Capitolo XVIII.

Dove si vede che la posta troppo alta confonde il giuocatore.#id___RefHeading___Toc6807_3524169435

La conclusione di quel consiglio, tenuto sulla galera patrona, fu questa: accettare la tregua profferta e l'invito dello Sciarif.

Bahr Ibn mantenne la fede giurata a Caffaro, e quel medesimo giorno un araldo usciva dalla città assediata, per recare la doppia proposta, che fu accettata senz'altro.

La mattina seguente, due squadre di artigiani, l'una genovese e l'altra mussulmana, andavano sul piano del Sicomòro, per metter mano allo steccato. E i maestri di campo si recavano anche essi sulla faccia del luogo, per vedere e per misurare il terreno. Pei Genovesi era Mauro di Piazzalunga; pei Saracini lo stesso emiro di Tortosa.

In un giorno il palco fu rizzato, e chiuso il campo destinato ai combattenti. Vennero a guardia cinquanta cavalieri dalle due parti, e fu solennemente giurato di stare ai patti, qualunque fosse l'esito della disfida.

Arrigo da Carmandino fece nella notte la sua veglia d'armi davanti ad un altare improvvisato, com'era debito d'un buon cavaliere, e promise di consacrare alla Vergine le sue armi e quelle del suo avversario, se mai gli fosse concesso di abbatterlo. Al sorgere dell'alba, consigliato dall'amico Caffaro, prese qualche ora di riposo: ma, come vi sarà facile indovinare, non potè chiuder occhio, tanta era in lui l'ansia di giungere al paragone delle armi.

Il sole era già alto, quando le due schiere mossero verso il piano del Sicomòro. Nella schiera genovese era il fiore dei cavalieri di San Lorenzo, tutti giovani baldi, che invidiavano al Carmandino il suo posto, e che gli sarebbero di grand'animo succeduti nell'arringo, se a lui fosse stata contraria la sorte. Ma di questo non temeva nessuno. Forse che non era Arrigo il prode tra i prodi?

Genova aveva inoltre, a testimone del valore dei suoi figli, uno tra i più alti dignitari della Chiesa, il vescovo Maurizio, legato del Papa in Terrasanta, quegli che, insieme col patriarca Damberto, aveva assistito alla espugnazione di Cesarea. Era uno strano impasto di religioso e di guerriero, il vescovo Maurizio, e, scambio di pastorale, impugnava la mazza in forma di maglio, arma particolare dei vescovi e degli abati, che si trovavano in persona nelle battaglie, secondo l'obbligazione annessa alle loro terre, feudi ed uffici.

Qui sarebbe il caso di ricordare, cogli autori timorati, come fosse vietato agli uomini di chiesa di portar spada e lancia, per toglier loro il biasimo di crudeltà, e consentito in quella vece l'uso della mazza, arme da difesa, e non fatta per uccidere, nè per ferire la gente. Per altro, se al buon vescovo Maurizio si fosse detta una cosa simile, egli sarebbe stato il primo a riderne, anche senza aspettare il riverito parere di Giulio II, che era ancora di là da venire.

I Genovesi erano già al piano del Sicomòro, quando vi giunse l'Emiro, coi suoi cinquanta Cavalieri e con uno stuolo di donne velate. Perchè quella novità? Voleva l'Emiro offrire un po' di svago alle sue mogli, annoiate dalla vita rinchiusa di una città assediata? Od era un sentimento di cortesia per gli avversarii, che gli consigliava di dare alla giostra l'ornamento e lo stimolo della bellezza, secondo la costumanza d'Occidente? Nè l'una cosa, nè l'altra. Quelle donne erano là per volere dello Sciarif. La bella figliuola di Guglielmo Embriaco non doveva essere il premio del vincitore? Era dunque naturale che fosse condotta laggiù, spettatrice del combattimento, che aveva a farla schiava per sempre. Così almeno pensava Bahr Ibn; e il miglior modo di farle intendere la sua sorte e di consigliarle la rassegnazione ai voleri del cielo, era quello di farla assistere alla giostra, e di mostrarle che il suo signore, dopo averla ritolta al capo degli Assassini, sapeva contenderla in giusta guerra a' suoi medesimi concittadini e meritarla colla sua prodezza nelle armi.

E la bella Diana, mutata in una veste femminile la tunica crocesegnata dello scudiero Carmandino, veniva in mezzo a quello stuolo di ancelle, per andarsi a sedere sul palco, davanti alla lizza; con che cuore, lascio a voi di pensarlo.

Bianca nel viso come persona morta, soltanto dagli occhi le traluceva la fede nella giusta causa per cui combattevano i suoi. Alla vista di Arrigo, che s'avanzava allora sul suo palafreno, mentre un valletto gli conduceva a fianco il suo destriero di combattimento, e lo scudiero gli recava la lancia, la bella fanciulla degli Embriaci sentì una stretta al cuore, la stretta acerba che precede il pericolo, e a cui sfugge di rado anche il più valoroso degli uomini. Si recò allora una mano al petto, come per comprimere i battiti violenti del cuore; e la sua mano sentì la sciarpa che le stringeva la vita. Snodar quella sciarpa e sventolarla in guisa di saluto al suo campione, al suo fidanzato, fu un punto solo per lei.

Era tutto ciò che potesse fare quella povera bella. Il braccio le ricadde inerte sulle ginocchia; la fronte si abbassò; un tremito convulso la invase; nè per un pezzo vide più altro di ciò che accadeva davanti ai suoi occhi smarriti.

— Credenti in Dio e seguaci del profeta Gesù, — diceva intanto il banditore dei Saracini, facendosi in mezzo al campo con tutta la solennità del suo nobile ufficio, — il mio signore Bahr Ibn, secondogenito di Abu Temin Maad al Mostanser Billah, il vittorioso Califfo d'Egitto, che Asraele ha rapito anzi tempo alla gloria dell'Islam, scende in campo a combattere con quanti cavalieri cristiani potranno misurarsi seco lui, fino al numero di dodici, quante sono le costellazioni del firmamento. Chi lo vincerà, avrà in premio la perla d'Occidente. Voi tutti, nemici suoi, giurate che, quando egli abbia abbattuto i suoi dodici, a due per giorno, nessuno potrà dire che egli non meriti di tenere la sua conquista, e nessuno ardirà accusarlo di avere profittato soltanto della sua grande fortuna. —

— Giuriamo! — rispose Mauro di Piazzalunga per tutti.

Intanto il giovane Arrigo, lucente nell'armi, riceveva la benedizione del vescovo Maurizio. Il campione di madonna Diana vestiva, secondo l'uso dei tempi, il giaco di maglia, sorta di corazza intessuta strettamente di anella, o maglie di ferro. Del medesimo tessuto erano le maniche e gli schinieri. Una cuffia di ferro sottilissimo gli difendeva le tempie, donde scendeva una gorgiera anch'essa di maglie, per proteggere il collo. Sulla cuffia posava l'elmo di acciaio brunito, sormontato da un grifone colle ali spiegate. Al braccio sinistro del cavaliere era adattata la rotella di cuoio bollito, con un cerchio di ferro all'intorno, perchè non fosse troppo agevolmente troncata e fessa da un colpo di spada.

Fieramente piantato in arcione su d'un destriero morello, tutto bardato di cuoio, con piastre di ferro, Arrigo da Carmandino avrebbe potuto essere paragonato a San Giorgio, nell'atto di muovere contro il dragone.

Bahr Ibn, memore allora più che mai della sua sconfitta sotto le mura d'Antiochia e desideroso di vendicarla, stava immobile dall'altro lato del campo. Montava un cavallo bianco, anch'esso bardato di ferro, ma coperto, a dimostrazione di magnificenza araba, d'un manto di seta verde, ricamato a fogliami d'argento. Gli luccicava sul capo l'elmo aguzzo d'acciaio, senza visiera e senz'altro ornamento fuorchè il verde zendado dei discendenti del Profeta, che era attorcigliato a mo' di turbante intorno alle tempie. Anch'egli indossava il giaco di maglia, sottilissimo e saldo lavoro dei fabbri di Damasco; ma l'armatura si nascondeva sotto un mantello bianco di latte. Al lato manco gli splendeva la spada ricurva dei Saracini; la mazza ferrata pendeva dal pomo della sella, per modo che il cavaliere potesse spiccarla ad ogni occorrenza. In pugno aveva la lancia, il cui calcio posava sul cosciale, poco sopra al ginocchio.

I maestri di campo erano già al loro posto, di rimpetto al palco delle donne. Tutto in giro allo steccato si accalcavano i cavalieri dei due eserciti.

Finalmente gli araldi diedero il segnale convenuto. I due avversarii si saettarono d'uno sguardo, che significava lo sdegno ond'erano animati ambedue, in quella che volevano misurare la probabilità dello scontro; e, dato di sproni nel ventre ai cavalli, si precipitarono a furia l'uno sull'altro. Fu un momento solenne e terribile per tutti gli spettatori, al vedere quelle due lunghe antenne spianate, che muovevano l'una verso l'altra colla rapidità della folgore.

Certo, a parità di forza nel braccio dei cavalieri o di saldezza nelle gambe dei cavalli, l'uno e l'altro dei combattenti dovevano balzare fuori di sella.

Ma così non avvenne. Il colpo dello Sciarif, sviato dal tronco dell'asta di Arrigo, andò a vuoto. E l'asta di Arrigo trovata sulla sua via la rotella di Bahr Ibn, che era tutta d'acciaio levigato, andò in ischeggie senz'altro. Balenò il cavaliere percosso, piegò tutto sul manco lato, come presso a cadere; ma le ginocchia erano saldamente aggrappate ai fianchi del cavallo, e questo, colla intelligenza di tutti i cavalli arabi, diede un balzo a sinistra, aiutando il suo signore a cavarsi d'impaccio, mentre il tronco spezzato della lancia di Arrigo scivolava sulla rotella cedevole dello Sciarif.

Tutto ciò avvenne in un batter d'occhio, e i due cavalli volarono oltre, in mezzo a due nembi di polvere.

Grida confuse, di raccapriccio e di giubilo, salutarono il bel colpo di Arrigo e la salvezza di Bahr Ibn.

— Alle mazze! alle mazze! — gridarono allora i maestri di campo.

Giunti all'estremità della lizza, i due combattenti gittarono i tronchi inutili, e, spiccate le mazze dagli arcioni, voltarono i cavalli, per corrersi addosso con una furia più grande di prima.

Le mazze levate s'incrociarono, rombando nell'aria. Il Carmandino, destro e forte com'era, aveva meditato il colpo e preso il tempo giusto per assestare la mazzata sull'elmo del suo nemico. Ma lo Sciarif rammentava come fosse gagliardo il braccio di Arrigo, e già si era prudentemente coperto il capo colla rotella. Frattanto, sviata un tratto la mazza percuoteva destramente la cervice del cavallo, e d'un colpo così forte, che, malgrado il frontale di cuoio, difeso da piastre di ferro, lo fece stramazzare di botto, in quella che il suo scudo di acciaio, colpito dalla mazza poderosa di Arrigo, andava in frantumi, come se fosse stato di vetro.

Questo aveva preveduto il Saracino. Curvando il capo e le spalle sul collo del suo destriero, e prima che Arrigo potesse raddoppiare il colpo, gli menò un manrovescio alla visiera, che andò spezzata a sua volta, come poc'anzi la rotella dello Sciarif. E al secondo, aiutando il fatto che Bahr Ibn si trovava allora più in alto, tenne dietro un terzo colpo che fiaccò l'ali al grifone del Genovese, e rimbalzò sull'elmetto.

Sbalordito da quella tempesta, messo in un grave impiccio dalla caduta del suo cavallo, Arrigo da Carmandino non ebbe più modo a rispondere.

Bahr Ibn si era rialzato sull'arcione, in tutta la sua alterezza, e la gioia feroce del trionfo gli fiammeggiava dagli occhi. Già stava per sollevare il braccio e ferire un quarto colpo, che avrebbe vendicato davvero l'onta del suo duello d'Antiochia allorquando un grido acuto s'intese. Lo Sciarif volse la faccia al palco delle donne, e vide Diana che cadeva svenuta, fra le braccia delle ancelle.

Fino a quel punto egli non aveva pensato a Diana. Ma quel grido, quell'accento supplichevole della bellezza, gli scese nel cuore, destandovi una corda dimenticata.

— Che dirà essa, se io lo uccido? — pensò. — Non mi basta aver vinto?

E calata la mazza, ad alta voce proseguì:

— Cristiani, udite; concedo la vita ad Arrigo. —

Ciò detto, e mentre uno stuolo di valletti si affrettava ad entrare nella lizza per sollevare il caduto, lo Sciarif si allontanò maestoso dalla parte dei suoi.

E accostatosi a Zeid Ebn Assan, così gli disse all'orecchio:

— Va sul palco, a rassicurare la perla d'Occidente. Il suo antico fidanzato non riceverà altri colpi da me. —

Lo sgomento regnava nelle file cristiane. Si capiva che cagione di quella sconfitta era stato il colpo fuor delle regole cavalleresche, dato sulla cervice al destriero. Ma, oltre che poteva essere un colpo involontario, i ragionamenti più dotti intorno all'accaduto non potevano fare che ciò che era stato non fosse. E Arrigo, il più destro schermidore dell'esercito, era caduto, e Bahr Ibn era illeso.

Tornato nel mezzo del campo, lo Sciarif si volse a Mauro di Piazzalunga e così gli parlò:

— Cristiano, ricordo che Arrigo da Carmandino è stato mio ospite. Io l'ho raccolto morente in Cesarea e l'ho condotto nel deserto con me. Il mio Zeid ha medicato le sue ferite e lo ha campato da morte. Se vi piace, anche una volta il sapiente mio servitore potrà dar l'opera sua al ferito. —

Il maestro di campo ringraziò, quantunque di mala voglia. Ma che altro poteva far egli? L'offerta era cortese, e il bisogno di accettarla era grande. A quei tempi, la scienza aveva patteggiato cogli Arabi, e Galeno ed Ippocrate non avevano migliori sacerdoti dei Saraceni, dopo che questi si erano impadroniti d'Alessandria, la città più dotta del mondo.

Frattanto il caduto era portato via dal campo, fuori dei sensi, e a tutta prima creduto morto dai suoi. Per ventura, non si trattava che di uno stordimento, cagionato dal colpo sull'elmetto, e di qualche lieve ferita al viso, su cui si era spezzata la visiera di ferro. Zeid Ebn Assan, mandato dallo stesso Sciarif e accolto con segni di grande onoranza dai capitani genovesi, visitò con ogni diligenza il ferito, e dichiarò che pericolo di vita non c'era.

Il vecchio Arabo ebbe anzi la fortuna di vedere aprir gli occhi al suo antico ammalato e di udirne le prime parole, che erano un ringraziamento ed una interrogazione.

— Mio signore — gli bisbigliò Zeid all'orecchio, — porterò la lieta novella della tua salvezza alla donna del tuo cuore. —

Gli occhi di Arrigo espressero al Saracino tutta la gratitudine di cui egli era compreso. Ma il pensiero della prigionia di Diana e del non aver potuto egli far nulla per lei, tornò, insieme con quelle parole, alla mente del giovane, che tosto ricadde nel suo abbattimento.

In quel mezzo, i cavalieri di Genova si consigliavano di ciò che avessero a fare. Caffaro di Caschifellone voleva ad ogni costo entrar secondo in lizza; ma si opponevano altri, chiedendo a gara di succedere ad Arrigo. A chetarli, fu proposto di lasciare il giudizio alla sorte; e già si disponevano a tentare la prova, allorquando si udì lo scalpito di un cavallo che giungeva a galoppo.

Si volsero incontanente e videro un cavaliere tutto vestito a gramaglia, su d'un destriero anch'esso bardato di bruno.

— Messeri, — diss'egli, avvicinandosi e rivolgendo la parola ai due figli di Guglielmo Embriaco, — mi concedete voi di combattere contro il rapitore di madonna Diana, vostra sorella? Io ve ne prego, ve ne supplico, per quanto avete di più caro sulla terra.

— E chi siete voi, messere, — disse di rimando Ugo Embriaco, a cui la visiera calata del nuovo venuto non permetteva di conoscer chi fosse, — per nutrire la speranza che noi vogliamo concedervi questo onore?

— Son tale, — rispose lo sconosciuto, con voce tremante per la commozione, — che ha il diritto e l'obbligo di domandare, non già l'onore, come voi dite, ma la grazia di andar primo al pericolo.

— La grazia; — ripetè Ugo Embriaco, che non afferrava il senso di quella distinzione.

— Sì, messere. Ma consentite che io non dica di più. Ad uno di voi, a messer Nicolao, se non vi spiace, dirò tal cosa che lo persuaderà certamente di farsi mallevadore per me. —

La novità del caso avea tolto la parola a tutti gli astanti. Ugo si volse al fratello, che era il maggiore dei due, come per lasciargli la cura di cavarsi d'impiccio, o il carico di prendere una deliberazione in proposito. Messer Nicolao si fece avanti, senza aprir bocca, e avvicinatosi allo sconosciuto, stette ad udire il secreto, che quegli voleva confidare a lui solo.

Alle prime parole del nero cavaliere, il primogenito di Guglielmo Embriaco fece un gesto di meraviglia; ma tosto si ricompose, in atto di severo ascoltatore. Le ragioni dello sconosciuto dovevano essere molto incalzanti, o molto ben disposto Nicolao ad accoglierle, perchè, dopo alcuni istanti di colloquio, questi andò verso il fratello Ugo e gli disse:

— Io penso che dobbiamo lasciare entrar primo in lizza costui.

— Ma lo conosci tu? — chiese Ugo, stupito della pronta condiscendenza del fratello.

— Mi pare; — rispose quell'altro.

— Pare anche a me d'indovinarlo, — riprese Ugo. — E se io non m'ingannassi...

— Dovreste ammettere, fratello mio, — interruppe messer Nicolao con accento tra malinconico e severo, — o la prova dell'innocenza, o la giustizia di Dio.

Ugo Embriaco non aggiunse parola.

— Ma forse v'ingannate, — continuò Nicolao. — Ed ora, messeri, lasciate passare il cavaliere innominato. Io lo conosco e sto mallevadore per lui.

— Grazie! — mormorò lo sconosciuto, chinando la fronte sul collo del suo destriero, come se non gli paresse bastante la visiera dell'elmo a nascondere la sua commozione.

Gli araldi cristiani diedero una seconda volta nelle trombe in segno di sfida, e al loro squillo risposero tosto dall'altra parte le trombe dei Saracini.

Bahr Ibn fu sollecito a ritornare nello steccato, con una nuova rotella al braccio e una nuova lancia nel pugno.

Egli guatava frattanto quell'altro avversario che gli era opposto dal campo cristiano.

— È nero dal capo alle piante come Azraele! — dicevano i suoi cavalieri intorno a lui.

— Ben venga l'angelo della morte! — gridò lo Sciarif. — Egli mi avrà liberato da un peso assai grave. Ma temo, — soggiunse, con un accento tra minaccioso e triste, — che non sarà neppur lui il padrone della mia vita. —

I maestri di campo si fecero innanzi per adempiere al loro uffizio e stabilire le condizioni dello scontro, o, a dire più veramente, per farle conoscere al nuovo venuto, poichè erano le stesse dello scontro antecedente, e Bahr Ibn non aveva ad udirle più oltre.

Come ebbero finito, un gran silenzio si fece per tutto il campo. L'ansietà si dipingeva in varie guise su tutti quei volti abbronzati, ma tra i Cristiani più viva, più profonda, che non tra i Saracini. Questi conoscevano già alla prova il loro campione, quegli altri non sapevano neppure il nome di colui che era venuto così d'improvviso a vendicar l'onta della loro prima sconfitta. Chi era costui? Non poteva anche essere un temerario, che troppo presumesse di sè? E non dovevano per avventura prepararsi ad un nuovo scorno, tanto più probabile, in quanto che tutti conoscevano la somma valentia di colui che era stato vinto dallo Sciarif e altro vantaggio non potevano sperare che da un capriccio di fortuna?

A Caffaro non diè neppur l'animo di assistere al combattimento.

— È una perdita di tempo; — diceva egli a Ferrario di Castello. — E ciò senza contare che questo cavaliere sconosciuto mi torna di mal augurio per gli altri che la sorte chiamerà a succedergli. —

Finalmente, fu dato il segnale. I due campioni erano liberi di andarsi contro l'un l'altro.

Stettero un tratto a guardarsi. Poi lo Sciarif volse gli occhi al palco su cui stavano le donne. Diana era al suo posto, ed appariva più calma. Zeid Ebn Assan stava ritto al suo fianco, e certo le avea recato nuove di Arrigo.

— Per Allah! — disse il forte guerriero tra sè. — Questa volta io non la farò piangere. Chiunque abbia a cadere di noi due, non si tratterà più di vedere in pericolo il suo fidanzato. —

Diede, ciò detto, un'ultima occhiata al suo avversario, e lo vide pronto a partire. Spianò la sua lancia, ne fermò il calcio tra l'òmero e il petto, e lanciò il suo cavallo a carriera.

Il generoso animale sentì l'impulso delle ferree ginocchia, e, caldo ancora del primo incontro, andò veloce come uno strale verso il mezzo del campo.

Chi non sa come il cavallo partecipi alle nostre passioni, alle ire, ai desiderii, agli impeti nostri? Il nobile amico dell'uomo si sente amato e riama, dando la gagliardia dei suoi tendini, l'ardore della sua indole al cavaliere, diventando come una moltiplicazione della forza di lui, mettendo un'altra volontà, un'altra vita, a servizio della sua.

Così Antar, il cavallo prediletto di Bahr Ibn, volava feroce allo scontro.

Anche l'avversario era ben provveduto. Ma il cavaliere riusciva nuovo al cavallo, che riconosceva in lui un padrone, e non sentiva un amico.

Però, all'urto delle due lancie, il cavallo bardato di nero inalberò, e il cavaliere, perduto l'equilibrio, spinto da una forza irresistibile, fu balzato di sella.

Che era egli avvenuto?

Lo Sciarif quella volta aveva mirato più basso di prima. Non voleva che gli fosse sviato il colpo, come già gli era occorso col suo primo avversario. A mezzo il cammino che doveva percorrere, si era curvato quanto più poteva sull'arcione, badando a coprire colla rotella il breve spazio che intercedeva tra il suo petto e il collo di Antar. L'asta del cavaliere innominato urtò sull'elmetto, e scivolò, stracciando la verde fascia dei discendenti del Profeta. Quella di Bahr Ibn entrò fra lo scudo del nemico e l'arcione, trovando il giaco del cavaliere, là dove finisce il costato. La maglia, colta in pieno dal ferro di Bahr Ibn, non resistette, così violento fu l'urto. L'asta in quella vece si ruppe, ma il tronco rimase nella ferita.

Mandò un gemito il disgraziato, e cadde riverso a terra. Lo Sciarif, fornita la sua corsa fino alla estremità della lizza, tornò indietro a briglia sciolta, balzò da cavallo colla rapidità della tigre, e, sguainata la spada, volle dare il colpo di grazia, cercando colla punta l'allacciatura dell'elmo.

— Ferma — gridarono i maestri di campo, accorrendo solleciti.

— Perchè? — gridò lo Sciarif. — Non è questo il mio dritto?

— Sì; — disse Mauro di Piazzalunga; — ma tu colpisci un morto. —

E mostrò a Bahr Ibn il petto squarciato del suo avversario. Il tronco della lancia palpitava nella ferita, e il sangue gorgogliava nerastro intorno alle anella spezzate della maglia d'acciaio.

Bahr Ibn si arrestò e rimise la spada nel fodero.

Intanto erano accorsi i valletti, e insieme con essi il vecchio Zeid, per offrire l'opera sua, quantunque, a giudicarne dalla prima apparenza, la vedesse inutile affatto.

Slacciarono l'elmo e tolsero la cervelliera al ferito. La morte gli stava nel viso. Ma anche tra i lividori ond'era cosparso e le contrazioni cagionate dallo spasimo atroce dell'ultim'ora, fu agevole a tutti di riconoscerlo. Bahr Ibn diede in un grido di stupore e di raccapriccio.

— Gandolfo! — esclamò.

Indi, volgendosi al palco delle donne, soggiunse:

— Perla dell'Occidente, son io che ti vendico!

— Ah, l'avevo pure indovinato! — disse Ugo Embriaco, volgendosi al fratello.

— Orbene? — replicò Nicolao. — Che cosa vi dicevo io? O la prova dell'innocenza, o la giustizia di Dio. Passi la giustizia di Dio: — aggiunse con una voce piena di tristezza, il primogenito degli Embriaci: — e gli uomini si dispongono a perdonare. —

Ciò detto, senza che Ugo ardisse rispondere altro in quel momento solenne, messer Nicolao si avvicinò al suo vecchio amico, la cui vista cominciava ad offuscarsi, mentre le braccia annaspavano, come cercando di aggrapparsi a qualche cosa che lo trattenesse un istante sull'orlo della tomba.

— Povero Gandolfo! — mormorò Nicolao. — Potessi tu almeno morire in pace colla tua coscienza!

— Ho tradito... — balbettava il morente, — ho tradito, sì... ma ho pure, espiato!... Sciarif, rendi la fanciulla.... o morrai.... Quest'oggi morrai.... — incalzò, facendo uno sforzo supremo, per compier la frase, — quest'oggi, come muoio io.

— Pensa a te, bugiardo profeta! — gridò lo Sciarif, inasprito da quella minaccia del moribondo. — Salva te stesso, se puoi.

— L'anima... l'anima vorrei salva... — rispose Gandolfo — E il perdono dei miei... il perdono di madonna.... —

Voleva aggiungere Diana; ma il sangue incominciava a flottargli dalla bocca e non gli consentiva altre parole.

Mauro di Piazzalunga si volse al palco delle donne, e ad alta voce espresse il desiderio del morente.

— Madonna Diana, — gridò, — Gandolfo del Moro chiede il vostro perdono. Concedetelo, e sia per lui l'impromessa del perdono di Dio. —

La fanciulla degli Embriaci esitò un istante, ma più pel turbamento ond'era stata colta da quella sequela di casi, che non per titubanza a concedere. Indi, mormorato un sì, e temendo che la sua voce, soffocata dalle lagrime, non potesse giungere al moribondo, slacciò la fascia che le stringeva la vita e la gettò a Mauro di Piazzalunga.

Lo Sciarif guardava e taceva. Ma fremette, nel profondo del cuore, al vedere quell'atto. Avrebbe cangiato volentieri di posto con Gandolfo del Moro, per ottenere quel segno di perdono da lei.

— Madonna si raccomanda alle vostre preghiere lassù, e vi manda la sua sciarpa: — disse Mauro di Piazzalunga, parlando amorevolmente all'orecchio di Gandolfo. — I suoi fratelli e tutti i vostri concittadini vi hanno perdonato del pari. —

Gandolfo fece uno sforzo per riaprir gli occhi e vedere il dono della fanciulla. Ma non ne venne a capo, e allora si strinse la ciarpa alle labbra.

— A lei... il pensiero; — mormorò; — l'anima a Dio... se vorrà perdonarmi.

— Pregatelo, mio figlio; — egli è il Dio delle misericordie! — disse il vescovo Maurizio, facendo il segno della croce sulla fronte a Gandolfo.

Il disgraziato non rispose più verbo. Tentò bensì di aprire la bocca per balbettare una preghiera. Ma un altro botto di sangue uscì dalle fauci, e Gandolfo del Moro aveva cessato di vivere.

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