Siamo a mezzo l'autunno. La Caffara, salpata dalla Maiuma di Gaza, è andata a golfo lanciato verso settentrione, per raggiungere le sue trentanove compagne all'assedio di Tortosa.
Quando i nostri amici arrivarono in quei paraggi metà dell'impresa era già fornita da Ugo Embriaco e dal fratello Nicolao, perchè il naviglio genovese si era in quel frattempo impadronito dell'isola e della fortezza di Arado.
Era quell'isola distante forse due miglia dalla costa. I Fenicii l'avevano chiamata Arvad, i Greci Aradio, e al tempo di cui narro dicevasi Arado. Anzi che un'isola, poteva dirsi uno scoglio, emergente dai flutti, che girava forse un miglio, di forma allungata, con una lieve salita verso il centro, e ripido da tutti i lati. Gli esuli di Sidone avevano fondata su quello scoglio una città marinara, ed è facile immaginare che, mancando lo spazio, gli abitanti Arvad se ne ricattassero nell'altezza a cui facevano ascendere le loro case, altezza sterminata, come era sterminata la profondità delle cisterne scavate nel masso, per raccogliervi l'acqua piovana o andare a cercare una sorgente d'acqua dolce nelle viscere della terra.
Una doppia cinta di mura, avanzo dell'arte fenicia, custodiva la città di Arado. Ma non gli valse perchè i Genovesi, impedite le comunicazioni colla costa, l'ebbero per fame in loro balìa; non rimanendo ad essi più altro che espugnare la città sorella, Tortosa, che sorgeva sulla costa.
I fratelli Embriaci e Ansaldo Corso, loro compagno nell'impresa, diedero opera gagliarda all'espugnazione della terra. Come ho già detto, avevano spedito in tutta fretta a Genova una galèa per annunziare ai consoli la presa di Arado, e ad uno di essi, a Guglielmo Embriaco, il triste esito della spedizione di Gaza.
Da venti giorni durava l'assedio, senza che la città, forte per la sua postura e validamente difesa, accennasse ancora ad arrendersi. Non potuta circondare dalla parte dei monti, Tortosa avea sempre vettovaglie e soccorsi d'armati. Ma San Lorenzo (che era in quei tempi ii santo prediletto dei Genovesi), san Lorenzo proteggeva i suoi divoti cittadini, e faceva capitare nelle acque di Tortosa altre otto galere, comandate da Mauro di Piazza Lunga e da Pagano della Volta, che erano stati consoli nella antecedente compagna. A proposito, ho promesso, non so più dove, di chiarire ai lettori questo negozio della compagna. E poichè il nome mi è caduto dalla penna, manterrò la promessa.
Noto anzi tutto che compagna e compagnia gli è come dir zuppa e pan molle. Per altro, i Genovesi antichi dicevano sempre compagna, intendendo forse da principio una società pattuita fra mercatanti, per due, o tre anni, nell'intento di far fruttare l'opera loro, e il danaro posto in comune. Dalla pluralità il concetto si allargò alla totalità, e l'associazione di tutti i cittadini si disse, nel latino dei pubblici, atti, Communis compagna, e più chiaramente compagna de comuni Janue. Se eravate fuor d'essa, potevate considerarvi fuor della legge; non avevate diritto a cittadinanza, a giustizia, a pubblici uffizi.
Vi ascrivevate alla compagnia giurandone i patti in osculo pacis, nel bacio della pace, vincolo e pegno tanto necessario in quei tempi di continue discordie. Questo dicevasi «giurar la compagna;» e coloro che giuravano erano i cittadini utili, i cittadini idonei, che contribuivano alla cosa pubblica con danaro, o servigi, sotto il reggimento dei consoli, i quali si eleggevano ad ogni nuovo giuramento di compagna.
Questa adunque era la grande, la prima de communibus rebus. C'erano poi le urbane, o minori, in numero di otto, che rispondevano agli otto rioni della città. Tra queste compagne urbane si dividevano le imposte, le spese di guerra, gli apprestamenti delle galere. Donde avveniva che pel numero delle compagne si dividessero altresì le schiere dell'esercito e le galere dell'armata, dando ciascheduna compagna il suo rettore alla nave, o alla compagna di soldati, sotto il comando di un console, o di altro capitano, scelto dal popolo tra gli uomini consolari.
E questo, che ho detto così di passata, vi chiarirà, lettori umanissimi, quell'altra faccenda del numero di otto galere che giungevano di rinforzo nelle acque di Sorìa, sotto il comando di Pagano della Volta, uno dei nobili genovesi, e di Mauro di Piazza Lunga, uno dei popolari, ambedue scaduti in quell'anno dalla prima magistratura cittadina.
Caffaro di Caschifellone si confortò un tratto nelle braccia dello zio Pagano. E dell'arrivo di quelle otto galere si confortarono tutti, sperando di poter condurre più facilmente a buon fine l'impresa.
Infatti, c'era mestieri di rinforzo. Mai, dopo la espugnazione di Cesarea, i Crociati avevano tanto sudato attorno ad una cerchia di mura. Ben presto ne seppero la ragione. L'Emiro di Tortosa non era solo a difendere la città. Fin dai primi giorni dell'assedio, aveva compagno uno dei più valorosi campioni dell'Islam. Il lettore lo ha già indovinato; era Bahr Ibn, che noi avevamo lasciato presso Teli Asterè, a quattro giornate di marcia dalla terra assediata.
Arrigo da Carmandino era lungi dal sospettare che tesoro fosse caduto in mano al nuovo difensore di Tortosa. Per lui, come per Caffaro, la povera Diana era sempre in balìa di Abu Wefa, il terribile capo degli Assassini, del quale s'incominciava appena allora ad avere nel campo dei Crociati qualche più certa notizia, ma senza sapere il vero luogo in cui fosse andato a piantare le sue tende.
Non c'era dunque da far nulla, nè da tentare, per la salvezza della infelice Diana. Questo era il pensiero di Caffaro, il solo dei due amici, che avesse ancora la mente così sana per accogliere un concetto e meditarlo. Quanto ad Arrigo, non c'era affè da sperarne un consiglio. Il poveretto avea quasi perduto il senno; il suo spirito annebbiato non vedeva più che una cosa, la possibilità di un miracolo. Ma certamente non lo sperava neanche, poichè l'uso ch'egli faceva della vita, indicando il disprezzo in cui l'aveva ogni giorno di più, mostrava apertamente com'egli cercasse la morte, quasi per trovarci un termine alle sue cure affannose.
Combatteva da disperato, guidava tutte le fazioni più arrisicate. Non c'era sortita di assediati, che non s'incontrasse, per sua disgrazia, in quell'audace guerriero, davanti al quale indietreggiava la morte.
La fama del suo voto si era sparsa nel campo, e di là era corsa fino a Gerusalemme, dove spesso andavano messaggieri dell'esercito. E già parecchi degli Ospitalieri di San Giovanni erano partiti dalla città santa, per andare a vedere le prodezze di lui e a salutare quella futura gloria dell'Ordine.
Continuatori dell'opera pietosa degli ospizii ai pellegrini (ospizii che avevano fondato in Gerusalemme i mercatanti d'Amalfi), gli Ospitalieri di San Giovanni erano allora una congregazione tra monastica e militare, che da Goffredo Buglione aveva avuto lode e privilegi, e da Baldovino ogni maniera di favori, come quella che prometteva di riuscire un valido aiuto al regno crocesegnato. Il loro istitutore, Gerardo di Tonco, era un gentiluomo piemontese, andato in Terrasanta fin dal 1074. La fondazione degli Amalfitani aveva trovato in lui il più zelante e il più divoto dei suoi cultori. Durante l'assedio di Gerusalemme, il buon Gerardo era stato chiuso in prigione dai Saracini, e l'entrata dei Cristiani lo avea liberato. I suoi Giovanniti erano monaci, infermieri e soldati, e dal loro ordine, che fu il primo di tal sorte, doveva staccarsi pochi anni di poi un altro italiano, Ugo de' Pagani, per fondar l'Ordine dei cavalieri del Tempio.
Nei campo cristiano, Arrigo era già chiamato il Giovannita. Egli stesso, in un impeto di quella disperazione terrena che fa cercar rifugio nel pensiero della divinità, comunque la s'intenda, e quantunque troppo spesso ci apparisca non curante di noi, aveva già cinte sull'armatura le insegne dell'Ordine, che consistevano in un mantello di lana bigia, e in una croce biforcata d'argento.
In Tortosa il nuovo Giovannita era temuto per quel suo meraviglioso ardimento, che, facendogli disprezzare il pericolo, rendeva gli assalti suoi così dannosi agli assediati. Si diceva da tutti i Saraceni che se nell'esercito cristiano si fossero trovati cento altri come lui, Tortosa non avrebbe potuto resistere un giorno, con tutto il valore e la rara prudenza di cui faceva prova Bahr Ibn.
Ben presto anche tra i Saracini fu risaputo il nome di quel fiero Crociato. Chi li aveva ragguagliati in tal guisa?
Ricordate che non lunge di là, vigile scolta contro Mussulmani e Cristiani, aveva piantato il suo vessillo un altr'Ordine, assai meno religioso, ma fortemente disciplinato, quello degli Assassini. Tripoli, ancora in potestà dei Mussulmani, distava appena quaranta miglia da Tortosa, e alle spalle di Tripoli, nel castello di Massiad, vigilava Abu Wefa, come un avoltoio sul ciglione della rupe.
Insieme col Gran Priore stava un altro personaggio di nostra conoscenza, giunto a lui per una di quelle malaugurate fortune, che arridono spesso ai malvagi e li attraggono l'uno all'altro per mezzo a difficoltà e pericoli tali, che condurrebbero a mal punto una schiera di onest'uomini. Il Gran Priore si era affrettato ad accoglierlo tra' suoi dais, o maestri iniziati, facendogli saltare d'un tratto il grado inferiore dei rèfilis, o compagni, ai quali non era svelato tutto l'arcano della sètta. Che bisogno c'era egli di aspettare altre prove da Gandolfo del Moro, che aveva mostrato di lancio come fosse sottile l'ingegno e sicura la sua fede nel male?
Gli emissarii di costoro correvano assiduamente per ogni lato. Si fingevano Ebrei, Cristiani, e ogni altra cosa che loro mettesse conto di parere. Arditi e destri, si ficcavano qua e là, curiosando, ascoltando e tremando, giusta i fini reconditi della sètta, e non era città del regno crocesegnato, o terra di Saracini, dove Abu Wefa non avesse mandato suoi esploratori.
Un giorno nella tenda di Arrigo si trovò una pergamena accartocciata. In essa erano scritte queste parole:
«Che il tuo amico Bahr Ibn sia in Tortosa, lo saprai. Ma una cosa non sai: che egli ha rapito la tua fidanzata e la tiene. Egli sa che tu sei votato ali' Ordine di San Giovanni e pensa che un gentil cavaliere come tu sei, terrà fede al suo voto. Diana sarà sua, o per amore, o per forza.»
A quella lettura Arrigo diede in un grido di stupore, che si mutò ben presto in urlo di rabbia. Triste combinazione di eventi! Egli sapeva che la sua povera Diana non era in balìa di Abu Wefa, e in pari tempo che Bahr Ibn lo aveva tradito.
Tradito! Ma come? Il pensiero di Arrigo corse anche una volta a Gandolfo, a cui troppo generosamente Caffaro aveva perdonato la vita.
Ma chi dava l'annunzio del tradimento di Bahr Ibn? Ed anche qui il pensiero correva a Gandolfo, sebbene quel fatto paresse in contraddizione coll'altro. Como mai Gandolfo del Moro potea dare avviso al suo rivale della sorte toccata a Diana, se era egli stesso che aveva ordito la trama per togliere quella donna a lui?
Caffaro, che era il più calmo dei due, si provò a conciliare le due cose, e pensò che quel tristo di messer Gandolfo, dopo averla fatta ad Arrigo, si fosse pentito, e non volesse lasciarne godere il frutto al Saracino.
Il signore di Caschifellone non si apponeva che a mezzo. E difatti, il nostro amico non poteva argomentare da sè, come Bahr Ibn, seguendo una buona ispirazione, fosse andato sollecito sull'orma di Abu Wefa. Se questo avesse saputo, il resto gli sarebbe apparso chiaro come la luce del giorno. Perchè, quanto a indovinare le conseguenze di un incontro di Bahr Ibn colla bella figliuola di Guglielmo Embriaco, nessuno lo avrebbe fatto più agevolmente di Caffaro. Egli stesso, così leale amico ed onesto cavaliere, aveva forse potuto custodire il suo cuore contro le grazie innocenti, eppure tanto pericolose, di madonna Diana?
Arrigo, intanto, che non vedeva più lume, avrebbe senz'altro ordinato di dar la scalata alle mura, e insegnata la via coll'esempio. Ma poichè non tutti gli assedianti partecipavano al suo furore, e l'ardimento più efficace è quello che non si scompagna dalla prudenza, vinse il parere degli altri capitani, i quali fecero intendere al nostro innamorato non essere ancora il tempo di dare l'assalto, tanto più che le torri e le altre macchine di guerra, in cui erano così valenti i figli di Genova, non erano ancora condotte a termine, e le frequenti sortite degli assediati facevano andar lenti i lavori dei maestri d'operare.
Il povero Arrigo dovette ristarsi e divorare la sua rabbia impossente. Ma intanto il suo amico Caffaro si preparava a servirlo in altra guisa.
Un trombettiere andò la mattina seguente fin sotto le mura di Tortosa, diede i tre squilli, e, veduti i custodi che s'affacciavano alla merlata, gridò:
— Il mio signore Caffaro di Caschifellone, uno dei cavalieri dell'esercito genovese in Sorìa, chiede al vostro capitano, il nobile Sciarif Bahr Ibn, un colloquio entro le mura di Tortosa, o in altro luogo che più gli torni gradito. —
La risposta si fece aspettare a lungo. Finalmente giunse alla merlata un araldo, e disse:
— Ben venga il signore di Caschifellone; lo Sciarif è disposto a riceverlo. —
Caffaro salì prontamente a cavallo e andò soletto e fidente verso la saracinesca. Colà uno dei custodi slacciò la fascia del suo turbante e bendò con essa gli occhi dell'inviato, perchè egli non avesse modo ad esplorare gli accessi delle mura; indi il fedele e valoroso amico di Arrigo da Carmandino fu introdotto in città.
Lo Sciarif era in una sala terrena della ròcca, che sorgeva nel mezzo della città, e gli facevano corona parecchi dei suoi uffiziali. A mala pena vide entrar Caffaro, li congedò d'un cenno, e pochi istanti dopo era solo con lui.
Un'aria di cupa mestizia regnava sul volto dello Sciarif, indicando l'interno struggimento d'un pensiero molesto. Gli traluceva dagli occhi quella fiamma truce, che tradisce gl'incendii profondi del cuore e annunzia le morti precoci. Le labbra rigide non sapevano più atteggiarsi al sorriso. E tuttavia, Bahr Ibn salutò cortesemente il crociato, invitandolo a sedergli daccanto.
— Sii il benvenuto; — gli disse; — che cosa posso io fare per te?
— Nulla per me; — rispose Caffaro; — tutto pel tuo amico e fratello, per Arrigo da Carmandino. —
Il viso di Bahr Ibn si rabbruscò due cotanti di più, a quel cenno così repentino di Caffaro; che entrava, come si vede, ex-abrupto nell'argomento della sua visita.
— Non lo ami più, forse? — dimandò Caffaro, che aveva notato quell'atto di ripugnanza. — Lo aver combattuto l'un contro l'altro da valorosi, l'essere vissuti così lungamente insieme, tu salvatore per lui ed egli ospite tuo, non sono dunque più nulla?
— Erano; — rispose Bahr Ibn, sospirando; — ora non più. La catena dell'amicizia è spezzata; le tenebre regnano tra noi due. Quando la luna passa sul disco del sole, anche la luce dell'astro maggiore si spegne, e il freddo invade le ossa. —
Caffaro chinò la testa senza far motto.
— Diana è in tuo potere? — diss'egli, dopo un momento di pausa.
— C'è; — rispose asciuttamente Bahr Ibn.
— E non pensi di lasciarla tornar libera ai suoi?
— L'amo; — replicò lo Sciarif, abbassando le ciglia.
— Che essa è la fidanzata di Arrigo?
— L'amo. Non m'intendi? L'amo. Ti parrà forse strano....
— No; — rispose Caffaro. — L'ho amata anch'io, ma ho saputo comandare a me stesso.
— Non l'hai amata; son io che te lo dico; — gridò lo Sciarif con accento vibrato. — Se tu l'avessi amata, l'ameresti ancora, l'ameresti fino alla morte. O mi hai mentito, — soggiunse notando l'aria abbattuta di Caffaro, — o l'ami sempre anche tu. Vedi? L'ho indovinato. Anche su te qualche spirito maligno ha gettato un incantesimo, come su me lo ha gittato Abu Wefa? Triste cosa, cristiano, amar chi non t'ama, e amare come amo io! Ma comunque sia, io non vo' separarmi da lei. La perla d'Occidente mi sarà fatale, lo sento; e tuttavia non la darei per la corona d'Egitto, non pel trono di Arun el Rascid, non per quello di Suleiman, il re che comandava agli spiriti e che ebbe nel suo Arème le più leggiadre fanciulle del mondo. Ella morrà, mi ha detto; ed io mi ucciderò sul suo cadavere. Le ho offerto, sai, le ho offerto di inchinarmi al Dio dei suoi padri, io, io discendente del Profeta, e di esser dannato in eterno. Vedi tu se io l'amo, se posso ascoltare le profferte che vieni a farmi, in nome tuo o di Arrigo, non monta.
— In nome di Arrigo, io te l'ho detto; — rispose Caffaro, vedendo oramai che di riavere la donna per le vie dell'amicizia non rimaneva speranza. — Se fosse in nome mio, ben altra proposta farei.
— E quale?
— Di domandarti madonna Diana in campo chiuso, con lancia e spada, all'ultimo sangue. —
A quelle parole del crociato, lo Sciarif diede un balzo e sbuffò come il destriero generoso al primo squillo della tromba di guerra.
— Sarebbe un giuoco pericoloso; — diss'egli, con accento pieno di minaccia. — E perchè non me l'offre Arrigo?
— Arrigo non ci ha pensato; — rispose Caffaro. — Egli non sapeva mica, non poteva prevedere che tu avresti fatto così poca stima della amicizia che era tra voi. Del resto, — soggiunse, col fermo proponimento di pungerlo, — Arrigo da Carmandino ha combattuto già una volta con te, e non è stato egli il perdente.
— La sorte è cieca; — gridò lo Sciarif. — Potrebbe esser vinto quest'altra.
— In Occidente, — notò Caffaro, — una giostra cosiffatta non è consentita dagli usi. Quando due cavalieri si sono affrontati in campo chiuso ed è stato sparso il sangue di uno tra loro, essi diventano fratelli, son sacri l'uno per l'altro; salvo che....
— Salvo che.... — riprese Bahr Ibn. — Prosegui!
— Salvo che uno di loro voglia portare il carico della offesa alle consuetudini, commettendo un atto sleale. E qui forse sarebbe il caso... almeno, davanti alle leggi dell'amicizia. Non sei tu il rapitore della sua donna?
— Non l'ho rapita a lui; — proruppe Bahr Ibn; — nè ad altro dei suoi che non sapesse difenderla. A un ladro l'ho tolta. Se io non fossi stato, ella sarebbe ora in balìa di Abu Wefa, di un padrone e di un amante assai meno riguardoso di me. —
Caffaro sapeva oramai tutto quello che gli premeva sapere.
— Dunque, — diss'egli, — se verremo a ridomandartela colle armi?...
— Il ferro della mia lancia ricaccerà la domanda in gola a chi sarà tanto ardito da tentare la prova.
— E se soccombi? Perchè, tu l'hai detto, o Sciarif, la fortuna è cieca.
— Non ho che una parola. Chi mi vince, l'avrà.
— Altri dunque, dopo Arrigo, potrà misurarsi con te e correre la sua lancia?
— E dopo e prima di lui, non monta; — rispose Bahr Ibn, infiammandosi. — Venga pure tutto Occidente contro di me, non lo temo.
— E sia; — disse Caffaro. — Ci consenti dunque di mandarti il nostro cartello di sfida?
— No, son io che vi sfido; — tuonò lo Sciarif; — ad Antiochia, e dovunque, son sempre stato io il primo. Là da mezzodì, verso Medina, a due tratti d'arco fuor delle mura, è un piano che dicono del Sicomòro. Giuriamo una tregua di quattro giorni, di sei, di otto; insomma, di tanti giorni quanti saranno i campioni d'Occidente, a cui giovi di misurarsi con me. Al piano del Sicomòro andrò con cinquanta dei miei cavalieri; veniteci con altrettanti, e farò di rimandarvi pentiti.
— Bandisci la giostra e terremo l'invito; — disse Caffaro, infiammandosi alla sua volta. — Ma un giorno ed un scontro basteranno.
— Ti è lecito di sperarlo; — ribattè lo Sciarif con accento sarcastico. — Io vedrò alla prova il novello cavaliere di San Giovanni; vedrò se un uomo, il quale ha rinunziato alle gioie dell'amore, potrà vincerne un altro che per la prima volta le intende.
— Tu puoi deridere un voto, strappato ad Arrigo di Carmandino dal più giusto dolore. Ma bada, o Sciarif; ci sarà sempre dopo di lui chi non ha rinunziato a nessuna tra le dolci impromesse della vita. Tutto il fiore dei cavalieri di Genova soccomberà, se fia mestieri, per liberare madonna Diana.
— La perla dell'Occidente! — esclamò Bahr Ibn, passando improvvisamente dal furore alla tenerezza. — Così la chiamava Abu Wefa, quando mi gittò l'incantesimo, che ora mi brucia le carni.
— E sia questo il suo nome; — conchiuse Caffaro di Caschifellone. — La perla d'Occidente ha da tornare al suo lido. Ho la tua parola, o Sciarif?
— Pel sangue di Fatima, lo giuro. Siate contenti voi di scendere in lizza, come io sono desideroso di mostrare a quella donna che io valgo da solo tutti i suoi prodi campioni. —
Caffaro di Caschifellone se ne uscì da Tortosa assai più tranquillo di quando c'era entrato. Infatti, il nostro amico sapeva due cose: il rispetto di cui madonna Diana era circondata nella sua stessa prigionia, e la possibilità di riaverla.
Di quest'ultima cosa non era a dubitarsi. Arrigo era uno dei primi giostratori della Cristianità; poi, avrebbe dovuto combattere contro un uomo che egli aveva già vinto in altra occasione, e senza l'alta lusinga del premio. Infine, dopo Arrigo non c'erano tutti i migliori di Genova? Non c'era Ugo Embriaco? Non c'era lui, Caffaro di Caschifellone? Non c'era Pagano della Volta, Ingo Mallone, Ferrario di Castello, e un centinaio d'altri, schermidori valenti e pronti ad ogni sbaraglio?
Con questo pensiero in mente, il nostro Caffaro giunse al campo latino. Tosto gli furono intorno tutti i giovani cavalieri dell'esercito, per saper da lui le novelle. Ma il giovane, che preludiava così facilmente a tutte le onorevoli ambascerie di cui fu ricca la sua vita pubblica, volle anzi tutto recarsi a conferire coi capi; tra i quali, come vi sarà facile argomentare, avea luogo il Carmandino.
Arrigo fremette di sdegno, udendo del tradimento di Bahr Ibn, chè ben altro si sarebbe aspettato da lui; ma, data la sua parte alla rabbia, ringraziò il cielo che Diana non avesse corso pericoli maggiori. Lo Sciarif era, dopo tutto, uno strumento della Provvidenza. Arrigo non aveva forse votato la sua persona al servizio di Cristo, perchè Diana uscisse salva dalle mani degli infedeli? E nella fortunata impresa di Bahr Ibn contro il capo degli Assassini non era a riconoscersi che il voto di Arrigo era stato accolto benignamente da Dio?
Avrebbe voluto accettar subito la giostra. Ma, oltre che era stato risoluto tra Caffaro e Bahr Ibn che questi avrebbe fatto il primo passo, i comandanti dell'armata pensarono che fosse utile maturare il consiglio. E si recarono per ciò sulle galere, con cui erano venuti pur dianzi Pagano della Volta e Mauro di Piazzalunga. Per conferire, dicevano essi, in numero più ristretto di ottimati. Ma Arrigo non intendeva nulla di ciò, e Caffaro nemmeno.
Del resto, erano essi i più giovani, e dovevano rassegnarsi a quel dirizzone dei vecchi, cui pareva il mobile castello di poppa d'una galera luogo acconcio a più saldi consigli, che non fosse la tenda capitana, sotto le mura della assediata Tortosa.