Le montagne di Galilea e l'antico regno di Giuda

Giunta all'ultimo periodo del mio viaggio, attendevo con qualche impazienza i compensi alle faticose giornate che avevo passato da qualche mese sulle strade dell'Asia Minore. Posso dire che quest'attesa fu soddisfatta? Malgrado i ricordi vivaci e dolci che serbo del mio soggiorno a Gerusalemme, devo confessare che più di un disinganno mi era riservato, e che troppo spesso fu messa alla prova la mia tendenza ad anticipare colla fantasia l'aspetto di luoghi celebri ed a restare quindi fredda dinanzi alla realtà. Fortunatamente io cercavo altro nel Levante che dei paesaggi e dei monumenti. È la vita orientale, ma la vita dell'Oriente cristiano questa volta, che nell'antica metropoli ebraica richiamava anzitutto la mia attenzione; e avrei potuto farmi un'idea dell'ospitalità monastica. Dopo essermi riposata via via sotto il tetto dei mufti, nei palazzi dei principi della montagna, e nelle ville dei consoli, mi apprestavo a vivere sempre più, da Beyrut a Gerusalemme, in mezzo ai numerosi rappresentanti che il mondo cattolico ha tuttora in Oriente. Era un nuovo argomento di studio che mi si offriva per distrarmi dalle aspre emozioni della vita nomade.

Non avevo per altro preso congedo da questa vita ed appena esciti da Beyrut ci ritrovammo [182] alle prese coi mille ostacoli d'un viaggio in Oriente. Non fu che dopo una marcia delle più faticose, iniziata di giorno, proseguita di notte, che raggiungemmo Seida, la nostra prima tappa. Una volta arrivate a Seida, ci affrettammo a battere alla porta del «Khan» francese, perchè Seida ne possiede uno ed i viaggiatori europei, che passano per questa città, lo conoscono bene. Il padrone del Khan è al tempo stesso uno dei più simpatici agenti consolari che la Francia conti in Oriente. Munita di una raccomandazione del console di Francia a Tripoli pel suo collega di Seida, vi fui accolta con una cordialità che mi fece rimpiangere vivamente di non poter farvi una sosta più prolungata sotto il tetto di quel Khan francese. Il console che mi riceveva così simpaticamente ha una numerosa famiglia, forse dieci figli. Riscuote uno stipendio scarso, garantito in gran parte dalla rendita dell'ospizio, il cui ammontare diminuisce continuamente. La carovana che veniva a sorprenderlo era composta di circa venti persone, senza contare le guide, i mulattieri e la mia scorta indigena. Non avevamo mangiato da circa ventiquattr'ore, ed avevamo passato una notte senza sonno. Nondimeno ci saremmo fatti uno scrupolo di far colazione a spese di un ospite di cui conoscevamo la situazione difficile e ci proponevamo, dopo una breve visita al console, di andare a far colazione con provviste comperate al bazar sotto i primi alberi che avremmo incontrato all'escire di città. L'estrema cortesia dei console non ci permise di eseguire un piano così ben architettato. Comprendemmo facilmente che le insistenze del nostro ospite non erano vane formole di urbanità. Alle nostre reiterate obbiezioni egli oppose argomenti [183] irresistibili conducendoci in una sala da pranzo ove, su una tavola imbandita all'europea, fumava in nostro onore una splendida colazione. Fu necessario allora di arrendersi ed il console francese venne tanto più facilmente a capo de' miei scrupoli in quanto che l'Asia non era rappresentata in quell'imbandigione che da frutti squisiti e da eccellenti confetture.

E mentre noi facevamo una così gradevole colazione il nostro seguito era trattato colla medesima liberalità, sicchè lasciammo il Khan francese con un sentimento di gratitudine che il miglior pasto non basta talora a suscitare. Ci rimaneva da raggiungere Gerusalemme il più presto possibile. Il console di Seida ci diede tutte le indicazioni necessarie e, secondo il suo consiglio, ci avviammo invece che a Giaffa a Nazareth donde un giorno o due di marcia dovevano condurci a Gerusalemme.

Il rimanente di questa giornata così ben cominciata passò senza incidenti; terminò, dopo una marcia abbastanza lunga, in una locanda di Sur (l'antica Tiro). Il padrone dello stabilimento era una specie di meticcio, mezzo europeo e mezzo asiatico, il cui aspetto triste ed abbattuto ci prometteva un cibo magro, promessa che fu mantenuta anche troppo. Si deve credere che l'antica Tiro abbia esistito là dove oggi sorgono le umili case di Sur? Se è così, non è mai accaduto che una città grande e potente sia scomparsa più completamente sotto orribili ciarpami. Come? Nemmeno un fusto di colonna! Non un arco, non un pavimento! Palmira, Balbek, Ninive hanno lasciato vestigia di preziose rovine. Ove sono le rovine di Tiro? Il mare ha senza dubbio inghiottito [184] tutta la capitale del re Hiram. Quanto a Sur, è una piccola e brutta città, senza carattere nè originalità, eretta in una pianura ove il sole di Siria non lascia crescere nessuna vegetazione.

La giornata seguente fu una delle più tristi del nostro viaggio. Appena il sole era apparso sopra le montagne della Galilea, noi eravamo in cammino lieti di lasciare quella malinconica locanda di Sur. La strada che dovevamo seguire lungo il mare non aveva per altro nulla di attraente; era stata recentemente il teatro di una scena sanguinosa. Un piccolo bastimento, comandato da un capitano arabo e noleggiato da pellegrini greci, spinto sugli scogli dai venti, era venuto a naufragare presso la costa. I disgraziati pellegrini, in maggioranza donne e vecchi, riempirono tosto l'aria delle loro grida di disperazione. Furono trasportati a terra dal capitano e dai marinai arabi della navicella, in vista di una ventina di cavalieri che si erano adunati sulla spiaggia; ma man mano che sbarcavano cadevano sotto i colpi di assassini che li massacravano e si impadronivano delle loro spoglie. Non uno di quei poveretti era scampato alla morte ed il capitano arabo era sospettato d'aver provocato il naufragio per saccheggiare i passaggeri d'accordo coi cavalieri della costa. Il capitano era stato arrestato, ma s'era tratto d'impiccio col pagare una parte del prezzo del sangue. I cadaveri dei naufraghi erano rimasti esposti sulla riva senza che nessuno si desse la pena di seppellirli. Tale era per lo meno la voce pubblica, ma ebbimo la fortuna di non scorgere alcuna traccia di quel recente massacro. Secondo tutte le apparenze gli uccelli di rapina delle vicine montagne avevano già terminato il loro banchetto.

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L'aspetto dei luoghi che attraversavamo non era punto fatto per distrarmi dalle impressioni destate in me dal racconto del massacro di Sur. Un calore opprimente gravava su di noi. I piedi dei nostri cavalli affondavano, fin sopra la caviglia, in una sabbia cocente. Alla nostra sinistra, al posto del Libano incoronato di villaggi, avevamo le aride montagne di Galilea. Dopo qualche ora di marcia, raggiungemmo una specie di oasi costituita da qualche cespuglio con un tenue filo d'acqua che serpeggiava fra quei pochi arbusti. Ci parve prudente di sostare attendendo con pazienza all'ombra di quella macchia, che il sole cominciasse a declinare, ma dovemmo pentirci amaramente di tale decisione. Quando volemmo rimetterci in cammino ci accorgemmo che una strana malattia aveva colpito i nostri cavalli. La maggior parte delle nostre cavalcature, che sembrava avesse goduto fino allora d'una salute eccellente, non si trascinava più che con un'estrema lentezza. Madide di sudore, l'occhio spento e la pelle gelata, quelle povere bestie sembravano agonizzanti. Ci risolvemmo a mandare innanzi i più malati sotto la sorveglianza di uno dei nostri domestici, buon tedesco del Ducato di Baden, molto pio ed onestissimo, per ciò che ci risultava; poi, pensando che gli altri cavalli avrebbero sempre facilmente raggiunto la nostra avanguardia, demmo loro qualche istante di riposo. Sgraziatamente questa nuova sosta non fu meno fatale della precedente. Ci eravamo appena rimessi in cammino, quando uno dei nostri cavalli, di una buona razza d'Anatolia, si fermò fra i gemiti. L'uomo che lo cavalcava saltò a terra e si rassegnò a seguirci adagio tirandolo per la briglia. Un altro cavallo [186] diede ben presto gli stessi segni d'esaurimento e pochi passi più in là incontrammo il nostro Badese che ci aspettava a fianco di un cavallo turcomano steso al suolo e prossimo a spirare. Egli ci confessò poi d'aver mancato di pazienza e di esser ricorso, per combattere la spossatezza del cavallo, ad un mezzo poco caritatevole, quello di spingerlo dinanzi a lui coprendolo di bastonate.

Continuammo alla meglio la nostra marcia fra i lamenti dei cavalli e le imprecazioni dei cavalieri, ma malgrado i nostri sforzi il sole tramontò prima che avessimo potuto raggiungere un villaggio designato per la nostra sosta notturna e di cui credevamo di avere perfettamente ritenuto il nome. Per evitare il ritorno degli incidenti della giornata ero decisa di non fermarmi più prima di essere arrivata alla meta. Proseguivo dunque malgrado l'oscurità fidandomi delle indicazioni del dragomanno e credendo di trovarmi sulla strada del villaggio. D'un tratto m'accorsi che nella mia premura avevo lasciato dietro a me tutta la mia scorta. Non mi vedevo più al fianco che mia figlia Maria, il dragomanno e due domestici. Questi mi tranquillarono sulla sorte de' miei compagni che dicevano seguirci alla meglio rianimando le loro cavalcature. Stimolai allora di nuovo il mio cavallo mentre il nostro dragomanno ci precedeva nell'atteggiamento di un uomo che ha sempre il suo posto segnato dalla natura nelle prime fila. Illusi da una presunzione così sicura di sè, cavalcavamo dietro di lui con una ingenua fiducia che doveva ben presto essere punita. Infatti il dragomanno non sapeva meglio di noi dove andassimo. L'oscurità intanto cresceva, le rocce prendevano [187] intorno a noi forme bizzarre, il menomo cespuglio si trasformava ai nostri occhi in un gruppo di viaggiatori in ritardo, le strida degli uccelli notturni risuonavano alle nostre orecchie come voci umane. Quanto ai nostri compagni, ne avevamo decisamente perduto le traccie.

Che brutte ore si passano lottando così contro la stanchezza della marcia aggiunta alle allucinazioni dei sensi! E con qual gioia febbrile sono accolti, dopo momenti simili, i primi indizi di una abitazione umana! Fummo debitori di tal sentimento ad un profumo di aranci che ci avvolse d'un tratto come in una nube. Questo profumo benedetto ci annunciava la vicinanza d'un giardino, d'una casa, forse di un villaggio. Rianimati dalla speranza spingiamo i cavalli nella direzione di quell'olezzo inebriante e penetriamo in un labirinto di freschi boschetti irrorati da acqua corrente! Giunti tosto nel bel mezzo di un orto folto ci troviamo ai piedi di un pendio sormontato da case. Un fuoco di stramaglia al quale si scalda una vecchia donna dal viso tatuato in bianco e nero ci attira su una spianata che costeggia la collina. Domandiamo notizie del resto della scorta. «Sonvi viaggiatori nel villaggio che si scorge da qui?» - «Nessuno» risponde la vecchia.

- Nessuno? ma che succederà di noi? Una donna, una bimba, due uomini ed un dragomanno, senza denaro e quasi inermi, a cavallo di bestie malate: c'era di che agitarsi seriamente. Il dragomanno ordinò alla vecchia di condurci dallo Sceicco del vicino villaggio. Essa, dopo qualche momento di esitazione, si mise a correre dinanzi a noi. Risparmio al lettore i particolari di ciò che accadde quando la seguimmo in un villaggio [188] diverso di quello in cui ci aspettava la nostra scorta e, scoperto quest'inganno, raggiungemmo finalmente i nostri compagni accampati come potevano in una casa araba del primo villaggetto che avevamo scorto. Questi incidenti mi ricordarono altre noie di cui già avevo avuto occasione di parlare narrando le mie prime impressioni di viaggio. La notte che seguì una peregrinazione così laboriosa non mi procurò per colmo di sventura alcun riposo. La camera che mi attendeva non era coperta dal tetto che a metà e il vento che vi turbinava a suo agio sollevava le ceneri del focolare in guisa da rendere impossibile il sonno.

Malgrado gli inconvenienti di un asilo così misero, ci decidemmo a passarvi la giornata seguente per medicare i nostri cavalli e numerare le nostre perdite. Avevamo in tutto tre cavalli morti e tre altri gravemente ammalati. Ma cos'era questa malattia? Avevano mangiato qualche erba velenosa? Avevano bevuto troppo presto dopo il loro pasto d'orzo? Il cavallo d'Oriente abbeverato prima del tempo è di fatti colpito sovente da una paralisi, che si cura con bagni freddi alternati a moto forzato. Del resto nessuno di noi seppe scoprire la causa del male che ci aveva fatto passare una così triste giornata dalla nostra partenza da Sur. Quelle povere bestie erano state trasportate in una prateria all'ombra di fichi, ove le nostre tende erano state rizzate. Il cadavere di uno de' miei cavalli favoriti, ch'era fra i morti, era stato deposto poco lontano; dovemmo faticar molto a strappare di là, quando giunse l'ora della partenza, un grosso mastino stabilitosi a sentinella per scacciare gli uccelli di rapina e gli sciacalli che ronzavano [189] intorno. Strana cosa queste affezioni che si stabiliscono fra taluni animali e che si possono osservare sopratutto in Oriente! In un paese ove i rapporti degli animali cogli uomini sono rari, essi tendono ad associarsi fra loro e serbano una specie d'indipendenza assai più interessante a parer mio della sottomissione delle razze addomesticate dei nostri paesi.

Il martedì della settimana Santa giunse quando camminavamo di buon mattino sulla via di Nazaret con una pioggia dirotta tra i valloncelli ai quali sovrastano le montagne della Galilea. Essi sono deliziosi coi loro lauri, con mirti alti come le nostre quercie e che intrecciano le loro ombre sulle aiuole verdi e fiorite. Salvo una caduta che feci, ma che, per l'abilità del mio buon cavallo Kur, non ebbe alcun seguito pericoloso, la giornata si era svolta normalmente. Non ebbimo altro guajo fuor dell'arrivo a Nazaret a notte fatta, quando poche luci sparse nella campagna ci preannunciarono sole il celebre villaggio. Entrammo nelle sue strade senza poter distinguere nulla intorno a noi, sinchè la nostra carovana si fermò dinanzi alla porta d'una casa d'aspetto europeo. Un frate francescano stava sulla soglia con una fiaccola in mano. Avevamo raggiunto il nostro asilo; e non fu senza una profonda emozione che udii il monaco darmi il benvenuto in italiano e con quell'accento del settentrione della penisola al quale la mia infanzia è stata avvezzata. Provavo una gran gioia a sentir risuonare sotto la volta di un chiostro orientale le pie formule che avevano così spesso eccheggiato alle mie orecchie nelle campagne di Lombardia. E perchè lo nasconderei? I canti dei mufti e la glorificazione del santo nome di Allah cominciavano a stancarmi alquanto. [190] Non avevo nulla a ridire contro il Dio dei mussulmani; ma sapevo ormai che pensare di coloro che lo invocano dal gorgo delle sensualità con labbra corrotte dalla menzogna. Mi sembrava che il Dio dei cristiani era ben differente; così la mia anima, rimasta fredda alle solenni invocazioni dei mufti, si associava con slancio alle umili preghiere del frate di Nazaret indirizzate alla Vergine Maria ed a San Francesco. Con questo arrivo a Nazaret io entrava in un mondo interamente nuovo. Avevo visto la società mussulmana, sapevo quali fossero nell'Asia Minore i risultati del regime creato dal Corano. Quale poteva essere in Oriente l'azione del Cattolicismo? Come mantiene la sua influenza fra sette rivali e di fronte alla religione mussulmana? Mi ponevo questi problemi, mentre ammiravo la bella cameretta ove stavo per passare la notte. La casa dove ero scesa a Nazaret apparteneva al convento dei Cappuccini; è specialmente destinata ai viaggiatori, perchè le donne non sono ammesse nell'interno del convento. La mia camera era a volta, secondo l'uso di tutti gli appartamenti in Palestina ed era scavata in una specie di torre. Un letto di ferro, un mobilio semplice e comodo, tutto mi vi ricordava la buona ospitalità dell'Europa... e nondimeno io mi trovava a Nazaret! Entravo in una regione consacrata dall'adorazione di tutte le epoche. M'ero dapprima rammaricata di dover giungere a notte alta; qualche ora più tardi me ne rallegravo perchè avevo così ritardato una prova penosa e singolare alla quale ho già accennato, vale a dire l'incapacità di trarre dalla vista reale dei luoghi celebri le emozioni che me ne procura in qualche guisa la contemplazione interiore ed anticipata. Avevo già provato [191] una delusione analoga ad Atene ed a Roma. Mi ricordo ancora d'aver invidiato, nella pianura di Maratona, l'emozione che il ricordo di Temistocle suscitò in uno de' miei compagni di viaggio. Quest'uomo intelligente e colto aveva uno spirito più positivo che poetico; ma io vidi una lagrima scorrere sulle sue guancie e per me, lo confesso a mia vergogna, tutto ciò che potei osservare nella mia visita a Maratona fu che in quel giorno vi faceva molto caldo.

Finalmente si levò il sole ed io corsi alla mia finestra impaziente di paragonare la realtà collo spettacolo adombrato tante volte in sogno. Ed ecco ciò che potei vedere. La casa dei Francescani, fabbricata nella parte bassa della città, che è scaglionata sul pendio di un monte, dominava da un lato il fondo della valle, mentre dall'altro guardava la città che si svolgeva in anfiteatro sopra la mia testa. Il colpo d'occhio era ammirevole. Casette bianche, intramezzate da fresche ombre, fra le quali spiccavano i fiori purpurei del melograno, risaltavano vigorosamente sulla terra rossiccia. Tutto il paesaggio era una festa per gli occhi; ma, ahimè, invano io cercava fra le donne arabe di Nazaret i tipi che si era foggiata la mia immaginazione, invano invocavo i grandi ricordi della Bibbia e del Vangelo. Nulla valeva ad eccitare in me quell'entusiasmo che tanti spiriti eletti aveano provato messi in presenza di quegli stessi luoghi. Umiliata e scoraggiata andai alla ricerca del Padre Cappuccino che doveva farmi gli onori di Nazaret. Egli mi addusse alla chiesa dell'Annunciazione, poi nei vari santuarii eretti nelle località indicate dalle Scritture. Senza discutere l'autenticità del monumenti di Nazaret, dirò soltanto in [192] cosa consistano. La chiesa dell'Annunciazione, piccola e bizzarramente costrutta avendo la navata centrale meno profonda di quelle laterali, sovrasta ad una cappella sotterranea ove vien mostrata la colonna dinanzi alla quale la Vergine sarebbe stata inginocchiata quando ricevette la visita del Messaggero Celeste. Osserviamo frattanto che i padri di Terrasanta collocano in grotte sotterranee il teatro di tutti i grandi avvenimenti dell'antico e del nuovo Testamento. Questa circostanza si spiega colle abitudini che durano ancora in quella popolazione che scava volentieri le sue dimore nel fianco dei monti. A Nazaret la vita deve esser stata parecchi secoli or sono tal quale è attualmente. Mi fu additata ancora una cappella eretta sul posto ove Gesù Cristo si rifocillò co' suoi discepoli, un'altra destinata a consacrare gli avanzi della casa abitata da Giuseppe. La cappella ha muri imbiancati a calce e finestre adorne di tendine bianche colorate in rosso. Ripugna di collocare in un luogo simile le scene dell'infanzia di Gesù. A dir il vero l'origine delle indicazioni che si danno qui sulle varie località illustrate dalle scene del Vangelo non rimonta al di là dello stabilirsi a Gerusalemme della Custodia di Terrasanta. Quei buoni frati sono stati i grandi raccoglitori delle tradizioni locali. Su tutti i punti che esse segnalavano alla nostra venerazione, hanno eretti santuarii e monasteri. Come si potrebbero biasimare d'un eccesso di credulità che testimonia dopo tutto di una fede ardente? Val meglio accogliere le loro narrazioni colla simpatia che merita ogni slancio d'ingenua religiosità, ma colla riserva eziandio che bisogna recare sempre di fronte a testimonianze trasmesse, e spesso fors'anche alterate, dalla tradizione orale.

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Il paese che si attraversa da Nazaret a Gerusalemme è l'antico regno di Giuda; la popolazione che l'abita è oggi come un tempo temuta per il suo carattere feroce e per la sua scostumatezza. Sulla strada da Nazaret a Gerusalemme s'incontra anzitutto Naplusa, l'antica Samaria, dopo aver oltrepassato una pianura incolta e deserta, sulla cui sinistra sorge il Monte Tabor. Dinanzi al viaggiatore si svolgono paesaggi votati alla siccità; una atmosfera infuocata vi stanca il petto dell'uomo e denuda il suolo da qualsiasi vegetazione. Le torture della sete divengono insopportabili. Quanto ai buoni samaritani di cui parla il Vangelo, non conviene cercarli in quelle cittaduzze inerpicate sulle vette dei monti vicini e che evita ogni pellegrino prudente. Le nostre guide, due cristiani cattolici di Nazaret, ci raccontavano lungo la strada storie poco rassicuranti che concordano troppo bene coll'aspetto sinistro della contrada. La nostra prima notte trascorse a Gienim, piccola borgata ove fummo ospitati nella casa di un medico che per il momento si trovava a Gerusalemme. L'indomani riprendemmo la nostra marcia attraverso solitudini alpestri in cui non si poteva disconoscere la bellezza dei contorni. Roccie di forme bizzarre si sovrapponevano intorno a noi, macchiate qua e là sui dorsi rossastri da zone scure che vi indicavano abitazioni umane. In riva ai torrenti inariditi crescevano lauri rosati ed ulivi secolari. Avvicinandomi a Naplusa, il carattere fosco di quelle lande desolate, che vieppiù si accentuava, mi ricordava, quasi a mio malgrado, la storia sanguinosa dei re di Giuda. Su quelle vette scoscese erano stati eretti i templi di Baal; in quei selvaggi valloni avevano echeggiato i canti blasfemi. Con [194] qual piacere salutavamo le oasi che recano in mezzo a quelle sabbie ed a quelle pietre la freschezza delle vive sorgenti ed il profumo dei fiori di campo! Ma le oasi sono purtroppo molto rare e non consiglierei mai ai temperamenti melanconici, come una distrazione, un viaggio nell'antico regno di Giuda. Il più intrepido esploratore che fosse condotto cogli occhi bendati da Marsiglia ai dintorni di Naplusa sarebbe colto da un senso di terrore al cadergli della benda che gli scoprisse per la prima volta quella terra sciagurata.

Naplusa contrasta coll'orrore dei luoghi circonvicini. Protetta da boschi di ulivi e di fichi, l'antica Samaria mi sembrò un asilo delizioso e sarei stata felice di riposarmi in quella città dalle fosche impressioni che mi avevano accompagnata a partire da Nazaret. Ma eravamo al Venerdì Santo, non ci rimaneva che un giorno per arrivare a Gerusalemme per le feste di Pasqua. Dovevamo passare la notte in un villaggio a due leghe da Naplusa. Forti della nostra decisione, senza entrare in Naplusa proseguimmo verso la nostra meta ancora lontana traversando le montagne sulle quali è tuttora additato il pozzo di Giacobbe, quello stesso accanto al quale il Cristo incontrò la Samaritana. Agli ultimi bagliori del crepuscolo, scorgemmo un ammasso di pietre recinto da un piccolo muro in rovina; era il celebre pozzo. Debbo soggiungere che alcuni de' miei compagni, che ci raggiunsero lì accanto dopo aver seguito un'altra strada, avevano veduto per conto loro un pozzo designato come il teatro del colloquio di Gesù colla donna di Samaria. Qual'è la vera tradizione? Dovetti rinunciare a scoprirla.

La giornata seguente doveva terminare a Gerusalemme. Durante la nostra marcia verso la città [195] santa noi incontrammo parecchi arabi che ritornavano da una festa costituente, secondo mi si disse, la Pasqua mussulmana. Per la prima volta potei osservare testimonianze non equivoche dell'odio dei maomettani contro i Cristiani. Gli uomini che si scontravano con noi ci lanciavan dietro ingiurie e maledizioni grossolane. Fui sul punto di perdere la pazienza e di chieder conto a quei burberi pellegrini della loro condotta inurbana. Fortunatamente avevo messo in quel giorno nell'arcione della mia sella un volume di «Don Chisciotte» e mi bastò per riacquistare la calma di gettare gli occhi sul romanzo ironico del Cervantes. Più tardi a Gerusalemme riconobbi che un piglio schietto e qualche frase scherzosa mantengono senza troppa fatica i buoni rapporti fra il cristiano e l'arabo più fanatico. Bisogna fare attenzione di non mostrare a quest'ultimo collera o paura che l'arabo interpreta come sintomi di debolezza e che lo rendono allora spietato. Miss Harriett Martineau attribuisce al suo abito la cattiva accoglienza che riceveva spesso dagli orientali. La malevolenza di cui essa si lagna tocca a tutti i cristiani che non sappiano recare fra le popolazioni mussulmane una forte dose di tatto e di buona volontà.

Al momento in cui facevo queste riflessioni, la giornata volgeva al termine. Già da qualche tempo osservavo che i villaggi appollajati sulle montagne divenivano più numerosi, e che i gruppi dei viaggiatori, che andavano e venivano intorno a me, si moltiplicavano. Il sole stava per coricarsi dietro alle montagne prossime al mare, quando scorsi le mie due guide immobili ed a capo scoperto sul vertice del pianoro che sorgeva a pochi passi di distanza, e corsi a raggiungerli. Ciò che le mie guide [196] avevano scorto erano le mura merlate di Gerusalemme che coronavano una collina posta di faccia al pianoro. Dietro a quelle mura una linea azzurrognola che si fondeva nell'orizzonte indicava il mare di Galilea. Mi abbandonai per un tratto alla contemplazione di quel grandioso spettacolo. Uno strano tumulto si rivelava in me; sentivo contrarsi la mia gola ed i miei occhi riempirsi di lagrime, come se avessi ritrovato una patria più antica di quella da cui era esiliata. Cosa strana, questa sensazione di benessere, di gioja intima non mi lasciò mai durante il mio soggiorno a Gerusalemme. L'arrivo in questa città sconosciuta aveva per me tutto il fascino del ritorno.

Alcuni minuti di buon galoppo ci condussero sotto le mura di Gerusalemme e davanti alla porta di Damasco. Non lontano da questa sorge la casa che i francescani tengono a disposizione dei viaggiatori, e le ombre della notte scendevano appena sulla città quando smontammo dinanzi all'ospizio che era ingombro di pellegrini. Si trovò per altro per me una camera abbastanza comoda, mobiliata all'europea, ciò che aveva un gran valore ai miei occhi. Ben presto vi fui insediata e vi passai in un raccoglimento pieno di serenità la prima notte del mio soggiorno nella città del Cristo.

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