Capitolo V.LA RIVOLUZIONE.

Il 18 marzo eccitata dagli uni, conseguenza logica della mala fede degli altri, voluta dalla inevitabile fatalità delle cose, la rivoluzione fu padrona del campo e terribile levò il suo ruggito. Seguendo lo sviluppo dei fatti che travolsero nel vortice apertosi tante vittime umane, noi avremo un'uguale parola, un'uguale misura... Sovra le due fazioni che si lanciarono l'una contro l'altra, pesa una tremenda responsabilità, quella di una guerra civile compiutasi sotto gli occhi dello straniero che era là sinistro spettatore di quell'orrendo macello, e che in mezzo a quel lago di sangue vede scomparire la grandezza d'una nazione. Forse d'innanzi alla difesa dell'onore nazionale, innanzi all'idea di liberare il suolo francese dall'invasione era dovere di carità cittadina sagrificare ogni rancore, ogni disgusto, ogni legittimo reclamo sull'altare della Concordia che poteva ancora salvare la Francia; ma in mezzo a quel turbine spaventevole, che è una rivoluzione, quale sguardo può leggervi arditamente e con serena coscienza farsi giudice di quell'eruzione che come il vulcano non ha traccie nè limiti finchè l'impeto della sua foga distruttrice siasi esaurito?... Accanto alla santità di nobili principii proclamati, di generose aspirazioni santificate coll'abnegazione, suggellate col sangue, v'ha commisto il buio di tenebre inesplorate. Agli eroi che combattono e muoiono è necessaria legge delle rivoluzioni, massime se non hanno un chiaro, supremo, irremovibile scopo, che vi si congiunga il feciume criminoso dei bassi stratti sociali... e che alle sublimi aspirazioni dell'anima si uniscano ed emergano quasi per disonorare la barricata eletta a tutela dell'indipendenza del proprio paese, le basse passioni e le piccole ambizioni che vi cercano o un appoggio, o un tornaconto.

Come le grandi tempeste le rivoluzioni unitamente alla terribile, aperta e gigante furia delle onde, che rasentano il cielo, rimescolano la melma del fondo.

La limpida acqua si intorbidisce ed in quella notte, in cui i martiri scompaiono, i mostri mettono fuori il capo.

Fortunate quelle nazioni dove il fermento delle buone idee, è tale da rimettere presto con attenta ed onesta opera la purezza e l'equilibrio negli elementi sociali.

Il governo aveva già tentato la notte del 16 al 17 d'impossessarsi dei cannoni che stavano in potere delle guardie nazionali schierate sulla piazza reale, sorprendendo le guardie che li custodivano.

Quel tentativo non riuscì in causa di una difesa improvvisata che vi oppose la guardia nazionale istessa.

Alla mattina del 18, la città fu risvegliata dal rullo dei tamburi che battevano la generale. Il cielo era nebbioso; faceva un freddo piccante. Le guardie nazionali si recavano lentamente ed in piccol numero alle caserme.

Diversi pelottoni di gendarmi a cavallo scortavano colla sciabola in pugno alcuni carri vuoti che andavano verso i boulevards.

Un proclama del governo era stato affisso durante la notte. Stanchi di attendere che l'agitazione finisse da sè, il capo del potere esecutivo ed i ministri si dichiarano pronti a finirla con la forza.

L'azione aveva seguito davvicino le parole. Sino dall'alba un cordone di truppe regolari si era steso da Battignolles alle Buttes Chaumont. Alle otto il generale Vinoy alla testa di parecchi battaglioni di linea e di alcune compagnie di gendarmi si trovava in piazza Pigalle. Un parlamentario fu spedito verso la collina Montmartre.

I militi della repubblica sociale erano in piccol numero. Essi si dicevano pronti a rendere i cannoni non alla truppa, ma alla guardia nazionale.

Siffatta risposta non soddisfece il generale Vinoy che ordinò tosto di marciare all'assalto.

Egli aveva sotto i suoi ordini dei battaglioni disparati; presi qua e là fra i reggimenti arrivati dalle provincie. Appena giunti sulla piazza San Pietro, i soldati levarono il calcio dei loro fucili in aria per fraternizzare coi ribelli. La cosa ebbe luogo nel modo più strano e col maggiore disordine. Le guardie nazionali emisero alte grida di gioia.

Una scena quasi consimile avveniva intanto in un altro punto di Parigi.

All'entrata del boulevard Ornano, stava un forte corpo di truppe di linea che occupava anche i balconi e le finestre delle due parti della strada; quando si vide avvicinarsi da lontano una grossa colonna che occupava la strada da una parte all'altra, e si avanzava con passo fermo verso le truppe.

In un batter d'occhio quelli che si trovavano in quella strada, si rifugiarono nelle case perchè una collisione sembrava imminente; ma una guardia nazionale si avanzò sola gridando «N'ayez pas peur, il n'y a pas de danger.» Alla testa della colonna marciava un gruppo di soldati di linea, che vociavano, ridevano e guidavano quella colonna. Appena giunsero alla distanza di 20 a 30 passi dalle truppe di linea del boulevard Ornano, i soldati che erano alla testa delle guardie nazionali e che servivano loro come di riparo gridarono «Viva la Repubblica!». Questo sembrò essere il segnale per tutte le truppe regolari di gettare in aria il calcio dei fucili, movimento al quale fu risposto da tutta la guardia nazionale con grida entusiastiche di Vive la ligne!

Per qualche istante non si vedevano che calci di fucile in aria e non si udivano che le grida di «Vive la ligne! Vive la Republique!» I soldati che si trovavano ai balconi ed alle finestre, e che erano stati posti colà per far fuoco sulle guardie nazionali, vennero giù invece, e le abbracciarono. Le donne spargevano lagrime di gioia e parlavano dei loro figli e fratelli che erano «sous le drapeau.» Vi furono allora abbracciamenti, strette di mano, baci e tutte quelle estreme dimostrazioni di fratellanza che erano un bisogno di quell'espansione. Gli ufficiali sembravano alquanto imbarazzati per quell'episodio, ma si comportavano con tutta la disinvoltura permessa dalle circostanze.

Frattanto, il comitato centrale aveva avuto il tempo di trasmettere degli ordini ai battaglioni fedeli. Uno o due erano già arrivati sulla collina di Montmartre, quando il generale Vinoy fece marciare un'altra parte dei suoi soldati che ripeterono la stessa brillante manovra dei loro compagni. Gli insorti, incoraggiati da questi successi, discesero per la via Houdon verso la piazza Pigalle, gridando al generale Vinoy ed ai suoi: «Rendetevi! Rendetevi!». Un capitano di gendarmeria ordinò il fuoco. Si tirò da una parte e dall'altra. Il capitano, colpito nel petto, cadde freddo col suo cavallo. Vi furono diversi feriti ed alcuni morti. I suoi gendarmi tenevano duro. Il resto delle truppe si sbandava. Il generale Vinoy fu obbligato a ritirarsi.

Alle nove e mezzo, la bandiera rossa sventolava vittoriosa sulla Butte Montmartre, ed i cittadini del luogo dividevano a pezzi tra loro il cavallo del capitano di gendarmeria.

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