A tutta quella vicenda di casi e di mestizie assisteva in disparte un cavaliere, muto, immobile e solo, che si sarebbe potuto credere un simulacro di guerriero, come quelli che decoravano le sale d'armi delle antiche castella, se tratto tratto non lo si fosse veduto muovere il capo, ora per guardare nel palco delle donne, ora per seguire degli occhi le fasi della giostra.
Nessuno dei cavalieri cristiani si era avvicinato a lui per rivolgergli la parola, nè egli aveva mostrato mai di volersi frammettere nei discorsi degli altri. Pareva che niente lo commovesse, di quanto accadeva sotto i suoi occhi. Alto della persona, poderoso di membra, tutto chiuso nella sua armatura, ravvolto in un mantello bianco, che era segnato sull'òmero da una croce vermiglia, lo si poteva riconoscere a tutta prima per un cavaliere d'alto grido, ma senza altrimenti poterne ripetere il nome. Infatti, egli era andato e rimaneva là, fin dal principio della giostra, colla visiera calata, lasciando immaginare ai più curiosi che si trattasse d'un voto.
In que' tempi, simiglianti stranezze non erano rare. Un cavaliere giurava di rimanere per un certo numero d'anni coll'occhio destro bendato, e non ardiva sciogliersi di per sè stesso dal voto, neanche dopo aver perduto in guerra il sinistro.
Il cavaliere sconosciuto non si scosse neppure alla scena dolorosa della morte di Gandolfo del Moro, nè quando il cadavere fu trasportato fuori del campo. Le braccia incrociate sul petto, il mento chino sulla gorgiera, dinotavano che il cavaliere se ne stava assorto in una profonda meditazione, o che sapeva padroneggiarsi in tal guisa, da non lasciare intendere ad altri qual senso facessero sull'animo suo le cose che accadevano a pochi passi lontano.
La pugna per quel giorno poteva dirsi finita, giusta le condizioni poste dallo Sciarif. E già i due maestri di campo erano per darsi commiato e prender ora pel giorno seguente.
Ma il vincitore appariva poco desideroso di tornarsene in città. Era profondamente crucciato; le ultime parole di Gandolfo del Moro gli stavano ancora sull'anima.
Tutto ad un tratto scosse fieramente la testa, come uomo che abbia presa una risoluzione subitanea, e si avanzò nel mezzo del campo.
— Cristiani, udite; — gridò egli allora. — Il vostro profeta di sciagure mi ha pronosticato la morte per questo medesimo giorno. Se esco dalla lizza, direte che lo Sciarif è stato colto dalla paura. E poi, se è vero che la mia ultim'ora sia giunta, non sarà meglio il morir qui, della morte del guerriero, che per via, o entro le mura di Tortosa, per un malore improvviso e volgare? Rimarrò dunque, per altri due scontri, se vi dà l'animo di tentare la prova, e vedrò subito qual fede meritasse l'augurio. Son fresco ancora di forze; le mie membra non hanno toccato una di quelle graffiature che pure si hanno così facilmente da una mano di donna. A voi dunque, poichè siete uomini; non rimandate il pericolo a domani; io son pronto. —
Le acerbe parole punsero i cavalieri cristiani, a cui bastava assai meno, per uscire da quella inerzia apparente. Invero, nessuno di que' baldi giovani si era attentato di proporre la continuazione della giostra, perchè lo Sciarif aveva detto fin da principio di non volere che due campioni al giorno. Ma poichè egli rompeva la sua legge, balzarono tutti verso lo steccato, gridando di esser pronti del pari; e Caffaro di Caschifellone tra i primi.
— Oramai, — diss'egli, — nessuno vorrà contendere il primo luogo all'amico e al compagno di Arrigo da Carmandino.
— Io ve lo contendo, messere; — gridò Nicolao. — Se voi siete l'amico di Arrigo, io sono il fratello di madonna Diana, per cui si combatte quest'oggi. Neanche Ugo mio fratello potrebbe passarmi innanzi, perchè, se egli è il primo capitano dell'armata, io sono (io, m'intendete?) il primogenito degli Embriaci.
— È giusto! è giusto! — gridarono tutti. — Il primo luogo a messer Nicolao! —
Al giovine signore di Caschifellone dispiaceva quel consenso universale. Già due campioni erano stati abbattuti dal Saracino. Il terzo, poi, non aveva di grande che il nome, e Caffaro temeva a ragione di vedergli fare, per sua imperizia, la fine che avevano fatto i primi due, uno per capriccio di fortuna e l'altro in espiazione de' suoi falli. Comunque fosse, una terza sconfitta in quel giorno sarebbe stata troppo dolorosa, e avrebbe nociuto grandemente al buon nome dei cavalieri di Genova. Perciò doleva a Caffaro di vedere come tutti s'inchinassero al volere di messer Nicolao, ed egli tentò ancora una volta di smuoverlo.
— Sia pure come voi dite; — replicò. — Ma perchè non vorreste concedermi in grazia ciò che sarebbe l'orgoglio di tutta la mia vita? Pensate, messer Nicolao, che i capitani non debbono avventurarsi in ogni maniera d'imprese, che il loro senno e il loro valore sono sacri alla salvezza di tutti....
— Perchè dite voi ciò? — chiese una voce alle spalle di Caffaro.
Era la voce del cavaliere sconosciuto, che credeva finalmente opportuno di rompere il silenzio.
— Sappiate, messere, — proseguì egli, — che i capitani debbono saper comandare, ma altresì combattere all'uopo, come l'ultimo dei loro uomini d'arme. —
Caffaro voleva rispondere. Ma gli parve di conoscere quella voce e rimase perplesso.
— Del resto, — riprese lo sconosciuto, — messer Nicolao non entrerà in lizza contro il Saracino. E di ciò spero sarete contento. Antiochia, il mio cavallo! —
Le ultime parole erano rivolte ad un vecchio scudiero, che pareva le aspettasse, poichè egli fu d'un balzo fuor della cerchia degli astanti, e tornò poco dopo, conducendo un destriero fieramente bardato di maglia e munito d'un ampio frontale d'acciaio.
I cavalieri, che erano pur dianzi così pronti a contendersi l'onore di scendere in lizza, guardarono stupefatti quell'uomo, che si prendeva il primo luogo senza pure domandarlo; indi si volsero a messer Nicolao, e rimasero sbalorditi senz'altro, vedendo com'egli non tentasse neanche di resistere.
— Chi sarà mai?
— Uno dei nostri non è.
— Son tutti a visiera alzata, i nostri campioni; e costui, nelle membra e nella voce, non somiglia ad alcuno.
— E perchè mo' gli lasciano il campo libero?
— Certo, è un campione disceso dal cielo.
— L'arcangelo San Michele!
— O San Giorgio il valente.
— San Giorgio, di sicuro. Vedete come impugna la lancia! —
E il grido corse rapidamente tra le file. Quel cavaliere non era, non poteva essere altri che il glorioso barone San Giorgio. Del resto, una certa somiglianza c'era, tra lo sconosciuto e San Giorgio. Il forte guerriero di Cappadocia non aveva corso anche lui la sua lancia, per liberare una povera principessa dalle ugne del drago?
Era quello il tempo dei miracoli, non lo dimentichiamo. Pochi anni addietro, Sant'Andrea era apparso tre volte ad un prete di Marsiglia, per annunziargli che in una chiesa d'Antiochia si sarebbe rinvenuta la santa lancia, quella appunto che aveva trafitto il costato di Gesù Cristo in croce. E qualche giorno dopo l'invenzione della Santa Lancia, uscendo i Crociati a battaglia, non avevano avuto il soccorso di tre cavalieri vestiti di bianco, che il legato pontificio, uomo a cui si poteva credere senz'altro, affermò essere San Giorgio, San Teodoro e San Maurizio in persona? E in Gerusalemme, nella cappella del Santo Sepolcro, non si ripeteva forse ogni anno il miracolo delle lampade, che si accendevano senza mestieri d'aiuto?
Per altro, se la pia moltitudine dei Crociati credeva ai miracoli, non ci avea fede Bahr Ibn. Egli era in questo un vero discendente di Maometto, che di miracoli ne avea fatto uno abbastanza istruttivo; quello, io vo' dire, di andare alla montagna, poichè la montagna non volea muoversi per andare a lui.
Ora, come ebbe veduto entrare in lizza quel nuovo guerriero, lo Sciarif non seppe trattenersi dal dire:
— È dunque mia sorte di combattere cogli sconosciuti? Il tuo nome, se puoi confessarlo!
— Il mio nome! — esclamò il cavaliere misterioso. — Esso è scritto sulla punta della mia spada. —
A quella fiera risposta Bahr Ibn diede in un ghigno sarcastico.
— Poco fortunate, le vostre spade, o cristiani! Oggi non hanno avuto neppure il tempo di uscire dal fodero.
— Non t'inorgoglire per questo! La fortuna ti ha concesso il suo primo sorriso. Il cielo ti ha dato di uccidere il secondo dei tuoi avversarii, perchè.... così doveva accadere; — soggiunse con pietosa reticenza lo sconosciuto. — Ma Iddio non è già sceso a patti cogl'infedeli, ed io ti consiglio d'implorarne la misericordia nella tua ultima ora.
— Non temo la morte; — gridò esacerbato lo Sciarif. — Ma non foss'altro, per provarti che menti.... —
E senza finir la frase, voltò il cavallo per prender campo, e tornare a briglia sciolta sull'avversario.
Il cavaliere sconosciuto rimase immobile al suo posto; ma appena vide che Bahr Ibn, compiuto il suo tratto di cammino, si rimetteva alla corsa contro di lui, diè di sproni nei fianchi al cavallo, e corse colla lancia spianata, alla volta del nemico.
E qui va notato un fatto, che dimostra come lo sconosciuto facesse a fidanza colla gagliardìa dei suoi muscoli d'acciaio. Scambio di stringere il tronco della lancia tra il braccio e il costato, come portava la consuetudine, prima che fosse inventata la resta da trattener l'arma sulla corazza, egli ne piantò finalmente il calcio tra il petto e i muscoli tesi dell'òmero, che erano così stretti al costato da formare il più saldo degli ostacoli, guadagnando per tal modo la lunghezza d'un cubito. Ora, perchè il colpo non gli andasse sviato al primo intoppo, non occorreva soltanto che il petto fosse gagliardo, ma altresì che il pugno avesse la tenacità inflessibile del bronzo.
E così era di fatti. I due focosi destrieri si toccavano appena, e già l'asta dello sconosciuto coglieva Bahr Ibn sotto la gorgiera, mentre l'antenna di quest'ultimo balenava senza far colpo davanti alla rotella del suo avversario.
Non valse al generoso Antar di tentare uno dei suoi salti di fianco. La lancia del cavaliere misterioso non era costretta a seguire una linea immutabile. Il calcio faceva pernio in un punto solo, e il pugno poderoso che la tenea salda, poteva aiutarla a seguire i movimenti del nemico, mantenendone la punta sul petto di lui. Liberare il suo signore non era dunque possibile; e Antar s'impennò, sbuffando, sotto la spinta gagliarda. Lo Sciarif si strinse colle ginocchia ai fianchi del destriere; lasciò cadere la lancia e le redini; cercò la sua mazza all'arcione, ma non ne venne a capo, respinto com'era da quella terribile antenna. Provò allora ad arrovesciarsi sulla groppa per scivolargli da un lato, come i cavalieri della sua nazione, quando si piegano col petto in fuori per raccogliere un anello, od altro premio della corsa, che sia posato a terra, mentre il cavallo prosegue la via. Ma l'asta del nemico incalzava; il cavallo era impennato; e lo Sciarif cadde miseramente d'arcione.
Se la gorgiera di Bahr Ibn non fosse stata di buona tempra, quel colpo di lancia lo avrebbe certamente finito.
Un grido di giubilo si levò allora nel campo crocesegnato. Finalmente, il cielo veniva in soccorso dei suoi.
— Potrei ucciderti; — gridò lo sconosciuto. — Amo meglio averti prigione. Arrenditi! —
Bahr Ibn si rialzava allora da terra, dopo aver liberato destramente il piè dalla staffa.
— Perchè? — gridò egli, furente dalla patita vergogna. — Se tu mi togli la perla dell'Occidente, a che mi serbi la vita? Difenditi, guerriero, e non mi fare il mercante! Se la tua lancia ha guadagnato una misura sulla mia, questa spada ragguaglierà le distanze. —
Così dicendo, lo Sciarif corse al cavallo, che si era fermato pochi passi più oltre, levò dall'arcione la spada, e si piantò fieramente in attesa.
Il cavaliere sconosciuto non disse parola. Balzò di sella, diè di piglio alla poderosa sua lama e andò verso il nemico, che voleva ad ogni costo proseguire la pugna.
Non è da creder qui che le spade d'allora fossero quali ce le rappresenta l'arte del Quattrocento e dei secoli posteriori, cioè a dire pugnali allungati alla misura di spiedi. Anche pesanti per le nostre braccia disavvezze, quando ci proviamo a trattarne qualche rugginoso esemplare, queste spade non potevano paragonarsi alle antiche, nè pel loro peso, nè per la larghezza della lama, nè pel modo di usarle. Fu solamente dopo la metà del secolo decimoterzo che gl'italiani incominciarono a seguire la nuova usanza dei Francesi, dimenticando gli antichi spadoni a due tagli, per servirsi delle spade da punta, più sottili e più maneggevoli a gran pezza. Le vecchie spade, le spade di Orlando, di Oliviero, e di Uggero il Danese, pesavano intorno a cinque libbre; la lama era lunga almeno un metro, si allargava nel forte fino ad otto centimetri, nel debole si restringeva a quattro. Così larghe e pesanti, dovevano tagliare assai meglio che pungere. Tali erano Fusberta, Durindana, Gioiosa, e tutte le altre spade gloriose dei quattro secoli intorno al Mille; veramente temperate con arte magica, poichè dovevano fendere le armature, e far servizio di ore, di giorni intieri, in mano ai loro possessori. E in quell'arte i maghi più esperti di Sorìa potevano trovarsi a Damasco; quelli d'Italia a Milano.
I due campioni si posero in guardia; lo sconosciuto colla punta in alto, pronto a calare un fendente appena si muovesse quell'altro; Bahr Ibn colla lama poco distante da terra, colla persona a mezzo curvata, per tenersi pronto del pari a ferire e a cansarsi.
Era evidente che lo Sciarif, notata la corporatura straordinaria del suo avversario, mirava a sfuggirgli, e lasciarlo ruzzolar dietro ad un colpo che gli andasse a vuoto, per coglierlo di fianco e scegliere il punto in cui potesse più sicuramente ferirlo. Ma il cavaliere sconosciuto mostrò fin dai primi colpi di non voler essere ingannato che a mezzo. Infatti, calò il suo fendente, ma fiacco, e quasi nel solo intento di palpare davanti a sè, come uomo che brancoli nel buio. Lo Sciarif spiccò un salto e gli fu rapidamente sulla destra. Ma l'altro non si era punto squilibrato, e il suo fendente, rimasto a mezz'aria, non ebbe che a mutarsi in manrovescio, per far capire al Saracino che certe malizie erano fuori di luogo. E perchè la lezione si stampasse meglio nella testa d'uno scolaro, quel manrovescio diè così forte sulla visiera dell'elmo, che la ruppe senz'altro.
Fremette di rabbia lo Sciarif, e, senza badare al sangue che gli grondava dalla guancia percossa, si avventò allo sconosciuto, menandogli un colpo a tutta forza sul capo. Ma non trovò che l'òmero del nemico, perchè questi si era cansato in quel punto, e la lama, dopo aver rotta la maglia, rimbalzò lungo dal corpo, sospinta da un moto repentino del ferito.
La fretta, la bramosìa furibonda di render sangue per sangue, aveva tradito Bahr Ibn. Prima che egli avesse rialzato la lama per raddoppiare il colpo, quell'altro aveva colla manca afferrato la sua spada a mo' di croce sotto gli elsi, e spingendosi sotto misura colla rapidità della folgore, dava del capo a mezzo il petto del suo avversario.
Un masso scagliato da una catapulta non avrebbe fatto rovina maggiore. Lo Sciarif balenò un tratto sulle ginocchia, annaspò colle braccia; lasciò cadere la spada, e andò ruzzoloni sul terreno.
A quel colpo maestro, i Cristiani riconobbero il loro campione.
— Testa di maglio! — gridarono. — È il glorioso Testa di maglio! —
I lettori rammentano certamente, non per merito mio, ma per l'altezza del personaggio, quello che di Guglielmo Embriaco ho raccontato in principio. Nella presa di Gerusalemme il forte uomo aveva rotto in simil guisa l'ostacolo che opponeva al suo passaggio un manipolo di Saracini; e il soprannome di Testa di maglio aveva consacrato l'impresa.
Immaginate l'allegrezza di tutti quei cavalieri, quando credettero di aver conosciuto l'eroe. Immaginate quella di madonna Diana, al cui pensiero già era balenato il dubbio che quel cavaliere sconosciuto potesse essere il padre suo, poichè egli lo ricordava tanto nella voce e negli atti. Il dubbio, ho detto, e non altro. Infatti, come poteva egli trovarsi laggiù, davanti a Tortosa? Ella non sapeva già che Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone, tornati appena dalla trista spedizione di Gaza, avevano spiccato una galera sottile dell'armata di Tortosa, per mandare incontanente a Guglielmo Embriaco l'annunzio di ciò che era avvenuto alle strette di Cades. Non sapeva già, che, un mese dopo l'invio, erano capitate nelle acque di Tortosa altre otto galere genovesi, comandate da Mauro di Piazzalunga e da Pagano della Volta, e che quando lo Sciarif ebbe bandita la giostra di cui essa doveva essere il premio, i comandanti dell'armata genovese non avevano accettato l'invito, se non dopo un consiglio tenuto sulla galera padrona, consiglio segreto, a cui erano stati ammessi soltanto i più vecchi, gli uomini consolari della spedizione, e che era parso misterioso più del bisogno a Caffaro e ad Arrigo.
Udite le tristi nuove di Soria, messer Guglielmo non aveva posto tempo in mezzo, e, con tutte le navi che erano allestite nel porto, si era messo alla via per lo stretto di Messina, donde a golfo lanciato aveva fatto cammino per alla volta di Rodi e Tortosa. Non era sicuro di salvare la sua bella figliuola; ma aveva giurato di vendicarla.
Ma torniamo al racconto, che, per questi cenni necessarii, abbiamo dovuto interrompere.
— Sì, Testa di maglio! — gridò lo scudiero, che poc'anzi aveva risposto al nome d'Antiochia, e che era per l'appunto il nostro Anselmo, il vecchio arcadore, il servo prediletto di madonna Diana. — Testa di maglio, castigo dei miscredenti e dei rapitori di donne! —
Nuove grida risposero alle parole del vecchio Anselmo. Quel terribile cavaliere che ristorava le sorti della giostra e il buon nome delle armi genovesi, era proprio messer Guglielmo, il vincitore di Gerusalemme e di Cesarea, il console del Comune di Genova.
Intanto l'Embriaco era corso addosso all'avversario, per mettergli il ferro alla gola. Si trattenne, per altro, vedendo che lo Sciarif non faceva atto di resistenza, e chiamò i valletti, perchè andassero in aiuto del vinto.
Slacciato l'elmetto, si vide lo sfregio alla guancia; ma questo non era grave, e il sangue che inondava la faccia di Bahr Ibn non doveva esser sgorgato in copia così grande da una così lieve ferita. Zeid Ebn Assan, che era accorso a sua volta, vide pur troppo donde venisse quel sangue. Le labbra del ferito ne erano tutte imbrattate, e ad ogni tanto ne davano fuori, minacciando di soffocarlo.
— Mio signore! — gridò il vecchio Zeid, con voce lagrimosa. — Mio dolce signore! —
E così dicendo, si fece con amorosa cura a sollevare da terra il caduto. Tra lui e i valletti, ne vennero a capo, e l'infelice Bahr Ibn potè finalmente trarre il respiro.
— Aveva ragione il profeta! — mormorò lo Sciarif. — Sono un uomo spacciato.
— Perchè dici tu questo? Vivrai, gloria dell'Islam; la mano dell'onnipotente è ancora distesa su te.
— No, mio Zeid, mi sento morire. Non vedi? — E accennava il sangue che gli fiottava dalla bocca. — Ho il petto infranto, e le menzogne pietose non giovano. —
Zeid Ebn Assan diede in uno scoppio di pianto. Egli bene intendeva come ogni speranza fosse perduta oramai.
— Non piangerei — riprese Bahr Ibn. — Così era scritto lassù. E a me non duole il morire... purchè non mi maledica Diana....
— Essa ti compiange, mio signore! — rispose il vecchio, che aveva veduto la fanciulla degli Embriaci discendere dal palco, e gettarsi nelle braccia del padre, poco lunge da loro. — Il cuore della bionda cristiana è buono, e sa perdonare le colpe d'amore. Ah perchè doveva il destino colpir noi in tal guisa, e privarci di te, quando ne era più grande il bisogno?
— Meglio così — disse Bahr Ibn. — È la morte del guerriero, e niente è più bello... del morir giovani... quando non si spera più nulla dagli angeli della vita. Ditemi... — soggiunse, dopo aver fatto uno sforzo, per rattenere lo sgorgo del sangue dalle fauci; — vive Arrigo? Potrà risanare?
— Si, mio signore. Non gli hai tu accordato generosamente la vita?
— Ah, sono felice di averlo fatto! A lui il mio buon destriero.... datelo a lui il mio fedele Antar! Pregatelo di non odiare la memoria di Bahr Ibn. Era destino che io gli fossi rivale. Chi aveva veduto la perla di Occidente, doveva possederla... o morire. —
Furono le ultime parole di Bahr Ibn, il Fatimita secondogenito dell'estinto califfo del Cairo, o del soldano di Babilonia, come dicevano allora i Cristiani.
Certo, il giovine e valoroso Sciarif meritava una sorte migliore. In quell'indole fiera l'amore aveva destato un incendio, e nell'impeto delle sue vampe gagliarde si era offuscata la ragione. Ma pensiamo, a sua scusa, che era un figlio del suo tempo e della sua nazione, ancor barbara a mezzo, e non dimentichiamo neppure che, giusta il sentimento del vecchio Zeid, le colpe d'amore meritano più facilmente d'ogni altra il perdono dei cuori gentili.
La fanciulla degli Embriaci, campata finalmente da tanti pericoli, sentì di non odiare Bahr Ibn, che l'aveva salvata dal più tristo dei suoi persecutori, e nel candore della sua coscienza pregò pace all'anima dello Sciarif, non ricordando neppure essere egli un infedele, morto lontano da ogni via di salvezza.
Badate, egli non è per sentenza mia che vi parlo così. Tento di conciliare la cosa colle idee del tempo di cui vi ho narrato. Quanto a me, ricordo di aver letto nelle epistole di un padre della Chiesa, non doversi in questa delicata materia giudicare a occhio e croce. «Che ne sapete voi dell'ultim'ora di un uomo? Un angelo può sempre giungere in tempo e bisbigliare non visto all'orecchio del morente la parola che deve aprirgli le porte chiuse del cielo.»
Santo padre della carità! Dopo voi, bisogna confessarlo a nostra vergogna, non è stato più detto nulla di simile.