Capitolo II.

Qui si narra di Arrigo da Carmandino, come pigliasse la croce per gli occhi d'una donna.

Prima di andar oltre nel racconto, e mentre Genova, affollata sul molo, festeggia l'arrivo dei suoi crociati da Cesarea, vi dirò qualche cosa di Arrigo da Carmandino, e dei suoi primi amori colla bella Diana.

Arrigo da Carmandino era il più giovine di tre fratelli, chiarissimi per nobiltà di sangue e per amore della loro terra. Prendevano essi il nome dal borgo di Carmandino, in Polcevera, e i loro antenati erano d'una medesima stirpe coi signori delle Isole e con quelli di Manesseno, più noti pel soprannome di Spinola, donde si spiccavano appunto allora i rami gloriosi degli Embriaci, dei Castello e dei Brusco, mentre da essi, i Carmandino, si spiccavano gli Avvocati, i Lusii, i Pevere, i Mari, i Serra e gli Usodimare.

Rammentate, lettori umanissimi, che siamo all'alba dei Comuni e delle spartizioni un po' chiare, quando i nomi proprii, le professioni, gli stessi nomignoli dati dal volgo, incominciano a distinguere i varii rami, e questi a lor volta fan ceppo.

Tutta quella nobiltà consolare era derivata dalla feudale, che, non avendo più Franchi, nè Longobardi, a cui chiedere l'investitura, ripeteva, poco prima del Mille, i suoi diritti dal Vescovo, ultima autorità rimasta in piedi per mezzo a quella gran confusione.

Vedete, infatti; Ido, il capostipite di tante famiglie, era visconte nel 952, con larga signoria nei pressi di Genova, segnatamente nella valle di Polcevera. Ebbe tre figli, un Oberto Visconte, un Migesio, donde venne il casato delle Isole, e un altro Oberto, detto di Manesseno. Dal primo dei tre, per una genealogia di Ido, Ingo, Rainfredo, e Ingo da capo, scendiamo ai tre fratelli, Gandolfo, Ido ed Arrigo, avvocato il primo del monastero di Santo Stefano, futuro console il secondo, crociato il terzo e uno dei principali personaggi della mia storia.

Torniamo indietro fino al capostipite; lasciamo da banda il suo secondogenito Migesio, e andando a cercare il terzogenito, Oberto di Manesseno, lo vediamo padre a Belo Visconte, da cui nacque un Guido, che fu il primo ad assumere il nome di Spinola, uomo la cui liberalità e la magnificenza andavano famose per tutta Liguria. Narra il Giustiniani (e gli s'ha a credere, in mancanza d'altre autorità) che questo messer Guido usasse onorare gli ospiti suoi facendo spillare da più botti parecchie sorte di vino. Ora, in vernacolo genovese, spinolare è lo stesso che l'italiano spillare, e dicesi spinola lo zipolo con cui si chiude la cannella delle botti. Per tal modo il visconte Guido fu chiamato lo Spinola, e uno zipolo diventò nome ed anche insegna di casato, perchè da quel tempo in poi la famiglia la portò d'oro, con una fascia scaccata di rosso e d'argento di tre file, sormontata da una spina di botte, di rosso, in palo. Notate la mia sbardellata scienza araldica, mentre io proseguo la genealogia, raccontandovi che questo messer Guido ebbe sette figliuoli, un Oberto, un Guido ed un Ansaldo, che si adoprarono a perpetuare il nome degli Spinola; un Primo, che tolse il nome di Castello e fu davvero il primo di tal casato; un Guglielmo, che fu capostipite ai Medici ed agli Alineri; un Amico, che assunse il soprannome di Brusco e fece anch'egli la sua brava razza a parte; finalmente un nuovo Guglielmo, il più glorioso di tutti, distinto col nome di Embriaco e salutato dai suoi soldati col nomignolo, che già conoscete, di Testa di maglio.

E adesso che vi ho dato un cenno bastevole di tutte queste parentele, torno ad Arrigo. Egli era per fermo uno dei più leggiadri cavalieri di Genova, e non avreste trovato chi lo agguagliasse in trattar lancia e spada, o cavalcare in giostra e gualdana. Neanco poteva dirsi fosse digiuno di studi; chè anzi in cotesto egli era andato più oltre che non comportassero le costumanze d'allora. Mite era dell'animo, ma pronto a metter fuori la spada contro ogni atto che gli paresse iniquo, laonde non è a dire come egli avesse il cuore aperto ad ogni affetto generoso.

A ventidue anni, Arrigo non aveva ancora amato. A chi gli toccava di ciò, egli solea dire che il suo cuore avrebbe dato ad una donna, ma per sempre, e che però non si sarebbe innamorato al primo uscio. Arrigo aveva ragione, sebbene molte vaghe gentildonne tenessero contraria sentenza; e lo aspettare fu bene, imperocchè diede agio al caso di condurlo una certa mattina alla chiesa di San Pietro alla Porta, ove per la prima volta s'avvenne in quella rara bellezza della fanciulla degli Embriaci.

Quel giorno, le sue preghiere non andarono tutte all'altare, ed egli adorò il creatore nella sua creatura. Quegli occhi azzurri non si erano pure fissati su lui, quantunque egli si mettesse a bello studio accanto alla pila dell'acquasanta, quando Diana fu per uscire di chiesa; ma Arrigo non si diede per vinto, e da quel giorno gli fu caro aver perduto la pace dell'anima. Dovunque la donna andasse, Arrigo era; dovunque fosse, non indugiava ad apparire; di guisa che, finalmente, ella ebbe ad avvedersi di quel costante amatore, e il suo cuoricino incominciò ad accogliere una immagine d'uomo, il suo labbro a mormorare un nome, allorquando ella udiva, di nottetempo, sotto i veroni della sua casa, certe ballate in provenzale, che era la lingua amorosa di tutti, e parte principale della educazione dei giovani.

Se Arrigo avesse continuato di quella forma nei suoi lai di troviere, forse i posteri avrebbero parlato meno di Folchetto, suo concittadino, che doveva salire più tardi in tanta rinomanza nell'arte. Ma i canti di Arrigo ebbero fine ben presto. La voce improvvisa di Pietro Eremita aveva scosso l'Europa. Quel pazzo sublime, che, senza pure saperlo, dovea col suo grido dare indirizzo nuovo alla storia, era venuto in Occidente a raccontare la caduta di Gerusalemme in balìa dei Saraceni feroci e le crudeltà patite dai pellegrini, che andavano a pregare sulla tomba del Cristo.

La cosa era grave, più grave che non si argomenti ai dì nostri. Al sepolcro del Nazareno andavano i peccatori di tutta Europa a purgarsi dei loro misfatti, e in quei tempi non ancora usciti dalla barbarie, una simile derrata abbondava anzi che no. Premeva alla chiesa, premeva alla Cristianità tutta quanta, che la via di Gerusalemme non fosse impedita. Le città marinare avevano inoltre bisogno di allargare i loro traffichi, e l'Oriente era l'Aurea Chersonesus per essi. Vi erano poi gli uomini di lancia e spada, vaghi di nuove imprese, infastiditi delle guerricciuole di casa, signori di poca terra, o di nessuna, tutti travagliati da una gran sete di possanza e di gloria.

Cotesto vi chiarirà come la voce del monaco dovesse essere udita da un capo all'altro d'Europa, e come scaldar l'animo di chierici e laici, d'uomini di cappa e uomini di spada. A cavallo su d'una mula, che meriterebbe di essere glorificata dalla storia, non foss'altro, per le sue lunghe e faticose trottate, Pietro ne andava di città in città, di terra in terra, col crocifisso in pugno, predicando, piangendo, ed incitando i Cristiani a liberare il Santo Sepolcro. Un pietoso entusiasmo, che andava spesso oltre i confini della pazzia, rispose alle concitate orazioni del monaco; le popolazioni intiere si schieravano sulle sue orme, chiedendo la guerra santa ai loro signori; ed a questi si destavano arcani desiderii, ribollivano alte ambizioni nel petto.

Il concilio di Chiaramonte, radunato nel 1095 sotto la presidenza di Urbano II, deliberò che la guerra santa si facesse. La piccola città di Chiaramonte non bastava a capire tutta quella pioggia di principi e di vescovi, di ambasciatori, di baroni e di frati, che erano accorsi al concilio. Una cronaca di quel tempo narra che, a mezzo novembre, le città e borgate dei dintorni erano così piene di popolo, che fu mestieri di rizzar tende pei campi e recarsi in santa pace un freddo, che non usava misericordia ai cristiani.

A quel concilio si presentò anche Goffredo, duca di Bouillon, che doveva capitanare più tardi i crociati. Il prode soldato, pochi mesi addietro, era andato in Terra Santa col conte di Fiandra ed altri pellegrini della sua levatura. Passati in Genova, si erano imbarcati sopra una nave chiamata Pomella, e approdati al porto di Joppe avevano proseguito il viaggio per alla volta di Gerusalemme. Si erano presentati alla porta del Sepolcro; ma i Saraceni che vi stavano a custodia ne avevano negato loro l'accesso, volendo che pagassero prima un bisanto per ciascheduno. I nostri gran signori non avevano quattrini; il tesoriere della comitiva era rimasto indietro un buon tratto di strada. Si venne a parole, e il pio Goffredo vi buscò una fiera ceffata, di cui si sarebbe fatta subitanea vendetta, se i cristiani non fossero stati così pochi e così numerosi i Saraceni.

Questo narrava Goffredo; e gli animi sempre più s'infiammarono. Urbano impartiva l'indulgenza plenaria a chiunque, pentito e confessato, si votasse all'impresa. «Dio lo vuole! Dio lo vuole!» Fu questo il grido dei baroni, quando Urbano ebbe finito di parlare; e tutti si gettarono ai piedi dei padri del Concilio, per ricevere i due scampoli di lana vermiglia, assestati in forma di croce e cuciti sull'òmero. Di quelle croci ne furono distribuite oltre un milione. Ventura pei lanaiuoli, e non per la nobile impresa, che fu ben lungi dal raccogliere un così gran numero di combattenti.

A Genova, il popolo si commosse a sua volta per l'arrivo di Ugo, vescovo di Grenoble, e di Guglielmo, vescovo di Orange, i quali, caldi ancora degli entusiasmi di Chiaramonte, venivano ai genovesi per invitarli alla crociata, e parlavano alla gente dalle gradinate delle chiese, distribuendo le insegne vermiglie a quanti le chiedevano, che molti furono e dei più riputati cavalieri di Liguria. Fra i primi che pigliarono la croce furono Anselmo Rascherio, Dodone degli Avvocati, Lanfranco Rosa, Opizzone Musso, Oberto de Marini, Ingo Flaòno, Nascenzio Astore, Guglielmo di Buonsignore e Oberto Basso delle Isole.

Tornando colla mente a que' giorni di altissima concitazione di spiriti, è agevole immaginare quale onda di popolo traesse a San Siro e a Santo Stefano, intorno a quelle gradinate donde i due vescovi arringavano la moltitudine. Nobili e popolani, uomini e donne, vecchi e fanciulli, tutti si accalcavano a quei sacri spettacoli, tutti volevano la guerra santa, tutti avrebbero voluto la croce.

Ma il Papa non chiedeva a Genova guerrieri soltanto. Genova, già potente sul mare, doveva fornire navi e marinai per condurre un grosso di crociati d'Occidente in Soria; e mentre i cavalieri e il popolo minuto s'infiammavano per la guerra santa, non sognando che botte da orbi ai Saracini, i Consoli vedevano in quella spedizione lontana e gloriosa, la sorgente delle nuove fortune di Genova.

Anche Guglielmo Embriaco, il nobile figlio di Guido Spinola, il consanguineo degli Avvocati, dei Marini e degli Isola che ho nominati poc'anzi, aveva posta la croce vermiglia sulla cappa bianca, e il suo fratel maggiore, Primo di Castello, aveva imitato l'esempio. Ora egli avvenne che un di quei giorni, Diana pregasse il padre di condurla a vedere il vescovo di Grenoble, che dalla gradinata di Santo Stefano teneva discorso ai fedeli. E messere Guglielmo, da quel padre amoroso che egli era, condusse la figliuola, con gran corteggio dei suoi famigliari, fuor della porta di Sant'Andrea, fino ai piedi dell'erta su cui sorgeva la chiesa del protomartire, tutta listata di marmo bianco e pietra nera di Promontorio, giusta il costume d'allora.

Il popolo accolse con liete grida il nuovo crociato, e Arrigo da Carmandino (vedete se la fortuna non aiuta gl'innamorati) ebbe in sorte di far luogo presso di sè a messer Guglielmo e alla sua bella figliuola.

L'Embriaco salutò cortesemente il Carmandino, e questi si fece tutto rosso, nel ricambiarlo della sua cortesia. Gli occhi di Diana si erano incontrati nei suoi; Diana lo aveva salutato per la prima volta, e Arrigo aveva sentito il sangue rifluirgli al cuore, chè mai gli era parso di aver provato altrettanta allegrezza.

Il tacere più oltre sarebbe stato disdicevole. Guglielmo conosceva Arrigo per un gentil cavaliere, del sangue di Ido Visconte, da cui, come ho detto più sopra, scendevano anche i signori di Manesseno. E Carmandini ed Embriaci avrebbero potuto vantare un dugento anni di certa genealogia, che era già molto per quei tempi, se allora, più che da un lungo ordine di avi, non si fosse reputato più bello derivar fama dalle opere proprie. E nemmeno allora si usavano stemmi a contraddistinguere le casate. Ogni cavaliere inalberava l'emblema che più gli andasse a grado, per essere riconosciuto in giostra, o in battaglia. Soltanto dopo la prima crociata, l'emblema, illustrato sui campi di guerra, parve degno d'essere perpetuato, ad onore di tutto il lignaggio. Così ad esempio gli Embriaci lo portarono d'oro, con tre leoni rampanti di nero; i Carmandini ebbero lo scudo partito di nero e d'argento, con un leone rampante dall'uno all'altro.

Torniamo ad Arrigo. Il giovane, dopo una breve pausa, che gli fu necessaria per trovar le parole, e arrossendo da capo, come potete immaginare cercando tra le memorie della vostra giovinezza il caso consimile, si fece animo a dir qualche cosa.

— Messer Guglielmo, — cominciò egli, — voi dunque partite, per andarvene in Terra Santa a sostenere il buon nome dei cavalieri genovesi?

— Come sapete; — rispose con nobile modestia l'Embriaco; — vo a fare il debito mio e nulla più. Per quanto è di sostenere il buon nome di Genova, voi mi fate, messer Arrigo da Carmandino, troppo gagliarde le spalle. Sono dei primi pel buon volere, non già per l'efficacia delle opere.

— Messer Guglielmo, consentite, che, per amore di verità, io pensi di voi l'una cosa e l'altra. Così voi mi credeste degno di combattere al fianco vostro, come io vi seguirei di buon grado, avendolo per somma grazia ed augurio fortunato. —

La lode dei buoni è grato conforto agli ottimi; e questo è tanto vero, e lo fu tanto in ogni tempo, che a Guglielmo Embriaco le parole di Arrigo da Carmandino toccarono il cuore. Egli non rispose nulla; ma, presa la mano del giovine, la strinse con indicibile affetto. Diana alzò, per guardare Arrigo, i suoi begli occhi azzurri; e traluceva da quegli occhi un sorriso di cielo.

Che cuore fu il vostro, che dolci pensieri vi passarono pel capo, messere Arrigo da Carmandino, quando sentiste la stretta di quella mano paterna e la virtù di quello sguardo virgineo? Per fermo i vicini, in quel momento, videro sulla vostra fronte un'aureola, come quella dei santi, poichè hanno goduto l'aspetto di Dio. E Diana stessa, la leggiadra Diana, ebbe sicuramente a vedere alcunchè di simile, perchè tenne a lungo i grandi occhi fissi su di voi, in atto di compiacenza e di meraviglia.

— Arrigo da Carmandino, — disse, dopo brevi istanti, il padre della fanciulla, — voi siete un nobil garzone e degno d'esser amato da quanti vi conoscono. Non avete voi ancor presa la croce?

— No, messere; — rispose turbato il giovine. — Il desiderio me ne aveva colto fin dal primo giorno che il venerando vescovo di Grenoble arringò il popolo dalla gradinata di San Siro. Ho tardato, per timore non già, sibbene....

— V'intendo, messere; — ripigliò con amichevole festività l'Embriaco; — aspettavate la fascia di zendado trapunta dalla donna dei vostri pensieri.

— Non vi apponete che a mezzo; — rispose Arrigo, facendosi rosso per la terza volta. — La donna che io amo, dopo Dio e la mia fede di cavaliere, è cosa troppo alta per me, e forse io non potrò sperar mai di portarne i colori. Soltanto avrei desiderato che ella sapesse del mio disegno, per leggere nei suoi occhi un saluto. Ma lasciatemi andare; — soggiunse il giovane, dopo aver dato una timida occhiata a Diana; — io non potrei rimanere più oltre al fianco vostro, senza la croce vermiglia sul petto. —

E dette queste parole, Arrigo si mosse con giovanile baldanza verso la chiesa. Il popolo fece largo al cavaliere, sapendo che non si correva tanto in fretta verso il buon vescovo di Grenoble, se non per avere il segno della crociata. E infatti, pochi istanti dopo, il giovine Arrigo era ai piedi di Ugo, diceva il suo nome e tornava benedetto, coi due scampoli di scarlatto incrociati, verso il luogo dove aveva lasciato Guglielmo Embriaco e la sua celeste figliuola. Tutti gli astanti, che conoscevano il terzogenito di Ingo e di Rainoisa (una tra le più belle gentildonne di Genova, alla quale egli somigliava moltissimo) lo salutarono con lunghi evviva; ma il suo trionfo egli lo gustò tutto intiero negli occhi raggianti della bellissima fanciulla e nel bacio del padre di lei.

— Siate il ben venuto, — gli disse questi, — tra i cavalieri di Cristo. Ora è tempo di tornarcene alle case nostre. Arrigo, venite un tratto con noi?

Il giovane innamorato non se lo fece dire due volte. E la sua gioia fu al colmo, allorquando l'Embriaco, postagli una mano sulla spalla, mentre le donne andavano innanzi per la via di Macagnana, donde si giungeva alle case di messer Guglielmo, gli susurrò all'orecchio queste parole:

— Arrigo di Carmandino, io so tutto, ho tutto veduto. Volete voi essere mio figlio, come Ugo e Nicolao? —

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