Capitolo XIII.

Alle strette di Cades.#id___RefHeading___Toc6787_3524169435

Secondo i computi del vecchio Krebir, l'assenza dei cavalieri non doveva andar oltre i cinque giorni, se lo Sciarif aveva il suo campo di là dalle gole di Cades, nè oltre i sette, o gli otto alla più trista, se era andato fino alla ròcca di Kanat.

Per altro, questa seconda ipotesi, quantunque avvalorata dalle notizie dei viaggiatori di Sefat, pareva inaccettabile al savio condottiero. Lo Sciarif aveva gente molta con sè; non tanta da poter tentare alcuna impresa di rilievo, ma sempre troppa per riuscire ospite accetto ad alcuno. Anche ammettendo che il Dai al Kebir d'Occidente fosse in una certa dimestichezza con lui, non era da credere che gli Assassini volessero ospitarlo con tutti i suoi nella ròcca; testimonianza di amicizia che sarebbe stata veramente soverchia, e di confidenza che i tempi e gli usi d'allora non consentivano certamente.

I primi cinque giorni d'aspettazione passarono; lunghi, ci s'intende, ma abbastanza tranquilli, anche per l'animo del biondo scudiero, che aveva già tanto aspettato, da saper sostenere con rassegnazione quell'ultima prova.

Ma al sesto giorno, l'ansietà incominciò a mostrarsi sul volto di Abd el Rhaman; il turbamento su quello dello scudiero.

Il vecchio Krebir passava la giornata esplorando degli occhi l'orizzonte, la notte aguzzando l'orecchio a tutti i lontani rumori del deserto. Ma invano; la linea dell'orizzonte non appariva turbata dal più piccolo nembo di polvere; gli echi del deserto erano muti, e non ripetevano che il grido degli sciacalli, vaganti in busca di preda.

Triste il settimo giorno; più triste a gran pezza l'ottavo. Già lo scudiero aveva fatto la proposta di lasciare il pozzo di Rehobot per avvicinarsi alle gole di Gades e per andare anche più oltre, fino a tanto non si avessero nuove dei compagni. Ma al vecchio Krebir non parve prudente di dargli retta. A lui erano affidate le sorti della carovana; la vita del biondo compagno dipendeva dalla sua vigilanza.

Lo scudiero non fece più motto; si chiuse nel suo dolore e aspettò, non più i compagni partiti, ma la sua ultima ora; chè veramente gli pareva dovesse scoppiargli il cuore ad ogni tratto. Seduto a piè di una palma, sull'ultimo lembo dell'oasi, restava lunghe ore immobile, cogli sguardi fissi da quella parte del deserto per dove erano spariti i cavalieri. E lo struggeva il pensiero di tutti i lontani, della famiglia, della patria abbandonata, e di Arrigo, del povero Arrigo, che doveva tenergli luogo d'ogni cosa più diletta, e che forse era campato da una morte gloriosa entro le mura di Cesarea, per soccombere oscuramente in un angolo ignorato della terra di Moab. E si pentiva allora, ma tardi, si pentiva amaramente di non aver fatto prova d'una più salda volontà, quando avea detto di seguire i suoi compagni di viaggio in quell'ultima parte della difficile impresa. Che cos'erano i pericoli a cui essi andavano incontro, al paragone dell'affanno, dell'ansia mortale a cui era in preda il suo cuore?

Abd el Rhaman si provava a consolarlo; ma le sue massime orientali, impresse di un cupo fatalismo, facevano effetto contrario.

— Ci son dieci cose nel mondo, l'una più forte dell'altra; — gli diceva una volta il Krebir; — anzi tutto le montagne; poi il ferro che spiana le montagne; il fuoco che liquefà il ferro; l'acqua che spegne il fuoco; le nubi che assorbono l'acqua; il vento che scaccia le nubi; l'uomo che sfida il vento; l'ebbrezza che vince l'uomo; il sonno che dissipa l'ebbrezza; il dolore che uccide il sonno.

— Ed altre ancora; — rispose lo scudiero; — la morte che tronca il dolore; l'amore che trionfa della morte. —

Sapeva il vecchio Krebir di avere in custodia una donna? Dall'ossequio con cui parlava al biondo scudiero, era lecito argomentare che almeno almeno lo sospettasse.

Del resto, non era cosa nuova nè strana a que' tempi che una donna andasse attorno sotto spoglie virili, e il Tasso e l'Ariosto, colle loro Clorinde e le loro Bradamanti, non hanno inventato nulla che faccia contro al vero, nè al verosimile, della storia. La Cavalleria, impasto di usanze nordiche e di mitologie greche, derivava dalle Amazzoni le sue donne guerriere, e non le considerava men donne per questo, come farebbe la società moderna, dopo che ha inventato tante capestrerie, come la cipria e il mal di nervi, e bastionata la pretesa debolezza d'Eva colla faldiglia, il guardinfante e il crinolino.

Indovinasse, o no, il segreto dello scudiero, Abd el Rhaman capì che, a rimanere più oltre colà, il poverino gli sarebbe morto di crepacuore. Come rimediarci? Egli c'è un modo, per ingannare l'ansia mortale dello attendere; e questo è di andare incontro a ciò che si attende. Sia un conforto morale, derivato dalla speranza che si ravviva, o un benefizio fisico, frutto della distrazione che arreca una giusta vicenda di riposo e di moto, il fatto sta che l'ansia e l'affanno si chetano un tratto nell'andare. Lo spirito è più calmo, o almeno più arrendevole ai consigli della pazienza, quando può trasmettere un poco della sua furia alle gambe.

Abd el Rhaman, da quell'uomo serio che era, chiamò prima di tutto i pensieri a capitolo.

— Se vado e c'incoglie una disgrazia, io pago il prezzo del sangue. E questo prezzo non sarà di cento cammelli, secondo vuole il Corano; sarà la mia testa senz'altro, poichè l'emiro Mohammed pensa a conservarsi l'amicizia dei Franchi. —

I Crociati erano allora tutti Franchi per gli Arabi, Goffredo di Buglione e Baldovino erano francesi, lo rammentate, e la crociata era stata bandita a Clermont.

Ma tiriamo innanzi col soliloquio di Abd el Rhaman, che del resto non andrà in lungo come quello di Amleto.

— Se resto, attenendomi alla buona ragione del luogo sicuro, non faccio niente di meglio, perchè questo povero ragazzo mi muore. Non parla, non mangia più.... ed io posso già dirmi un uomo spacciato. —

La conseguenza di questo dilemma del vecchio Krebir fu questa, che tra due mali si avesse a scegliere il minore. Infatti, non era mica detto che, allontanatisi dal pozzo ospitale di Rehobot, dovessero lasciare infallantemente la vita in uno scontro coi ladroni del deserto. Questa ribaldaglia scorazzava qua e là, un po' a tramontana, verso Hebron, un po' a mezzogiorno, verso i confini dell'Egitto. Ma era egli da credere che appunto allora, mentre lo Sciarif vagava colla sua gente in quelle stesse regioni, i nomadi predatori fossero rimasti in quel vecchio teatro delle loro gesta?

Questa argomentazione finì di persuadere Abd el Rhaman, che decise di muoversi dal pozzo di Rehobot, per andare due giornate più verso levante, fino alle gole di Cades, nel paese degli Edomiti.

Non è a dire come il biondo scudiero accogliesse l'annunzio. Una vampa di allegrezza, la prima dopo tanti giorni di abbattimento, colorò le sue guance smorte.

La carovana riprese il suo cammino interrotto. Gli arcadori genovesi, bene intendendo gli onesti disegni del vecchio, gli obbedirono, come avrebbero obbedito a messer Caffaro di Caschifellone. E questo non farà meraviglia, chi pensi che i Genovesi, marinai anzi tutto, non partecipavano a tutti i dirizzoni dell'epoca. Combattevano i Saracini, ma sapevano anche render giustizia alla virtù d'un nemico. Il quale, del resto, era Cananeo, cioè a dire consanguineo di quei Fenicii, con cui la gente ligure aveva avuto relazioni di traffico fino dagli antichissimi tempi.

Abd el Rhaman non andava tuttavia senza le debite cautele. Entravano in una parte del deserto dove era difficile imbattersi in gente da bene. La strada delle carovane di Palestina per l'Egitto non appoggiava mai più a levante del pozzo di Rehobot, e per incontrare l'altra via dei pellegrini, che dalle provincie della Siria volgevano alla Mecca, era mestier valicare tutto il deserto di Cades, costeggiare l'ultimo lembo del lago Asfaltide nella valle di Siddim, e proseguire oltre un buon tratto nel paese di Moab.

L'intervallo era sempre stato in balìa dei predoni. Per allora, fortunatamente, doveva essere in balìa dello Sciarif e dei suoi alleati recenti, gli Assassini. Questo pensiero chetava un tratto le ansietà del vecchio condottiero. Ma c'erano sempre le strette di Cades da varcare, e Abd el Rhaman andava guardingo, stava sempre coll'orecchio teso, alla guisa delle antilopi.

Al sopraggiungere della notte, disponeva il campo con una cura che mai non aveva usato la maggiore in sua vita. E dopo aver disposto ogni cosa a dovere, vigilava, non più con uno, ma con ambedue gli occhi. Il grido notturno alle guardie del campo si ripeteva d'ora in ora con una regolarità veramente ammirabile.

Alle strette di Cades raddoppiò la vigilanza, ma cessarono le grida. A destra e a manca delle carovane si innalzavano certe colline, o cumuli di sabbia, non diversi dagli altri che avevano attraversati nelle vicinanze di Gaza, se non in questo, che i ciuffi di lentisco erano più spessi e prendevano aspetto di macchia. L'occhio del condottiero non poteva più spaziare come prima da tutti i lati dell'orizzonte; bisognava esplorare il terreno, scambio di guardare da lunge, e sopratutto bisognava tacere.

— Legate le fauci ai cammelli; — diceva il vecchio ai suoi cammellieri; — e quando saranno sdraiati, non vi accostate a loro, affinchè non avvenga loro di muggire alla vista dei padroni, e di dar nell'orecchio al nemico. Questa notte ci contenteremo di datteri, perchè non è prudenza accendere il fuoco. —

E agli arcadori diceva:

— Parlate piano, anzi non parlate affatto. Qui davvero è da ripetere il nostro proverbio: la parola è d'argento, il silenzio è d'oro. —

Tuttavia, nel cuor della notte, egli stesso andò contro alla sua legge. Un rumore gli era venuto all'orecchio, come di rami calpestati nella macchia vicina. Fossero sciacalli, attratti colà dalla speranza di preda? O leoni che lasciavano il covo, per andare in cerca di una fontana? Abd el Rhaman fiutò lungamente l'aria, e non gli parve che si trattasse di fiere. Uomini dunque?

Non stette più in forse un istante; balzò fuori del campo e ad alta voce gridò:

— Servi di Dio, ascoltate. Chi si aggira intorno a noi, s'indugia vicino alla morte. Egli non ci guadagnerà nulla a far ciò, e risica di non veder più le palme del suo villaggio. Se egli è un povero viandante affamato venga e gli daremo di che sfamarsi; se ha sete, si faccia avanti e gli daremo a bere. È ignudo? E noi lo vestiremo. È stanco? Riposerà, tra noi. Siamo credenti in Dio e nel Profeta, che viaggiamo per le nostre faccende, e non vogliamo male a nessuno. —

Il silenzio della notte e la tranquillità del deserto conferivano alle parole del vecchio una solennità paurosa.

— Era proprio necessario che tu parlassi? — chiese il biondo scudiero al krebir, quando questi fu rientrato nel campo.

— Figliuol mio, — rispose Abd el Rhaman, — dice il proverbio dei ladri: «la notte è la parte del povero, quando egli è coraggioso.» Siamo alle strette di Cades, uno dei luoghi più pericolosi della Siria. Dio sa quante carovane ci furono saccheggiate! Se sono ladroni che spiano il momento opportuno per piombarci addosso, eglino sapranno oramai che siamo preparati a riceverli. —

Gli arcadori di Genova erano già in piedi e tendevano le corde, per vedere se la rugiada notturna non le avesse rallentate. Anche i cammellieri si erano sciolti dai loro mantelli e aspettavano muti, colla mano sull'impugnatura delle loro spade affilate e ricurve.

Tralasciando allora di rispondere allo scudiero, Abd el Rhaman intuonò ad alta voce il «fatihat oul kitab», che in lingua nostra significherebbe il capitolo che apre il volume, e che è per l'appunto il primo capitolo del Corano, ossia il libro per eccellenza. I Mussulmani attribuiscono ai sette versetti di questo capitolo una virtù meravigliosa, come i Cristiani al segno della croce, con cui incominciano tutte le loro preghiere.

Ed ecco il fatihat del vecchio condottiero, a cui rispondevano le voci di tutti gli Arabi suoi compagni.

«Lode a Dio, signore dell'universo,

«Il clemente, il misericordioso,

«Sovrano nel giorno della retribuzione!

«Sei tu che adoriamo, e di cui imploriamo il soccorso.

«Guidaci tu nel retto sentiero;

«Nel sentiero di coloro che tu ricolmi dei tuoi benefizii,

«Di coloro che non sono incorsi nella tua collera e che non si sono smarriti.

«Amin!»

La carovana aveva a mala pena finito la sua invocazione, che un fruscio si udì tra i lentischi, e poco stante il rumore di alcuni passi lungo il pendìo della collina.

Abd el Rhaman non si era dunque ingannato. Non erano belve, ma uomini, che vagavano nei pressi dell'accampamento.

I cammellieri diedero di piglio alle lancie e snudarono le spade affilate e ricurve; gli arcadori incoccarono un verrettone sulla corda dell'arco; il biondo scudiero strinse convulsivamente la daga che gli pendeva al fianco e raccomandò la sua anima a Dio.

Intanto il rumore dei passi si avvicinava sempre più. Abd el Rhaman respirò, parendogli di distinguere il calpestìo di due soli viandanti.

A' piedi della collina, una voce s'udì, che dava ragione alla perspicacia del vecchio.

— Signore della tenda, due invitati di Dio!

— Siate i benvenuti, se una infermità non siede nei vostri cuori e una menzogna sulle vostre labbra. Ed è in questo luogo deserto che noi dovevamo aspettarci due ospiti? —

La voce rispose con uno di quei proverbi così comuni tra gli Arabi:

— La scabbia, il suo rimedio è il bitume; la povertà, il suo rimedio è il deserto. —

Abd el Rhaman si volse ai suoi compagni di viaggio.

— Sono Arabi davvero; — diss'egli; — forse pellegrini smarriti. —

E ad alta voce proseguì:

— Fratelli, venite, e troverete ristoro tra noi. —

I due viaggiatori si appressarono, e uno di essi, colui che aveva già parlato due volte, ripigliò, coll'accento monotono di chi ripete una vecchia cantilena:

— Siate generosi coll'ospite, perchè egli viene a voi con tutto ciò che possiede. Entrando, vi reca una benedizione; uscendo, si porta via i vostri peccati. Non siate avari; l'avarizia è un albero che Scitan ha piantato nell'inferno; i suoi rami si stendono sulla terra; chi ne coglie il frutto vi rimane impigliato ed è travolto nel fuoco. La generosità è un albero piantato in cielo da Dio, Signore dell'universo; i suoi rami toccano la terra, e per quei rami l'uomo generoso salirà al paradiso. Colui che accoglie umanamente i suoi ospiti si rallegra e fa loro buon viso. Dio non farà mai male a quella mano che avrà saputo donare.

Quelle erano formole rituali tra gli Arabi, e la precisione con cui erano ripetute doveva chetare i sospetti di Abd el Rhaman, che ben si poteva dire fosse toccato nel suo debole.

I viaggiatori erano giovani all'aspetto, ma stanchi e assai male in arnese.

— Da dove venite? — chiese il vecchio Krebir.

— Da Kanat; — risposero.

— Da Kanat? Non c'è egli più dunque ospitalità tra i figli dello Sceik ul Gebal?

— C'è sempre; ma insieme con essa il desiderio di trattenere i figli del deserto più a lungo che essi non vogliano essere trattenuti. Siano lieti i Fedàvi delle gioie anticipate del paradiso, noi amiamo rivedere le nostre famiglie. Da due giorni andiamo vagando nel deserto senza trovare nè una palma, nè una fontana, nè una compagnia di credenti in Dio, che ci tengano luogo dell'una cosa e dell'altra. Disperavamo già, quando abbiamo veduto, nella luce del tramonto, le sabbie gialle picchiettarsi di nero. Abbiamo indovinato l'avvicinarsi di una carovana e ci sono tornate in petto la speranza e la lena. Servi di Dio, noi ci accostiamo alla tenda che egli ha rizzata davanti ai nostri occhi, e vi portiamo la nostra fame e la nostra sete.

— Non vi affaticate più oltre colle parole; — disse Abd el Rhaman. — Sedete accanto ai nostri cammelli, mangiate e bevete. Il frutto della palma è qui, condito col burro, e l'acqua del pari, attinta ieri mattina al pozzo di Rehobot. —

I due viandanti si gittarono avidamente sul pasto, che era loro apprestato con tanta generosità. E il vecchio Krebir ne godeva in cuor suo. La legge dell'ospitalità è questa, che l'ospite offra e che l'invitato di Dio accetti e mostri di gradire l'offerta.

Un pellegrino giunse una volta presso un Arabo, che lo fece sedere al suo fianco e gli offerse il suo pasto.

— Non ho fame; — disse lo straniero; — non ho bisogno che d'un luogo al coperto, per dormire questa notte.

— Vattene dunque da un altro; — gli rispose l'Arabo. — Io non voglio che un giorno tu abbia a dire: ho dormito da un tale; io voglio che tu dica: ci ho saziato il mio ventre. La barba dell'invitato è in mano al padrone della tenda. —

Saziato lo stomaco, i due viandanti, poichè non c'era modo di accoglierli sotto la tenda, domandarono ed ottennero di sdraiarsi accanto ai cammelli. E ravvoltisi nei loro mantelli e tirati i cappucci sugli occhi, si addormentarono insieme cogli altri uomini della scorta.

Costoro erano certamente quello che avevano detto, due poveri viandanti smarriti, e Abd el Rhaman, se qualche sospetto gli fosse entrato nel cuore, lo avrebbe sicuramente scacciato, dopo averli visti mangiare e bere con tanta avidità, e quindi addormentarsi con tanta prontezza.

Anche il buon vecchio aveva mestieri di riposo. Si è detto che soleva dormire da un occhio solo, ma anche a farlo da un solo, dormire bisogna. Disteso il suo mantello vergato sulla sabbia, vi si adagiò, ne trasse un lembo sul petto, e provò a chiudere un occhio, mentre collo spirito correva ai viaggiatori cristiani, che già da due giorni avrebbero dovuto ritornare, e che tuttavia non si vedevano ancora.

Abd el Rhaman, per dire la verità, non era così inquieto come il biondo scudiero. Conosceva per antica prova come fossero fallaci le vie del deserto, dove lo aver smarrito una traccia, il non aver badato a un fil d'erba, fa perdere spesso le intiere giornate. E sebbene fidasse nell'avvedutezza dell'Arabo che aveva dato per guida ai cavalieri cristiani, il vecchio Krebir non poteva dissimularsi che ai viaggiatori mancava sempre una cosa, cioè a dire la sua propria esperienza.

Uno scalpiccio improvviso gli ruppe il filo delle sue meditazioni. Era lo scudiero che usciva allora dalla sua tenda.

— Figliuol mio, — disse Abd el Rhaman, — voi vegliate sempre. È mal fatto, perchè, quando uno veglia per tutti, gli altri debbono ristorare le forze nel sonno.

— Se lo potessi! — esclamò lo scudiero, che non seppe trattenere un sospiro.

— Imitate i nostri ospiti; — seguitava frattanto il Krebir. — Sentite come russa uno di loro, laggiù. —

Lo scudiero non rispose, e stette cogli occhi in aria a guardare le stelle. La luna era scomparsa dal firmamento, e Aldebaran, l'astro prediletto dei popoli orientali, risplendeva in tutta la sua pura bellezza tra il cinto d'Orione e il gruppo delle Jadi. Ma lo scudiero non si indugiava a considerare la bellezza degli astri; pensava che essi soli a quell'ora dovevano vedere Arrigo da Carmandino, e confidava loro una preghiera, un saluto, un augurio.

Mentre egli guardava e pregava, il vecchio condottiero si rizzava sul gomito e pensava.

— E dove sarà l'altro? — chiese egli tra sè. — Son due, e non ne odo che uno. —

Il dubbio gli si era appena formato nell'animo, che il vecchio balzò in piedi senz'altro. Abd el Rhaman, come tutti gli uomini che conoscono il pregio del tempo, non soleva far mai una cosa sola per volta. Ora, mentre egli pensava, il senso dell'odorato, squisitissimo in lui, era stato ferito da alcun che di nuovo e di strano. Il vecchio Krebir fiutava il pericolo.

Balzò in piedi, già ve l'ho detto, e con accento risoluto gridò:

— Credenti in Dio, seguaci del profeta Gesù, su tutti, presto, non perdiamo un istante!

— Che fai tu? — dimandò lo scudiero, distolto così d'improvviso, dalla sua muta preghiera.

— Figliuol mio, siamo assaliti; — rispose il Krebir.

— Assaliti! Da chi?

— Lo so io, forse? C'è odore di nemici nell'aria, ecco tutto. —

Così dicendo, Abd el Rhaman diè di piglio alla sua scimitarra e fu d'un salto sui cammelli.

Il campo era tutto a rumore. Ma l'ospite continuava a russare, ravvolto nelle pieghe del suo mantello sdruscito.

— Maledetto cane! — gridò Abd el Rhaman, percuotendo quel corpo inerte d'un calcio.

Lo scudiero, che aveva seguito il vecchio fin lì, visto quell'atto brutale, che contrastava con tutte le leggi della ospitalità, fu sul punto di credere che il vecchio Krebir avesse smarrito il suo senno.

Ma prima che il concetto potesse prendergli forma nell'animo, un sibilo acuto gli percosse l'orecchio, indi un altro, e un altro ancora, e fu tosto un rumore di passi, uno strepito d'armi, sui due lati del campo.

— Difendiamoci, in nome di Dio! — tuonò il vecchio condottiero.

Gli arcadori genovesi avevano già afferrati i loro archi. Ma le corde erano recise. Non restavano che i cammellieri, a far fronte colle lancie.

— No, no; — gridava il Krebir, brandendo la sua scimitarra. — La lancia è la sorella del guerriero, ma essa può sempre tradirlo. Gittate lo scudo; intorno a questo si addensano le sventure; la spada, la spada è l'arma dell'Arabo, quando il suo cuore è forte come il braccio. Alle gambe del nemico, alle gambe! —

E mandando i fatti compagni alle parole, il fiero vecchio diè tale un colpo agli stinchi del primo che gli si fece davanti, che lo mandò ruzzoloni, coi piedi troncati di netto. Era uno degli ospiti, colui che pur dianzi russava, mentre l'altro, approfittando delle tenebre e del sonno degli arcadori, era andato carponi recidendo le corde degli archi.

— Traditore! — gridò il ferito, storcendosi dolorosamente sulla sabbia. — Tu pagherai la mia morte al gran Priore d'Occidente. —

La minaccia fu udita da tutti coloro che si stringevano a difesa intorno al vecchio condottiero.

— Gli Assassini! — gridarono atterriti. — Sono gli Assassini! —

Molte dicerie paurose correvano già intorno a quei nuovi ospiti del deserto, in mezzo agli Arabi di Palestina. Si diceva che avessero tutte le dieci doti del guerriero: l'ardimento del gallo, il razzolìo della gallina, la fierezza del leone, lo slancio del cinghiale, l'astuzia della volpe, la prudenza dell'istrice, la rapidità del lupo, la costanza del cane, e la struttura del naguir, piccolo animale che prospera nelle privazioni e negli stenti.

Si diceva per contro che fossero poco saldi nella fede e che mettessero la causa del loro ordine molto più sopra di quella dell'Islam. Di qui a crederli demonii scatenati dall'inferno, non era che un passo. Lontani, piacevano poco; vicini, incutevano spavento.

E uno sgomento invincibile colse quei poveri cammellieri, gente così valorosa in ogni altra occasione, ma che non poteva, nel tramestìo di quella sorpresa notturna, misurare la gravità del pericolo.

Così avvenne che gli arcadori genovesi rimanessero quasi soli a resistere. Gittati gli archi, oramai diventati inutili, avevano posto mano alle spade e si difendevano valorosamente, ma non senza stupirsi del modo strano che usavano i loro nemici nel fare la guerra. Infatti, gli Assassini, avvicinandosi a mezza spada, e riconoscendo di averla a dire con guerrieri cristiani, non lavoravano ad uccidere; facevano impeto in molti, cercando anzitutto di schermirsi come potevano; per giungere sotto e disarmare i loro avversarii. Un moderno avrebbe detto che c'era molta diplomazia in quella maniera di combattere; un cinquecentista ci avrebbe intravveduta la ragione di Stato; ma per quel tempo bisognava dire che i combattenti avessero ordine d'adoperare in tal guisa, e che la cieca obbedienza a cui li avvezzava la impromessa del paradiso fosse la vera cagione di quel rispetto ai guerrieri cristiani. Rispetto che non giungeva fino al punto di rimandarli liberi, poichè, a mano a mano che li avevano disarmati, li legavano stretti con certe funicelle e li spingevano l'uno sull'altro di costa alla tenda.

Assai più difficile impresa era quella d'impadronirsi del vecchio Krebir, pel quale, del resto, non avrebbero usati tanti riguardi. Ma il fiero Abd el Rhaman non si poteva prendere, nè ammazzare così alla svelta. Al comando di arrendersi aveva risposto colla minaccia di uccidere il primo che gli si fosse accostato, e già tre uomini, che avevano tentato il colpo, si erano persuasi col fatto ch'egli parlava da senno.

Il vecchio Krebir pensava in quel punto alla dia, o prezzo del sangue, che egli avrebbe dovuto pagar colla sua testa all'Emiro di Gaza, se fosse tornato alla spiaggia senza i Cristiani affidati alla sua vigilanza. Pensava al suo onore irreparabilmente perduto; come condottiero di carovana, dopo trenta e quarant'anni di fortunata esperienza. E pensava infine esser meglio il morire, per una giusta causa, combattendo i nemici di Allà. Non era opinione universale tra i credenti, che quegli Asciscin, sbucati dalla Persia, fossero una sètta di infedeli, e peggio assai dei Cristiani, poichè questi credevano almeno al profeta Gesù, laddove i seguaci del Vecchio della Montagna non credevano a nulla?

Maometto, fermandosi un giorno davanti ai due cimiteri della Mecca, era uscito in queste profetiche parole:

«Di questi due cimiteri, settantamila morti ascenderanno al paradiso senza render conto a Dio delle loro colpe; e ognuno di loro potrà farne entrare settantamila con sè. I volti loro somiglieranno alla luna piena. Una sola cosa è più meritoria del pellegrinaggio, agli occhi di Dio, ed è il morire nella guerra santa, nella guerra contro gli infedeli.»

Così fortificato contro ogni vile pensiero, combatteva il vecchio Krebir. In mezzo alla mischia cercò il biondo scudiero, che era stato commesso alla sua custodia, e lo vide, o, per dire più veramente, lo udì, mentre gridava e invano si dibatteva fra le strette dei suoi assalitori.

La ragione di quell'attacco notturno balenò allora alla mente del vecchio, che non volle assistere a tanta sventura e si lanciò disperato da quella parte, cercando inutilmente di rompere la cerchia dei nemici. La daga di un Fedàvo bevve il suo sangue, penetrandogli nella gola.

— Era scritto! — diss'egli, stramazzando al suolo, mentre il sangue spicciava a fiotti dalla vasta piaga.

— Non c'è che un Dio! — aggiunse poscia, levando al cielo la mano irrigidita.

E non disse più altro. In quella affermazione della sua fede, il vecchio Krebir aveva esalato l'anima invitta.

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