elezione è essa valida o no? Che egli risponda.

Allora Vittor Hugo domanda ed ottiene la parola:

Ecco testualmente ciò che disse il gran poeta:

«Vittor Hugo. Non dirò che una parola. La Francia ha attraversato sventure dalle quali essa è uscita sanguinante. Si può esser vinti e restar grandi, la Francia lo prova. La Francia schiacciata alla presenza delle nazioni, ha esperimentata la viltà dell'Europa.

«Di tutte le potenze europee, nessuna si è levata per difendere questa Francia, che tante volte difese la causa dell'Europa (Bravo! all'estrema sinistra). Non un solo re, non uno Stato, nessuno, eccettuato un uomo. (Risa ironiche a destra. Benissimo all'estrema sinistra).

«Ah, le potenze non intervenivano. Ebbene! Un uomo è intervenuto, e quest'uomo è una potenza (Esclamazioni su parecchi banchi a destra).

«Quest'uomo, signori, che cosa aveva? La sua spada...»

Il Visconte di Lorgeril: E Bordone!

«Vittor Hugo: La sua spada, e questa spada aveva già liberato un popolo... (Esclamazioni) e questa spada poteva salvarne un altro. Così egli ha creduto! è venuto, ha combattuto.

«A destra: No! No!

«Il Visconte di Lorgeril: Non furono che reclames. Egli non ha mai combattuto.

«Vittor Hugo: Le interruzioni non m'impediranno di esprimere le mie opinioni. Egli ha combattuto... (Nuove interruzioni).

«Molte voci a destra: No! No!

«A sinistra: Sì! Sì!

«Visconte di Lorgeril. Ha fatto le mostre.

«Un membro a destra: Comunque sia, non ha vinto.

«Vittor Hugo. Io non voglio offendere alcuno in questa assemblea, ma dirò che egli è il solo, dei generali che hanno combattuto per la Francia, il solo che non sia stato vinto. (Reclami rumorosi a destra. Applausi a sinistra).»

Il tumulto durò molto tempo. «All'ordine!» gridavano molti. «Garibaldi è una comparsa da melodramma,» gridò il reazionario e clericale visconte di Lorgeril «Non fu vinto perchè non combattè». Ed il signor Richier: «Un francese non può ascoltare parole simili a quelle che furono pronunziate dal signor Hugo». – Il generale Ducrot protestava clamorosamente da un palco di prim'ordine. Finalmente, quando la calma fu ristabilita, Vittor Hugo annunziò che, non riuscendo a farsi ascoltare, dava la dimissione, e sceso dalla tribuna scrisse la sua lettera di dimissione sul banco degli stenografi. Invano il presidente tentò di dissuaderlo. «No, no, diss'egli con insistenza, non rientrerò mai in questa assemblea» ed uscì dalla sala.

Ecco qual'era l'assemblea francese da cui la Francia doveva sperare una tregua ai tanti mali sofferti. Ecco quali erano gli uomini eletti dalla maggioranza dei ruminanti come Rochefort, con adattatissimo vocabolo, classificò i provinciali che avevano già coll'opera sua imposti alla Francia i famosi dell'ultimo plebiscito.

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