Capitolo XIV.

Dove è dimostrato che sui ribaldi non si veglia mai abbastanza.#id___RefHeading___Toc6791_3524169435

Caffaro di Caschifellone e Gandolfo del Moro non avevano intanto perduto il loro tempo. Valicate le strette di Cades, e senza imbattersi in nessuna compagnia di Arabi predatori, erano discesi per la terra di Seir nella gran valle che già aveva preso il nome dagli Edomiti. Colà, ad una giornata di cammino dal castello di Kanat, avevano trovato un drappello di cavalieri Saracini, che correvano il paese. Non potevano capitar meglio; perchè quei cavalieri erano appunto le vedette dello Sciarif, e il loro viaggio di scoperta raggiungeva finalmente la meta.

Fornite le necessarie spiegazioni a quei sospettosi cavalieri e detto l'intento della loro gita al deserto, i nostri viaggiatori furono presi in mezzo dagli esploratori e condotti al castello di Kanat.

Bahr Ibn era per l'appunto laggiù, ospite di Abu Wefa, il Dai al Kebir d'Occidente, con cui stava negoziando, per averlo aiutatore ai suoi disegni contro l'Egitto. Abu Wefa, poco scrupoloso come i suoi pari, sarebbe andato, non che contro di Afdhal, che era un usurpatore, contro tutti i più legittimi califfi della discendenza fatimita. Ma egli maturava fin d'allora più ambiziosi disegni. Mi pare di avervi già detto che il gran Priore degli Assassini d'Occidente si disponeva ad una marcia verso le regioni settentrionali di Palestina, per andare a piantarsi sulle montagne nei pressi d'Antiochia, potenza nuova ed attenta fra i Turchi Selgiucidi e i Cristiani, la quale, facendo assegnamento sulle loro inimicizie e approfittando delle intestine discordie di questi e di quelli, avrebbe potuto dare cominciamento ad un secondo regno d'Assassini, così indipendente dall'autorità dei Fatimiti d'Egitto, come sicuro dalle gelosie degli Abassidi di Bagdad.

Era una ragione di Stato tutta propria di quell'ordine tenebroso, che aveva preso a vivere sul tronco islamitico, in quella medesima guisa che l'edera vive sul tronco d'un albero, per trovare il suo sostentamento nei succhi già elaborati dalla pianta, involgerla a grado a grado e farla intristire.

Erano infatti così poco musulmani, che nel 1173 uno dei loro gran priori, a nome Sinan, il quale godeva fama di santità, inviò un'ambasciata ad Almerico, re di Gerusalemme, offrendo in nome suo e in quello del suo popolo di abbracciare il cristianesimo, a patto che i Templarii rinunziassero all'annuo tributo di duemila ducati d'oro che loro avevano imposto e vivessero con esso loro in pace e da buoni amici. Almerico gradì l'offerta e congedò onorevolmente l'inviato. Ma questi, nel far ritorno al suo territorio, fu ucciso da un drappello di Templarii, guidato da un Gualtiero Du Mesnil. Dopo ciò gli Assassini posero nuovamente mano alle daghe, che per molti anni erano rimaste inoperose, e fra le altre lor vittime, Corrado, marchese di Tiro e di Monferrato, fu morto nel 1192 da due Fedàvi sulla piazza del mercato di Tiro. Ma questa è storia posteriore di troppo al nostro racconto e va lasciata in disparte, bastando averla accennata per lumeggiare il carattere della sètta.

Per pochi giorni ancora Abu Wefa, il gran Priore d'Occidente, e Bahr Ibn dovevano rimanere uniti nel castello di Kanat. Lo Sciarif aveva capito di non poter condurre ai suoi disegni il Dai el Kebir, e questi a sua volta tentava d'indurlo ad un viaggio verso settentrione, dov'egli andava a conquistarsi un territorio meno sterile che non fosse il deserto di Edom.

I negoziati erano a quel segno, quando Gandolfo del Moro e Caffaro di Caschifellone giunsero al campo.

Arrigo da Carmandino, stanco di quel lungo soggiorno tra gli infedeli, vera cattività di cui non bastavano a mitigargli l'affanno le continue testimonianze d'amicizia del suo protettore, avrebbe dato di grand'animo la vita, pur di giungere in patria e spirar l'anima ai piedi della sua fidanzata. Che era egli avvenuto di lei? Gli aveva tenuto fede? Doloroso pensiero che Arrigo scacciava ad ogni tratto da sè, ma invano, perchè esso gli ritornava sempre più ostinato, sempre più molesto, allo spirito.

Quella vita era insopportabile davvero. Il cielo adunque lo aveva campato da morte, per condannarlo ad una eterna prigionia nei deserti di Palestina? Il giovane Arrigo sentiva di amare Bar Ibn, e non poteva non avere in pregio le virtù di quei barbari tra cui lo aveva sbalestrato il destino; ma certo quella vita randagia e senza un raggio di speranza per lui non era tale da doversi durare più a lungo.

Anche il suo protettore lo aveva capito e si struggeva in cuor suo di non poterlo contentare, rimandandolo in patria. Mal sicuri gli accessi al confine del nuovo regno cristiano; la costa in balìa degli Emiri, nemici suoi, come della gente cristiana; difficile, per non dire impossibile, il combinare di là, nel cuore del deserto, una nave d'Occidente su cui potesse imbarcarsi il suo ospite sconsolato.

Eppure, tanto era l'affanno di Arrigo, che lo Sciarif ne fu scosso e promise a sè medesimo di tentare una via per rimandarlo tra' suoi.

Erano tornati dalla impresa sfortunata contro l'Egitto. L'incontro di Bahr Ibn col gran Priore degli Assassini d'Occidente era avvenuto, e i negoziati avevano sortito quell'esito che sappiamo.

— Cristiano, — disse Bahr Ibn ad Arrigo, — io m'avvedo che l'anima del guerriero vola col desiderio ai minareti della sua patria lontana. Sii paziente ancora per pochi giorni. O debbo rimaner qui, inutile a me stesso e alla mia fede, e allora potremo fare con tutta la mia gente una corsa verso la valle di Ebron, dove comanda un uomo della tua fede, il barone Gerardo di Avennes. O accetto la proposta di Abu Wefa e vado con lui verso settentrione; e allora vedrò di spiccare un drappello di cavalieri, che ti accompagni ai confini del principato di Tiberiade, dove regna il valoroso Tancredi. —

Arrigo avrebbe desiderato d'inoltrarsi subito verso le mura di Gaza; ma l'amicizia rendeva prudente l'animo di Bahr Ibn.

— No, — diss'egli, — mandarti all'Emiro di Gaza, senza la certezza di un naviglio in quelle acque ad aspettarti, sarebbe un errore. Qui vivi ospite caro e padrone della mia tenda; laggiù, sarebbe forse lo stesso? L'ospitalità, lunge dagli occhi miei, non potrebbe mutarsi per te in prigionia? —

Il povero Arrigo da Carmandino aveva dovuto arrendersi alle giuste considerazioni dell'amico ed aspettava con impazienza il termine di quella lunga fermata al castello di Kanat.

Argomentate la sua allegrezza, quando fu annunziato l'arrivo dei Genovesi nel campo dello Sciarif. Il nostro Arrigo fu per impazzirne. Baciò quella terra dove poc'anzi gli sapea male di essere stato indugiato così lungamente; volò incontro ai suoi salvatori, e cadde, mezzo svenuto, nelle braccia di Caffaro, del suo giovane compagno d'armi, che era stato sul punto di essere anche il suo compagno di sventura, nel giorno della presa di Cesarea, giorno così glorioso ad un tempo e fatale per lui.

E là, poichè si fu riavuto dalla commozione improvvisa, senza dargli tempo di respirare, Arrigo incalzò colle domande l'amico. Sulle prime non ardiva andar diritto all'essenziale. Domandò di questo e di quell'altro dei loro compagni; si rallegrò di udire che erano tornati sani e salvi in patria, e più ancora di sapere che una terza spedizione era giunta sulle coste di Soria e già aveva ripreso il filo interrotto delle nobili imprese. Ma il colmo alla sua gioia fu posto dall'annunzio che la galèa di Caffaro era ad aspettarli nelle acque di Gaza, di quella Gaza che al suo cuore presago era apparsa come il punto della liberazione.

— Ma.... — entrò egli a dire finalmente — nessuno mi manda un saluto.... una parola di conforto da Genova? Non avete altra lieta novella per me?

— La più lieta che voi possiate immaginare; — rispose Caffaro di Caschifellone. — Ma vi prego, chetatevi, messere Arrigo; siate forte alla gioia, come lo siete stato al dolore.

— Dite, dite, amico, fratello mio! — proruppe Arrigo, i cui occhi raggiavano di contentezza. — Non si muore di gioia; io sarei già morto, vedendovi giungere al campo di Bahr Ibn. Ma dite, ve ne supplico, dite! È l'incertezza, che uccide.

— Siamo divisi in due squadre, — disse Caffaro allora; — a due terzi di strada, al pozzo di Rehobot, ci aspetta il grosso della carovana, ed è là, col resto dei nostri arcadori, un gentile scudiero che porta il nome di Carmandino.

— Di Carmandino! — ripetè Arrigo, che non intendeva quella novità.

— Sì, — rispose Caffaro, — ma non è il suo, e lo porta come un augurio. Lo scudiero è bianco in viso come una fanciulla; ha i capegli d'oro e gli occhi azzurri.

— Ah! — esclamò Arrigo, mettendosi una mano sul cuore, per comprimerne i battiti.

— Avete indovinato; — soggiunse Caffaro. — Siate forte, messere. Noi riposeremo quest'oggi, e se il vostro amico e protettore lo consente, domani ci rimetteremo in cammino.

— Oh, lo consentirà, non temete! Egli è stato sempre così buono con me! Mi ha campato da morte, ha vegliato su me, con un affetto più che fraterno. Una cosa sola non ha potuto darmi, l'allegrezza, perchè questa non era in poter di nessuno. Infatti, se io non sono stato libero prima, la colpa non è sua, ma del ferreo destino che ci fa da oltre un anno vagabondi in queste pianure d'arena. Eppure, vedete, messer Caffaro, io benedico questa mia lunga cattività, questa dolorosa lontananza da tutti i miei cari, perchè essa mi ha dato oggi il modo di scorgere alla prova come la donna dei miei pensieri sentisse fortemente l'amore.... ed anche, per esser giusti, — soggiunse Arrigo, stringendo affettuosamente la mano di Caffaro, — come pensassero gli amici al povero prigioniero di Cesarea. —

Gandolfo del Moro udiva quelle effusioni dell'animo di Arrigo, e l'amarezza gliene veniva alle labbra.

— Perdio, — brontolò, — come è felice costui! —

E si allontanò dal crocchio, per andarsene ad ossequiare lo Sciarif, che trattava i Genovesi con una liberalità veramente orientale.

— Credenti in Dio, — aveva egli detto ai suoi cavalieri, — noi combattiamo in guerra i Cristiani, perchè nemici nostri e invasori delle terre che il profeta ha assegnate al trionfo della sua fede. Ma essi sono oggi gli ospiti nostri, e l'ospite, dovunque arrivi e da qualunque parte egli venga, è signore. —

Anche l'alleato suo, Abu Wefa, partecipava di buon grado a queste amorevoli accoglienze. Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone, per conseguenza, erano i prediletti di Bahr Ibn; e Abu Wefa prese ad usar cortesia a Gandolfo del Moro. Ma era egli proprio vero che lo togliesse come l'ultimo rimasto? E non ci si aveva a vedere piuttosto un effetto di quella simpatia che nasce spontanea tra i simili?

Era uno strano personaggio, il Dai al Kebir. Anzi, se permettete, lascieremo quind'innanzi il suo titolo Saracino per chiamarlo cristianamente il Gran Priore, come usavano tutti i Crociati di quel tempo, così poco famigliari coll'arabo.

Giovane ancora, intorno ai quaranta, lunga la barba e nera, ma rada, alto della persona e snello a guisa d'un palmizio, il Gran Priore poteva sembrare da lunge un bell'uomo, aiutando alla maestà dell'aspetto la fascia rossa ravvolta a mo' di turbante (dulipante, dicevasi allora) intorno all'elmo di acciaio, e il gran mantello di seta bambacina, listato di bianco e di rosso, che nascondeva la cotta di maglia e gli altri arnesi del guerriero. Ma veduto da vicino era tutt'altro; la torva guardatura, il volto sfregiato da una lunga cicatrice, e l'asciutta rigidezza del labbro superbamente atteggiato, più che maestoso lo faceano terribile. E ciò piacque a Gandolfo, che vedeva in quel volto riflettersi qualche cosa del suo, e che istintivamente odiava i belli. Messer Gandolfo era un uomo impastato di gelosia. Avrebbe fatto a pezzi l'Apollo del Belvedere e il Fauno di Prassitele, se questi due miracoli di bellezza gli fossero capitati tra mani.

— Gran Priore, — gli disse, in un momento di espansione, — molte cose si narrano della vostra possanza. —

Gandolfo non aveva dimenticato i paurosi ragguagli che intorno alla sètta degli Assassini aveva forniti il povero Abd el Rhaman ai viaggiatori genovesi, nella loro fermata al pozzo di Rehobot.

Abu Wefa aggrottò le ciglia e diede a Gandolfo del Moro un'occhiata maestosa.

— Che ne sapete voi, cavaliere? — chiese egli di rimando.

— L'Occidente, — rispose Gandolfo, — è pieno delle vostre gesta. Si parla di voi, nelle veglie dei nostri castelli, molto più che dei Turchi d'Iconio e del soldano di Babilonia.

— Ah sì? — disse quell'altro, spianando le rughe del fronte, come uomo che non era insensibile alla lode. — E che cosa si dice di noi?

— Che siete possenti e terribili come il mistero che vi circonda, audaci e pronti come gli avvoltoi del vostro nido di Alamut; che avete sparse le vostre fila sicure per tutto l'Oriente; che siete la più temuta sètta della religione di Maometto.

— Dite anzi la più grande, e l'unica vitale fra tutte; — rispose il Gran Priore, con accento da cui traspariva l'orgoglio sconfinato del suo ordine. — I figli d'Ismaele non possono prosperare più oltre senza di noi. L'Islam è vecchio; bisogna ringiovanirlo con una nuova dottrina. E noi ne verremo a capo, collo spavento e col sangue, poichè altra maniera d'insegnamento non c'è, tra questi imbelli ed ambiziosi Califfi, che hanno in custodia la bandiera del Profeta, che si contendono il sommo potere tra loro e lasciano a voi cristiani metter piedi in Soria.

— E dicono altresì, — riprese Gandolfo del Moro, — che voi, meglio dell'altra gente, intendete i gaudii della vita, e che la bellezza vi piace, come il premio più accetto ai valorosi.

— La bellezza è il sorriso dell'universo; — sentenziò il Gran Priore; — è il paradiso, che Dio ha collocato nel mondo, e non fuori. Vincere, sterminare i proprii nemici; ottenere la ricchezza e inebriarsi di amore, è questa la parte dei forti.

— Ben dite, la parte dei forti! — esclamò Gandolfo, a cui scintillavano gli occhi. — Esser forti, od astuti, che è un esser forti per altra guisa; questo è l'essenziale. Anch'io, Gran Priore, vorrei essere dei vostri. —

Abu Wefa gli diede un'altra delle sue guardate, che pareva volerlo passare fuor fuori.

— Da senno? — gli chiese.

— Perchè no, se fossi più giovane? Non parlo della religione, che, da quanto ho capito, non dovrebb'essere un ostacolo ad entrare nel vostro gran sodalizio. Ma è dei giovani soltanto il sottomettersi a certe prove.

— Amico, — disse il Gran Priore, con un accento misto di familiarità e di diffidenza, — tu non potresti entrar già nella schiera dei Fedàvi. Son questi i giovani che noi educhiamo dalla prima adolescenza a tutte le imprese più disperate, conducendoli alla luce per la via dell'errore. Credono al paradiso di là, al paradiso del Profeta, e noi dobbiamo avvezzarli a grado a grado. Ma tu ben potresti entrare nel numero dei compagni, dei rèfili, in attesa di meritare coi servigi il grado di Dai, o di maestro iniziato.

— I rèfili! — esclamò Gandolfo. — Che cosa significa ciò?

— E tu perchè mi fai questa domanda? — disse a sua volta Abu Wefa, fermandosi a un tratto e piantandogli addosso lo sguardo scrutatore. — Hai forse disegnato di rubare un segreto a me? Bada bene, Cristiano, un segreto non si vende che a prezzo di un altro segreto.

— E sia, — rispose Gandolfo. — Ho infatti a parlarvi di cosa grave, e se voi mi giurate....

— Ti avevo capito alla prima; — interruppe Abu Wefa; — ti avevo letto un arcano negli occhi. Sta bene; — proseguì allora, abbassando la voce. — Questa notte fa di andare a dormire più lunge che potrai dai tuoi compagni di viaggio. Un mio Fedàvo verrà a cercarti. Seguilo, e parleremo... ci intenderemo.

— Lo spero; — disse Gandolfo.

Dov'era andata in quel punto la vostra vigilanza messer Caffaro di Caschifellone?

Anche il nostro giovine Arrigo non doveva accorgersi di nulla. Quel giorno aveva dato un sobbalzo, vedendo tra i suoi liberatori Gandolfo del Moro, e a tutta prima non gli era venuto fatto di intendere le ragioni della sua presenza colà. Ma l'uomo generoso è così facile a creder generosi i suoi simili, che Arrigo si era pentito di quel suo primo e istintivo moto di stupore, e aveva perfino abbracciato il suo antico rivale.

Tutto il restante della giornata fu consacrato al riposo e alle feste dell'amicizia. Bahr Ibn era triste di dover lasciare l'amico suo che bene intendeva di perdere, e per sempre. Ma lo Sciarif era forte e seppe nascondere il suo rammarico.

Anche il Gran Priore degli Assassini annunziò che doveva partire la mattina seguente. Le sue schiere già erano in ordine e non c'era nessuna ragione d'indugiare più oltre. Abu Wefa disegnava di andare un tratto verso levante, fino alla valle di Siddim; di là avrebbe condotto la sua gente sull'altra sponda del lago d'Asfalto, e proseguendo verso settentrione, lunghesso la sinistra del Giordano, sarebbe andato a gittarsi con rapide marcie tra il regno di Gerusalemme e il principato d'Antiochia. Laggiù, in quelle gole alpestri che sono alle spalle di Tripoli, il Gran Priore voleva piantarsi saldamente e procacciarsi anche lui la sua parte di regno.

— Che farai tu? — chiese Abu Wefa a Bahr Ibn dopo avergli accennato il suo disegno. — Non seguirai l'esempio? Aspetterai qui nell'inedia una fortuna che non verrà mai?

— Vedrò; — rispose Bahr Ibn, che era rimasto pensoso. — Intendo anch'io che il guerriero non può stare a lungo senza speranza di pugna.

— Ah, lo vedi anche tu? Non hai udito, del resto? I tuoi amici Genovesi vanno all'assedio, o, come essi dicono, alla espugnazione di Tortosa. Qual campo di gloria per te! Oggi amici, e sta bene; domani avversarii, la cosa va da sè. Pensa, o discendente del Profeta, che il tuo posto, è dove si combatte per la difesa dell'Islam. —

Abu Wefa lavorava, così dicendo, per l'usurpatore Afdhal. Dopo aver negato il suo aiuto a Bahr Ibn, cercava di allontanarlo dal confine d'Egitto.

Giunse la notte, invocata, sospirata, da Arrigo di Carmandino, che affrettava il nuovo giorno coi voti. Gandolfo del Moro la desiderava invece per un'altra ragione e l'avrebbe anzi voluta due cotanti più lunga. Fatta ogni cosa secondo i consigli di Abu Wefa, il nuovo Giuda si recò dal Gran Priore. Tremava un pochino, il degno messere Gandolfo. Neanche ai ribaldi è dato di fare il male con animo tranquillo, e Gandolfo sapeva benissimo di commettere una ribalderia più nera della notte in cui sperava di nasconderla.

Il colloquio durò fino all'appressarsi dell'alba; ma assai prima che finisse, il Gran Priore aveva dato i suoi ordini, e un drappello di Fedàvi, rapiti poc'anzi alle delizie del paradiso, montava animoso in arcioni, volgendo i passi a ponente.

Nel congedarsi dal Gran Priore, Gandolfo gli disse:

— Mio signore, è un presente da re, quello che io ti ho fatto. La perla d'Occidente non conosce rivali.

— L'hai tanto levata a cielo, — rispose Abu Wefa, — che io sono curioso davvero di conoscerla. Se ti accade di toccar terra nelle vicinanze di Tripoli, vieni a cercarmi. Ti darò in cambio una perla d'Oriente.

— Accetto, quantunque io sappia di perderci troppo.

— Stolto! E perchè allora non l'hai tenuta per te?

— Se fosse stata mia! — esclamò Gandolfo, fremendo. — Se avessi avuta forza bastante per rattenerla in mia mano!

— Sii paziente, adunque, — disse di rimando Abu Wefa, — se non ti è dato ancora esser forte. Addio, Cristiano; o piuttosto, a rivederci. Capisco che anche con voi sarà facile intenderci, se portate qua le vostre collere, i vostri amori e le vostre gelosie d'Occidente. —

Gandolfo chinò la testa raumiliato e partì.

Tornava al suo letto con un rimorso nuovo nell'anima. Avrebbe dato metà della sua vita per non aver scelto quella forma di vendetta. Si coricò, ma non gli venne fatto di prender sonno; e poco dopo, quando Caffaro si accostò al suo giaciglio per risvegliarlo, balzò in piedi fieramente turbato, come quell'altro dovesse leggergli il suo tradimento negli occhi.

— Dio mio, che brutta cera! — avrebbe voluto dir Caffaro.

Per altro si trattenne in tempo, ricordando che messer Gandolfo non era mai bello, non solo ai primi raggi del sole, ma neanche quando cadeva il crepuscolo.

Questi intanto, per vincere il rimorso, si sdegnava con sè medesimo.

— Alla fine che c'è di strano? Mi vendico. Forse che non potrò più vendicarmi? E non ho sofferto abbastanza? Avrei dovuto vedermi sempre quella coppia di felici davanti agli occhi? Per Dio, siamo infelici un po' tutti. L'abbia un altro e la tenga. Una donna di più, una donna di meno, la Cristianità non andrà mica a soqquadro! —

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