Capitolo XX.

In cui si finisce una storia, promettendone un'altra.#id___RefHeading___Toc6815_3524169435

Il triste esito della giornata sul piano del Sicomòro aveva colpito d'alto sgomento i Saracini. La superiorità delle armi cristiane si era solennemente affermata colla inattesa apparizione di Guglielmo Embriaco. Anche questi aveva dovuto comperare la vittoria con qualche goccia del suo sangue: ma lo Sciarif, anima della difesa di Tortosa e speranza dell'Islam in Terrasanta, aveva cessato di vivere.

Tortosa oramai si trovava orbata del suo più valido campione, e, quel che era peggio, obbligata a difendersi dal più terribile avversario che i Saracini potessero avere in Sorìa. Guglielmo Embriaco mostrò, con la prontezza delle sue risoluzioni, che lo sgomento dei nemici non era punto fuori di luogo. I difensori della città noveravano ancora i giorni che sarebbe potuta durare la resistenza, e già nei consigli dell'esercito genovese era deliberato l'assalto.

Arrigo da Carmandino, riavutosi dal suo stordimento, chiese a Messer Guglielmo Embriaco di poter guidare egli stesso le schiere genovesi all'assalto. Il valoroso Testa di maglio, il quale non era andato in Sorìa per togliere ai giovani la gloria di una spedizione che essi avevano già così bene avviata, non volle negare questa consolazione a quel prode congiunto, che egli amava già come un figlio. E l'esercito intiero giubilò, quando seppe che Arrigo da Carmandino, uno dei primi sulle mura di Antiochia, di Gerusalemme e di Cesarea, lo sarebbe stato del pari sulle mura di Tortosa. Il nome del capitano non era per sè stesso di buon augurio all'impresa?

La fama del Giovannita non si era punto scemata per l'esito infelice del suo combattimento collo Sciarif. Rammentavano tutti come Bahr Ibn andasse debitore della sua prima e facile vittoria al colpo di mazza che aveva dato sulla cervice del cavallo di Arrigo, colpo disgraziato, secondo i giudizii più miti, ma sempre contro le norme della cavalleria.

Cento e sessantatrè anni più tardi, sul piano di Benevento, dovevano macchiarsi di grave colpa i cavalieri di Carlo d'Angiò, per aver rotte le schiere di Manfredi, usando il brutto artifizio di ferire i cavalli. E messer Ludovico Ariosto, narrando la pugna di Ruggero e Mandricardo, potè raccogliere la dottrina cavalleresca, intorno a questo particolare nella ottava seguente:

Ferirsi alla visiera al primo tratto;
E non miraron, per mettersi in terra,
Dare ai cavalli morte; ch'è mal atto,
Perch'essi non han colpa de la guerra.
Chi pensa che tra lor fosse tal patto,
Non sa l'usanza antiqua, e di molto erra;
Senz'altro patto, era vergogna e fallo
E biasmo eterno a chi ferìa 'l cavallo.

L'assalto di Tortosa, felicemente riuscito, coperse di gloria il nome Arrigo. E messer Guglielmo, che era stato presente a tutta quella importantissima fazione lodò assai il giovine capitano, pel valore e per la saviezza di cui aveva fatto prova, ottenendo una così splendida vittoria con poco spargimento di sangue.

Non meno lieto dell'Embriaco fu il re Baldovino, che, risaputo appena il felicissimo evento, mandò con gran sollecitudine a Tortosa il suo confidente Folchiero di Chartres, per congratularsi coi Genovesi, e invitare i capi a recarsi in Gerusalemme.

Andarono tutti, e messer Guglielmo condusse la figlia con sè. Del vecchio Anselmo non occorre il dire, perchè questi, nella sua nuova qualità di scudiero, doveva seguire il suo signore, come fa l'ombra il corpo.

Baldovino accolse con grande onoranza i suoi fidi e valorosi amici di Genova, e molto si rallegrò di vedere la bella figliuola dell'Embriaco, che egli aveva già ricevuta nella sua corte, celata sotto spoglie virili, e intorno a cui si era svolta, in quel breve spazio, di tempo, una vicenda così assidua di strane avventure.

Data la parte loro alle cerimonie ed alle feste, il re Baldovino pensò a cavare i frutti di quella visita, impegnando i Genovesi all'imminente assedio di Tripoli. Quell'altra impresa era stata disegnata e doveva essere condotta dal conte di Sant'Egidio, uno dei pochi baroni d'Occidente, rimasti a difesa del regno crocesegnato.

Messer Guglielmo promise, in nome dei suoi figli e di tutta l'armata che essi guidavano. Quanto a lui, era venuto per un ufficio di padre, e doveva ritornare incontanente a Genova, dove lo richiedevano le sue cure di console. Per altro, innanzi di rimettersi in mare, il forte uomo avrebbe voluto assicurare la sorte della sua Diana, dandola in moglie ad Arrigo. Ma qui, dove meno se l'aspettava, occorse l'intoppo. Arrigo non era più libero, e doveva rinunziare ad ogni speranza di felicità sulla terra.

— Padre mio, — diss'egli piangendo, — quando avevo perduto ogni fiducia nelle mie forze e in quelle degli uomini, per rintracciare la vostra diletta figliuola e liberarla dalle mani dei tristi, ho giurato di consacrare il resto dei miei giorni all'Ordine del glorioso San Giovanni, se madonna Diana fosse restituita incolume ai suoi cari.

— E al vostro voto, Arrigo, io son debitrice della mia salvezza; — rispose Diana, non meno commossa di lui. — Questo è volere di Dio; rispettiamolo. Io pure ho giurato. O di Arrigo, o di nessuno. Voi tra gli Ospitalieri di San Giovanni; io tra le vergini di Santa Maria Latina. —

Messer Guglielmo non seppe che rispondere.

Intanto quei due giovani piangevano. E il vecchio Anselmo, che era profondamente pio, ma che credeva altresì non potere certi sacrifizii tornare accetti al Signore, prese di schianto una grande risoluzione.

— Infine, — borbottò egli tra i denti, — un re è un uomo come un altro, e non mi mangerà mica cogli occhi. —

Avete già capito che il vecchio scudiero domandava un'udienza al re Baldovino. E l'ottenne, e là, senza tanti preamboli, con schiettezza da soldato e da marinaio, gli raccontò ogni cosa, dall'a fino alla zeta.

— Mio buon amico, e che ci posso far io? — disse il re, dopo averlo ascoltato con molta benevolenza. — Non c'è che il Papa, per sciogliere i voti dei fedeli cristiani.

— È vero.... — rispose Anselmo; — è proprio vero.... — aggiunse, mentre si recava macchinalmente e poco rispettosamente la mano al capo, per grattarsi la nuca. — Ma ecco qua!.... Il Papa non ha forse un legato in Gerusalemme? E non ce l'avrà mica mandato, io mi penso, per legare soltanto! —

Il re Baldovino, a quella uscita spontanea del vecchio, non seppe trattenersi dal ridere.

— Hai ragione, in fe' mia! — esclamò. — Vedete questo vecchio arcadore, — soggiunse, volgendosi a Folchiero di Chartres, che era stato l'introduttore di Anselmo, — vedete questo vecchio arcadore, che mette un re sulla via! Tanto è vero che i buoni consigli si trovano da per tutto! —

Fu chiamato senza indugio il legato, che era, come sapete, il buon vecchio Maurizio, anch'egli amico dei Genovesi, e spettatore della giostra sul piano del Sicomòro. Delle sue buone disposizioni per tornar utile a messer Guglielmo non si poteva dubitare.

— I Genovesi ci hanno grandemente aiutato, e più ancora ci aiuteranno in questa edificazione del reame di Cristo; — disse il re Baldovino. — È debito nostro, messere, di fare in guisa che il console di Genova se ne parta contento.

— Sire, voi dite il vero; — rispose il vescovo Maurizio. — E poichè noi abbiamo potestà di legare e di sciogliere, possiamo anche rimettere il suo voto al prode Carmandino, al vincitore di Tortosa. Ma pensate che egli ripasserà il mare e il regno vostro avrà perduto un valente campione. È già troppo scarso il numero dei baroni d'Occidente, a cui non sia parso grave di rimanere in Terrasanta, per servizio di Cristo!

— Voi dunque non sciogliereste dal suo voto Arrigo da Carmandino? — disse il re, scosso da quella argomentazione del vescovo.

— Sì e no; — rispose Maurizio. — cioè a dire, vorrei poter conciliare una cosa coll'altra. Il voto è senza fallo una ispirazione del cielo. Ora, se noi ce ne assicurassimo i frutti, anche pagando quell'altro di due cuori innamorati, pare a me che si potrebbe consentire al matrimonio senza rimorsi.

— Pare anche a me d'indovinare il vostro pensiero. Sciogliere il Carmandino dal suo voto, ma ritenerlo con giuramento al nostro servizio. Non è così?

— Per l'appunto; — rispose il legato.

Quel medesimo giorno, alla presenza del re e di tutta la sua corte, il vescovo Maurizio così parlava ad Arrigo da Carmandino e a Diana degli Embriaci:

— Miei figli, Iddio, padre di amore, non accoglie i voti che condannano i cuori ad un eterno martirio. Iddio vuol servi amanti ed operosi. Le tristi prove, durate da voi con tanta costanza e fiducia, gli bastano. In nome di Dio, non accetto il voto di Arrigo che in parte. Sia sposo a Diana, ma resti in Sorìa, dove il regno di Cristo ha mestieri di valorosi campioni, e dove egli potrà essere utile, colle armi di San Giorgio, come se fosse ascritto alla milizia di San Giovanni. —

Piacque la cosa ad Arrigo, che ringraziò con effusione il buon legato, e promise tutto ciò ch'egli volle. Piacque a messer Guglielmo, che si separava da sua figlia; ma la vedeva già signora di un principato in Terrasanta, scambio di lasciarla umile e triste monaca nell'ospizio amalfitano di Santa Maria Latina. Quanto a Diana, che vi dirò? La sua felicità era pari a quella di Arrigo. Del resto, l'amore della fanciulla non era forse incominciato dal giorno che il bel Carmandino aveva presa la croce? E non era giusto che continuasse all'ombra della croce?

Tre anni dopo le cose narrate, e così male, dal vostro servitore umilissimo, tutta la costa di Sorìa era ridotta, la mercè dei Genovesi, in soggezione di Baldovino. Il quale, in ricompensa delle espugnazioni di Malmistra, Solino, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beirut, Acri, Gibelletto, Cesarea, Assur, Joppe, Ascalona, diede in feudo a cittadini genovesi parecchie terre, e alla gloriosa repubblica una contrada in Gerusalemme, una in Joppe, e la terza parte delle entrate marittime di Assur, di Cesarea e di Acri, nelle quali città i mercatanti genovesi avevano un proprio magistrato e vivevano colle leggi loro, come se fossero sempre all'ombra delle torri di Sarzano.

Del resto, carta canta; ed ecco qua il privilegio, come fu vergato in pergamena e trascritto dai Genovesi (in latino, s'intende) sul libro del Comune:

«L'anno della Incarnazione del Signore mille cento cinque, a ventitrè giorni di maggio, nel tempo che il patriarca Damberto presiedeva al governo di Jerusalem, regnante Baldovino, Dio onnipotente, per mano dei servi suoi Genovesi, ha dato la città di Accon (Acri, o Tolemaide) al suo glorioso sepolcro. I quali eziandio vennero col primo esercito dei Franchi, e virilmente si adoperarono all'acquisto di Antiochia, di Jerusalem, di Laodicea e di Tortosa; e loro soli acquistarono le terre di Solino e di Gibello, ed accrebbero all'imperio di Jerusalem le terre di Cesarea e di Assur. A questa così valorosa gente, Baldovino re invittissimo ha dato in perpetua possessione in la città santa di Jerusalem una contrada, e in la città di Joppe un'altra; ed oltre ciò la terza parte di Cesarea, di Assur e di Accon.»

Ho accennato poc'anzi a qualche feudo. Infatti, i due figli dell'Embriaco ebbero l'investitura di Gibello, l'antica Biblo, da essi conquistata. Arrigo da Carmandino ebbe Larissa, e il suo territorio, eretti in contea, e concessi in dote a Diana. Così Baldovino riconobbe, anche in una donna, gli obblighi di gratitudine che aveva verso Guglielmo Embriaco.

Mi domanderete di Anselmo. Il degno personaggio che avete conosciuto fin dal principio di questo racconto, cambiò una terza volta di professione. Era stato balestriere e poi guardiano di casa; in processo di tempo scudiero dell'Embriaco; da ultimo passò ai servigi di Arrigo, o, se vi piace meglio, di madonna Diana da Carmandino.

Perchè bisogna dir proprio Diana da Carmandino. Caffaro di Caschifellone si era acconciato anche lui a chiamarla così. Per altro, non aveva accettato l'invito fattogli da Arrigo, di andare a riposarsi per qualche settimana, nella contea di Larissa, dalle fatiche di quella guerra triennale.

— Grazie, amico; — aveva egli detto ad Arrigo; — io torno a Genova. I felici non debbono essere frastornati dalla gente profana. Fate di bastarvi sempre l'un l'altro. Fra due creature che s'amano non c'è luogo per altri, fuorchè per un angioletto dai capegli d'oro e dalle labbra di rosa. —

A tutti i benevoli, che hanno seguito il narratore fin qui, piacerà di saperne più a lungo, intorno alle vicende di Caffaro. Intendo questa curiosità e vedrò di soddisfarla, raccontando la storia del nostro simpatico personaggio un'altra volta; e sarà più presto che essi non pensino.

Di madonna Diana non vi dirò altro se non questo, che fu una delle più savie e reputate castellane di quel tempo. Non la cantarono trovatori; non andarono Goffredi Budelli a morirle davanti, come alla contessa di Tripoli, sua bella e famosa vicina. Ma tutto ciò si capisce. Beatamente chiusa nel suo amore per Arrigo, visse con lui in un settimo cielo, a cui non giungevano desiderii, nè tentazioni profane. Egli combattendo i nemici del reame, ella beneficando i vassalli, si composero un nido felice, in cui durarono lungamente fidi, costanti, librati in solitudine eccelsa, come una coppia di Numi, ma liberali altrui di quella pietà che solo può dare chi non ha mestieri d'implorarne per sè.

Invidiabile Arrigo!

FINE.

Share on Twitter Share on Facebook