I Monumenti della Bibbia e del Vangelo a Gerusalemme

L'indomani era alzata di buon mattino per recarmi con uno dei Padri alla chiesa del Santo Sepolcro ed al Calvario. Mi ero sempre immaginata il Calvario come una collina dominante la città santa, e non fui poco sorpresa di dover seguire per giungervi una strada in discesa. La Chiesa del [197] Santo Sepolcro è costruita in una depressione: non mi fermerò a descrivere l'interno. Se non avete letto le numerose narrazioni dei pellegrini che l'hanno visitata, potete figurarvi una chiesa cristiana del Medio Evo, non ancora terminata, che offre le linee curve, le vaste arcate che si possono osservare negli antichi monasteri lombardi di Pavia e di Monza. A sinistra della porta si erge una grande torre mezzo diroccata; a destra sporge come un saliente una cappelletta sormontata da una cupola. Chi entra nella basilica si trova dapprima in un ampio vestibolo che contiene nel muro di sinistra una specie di palco riservato al «Cadi» mussulmano ed ai suoi assessori. Questo tribunale permanente sarebbe stato richiesto (mi fu riferito dagli stessi cristiani) come il solo mezzo di porre un termine ai conflitti delle tre comunioni cristiane che si scontrano nella chiesa. Pochi passi più in là si giunge nel corpo principale della basilica, cioè in una rotonda che ha i lati guarniti di cappelle e nel centro un altar maggiore. Presso l'altare una piccola porta bassa conduce nel santuario che racchiude la tomba del Cristo. Una camera quadrata in fondo alla porta d'ingresso è riservata al culto greco. Ecco tutto il monumento. Ciò non vuol dire che ci si debba fermare a quest'aspetto generale poco significativo; l'interesse proviene dall'esame dei particolari e sopratutto delle varie cappelle contenute nel recinto della chiesa.

La mia attenzione fu attratta innanzi tutto dalla cappella dei Cristiani d'Abissinia. Essi erano abbastanza numerosi quel giorno dinnanzi all'altare, ed il loro aspetto mi colpì. Uomini d'alta statura, di tratti regolari, non ricordavano la razza africana che coi loro capelli crespi, il colorito bruno e le labbra un po' spesse. Una sorta di sajo in [198] tela bleu, un mantello dello stesso colore, un largo turbante e dei sandali componevano il loro vestiario. Dopo la cappella degli abissini ne visitai parecchie altre; ad ognuno degli episodi della Passione corrisponde un santuario. Come supporre che uno spazio così ristretto come quello della chiesa del santo Sepolcro, costruito sul posto stesso sul quale sorgeva il Calvario, sia stato sufficiente allo svolgimento di tanti diversi episodi del grande mistero? I protestanti criticano questa pretesa dei cattolici di rintracciare e venerare tutti i luoghi citati nel Vangelo. Confesso che su tutta questa topografia sacra io non ho che dei dubbi, per quanto la buona fede dei frati mi sembri evidente, ma ho già detto con qual sentimento mi paja che si debbano accogliere le loro ingenue indicazioni.

Esciamo ora dal Santo Sepolcro, cerchiamo i ricordi di Gerusalemme in luoghi un po' meno frequentati dai viaggiatori. Le mura della città santa non sono uno de' suoi monumenti meno curiosi. Se havvi una città al mondo che serbi intatte le fortificazioni delle quali fu dotata dal Medio Evo, è certo Gerusalemme. Le basi di queste fortificazioni dal lato della valle di Giosafat e del monte degli ulivi sono immense pietre levigate di quindici a venti piedi di lunghezza per sette od otto di altezza e che sono fatte risalire fino al re Salomone. Ho veduto a Balbek un pezzo di muro presso a poco simile che è attribuito agli Assiri, ed è certo che tali costruzioni non appartengono ad alcun stile dell'architettura europea. D'altronde quel lato delle fortificazioni di Gerusalemme è appunto quello che si accosta al tempio costruito da Salomone od almeno al posto che esso occupava. Mi [199] sembra dunque che nulla si opponga a che quelle mura gigantesche siano state collocate al tempo e per ordine del grande re degli ebrei. Gerusalemme è situata su una altura che si eleva gradatamente dal lato di settentrione e domina a picco la stretta valle dal lato opposto, mentre all'Oriente ed all'Occidente il suolo che la circonda degrada lentamente fino alle rive del Cedron o piuttosto del suo letto, che è tutto ciò che rimane di quel torrente. Se seguiamo dal di fuori le mura gerosolimitane da settentrione a ponente e da ponente a mezzogiorno, troviamo prima un ciglione poco alto che si stende sulla destra e forma così una spianata quasi al livello della città santa. È il solo posto in cui le mura della cinta fortificata non dominano interamente il paese all'esterno. Questo monticello è la «Città di Davide» di cui gli Armeni hanno fatto il loro cimitero, e che, senza serbare alcuna traccia del suo antico splendore, non è per questo meno visitato da tutti i pellegrini che vi sono attratti da due monumenti celebri. Uno è la sala in cui Gesù Cristo sedette per l'ultima volta a tavola co' suoi discepoli, l'altro una cameretta ove passò la prima notte dopo il suo arresto ed udì il canto del gallo che ricordò a San Pietro la profezia del divino Maestro e la propria debolezza. Il primo di questi monumenti è oggi la residenza di un derviscio o santone mussulmano che l'insudicia con tutta la sporcizia inerente a quella specie miserabile di uomini. È uno spettacolo penoso e ripugnante quello di un tal luogo trasformato in una tana ed occupato da ciò che l'umanità ha di più immondo e spregevole. Giustizia vuole però che io aggiunga come questa profanazione non indichi nè disprezzo nè intenzioni ostili. Se i maomettani [200] disdegnano ed odiano i cristiani, non estendono questi sentimenti nè al Cristo nè al cristianesimo. Anzi è probabilmente con un proposito rispettoso che hanno posto in tale luogo un essere che la loro religione li induce a venerare; ma è colpa delle cose più ancora che degli uomini se la personificazione divina della purezza non può essere convenientemente onorata dagli adoratori dei sensi. Quando si è veduta la dimora di un santone, non è più possibile dubitare dello stretto legame che esiste fra l'impurità dell'anima e quella del corpo.

Il secondo di questi monumenti, di cui gli Armeni si sono impadroniti a scapito dei Latini che lo possedevano un tempo, ha un aspetto ben diverso. Una piccola corte lastricata in marmo bianco e circondata da un portico a volta e piuttosto basso racchiude le tombe dei vescovi della Comunione armena. Una cappella forma il lato meridionale della corte e non si potrebbe trovar nulla di più elegante, pulito ed accurato dell'interno dì quel santuario, intarsiato di piastrelle di majolica smaltata, genere di ornamento molto diffuso nel Levante. Una porta alla sinistra dell'altare si chiude su una celletta così piccola che si fatica a credere abbia mai potuto esser destinata a contenere una creatura umana. Sarebbe là che Cristo avrebbe dovuto esser lasciato tosto dopo il suo arresto al monte degli ulivi. Non è infatti una prigione propriamente detta, ma un locale temporaneo di detenzione per deporvi i catturati in attesa del loro interrogatorio. Tal quale è oggi questa celletta assomiglia allo spogliatojo di una cappella di un bel castello di campagna.

Continuando a seguire esternamente le mura di [201] Gerusalemme da ponente a mezzogiorno si scopre ben presto la valle di Giosafat che non è altro in realtà che il letto del Cedron prosciugato, chiuso da un lato dal colle che serve di base a Gerusalemme, dall'altro dal monte degli ulivi. Un villaggetto arabo, che è tuttora chiamato Siloe, occupa il fondo del vallone alla sua estremità occidentale là dove comincia un poco ad aprirsi. Quasi in faccia a questo villaggio, ai piedi della collina di Gerusalemme, scorre dolcemente l'acqua della fontana di Siloe. Un muro quadrangolare grossolanamente costruito raccoglie anzitutto le sue acque che vanno poi ad irrigare i giardini del paese. Più lontano, sempre nel fondo della valle, ma dal lato di Siloe, tre piccoli edifici di forma bizzarra racchiuderebbero gli avanzi di Assalonne e di due de' suoi compagni. Subito dopo si scorge quasi ai piedi del monte degli ulivi un muro bianco che serve di chiusura ad un rettangolo di terreno sul quale crescono ulivi secolari e contorti. È il giardino degli ulivi e fu il rifugio prediletto di Colui che ha dimora nei Cieli.

Nessuno potrà questa volta contestare che sia quello il giardino degli ulivi. Sebbene il muro di cinta sia moderno e possa racchiudere qualche braccia di più o di meno dell'antico giardino, tutta questa parte della collina è coperta di ulivi vecchi e, se non è sotto uno di essi che si sedette il Cristo per piangere sopra Gerusalemme, alcuni di quelli che vediamo oggi ne derivano di certo.

Un frate della Custodia di Terrasanta passa tutta la giornata dall'alba al tramonto, senza escire da questo recinto; vi coltiva qualche fiore e riceve i viaggiatori che la pietà o la curiosità vi attirano. Questi alberi sono immensi e numerosi virgulti [202] circondano le radici mezzo scoperte. Ho invidiato la vita di quel monaco. La solitudine in un bel giardino, all'ombra di alberi che si collegano coi più grandi ricordi dei quali possa essere pervaso lo spirito umano, ha in sè un fascino che forse è senza eguali nel mondo.

Un ponte gettato sul fondo della valle ove scorre il Cedron riunisce la città al monte degli ulivi. Questo ponte e la strada che sale il pendio separano il giardino degli ulivi da un gran monumento in cui sono conservati gli avanzi mortali della Madonna. Tale per lo meno è la fede di tutti i cristiani orientali, che si sono contesa e si contendono tuttora la proprietà di quella tomba con un ardore appassionato. La cappella, poichè è tale, ove si scende da una larga scalinata è ampia e bella; ma il clero latino non ha il permesso di celebrarvi i divini uffici. Dietro a questa cappella si trova la grotta ove Gesù Cristo si sarebbe ritirato vedendo avvicinarsi i soldati che venivano ad arrestarlo e dove sarebbe stato infatti preso e legato. Alcuni altari eretti nell'interno di questa grotta sono proprietà del clero latino.

Il monte degli ulivi non è che una collinetta vicino alla quale sorge una moschea. La pietra ove il Cristo era in piedi quando fu assunto in cielo e che serberebbe, secondo dicono, la sua impronta, è conservata nel recinto di questa moschea e riceve gli omaggi dei cristiani come dei mussulmani. La distanza da questo luogo a Gerusalemme è poco rilevante ed è dalla finestra di un piccolo belvedere annesso alla moschea, che ho veduto la città santa sotto il suo aspetto, non dirò solo il più bello, ma il più soddisfacente. L'occhio ne abbraccia l'insieme senza perdere alcun particolare. Per [203] noi altri cristiani sopra tutto, che siamo condannati a non vedere il tempio, (attualmente moschea d'Omar) che dal tetto d'una caserma, è una vera fortuna questo belvedere. Gli eruditi affermano che tutto quello che esiste attualmente là dove Salomone aveva innalzato il suo meraviglioso edificio è una costruzione mussulmana ed io mi asterrò, seguendo la mia norma prudente, dall'immischiarmi in una simile discussione. Posso dire però che la moschea di Omar non assomiglia ad alcuna delle numerose moschee che coprono tutta l'Asia. Le moschee sono di solito precedute da una corte, circondata da alte mura, alberata e rallegrata da una fontana. Quella di Omar è invece collocata nel mezzo di un immenso spazio vuoto, la cui forma quadrata è determinata da frazioni di portico poste ad intervalli. Le moschee sono in genere composte di una riunione di costruzioni svariate, come tombe, celle per alloggio dei dervisci, fachiri o santoni, una sala per la danza dei dervisci ecc., oltre lo spazio aperto a tutti i fedeli mussulmani che vanno a farvi le loro preghiere. Ignoro la disposizione interna della moschea d'Omar; può darsi che l'abbiano divisa in tanti appartamenti quanti sono i giorni dell'anno, ma nulla rivela all'esterno un tale adattamento che risulta evidente in tutte le altre moschee. Se apro ora la Bibbia e leggo il capitolo sulla costruzione del Tempio di Salomone, vi ritrovo il grande spazio vuoto, il portico ed il colonnato in giro, infine tutto ciò che rende la moschea d'Omar così diversa dalle altre. Dal canto mio, siccome dopo tutto le opinioni sul Tempio di Salomone e sulla moschea d'Omar sono libere, preferisco pensare che rimanga qualcosa del primo nella seconda.

[204]

La salvezza del mondo, se si dovesse credere ai mussulmani, è connessa alla rigida applicazione della regola che tien lontani gli infedeli dalla moschea d'Omar, ed ho rischiato di procurarmi un guajo serio quando scorgendo, sotto una volta che conduce alla moschea, delle finestre ogivali che mi ricordavano la vecchia e cara Europa, feci qualche passo per esaminarle meglio. Ero ancora sotto la prima arcata e mi ero fermata a guardare le mie ogive quando un gigante snello, quasi nero e quasi nudo, si accostò non a me, ma agli uomini che si trovavano vicino a me, con una violenza di gesti e d'intonazione che rendevano la sua barbara loquela fin troppo intelligibile. Era evidente che ci minacciava di tutto il suo furore se non ubbidivamo a ritirarci immediatamente. La mia avversione per ciò che noi italiani chiamiamo prepotenza, mi dava una gran voglia di camminare diritto dinanzi a me; ma un ottimo vecchietto che si era fatto per quel giorno il mio cicerone si mostrò tanto allarmato e desolato, parlò all'arabo con tale rapidità e prolissità che credetti di dovermi rimettere, per riparare i miei torti, alla prudenza ed all'eloquenza della mia guida, ed era senza dubbio il miglior partito da prendere. L'arabo non ci lasciò che dopo averci visto retrocedere.

Gerusalemme non è solo la città del Cristo, è anche quella dei Re e dei Profeti. Accanto ai ricordi del Vangelo vi si incontrano quelli della Bibbia. A Gerusalemme vi sono anzitutto le grotte d'Isaia ed i sepolcri dei Re; nei dintorni della città i giardini di Salomone, più lontano ancora il Giordano e il Mar Morto. Riassumendo qualche impressione su questi luoghi spesso descritti, completerò la mia peregrinazione attraverso la Gerusalemme [205] storica ed a' suoi dintorni, per passare quindi alla Gerusalemme vivente, in mezzo alla quale ho trascorso i primi giorni della primavera del 1852.

Le grotte d'Isaia mi hanno offerto l'occasione di osservare una volta di più il gusto col quale gli Orientali, Turchi od Arabi, sanno scegliere per le loro case i luoghi più pittoreschi.

A pochi passi da Gerusalemme, in mezzo a campagne ombreggiate da ulivi magnifici, sorge una collina rossastra ed entro le sue pareti è stato scavato uno stretto passaggio. Questo passaggio conduce alla grotta d'Isaia, ampia cavità tappezzata di arrampicanti. Fra il passaggio e l'ingresso della grotta si osserva una specie di giardinetto all'ombra di un vecchio fico dai rami molto larghi. Vive colà un santone che mi sembrò assai felice. Non so se questi monaci mussulmani facciano voto di povertà, ma sono convinta che non possiedono nulla e che quest'estrema indigenza non pesa loro affatto. Il santone della grotta d'Isaia ha un vantaggio sui suoi confratelli, di condurre cioè quella strana vita di fronte ad una magnifica natura. Dà prova di un gusto squisito nella scelta della sua residenza e questo gusto distingue, lo ripeto, tanto gli arabi che i turchi. Gli uni e gli altri sanno sempre trovare per i loro villaggi la postura più comoda, le ombre più fresche e le acque più limpide.

Dalla grotta d'Isaia non occorre camminar molto per giungere al sepolcreto degli antichi re d'Israele. Per poco che ci si inoltri, in mezzo a quel labirinto di boschetti e di roccie, si va presto a battere contro un vecchio muro, che serve da cinta ad una specie di corte. Sulla porta è scolpito un [206] bassorilievo raffigurante una ghirlanda di pampini, che mi sembra difficile di poter attribuire all'epoca dei re d'Israele ed alla nazione ebrea. Si passa ginocchioni sotto questa porta. Si entra ancor meno facilmente nelle sale sotterranee che costituiscono il sepolcreto. Queste sale sono vuote; un tempo comunicavano fra loro mediante porte massiccie in pietra che sono state scardinate e giacciono al suolo. La sola impressione che produce questa necropoli è il desiderio di allontanarsene, di varcarne la soglia il più presto possibile, tanto è stretta che ai visitatori sembra di essere condannati al carcere perpetuo.

Allontaniamoci ora un poco; traversiamo Betlemme, bel villaggio quasi intieramente costruito in pietra bianca e posto sul fianco dirupato di un monte: andiamo verso i giardini di Salomone. Ci piace credere che il Cantico dei Cantici sia stato inspirato da quelle fresche ombre.

L'impressione prodotta da quell'asilo delizioso è tanto più viva, in quanto che per giungervi occorre affrontare una marcia faticosa attraverso ad una delle regioni più aride della Giudea. Effettivamente i miei occhi non avevano mai veduto lo spettacolo di più ricche aiuole di fiori olezzanti, nè mai canti di uccelli più melodiosi avevano risuonato alle mie orecchie. Stavo forse per veder apparire il Re e la Sunamite in mezzo a quel paesaggio fatato? Ero quasi tentata di crederlo, allorchè uno spettacolo molto inatteso venne a dissipare le visioni che mi sforzavo di evocare, e mi trovai frammista ad una «party» inglese. Una di quelle colonie britanniche che si incontrano su tutti i punti del globo si era impossessata per la stagione estiva dei giardini di Salomone e li aveva [207] presi in affitto, come si può fare di una casa di campagna a Saint Cloud o di una villa a Capo di Monte. Tende di forma e di colore variate formavano l'abitazione della società; ma durante il giorno erano vuote e tutto lo sciame si godeva la prateria ed i boschetti. Vi erano signore in abito da mattina altrettanto corretto che se avessero abitato un castello in piena Inghilterra, poi un'ondata di signorine giovani vestite di bianco che lasciavano scendere le loro treccie sparse di nastri celeste e rosa, sulle loro spalle scoperte. Un poco più in là scorsi un gruppo di «gentlemen» in costume di caccia intenti ai lavori della campagna. Venni a sapere che la colonia era composta di missionari che si erano proposti il compito di additare agli arabi, e specialmente agli ebrei, i risultati salutari delle società bibliche e degli aratri brevettati. Non si può negare che sia un pensiero poetico e gentile quello di valersi dei giardini di Salomone per introdurre in Palestina i benefici della civiltà; ma è un'idea sterile che naufragherà certo contro l'invincibile forza d'inerzia di quelle popolazioni.

Volete sapere ora qualcosa di un'escursione al Giordano od al Mar Morto? Per questo complemento di rito di un pellegrinaggio a Gerusalemme è prudente assicurarsi una buona scorta. Il pascià di Gerusalemme, al quale avevo annunciato la mia intenzione di visitare le rive del Giordano, mi aveva posto sotto la protezione di uno sceicco arabo, singolare protettore che era, dovetti presto convincermi, l'agente degli sceicchi del deserto, incaricato di farsi pagare un riscatto dai viaggiatori a casa loro. Lo sceicco arabo, vecchio di una sessantina d'anni, venne infatti a trovarmi due giorni dopo la mia visita al pascià e mi presentò una specie [208] di passaporto che mi avrebbe immunizzata, secondo lui, da qualsiasi cattivo trattamento delle tribù del deserto durante tutto il mio viaggio, ma che non mi dispensava per altro dall'assoldare una scorta e mi obbligava anzi a pagare cento piastre a testa, in parte prima della partenza ed in parte al ritorno. Questo metodo nuovo e pacifico di spillare quattrini ai viaggiatori deve essere estremamente redditizio, perchè la sola nostra gita al Giordano faceva passare nelle mani degli arabi mille duecento piastre. Una volta che ciò fu deciso, ci mettemmo in istrada verso le nove del mattino con alcune persone del consolato di Francia che si erano unite a noi.

Io avevo l'animo oppresso e lo spirito inquieto. Temevo per mia figlia i calori deprimenti che regnano sulle rive del Giordano e del Mar Morto. La nostra spedizione, fortunatamente, non ebbe alcuno strascico dannoso per quanto abbia messo più di una volta alla prova il nostro coraggio. Da Gerusalemme al convento di San Saba, meta della nostra prima tappa, la distanza non è lunga, ma possono bastare poche ore per far molto soffrire. Cavalcavamo fra roccie che colla loro bianchezza smagliante e coll'assoluta aridità ci rendevano doppiamente penoso il riverbero della luce e del caldo. Finimmo per dimenticare un momento le nostre sofferenze scorgendo una stretta gola dominata da montagne ed il cui fondo scompariva sotto un'agglomerazione di blocchi giganteschi. Quel dirupo era il letto diseccato del torrente Hebron. Una delle montagne che lo stringono ci appariva scavata da numerosissime grotte nelle quali si asserisce che abbiano vissuto San Saba ed i suoi discepoli; l'altra montagna, che sorge sulla [209] riva sinistra del torrente, è coperta da diversi edifici, case, chiese, fortilizi circondati da un solo muro di cinta. Questo gruppo di fabbricati non è una rocca come si potrebbe credere, ma il convento di San Saba, proprietà della chiesa greca ed abitato da monaci che dovettero sostenere parecchi assedi per difendere i loro ricchi beni dai tentativi degli arabi. Per solito, l'ospitalità dei monaci greci di San Saba è molto fastosa, ma era loro accaduta pochi giorni prima della nostra visita una curiosa avventura. Parecchi giovani inglesi, muniti di lettere di raccomandazione del Patriarca greco per il superiore del convento, avendo avuto da lamentarsi del ricevimento loro fatto dai monaci, non avevano trovato altro di meglio che picchiare di santa ragione i venerandi padri, più avvezzi a valersi della loro artiglieria contro gli arabi che a respingere un assalto di box e di bastone. Da che quei temibili ospiti li avevano lasciati, i frati greci di San Saba, avevano giurato di non aprir più il loro convento a verun straniero, se anche recasse una lettera dello stesso Czar ortodosso. Pertanto quando, esausti di sete e di stanchezza, battemmo alla porta del monastero, non ottenemmo altro esito che di richiamare sul bastione un monaco che brandiva un'enorme pietra minacciando di gettarcela sul capo se ci fossimo fermati più a lungo. Il nostro sceicco arabo intervenne allora e chiese, non di poter entrare nel monastero, ma di poter comprare qualche provvista. Queste trattative fecero accorrere sulle mura altri frati armati di fucili coi quali ci prendevano di mira. Eravamo sul punto di accettare battaglia, quando un nuovo sforzo d'eloquenza dello sceicco ebbe finalmente ragione della resistenza [210] dei monaci che consentirono a calare dall'alto di quel bastione colle corde qualche secchio ricolmo di un'acqua tiepida che ci dividemmo avidamente. Solo gli uomini a cavallo della nostra scorta araba rifiutarono di bagnarvi le labbra. Avvezzi alla vita sobria del deserto, essi non provavano alcuna delle sofferenze dei nostri compagni europei: all'ora del mezzogiorno, dopo una mezza giornata di marcia, erano così calmi e freschi come al momento della partenza.

Non avendo potuto fermarci a San Saba, non cessammo di camminare fino al termine della giornata.

Bivaccammo la notte ai piedi di una torre diroccata, nelle vicinanze di San Saba ove i monaci si degnano di tollerare la presenza dei viaggiatori. L'indomani ci rimettemmo in marcia prima del levar del sole ed eravamo giunti sul culmine delle ultime montagne che delimitano la valle del Giordano, quando il sole cominciò a levarsi. Dapprima non vedemmo che una coltrice di nebbie stesa ai nostri piedi. Poco alla volta quelle nebbie si raggrupparono formando una specie di padiglione sopra le nostre teste, fortunato presagio di una di quelle giornate nuvolose così rare in Oriente a quell'epoca dell'anno. Vasta e spoglia la valle del Giordano si apriva davanti a noi. Alla nostra destra era chiusa da una distesa di acqua nerastra sulla quale ondeggiavano ancora i vapori del mattino. Era quel Mar Morto che batte colle sue onde le rovine di Sodoma. A sinistra la valle si stendeva lontano quanto poteva giungere la vista, sempre arida e sempre sterile. Dov'era dunque il Giordano? Per quale via si gettava nel Mare Morto? Dall'altura su cui mi trovava io non scorgeva [211] nulla che mi annunciasse il corso di un fiume, nulla, salvo ad una grande distanza una linea di un verde cupo quasi impercettibile che risaltava come su un fondo cretaceo.

Fatta una breve sosta, prendemmo la via della valle ed impiegammo più di due ore nella discesa, giacchè il Mar Morto è uno dei posti più bassi del globo. Ci fermammo un momento sulle rive. Uno dei nostri compagni pretendeva di trasportare nella valle del Giordano le abitudini parigine e trovava il posto comodo per farvi colazione, sicchè ebbimo molto da penare per mostrargli l'imprudenza di un pasto simile lontano da ogni acqua potabile, quando eravamo ancora separati dal Giordano da una tappa abbastanza lunga. Finalmente riescimmo a convincerlo ed io mi allontanai dal lago Asfaltide pensando invece a' miei bei laghi lombardi. L'idea di un lago si unisce a tal punto in me, lo confesso, ad impressioni di calma e di gioia che mi era difficile, anche in vista del Mar Morto, di pensare alla sua terribile origine. Senza dubbio la regione che circonda questa terra è aspra e triste, ma il limpido specchio delle acque salse riflette in modo mirabile la bellezza del cielo. Si è narrato che i pesci non possono vivere nel Mar Morto, che gli uccelli lo evitano, che niuna vegetazione vi projetta la sua ombra; ebbene posso assicurare che a quel lago maledetto non mancano pesci guizzanti e vivi, arbusti fioriti ove cantano gli uccelli, che nulla gli manca, fuor dell'acqua che si possa bere. Ma, malgrado la mia predilezione per i laghi che rimonta all'infanzia, lasciai il Mar Morto senza troppo rammarico. Due ore di marcia erano trascorse dalla nostra fermata in riva al Mar Morto e non vedevamo ancora nulla. [212] La strada seguiva un pendio ripartito in immensi gradini e che si svolgeva dinanzi a noi come una scala gigantesca di cui non potevamo intravedere il termine. D'un tratto osservai una certa agitazione fra i nostri arabi. Stendevano il braccio verso il sud pronunciando rauchi monosillabi; i nostri cavalli nitrivano rialzando il capo; presero il galoppo, e noi li lasciammo correre sebbene nessun fiume ci apparisse. Nondimeno cominciai ad udire un sordo mormorio, finalmente giunti al basso della strana scalinata di roccie, che ci nascondeva il fiume, scorgemmo uno degli spettacoli più impressionanti che abbia ammirato durante il mio viaggio. Dinanzi a noi il Giordano trascinava fragorosamente le sue acque un poco fangose, ma profonde ed abbondanti, fra due sponde coperte di alberi immensi e, per così dire, ammucchiati gli uni sugli altri. Entrammo in quella foresta, ma non fu senza fatica che ci aprimmo un varco fra le macchie degli arrampicanti tutte ripiene del ronzio di miriadi di insetti alati. Una volta in riva all'acqua corrente mi affrettai a cercare un angolo solitario ove, dopo aver mangiato qualcosa, potessi abbandonarmi alla contemplazione del fiume sacro. Passai così parecchie ore in un raccoglimento che non potè turbare neppure un allarme dato alla nostra scorta dall'apparire di una tribù di predatori, subito dispersi. Spero di conservare tutta la vita il ricordo chiaro e distinto delle ore affascinanti di riposo passate in riva al Giordano, spero che l'immagine di quelle acque, di quelle rive, di quei boschi non si cancellerà mai dalla mia memoria. Il Giordano non è solo un gran fiume storico, è un fiume meraviglioso e che trasforma intorno a sè la natura come per un incantesimo.

[213]

Ritornammo a Gerusalemme da una strada diversa da quella che ci aveva condotto, con tanta fatica, fino al Giordano. Fra i ricordi di quest'ultima parte della nostra escursione, il solo che abbia presente è quello di un'ora passata presso una torre in rovina, di costruzione araba, in mezzo ad un delizioso boschetto. Questa torre sorge nelle vicinanze della città di Gerico o piuttosto dell'ammasso di capanne informi che si chiama così e che ha preso il posto della fortezza rovesciata dalle trombe di Giosuè. L'ora di riposo che gustai là dove sorgeva l'antica Gerico fu gradevolissima. Avevamo stabilito il nostro accampamento sotto alberi da frutta, in mezzo a fresche aiuole che i più bei parchi dell'Inghilterra avrebbero potuto invidiare alla piana del Giordano. Quelle verdi oasi, gettate qua e là fra le sabbie, sono una delle singolarità di questa terra araba. La fantasia vi evoca involontariamente tipi poetici, e vorrebbe crearvi un popolo che ne fosse degno. Oh, perchè l'umanità non vi deve apparire che sotto le spoglie le più misere al cospetto di quella grande e magnifica natura?

Ritornati a Gerusalemme il giorno seguente, non avevamo più nulla da imparare sui luoghi e monumenti di Terrasanta; è sugli abitanti che la nostra attenzione doveva riportarsi.

Share on Twitter Share on Facebook