Il bey del Monte del Giaurro ed il suo harem

La vita di viaggio non tardò a vincere, colla varietà delle sue impressioni, il rimpianto che mi lasciava il soggiorno di Adana. Appena varcata la frontiera del Giaur-Daghda, salivamo le ultime colline che ci separavano dal golfo di Alessandretta, quando un gruppo di donne e di fanciulli apparve all'estremo limite del nostro orizzonte, ristretto in quel punto dall'aprirsi di una valle di cui stavamo per raggiungere i primi pendii senza poterne ancora misurare l'ampiezza. Ben presto conoscemmo la causa di quell'affollamento, che non aveva nulla di terrificante: le famiglie di una tribù di montanari accampate, colle loro greggi, nella valle vicina venivano a presentarci i loro omaggi, mentre i loro padri e mariti vagavano altrove. Ci mostrammo sensibilissimi a quest'atto di riguardo, e dopo avere gettato qualche piastra a quelle brave matrone, proseguimmo il cammino, lasciando molto delusa una di quelle signore che aveva avuto la speranza di farsi regalare della biancheria vecchia. Da buona occidentale io credeva che il denaro potesse tener luogo, se non di tutti i beni di questa terra, per lo meno di quelli che si comprano e vendono, ma quella buona donna, alla quale cercavo di comunicare la mia convinzione, mi rispose che, per quanto le dessi del denaro, non ne avrebbe mai abbastanza per comprarsi del pane e che le mancherebbe sempre il modo di soddisfare i suoi gusti in fatto di corredo.

Qualche passo più in là incontrammo una ventina [104] di cavalieri, piuttosto bene in arcioni, ed abbastanza ben armati, ai quali comandava un uomo d'alta statura coperto da uno di quegli ampi mantelli di panno rosso che hanno il medesimo taglio dei nostri scialli e che sono indossati dai Curdi meridionali. Il capo della nostra scorta ed il personaggio vestito alla curda si accostarono come veri fratelli d'arme. Il nostro capitano mi presentò il cavaliere dal mantello rosso, facendomi conoscere il suo nome ed il suo titolo: era Dedè bey, luogotenente di Mustuk-bey, principe della montagna. Il luogotenente era venuto a conoscenza del mio passaggio negli stati del suo signore e veniva ad offrirmi i suoi servigi e quelli de' suoi uomini promettendomi di condurmi, senza ostacoli nè impicci, alla residenza del principe Mustuk. Non mi rimaneva che di ringraziare quel luogotenente, e lo feci nel miglior modo possibile. Dedè per altro era un personaggio troppo importante per porsi egli stesso alla testa della scorta che mi recava. Rivolse ai suoi soldati un bel discorso per rammentar loro i riguardi che dovevano avere per me, per la mia qualità di viaggiatrice, e per l'onore stesso di quelle popolazioni della montagna, impegnato ad assicurarmi la traversata di quel territorio pericoloso. Soggiunse che aveva motivo di credere che essi adempirebbero puntualmente il loro dovere di condurmi al gran bey Mustuk. Dopo avere così istruito il suo drappello armato, Dedè ne affidò il comando ad uno de' suoi ufficiali, poi risalì a cavallo e disparve in un labirinto di roccie.

Il luogo dove si svolgeva questa scena mi colpì col suo aspetto pittoresco. È chiamato la porta delle tenebre, da un antico arco di trionfo le cui [105] rovine fanno una bellissima figura nel paesaggio, giacchè l'arco sorge in fondo ad un dirupo che ha una ricca vegetazione contrastante colla china arida che conduce laggiù. Gli alberi che circondano la porta delle tenebre sono tanto frondosi da spegnere, per così dire, la luce del sole, non lasciandone giungere, sino a quelle venerande arcate, che qualche pallido raggio. Dall'alto delle colline che incorniciano quella gola, la vista si stende sul mare di Siria, di cui si ascoltano muggire le onde a poca distanza, e sulla linea azzurra delle sue coste. Lo spettacolo è splendido sovratutto per occhi attristati fino allora dalle ombre sinistre dei primi gioghi del Giaur-Daghda.

Non ci rimanevano che alcuni scaglioni da scendere per toccare la spiaggia del mare, e ben presto i sentieri rocciosi cedettero all'arena fine e morbida della riva. L'aria era vibrata, il cielo di un turchino senza venature, solo leggermente dorato verso il levante. Neppure il mare aveva una sola increspatura, al punto da lasciar distinguere i pesci che si dibattevano in quelle acque limpide e tranquille. I nostri cavalli erano felici di correre su un terreno uguale, di immergere i loro piedi nelle onde spumose. I nostri cavalli europei sembrano muti, confrontati al cavallo arabo. Questi ha tutto un linguaggio, capace delle più varie sfumature, sia che saluti con mille dolci fremiti la presenza di un padrone amato, sia che chiami con grida reiterate la cavalla che s'indugia nel prato vicino, sia che provochi un rivale alla lotta con urla selvaggie. Per il momento i nostri cavalli manifestavano ingenuamente le impressioni che destava in essi una così bella natura. Che gioia vederli scalpitare, soffiare, aspirare l'aria colle loro [106] narici rosate, scuotere le loro lunghe criniere, frementi di soddisfazione, accarezzati dal vento del mare! Devo dire che noi partecipavamo interamente alla letizia di quei nobili animali e le fatiche di sei settimane di viaggio erano quasi dimenticate in pochi minuti, quando fummo distolte da quelle dolci sensazioni dai suoni di una musica barbara che si faceva udire a qualche distanza. L'acuto sibilo di qualche piffero e di qualche zampogna si mescolava al rullo dei tamburi ed ai colpi sordi delle gran casse. Ed ecco comparire i musicanti che precedevano una banda di montanari in campagna, cioè nel corso di una delle loro spedizioni lungo le carovaniere. Il nostro passaggio era stato annunziato a quei guerrieri nomadi che accorrevano ad augurarci buon viaggio, anzi ad invitarci a prendere con loro qualche rinfresco. Sarebbe stato inurbano il rifiutare. In un attimo saltammo a terra e, affidati i nostri cavalli alla custodia di quegli ospiti premurosi, ci sedemmo sull'erba, mescolando le nostre provviste a quelle dei montanari. Un pasto in comune con una banda di simili avventurieri è una di quelle occasioni che chi ricerca le emozioni non può incontrare che nel Levante. A dir il vero i montanari resistettero a tutte le nostre insistenze per deciderli a prendere la loro parte delle nostre provviste. I doveri dell'ospitalità non permettevano loro di consentire alle nostre richieste: se essi ci avevano offerto il loro latte, il loro formaggio, la loro galletta d'orzo ed i loro aranci era perchè ci riconoscevano come loro ospiti e per ciò stesso non potevano accettare nulla da noi. Dopo il pasto venne la siesta, nella giornata calda, mentre il sole, al colmo della sua corsa, ci dardeggiava co' suoi raggi [107] cocenti. I montanari si ritirarono in un canto per lasciarci riposare; ognuno si stese per terra all'ombra di un boschetto. Sdraiata accanto a mia figlia cercai dapprima di resistere al sonno, ma la stanchezza non tardò a gettarmi in una sorte di sopore. Quando riapersi gli occhi potei constatare con grande soddisfazione che quei montanari erano stati fedeli al loro compito di guardiani ospitali. D'accordo colla nostra scorta essi vegliarono sui nostri cavalli e sui nostri bagagli. Mi sembrava però che fosse tempo di partire separandomi da quei curiosi amici. Dopo aver distribuito un po' di denaro a tutta la banda, e seguiti dalle sue benedizioni ci allontanammo. Era ormai sera quando giungemmo in vista del monte che ha dato il nome di Giaur-Daghda al gruppo al quale sovrasta. L'aspetto del paese che percorrevamo allora, richiamava taluni angoli verdeggianti e ricchi dell'Inghilterra. Avevamo alla nostra destra la distesa del mare, illuminata sulla spiaggia dagli ultimi raggi del sole, velata nello sfondo azzurrigno dalle prime ombre della notte. A sinistra e dinanzi a noi si ergeva la cima verdeggiante del Giaur-Daghda sui cui fianchi arrotondati sorgevano molti villaggi. È raro che in Siria la costa si levi a picco dal mare. Qui, come in tutto il paese, graziose ondulazioni separano i pendii dalle onde che ne lambono la base. Lo spazio fra il mare ed il monte assomigliava ad una fresca vallata della Svizzera. Il borgo di Bajaz, residenza del bey, era nascosto ai nostri occhi da gruppi di alberi giganteschi e collegati fra loro dalle ghirlande che vi intrecciava capricciosa la vite selvatica. Tutto intorno a noi era calmo, ridente e sereno; le campanelle che risuonavano qua e là nella campagna [108] annunziavano il ritorno delle greggi all'ovile; qualche merlo in ritardo svolazzava di ramo in ramo a guisa di un gaio compare che, reduce da un banchetto troppo prolungato, incespichi nel cercare la porta di casa. Le tortore tubavano tristemente sugli alberi, e tratto tratto si udivano i primi lagni dell'usignuolo che salutavano il cader della notte.

Allo svolto di un sentiero cinto di siepi vive ci trovammo ad un tratto all'entrata di una corte irregolare. In fondo sorgeva un edificio di poca apparenza. Era la casa del bey, ed egli stesso ci attendeva sulla soglia della sua residenza. L'accoglienza che ci fece non lasciava nulla a desiderare ed io fui personalmente abbastanza fortunata di ottenere il permesso di ritirarmi nella mia tenda. Il tempo cospirava contro di me; piovve così dirottamente durante tutta la notte che, non volendo incorrere nella taccia di stravagante, dovetti decidermi a riparare sotto un tetto. Io temeva di essere condannata ad abitare l'harem; ma il bey, uomo di spirito, indovinò i miei segreti pensieri, mise a mia disposizione un vasto locale del suo appartamento, avvertendomi nel tempo stesso che le sue mogli riceverebbero le mie visite e me le renderebbero tutte le volte che ne avessi piacere. Una volta rassicurata sulla libertà de' miei movimenti, cominciai col prender possesso del mio domicilio, ma subito dopo profittai dell'occasione che mi si offriva, per studiare, a volontà, e sotto un nuovo aspetto, quella vita dell'harem di cui il mio soggiorno presso il mufti di Scerkess mi aveva già dato una ben triste idea. Poichè l'harem è una delle istituzioni più misteriose della società turca non si troverà forse male che ancor una volta io m'indugi a parlarne.

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Col nome di harem si designa qualcosa di complesso e di molteplice. V'è l'harem del povero, quello delle classi medie e del gran signore, l'harem della provincia e quello della capitale, l'harem della campagna e quello della città, quello del giovinotto e quello del vecchio, del pio mussulmano che rimpiange i tempi andati e del maomettano spirito forte, scettico, riformatore, che veste la redingote. Ognuno di questi harem ha il suo carattere speciale, il suo grado d'importanza, i suoi costumi, le sue abitudini. Il meno strano di tutti, quello che più si accosta ad un'onesta famiglia cristiana, è l'harem del povero abitante della campagna. La moglie del contadino, costretta a lavorare nei campi e nell'orto, a condurre le greggi al pascolo, a recarsi nei villaggi per farvi o vendere le provviste, non è prigioniera nelle mura del suo harem. Quand'anche, ed è raro, la casa coniugale abbia due stanze, di cui una teoricamente riservata alle donne, gli uomini non ne sono banditi rigorosamente. È raro che il contadino abbia parecchie mogli. Ciò non accade che in casi straordinari, per esempio quando un giornaliero, cioè un servo, un inferiore, sposi la vedova del suo padrone, fatto che non si verifica che se la signora non è più in età da poter aspirare a miglior partito. Con questo matrimonio il servo viene ad essere un poco più ricco di prima e, dopo qualche anno di fedeltà coniugale, quando vede che gli anni hanno camminato più presto per sua moglie che per lui, profitta della sua agiatezza per aggiungersi una compagna più di suo gusto. Non conosco altri contadini poligami che quelli che abbiano sposato, nella loro prima gioventù, una vecchia possidente.

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Salvo quest'eccezione la famiglia del contadino turco è simile a quella del contadino cristiano e, lo dico con rammarico, il primo potrebbe spesso servire d'esempio al secondo. Con pari fedeltà, il vantaggio sarebbe del turco, perchè tale virtù non gli è imposta nè dalla legge religiosa, nè dalla civile, nè dagli usi, nè dai costumi, nè dall'opinione pubblica, e non può esservi indotto che dalla bontà della sua natura, alla quale ripugna il pensiero di affliggere la sua compagna. E non le fa mai pagare il privilegio, di cui non osa privarla, di esser sola padrona di casa, con cattivi trattamenti o malumori; non si compensa mai col tormentarla del freno che si impone per riguardo ad essa. La sua anima semplice e generosa sarebbe incapace delle piccole vigliaccherie. La tradizione della debolezza della donna in Oriente non è relegata nel dominio della favola, ed i riguardi cui ha diritto il debole da parte del più forte sono ancora considerati cosa seria. Tutto o quasi è concesso alla donna dacchè è ritenuta debole. Ha il privilegio di arrabbiarsi senza motivo, di mancare di senso comune, di parlare per diritto e per traverso, di agire a rovescio di ciò che le si domanda e sovratutto di ciò che le si ordina, di lavorare quando le pare e piace, di spendere come crede il denaro guadagnato da suo marito, di pretendersi malata, di lamentarsi senza alcuna ragione. In forza di quale legge o di quale istituzione, per effetto diretto od indiretto di quale usanza o di qual principio, gode essa di tale privilegio? La legge l'abbandona senza difesa al capriccio del suo signore e padrone, l'uso la condanna; ma la bontà d'animo, la tenerezza, la generosità naturale dell'uomo garantiscono alla donna un'impunità quasi [111] assoluta. Il contadino turco ama la sua compagna come un padre e come un amante; non la contraria mai di proposito e scientemente e non v'è noia ch'egli non affronti di buon grado per amor di sua moglie. La donna invecchia presto in questi climi, sotto l'influenza di un nutrimento grossolano e malsano, e di continui parti, di cui nè la scienza nè l'arte attenuano i pericoli. L'uomo invece, che ha una costituzione più adatta a sopportare le fatiche e le privazioni, rimane quasi eternamente vegeto. È frequentissimo qui il caso di vecchi di più di ottant'anni che abbiano intorno bimbi che sono la loro progenitura diretta. Nonostante questa disparità fra l'uomo e la donna, l'unione stretta sulle soglie dell'infanzia è di regola spezzata solo dalla morte. Ho veduto donne decrepite, inferme, orribili, condotte per mano, curate ed adorate da bei vecchi ritti come i pini dei monti, colla barba d'argento, ma lunga e folta, coll'occhio vivace e limpido. Un giorno uno di questi splendidi vecchi di cui ho parlato mi aveva condotto la sua vecchia moglie, cieca e paralitica, colla speranza ch'io potessi renderle il moto e la vista. La vecchia era arrivata a cavalcioni su un asino che suo marito teneva per la briglia, camminando allato. L'aveva poi presa nelle braccia e, depostala su un banco vicino alla mia porta, vi aveva installato la sua povera compagna su un ammasso di cuscini, con tutta la sollecitudine di una madre per il suo figliolo. Dissi alla cieca:

- Dovete voler molto bene a vostro marito?

- Vorrei bene vederci - mi rispose.

Io guardavo il marito che sorrideva melanconicamente, ma senza l'ombra di un rancore. Si passò il rovescio della mano sugli occhi e disse:

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- Povera donna! la sua cecità la rende molto infelice e non sa abituarvisi. Ma voi le renderete la vista, non è vero, Bessadea?

Io scuotevo la testa e stavo per protestare la mia impotenza, ma egli mi tirò il lembo della veste e mi fece segno di tacere. Gli chiesi allora:

- Avete dei figli?

- Ahimè! ne ho avuto uno; ma è morto da tanto tempo.

- E come mai non avete preso un'altra moglie, più robusta e che avesse miglior salute, sì da potervi dare dei figli?

- È presto detto; ma questa povera creatura ne avrebbe avuto dispiacere, e ciò mi avrebbe impedito di esser felice con un'altra anche se feconda. Vedete, Bessadea, non si può aver tutto a questo mondo. Io ho una moglie alla quale voglio bene da quasi quarant'anni, non ne sceglierei un'altra.

L'uomo che mi parlava in questa guisa era un turco. Sua moglie gli apparteneva come un mobile; nessuno l'avrebbe biasimato, nessuna legge l'avrebbe punito se si fosse sbarazzato di quel peso inutile con qualche atto violento. In tal caso gli avrebbero semplicemente domandato quali fossero stati i suoi motivi per agire a quel modo. Fortunatamente il carattere del popolo turco corregge ciò che tali costumi hanno di odioso. Vi ha in lui un fondo prezioso di bontà, di dolcezza, di semplicità, un notevole istinto di rispetto per ciò che è bello, di pietà per ciò che è debole. Quest'istinto ha resistito, e speriamo resista ancora per molto tempo, all'azione di istituti deleterii, basati unicamente sul diritto della forza e sull'egoismo. Per comprendere quanto vi abbia di dolcezza e di serenità [113] innate nel turco, bisogna osservare i contadini di origine ottomana, sia nel loro campo, sia al mercato o sulla soglia d'un caffè. Il raccolto, le seminagioni, il prezzo dell'orzo, la loro famiglia, ecco l'argomento invariabile delle loro conversazioni. Nessuno di essi alza la voce, nessuno spinge lo scherzo fino a ferire od annoiare i suoi compagni; niuno mescola a' suoi discorsi delle bestemmie o quelle parole grossolane che il popolo predilige in altri paesi. Questo squisito riserbo, questi modi al tempo stesso così nobili e così semplici gli vengono dall'educazione? No, dalla natura, che è stata prodiga pel popolo turco; ma tutti i doni ch'essa gli ha dato tendono ad essere alterati dalle istituzioni. Man mano che ci si allontana dalle classi nelle quali si conserva il carattere primitivo, man mano che si penetra nella borghesia, od in istrati ancora più alti, ecco apparire il vizio che giganteggia, prevale e finisce per regnare solo. Abbiamo visto testè i sani istinti del popolo turco quali si rivelano nel contadino; bisogna ora studiare l'influenza esercitata sulle classi superiori dalla deplorevole costituzione della famiglia mussulmana. Questa funesta influenza può sovratutto essere constatata ne' suoi effetti, negli strati medi della società turca, nelle imitazioni servili provocate dagli esempi della nobiltà.

Entriamo in un harem borghese o di un piccolo gentiluomo di campagna. È necessario anzitutto che la viaggiatrice privilegiata che vuol visitare un così triste luogo non si faccia alcuna illusione e si prepari a superare molte ripugnanze. Imaginatevi un corpo di fabbrica, separato dalla casa propriamente detta, ove il padrone riceve i suoi ospiti, ove i domestici maschi hanno soli il [114] diritto di abitare. L'ingresso di questo fabbricato si apre di solito su una larga tettoia ove le galline vivono in mezzo ad ogni sorta di detriti e di immondizie. Una scala in legno, coi gradini guasti e disgiunti, conduce alle stanze superiori che consistono in un grande vestibolo dal quale si ha accesso a quattro camere. Una di queste è riservata al padrone di casa che vi abita colla favorita del momento. Le altre stanze sono occupate dal rimanente di ciò che qui si chiama la famiglia. Donne, ragazze, ospiti di sesso femminile, schiave del padrone o della padrona compongono la popolazione dell'harem. In Oriente non esistono veri letti, nè camere specialmente destinate al riposo. Grandi armadi racchiudono, durante il giorno, mucchi di materassi, coperte e guanciali. Venuta la sera, ognuna delle abitanti dell'harem leva dall'armadio ciò che le è necessario, fa il suo letto dove Dio vuole e si sdraia vestita. Quando una camera è piena, quelli che sopraggiungono si collocano altrove, e, se le camere sono ricolme, le ultime venute vanno nel vestibolo o sulla scala. Nulla di più sgradevole per occhi europei che l'aspetto di quelle signore quando si alzano il mattino nelle loro acconciature della sera precedente, cincischiate e sfiorite per la pressione delle materassa ed i moti impulsivi del sonno.

Lo scopo principale di un padre di famiglia turco è di avere il maggior numero possibile di figli e tutto, nella vita domestica, è subordinato a questa considerazione. Se una donna rimane due o tre anni sterile è subito allontanata, suo marito la sostituisce con una compagna più feconda. Nessuno si impiccia dei rimpianti e della gelosia della povera reietta; ma bisogna aggiungere che, se invece [115] di gemere e di piangere questa trova modo di disfarsi in un modo qualsiasi della sua rivale, nessuno si cura del destino di quest'ultima. Perciò io non credo che vi siano in nessun luogo creature più degradate delle donne turche della classe media; la loro abbiezione si legge sul loro viso. È difficile di pronunciarsi sulla loro bellezza per gli spessi strati di belletto che, applicati senza gusto nè misura, sfigurano le loro guancie, le loro labbra, le sopracciglia e i contorni degli occhi. La loro figura è resa difforme dal taglio ridicolo delle loro vesti ed al posto dei capelli mettono dei peli di capra tinti in arancio acceso; il loro viso non esprime che stupidaggine, volgare sensualità, durezza ed ipocrisia. Non hanno la menoma traccia di principi morali o religiosi. I bimbi le occupano e le annoiano al tempo stesso, ne prendono cura come di uno scalino di cui si possono servire per ottenere il favore del marito; ma qualsiasi idea di dovere materno è loro straniera, come si vede dalla frequenza degli aborti che queste donne si procurano sfacciatamente ogni volta che la nascita di un figlio non entra nei loro piani.

Circa quindici giorni prima della mia partenza per Angora, il capo di una confraternita di dervisci, stabilita in una cittaduzza poco lontana dalla mia dimora, venne a chiedermi un rimedio per sua figlia che soffriva di vari disturbi che riconobbi come altrettanti sintomi di gravidanza. Quando espressi il mio parere al venerando personaggio, mi rispose sorridendo che sua figlia non voleva trovarsi in tale stato: «Lo voglia o non lo voglia» replicai «se lo è effettivamente, bisognerà che vi si rassegni». Il vecchio rispose: «Cara [116] signora, non è possibile, suo marito è partito per l'esercito e mia figlia è ben decisa a non avere altri bimbi prima ch'egli ritorni.» Lasciai capire al derviscio che io non lo comprendevo più affatto. Il vecchio sembrava imbarazzato, e grattandosi l'orecchio, entrava in nuove spiegazioni, quando uno de' miei famigli che lo aveva seguito per facilitare la conversazione, si rivolse al vecchio gridandogli, con aria seccata: «Non te lo avevo detto di non parlare di queste cose alla mia padrona? I Cristiani d'Occidente non ammettono questi compromessi e non otterrete niente.» Queste parole mi illuminarono ed io dichiarai all'uomo venerando che perdeva il suo tempo, come se mi avesse domandato del veleno; ma dovetti faticar molto a sbarazzarmene. Ritornava sempre al suo grande argomento della partenza del genero per l'esercito ed assicurava del resto che il marito conosceva ed approvava la decisione di sua figlia. Per fortuna sua, e forse anche mia, quel modello di padre non comprese una parola del mio piccolo discorso, anzi se ne partì dandomi la sua benedizione, attestandomi la sua tenera amicizia e pregandomi di riflettere alla domanda che mi aveva rivolto. Sono transazioni che accadono tutti i giorni e non urtano la coscienza di nessuno.

Se le madri non provano vera tenerezza per i loro figli, questi se ne curano ben poco. I ragazzi considerano le loro madri come serve, dando loro ordini, le rimproverano per la loro pigrizia o per la loro trascuratezza e non so se si limitano sempre a delle parole. Il pudore, questo ornamento virgineo della prima età, non esiste nè per i ragazzi, nè per quelli che li circondano. Tutte queste [117] donne si vestono, si svestono davanti ai loro figli ed i discorsi più liberi si fanno in loro presenza. I fanciulli disprezzano le loro madri e questa vita in comune, che fa loro perdere il rispetto per i genitori, comunica loro spesso le tristi passioni dalle quali essi sono dominati. La rivalità del potere che agita le madri è per i figli una sorgente di animosità, d'invidia, di dispetto, d'orgoglio e di ira. «Mia madre è più bella, più ricca, più giovane! è nata a Costantinopoli!» Ecco di cosa si vantano questi ragazzi quando vogliono umiliare quelli che essi chiamano fratelli.

Chi avesse le idee e gli affetti di un Cristiano in seno ad una simile famiglia, dovrebbe esser molto compianto; ma non sarebbe esposto a trovarvisi. Il turco, che non è mai escito dalla sua provincia, che non conosce altra società all'infuori di quella basata sulle istituzioni mussulmane, che considera come articolo di fede che nulla havvi di bello e di buono al mondo oltre il suo paese, le sue leggi, le sue usanze, che ritiene animali immondi tutti gli uomini di un'altra religione che la sua, questo turco della classe media si compiace della corruzione in mezzo a cui vive. Egli non ama nessuno intensamente; non è del resto violento e crudele che in un modo negativo. Purchè i suoi pasti siano pronti all'ora voluta, egli non chiede nulla di più alla Divinità. I suoi figli gli sono cari, ma se muoiono egli non pensa che a colmare i vuoti causati dalla loro perdita. Le sue mogli soffrono per caso nell'anima o nel corpo, forse egli ne riderà, forse vi rimarrà perfettamente indifferente. Ignorantissimo, non sapendo neppure che esistano paesi nei quali il culto delle arti e delle lettere occupano e deliziano la [118] vita dell'uomo, egli non conosce che i piaceri sensuali ed il riposo che prolunga e varia finchè può coll'uso dell'oppio, dell'hascisch, dell'acquavite e del tabacco. Le attrattive della conversazione sono per lui lettera morta; parla per domandare o per ordinare quello che gli occorre; poi tace e, siccome tutti stanno in silenzio intorno a lui, non gli rimane neppure di stare ad ascoltare ciò che si racconta. Allorchè una delle sue mogli ha perduto la freschezza della gioventù o, per un motivo qualsiasi, ha cessato di piacergli, egli si astiene dal chiamarla a sè e presto dimentica che esista. Se ha veduto al bazar una schiava che gli piaccia, la compera, la porta a casa sua e la proclama sua favorita. Può essere idiota, golosa, ladra: lo sa, ma che gliene importa? Non ha illusioni, e come potrebbe averne? E perchè? Egli sa benissimo che la giovane donna, ch'egli stringe nelle sue braccia, non prova per lui che odio e disgusto, sa che essa gli caccierebbe volontieri un pugnale nel cuore pur di guadagnare dieci piastre, sa pure che il suo amore non è che una febbre effimera. Ma potrebbe esserne altrimenti? Sonvi altrove donne, amori, febbri, risvegli diversi dai suoi? Se ne esistono, non si cura di conoscerli. Egli ignora le gioie intime, ineffabili del sacrificarsi. Non ha mai confessato nulla che possa nuocergli, dicendo a sè stesso: Sono stato fedele alla verità! Non ha mai preferito la soddisfazione di un altro alla sua propria e non si è mai detto: Sono stato fedele alle mie affezioni! Non ha mai considerato la morte un'aurora, l'aurora di un giorno eterno, senza nubi. Pure quell'uomo si crede felice; ma può egli esserlo più dell'ultimo mendicante al quale è stato concesso nella vita di sapere che significhi [119] amare, consacrarsi a qualcosa, credere ed attendere?

La famiglia del ricco, del nobile, del turco di Costantinopoli, che ha frequentato la società Franca, o che ha viaggiato in Europa, non presenta lo stesso spettacolo d'immoralità o d'ingenua turpitudine, ma, ohimè, salvo qualche rara eccezione, la seta ed il broccato non ricoprono ancora che uno scheletro abbietto. Le dame di quegli harem di primo ordine non indossano, per una settimana o per un mese, la stessa veste sudicia e spiegazzata. Ogni mattina, levandosi dai loro letti sontuosi, esse lasciano gli abiti del dì innanzi, cambiandoli con nuove acconciature. I loro vestiti, i loro pantaloni e le loro sciarpe escono dalle fabbriche di Lione, e sebbene le manifatture europee non spediscano in Oriente che gli avanzi della loro fabbricazione, questi rifiuti fanno ancora un effetto quando avvolgono le forme splendide di una di quelle Georgiane o di quelle Circasse che popolano gli harem. Ma che vale l'apparenza, se la realtà, così impiastricciata, non è per questo meno ripugnante?

Voglio dire una parola a proposito delle due razze che per la nostra immaginazione inesperta rappresentano il prototipo della bellezza femminile. Alta, formosa, colla persona ben modellata, uno splendido colorito, masse di capelli neri e lucenti, la fronte spaziosa e completa, il naso aquilino, gli occhi neri enormi e spalancati, labbra vermiglie modellate come quelle delle statue greche di buona epoca, denti di perla, il mento rotondo, l'ovale del viso perfetto, tale è la Georgiana. Ammiro di tutto cuore le donne di quella razza; poi, quando le ho bene ammirate, volgo il capo e non [120] le guardo più, perchè sono certa di ritrovarle, quando mi piacerà, tali e quali le ho lasciate, senza un sorriso di più nè di meno, senza la menoma variante nella fisionomia. Un bimbo può nascerle e morirle, il suo signore adorarla o detestarla, la sua rivale trionfare od essere inviata in esilio, nulla ce ne rivela il viso della Georgiana. Non so neppure se gli anni rechino qualche mutamento a quella bellezza marmorea di cui m'impazienta l'immobile splendore.

La Circassa non ha nè gli stessi pregi, nè le stesse lacune. È una bellezza nordica, che mi ricorda le bionde e sentimentali figlie d'Allemagna; ma la somiglianza non va al di là delle forme esterne. Le circasse sono in maggioranza bionde; il loro colorito è di una freschezza incantevole; i loro occhi sono azzurri, grigi o verdi ed i loro tratti, per quanto fini e graziosi, sono irregolari. Quanto la Georgiana è sciocca ed altera, altrettanto la Circassa è falsa ed astuta. Una è capace di tradire il suo signore, l'altra di farlo morire di noia.

Il farsi belle è la grande occupazione di queste signore. A qualunque ora voi le trovate vestite di crespo rosso o di raso celeste, la testa coperta di diamanti, con collane al collo, pendenti agli orecchi, spille sui loro abiti, braccialetti alle loro braccia ed alle loro gambe, anelli alle dita. Talora piedi nudi appaiono fuor dal vestito di crespo rosso ed i capelli sono tagliati quadri sulla fronte, come usano gli uomini dei nostri paesi, ma sono questi particolari dell'acconciatura che hanno poca importanza. Gli atteggiamenti del bel mondo femmineo devono esprimere il più profondo rispetto misto d'un timore reverenziale per il signore [121] dell'harem. Non appena egli entra, subito si fa silenzio, una delle sue mogli gli leva gli stivali, l'altra gli mette le pantofole, quest'altra gli offre la sua veste da camera, una quarta gli reca la sua pipa, il suo caffè od i dolci. Egli solo ha il diritto d'indirizzarle la parola e, quando degna di rivolgersi ad una delle sue compagne, questa china gli occhi, sorride e risponde a voce bassa, quasi temesse di far cessare l'illusione e di svegliarsi da un sogno troppo dolce perchè possa durare a lungo. Tutto ciò non è che una commedia che non inganna nessuno, come non prendiamo alla lettera le pose d'innocenza e di timidezza delle nostre educande. In realtà, tutte quelle donne nutrono scarsa simpatia per il loro signore e padrone. Esse, che sembrano così facili ad una dolce commozione, che non parlano se non con un debole sussurro, si rimandano l'un l'altra delle ingiurie grossolane su di un tono acuto e rumoroso e non vi è eccesso a cui non possano giungere contro quella delle loro compagne che gode il favore del Sultano. Le schiave favorite sarebbero molto da compiangere, se non si permettessero delle rappresaglie, ma si guardano bene dal non concedersele.

Ciò che mi ha rivoltato più d'ogni altra cosa, e non è dir poco, è l'harem in miniatura dei giovinetti di grandi famiglie. Questi ragazzi, da nove a dodici anni, possiedono delle schiavette della loro età presso a poco, colle quali fanno la parodia delle gesta dei loro padri. Queste giovani, vittime di una costituzione sociale davvero mostruosa, fanno così un orrendo tirocinio della vita che le attende, giacchè non v'ha nulla di più crudele d'un ragazzo scostumato e la barbara depravazione [122] del vecchio licenzioso si ritrova all'altra estremità della vita. Ho veduto di questi ragazzi, embrioni di pascià, picchiare a calci ed a pugni, graffiare, ferire tutta una schiera di ragazzine che ardivano appena piangere, mentre la giovane tigre si leccava la lingua con un sorriso singolare che mi rammentava certe pagine di Petronio. Con tutto ciò, voglio ancora ripeterlo, niuno sarebbe più lontano da sentimenti così odiosi che il turco, quale l'ha fatto la natura. Dirò di più, quel ragazzo crudele diventerà probabilmente un uomo abbastanza buono quando avrà l'età per eseguire senza troppo sforzo il compito sotto il quale, per il momento, soccombe.

Le grandi dame di Costantinopoli non si tengono paghe di vedere il mondo attraverso alle griglie delle loro finestre; vanno a passeggio nella città, nel bazar, ovunque loro garba e senz'essere sottomesse ad alcuna sorveglianza incomoda. Un tempo la maschera procurava alle veneziane un'estrema libertà; il velo delle donne turche rende loro il medesimo servizio. Il marito più geloso passerebbe accanto alla sua sposa mentre questa segue un'avventura, senza poter avere il menomo sentore di ciò che gli accade, poichè, non solo il velo copre il viso, non solo il mantello, detto ferragiah, copre tutta la persona e le dà l'aspetto di un involto, ma veli e ferragiah sono tutti della stessa stoffa, della stessa forma e quasi dello stesso colore; è un domino che assomiglia a tutti gli altri domino. Le signore turche possono quindi star sicure di salvaguardare il loro incognito finchè lo desiderano e l'infedeltà non fa loro correre alcun rischio. Perchè mai sarebbero allora fedeli? Non per amore dei loro mariti, che detestano [123] cordialmente, non per rispetto ai loro doveri, giacchè anche la parola dovere non significa nulla per esse. Profittano dunque, come loro piace, della libertà che accordano loro le usanze. Invocate la testimonianza degli europei che hanno abitato a Costantinopoli: vi confesseranno, se vogliono esser sinceri, che hanno annodato più di un intrigo amoroso nella strada o nei bazar. La morale che si può trarre da tutto ciò è che le maggiori precauzioni non valgono nulla, quando è scomparsa l'idea del dovere.

Dopo tutto ciò che ho detto dell'atteggiamento del mariti orientali verso le loro mogli, si potrebbe credere che la brutalità sia l'essenza del loro carattere. La conclusione sarebbe falsa, giacchè il turco, di ogni età e di qualunque classe della società, ha ricevuto dalla natura una cortesia, una delicatezza ed una dolcezza di modi che gli occidentali non acquistano che dopo lunghi studii, sforzi faticosi e dominandosi continuamente. Un turco non si renderà mai colpevole nè di una parola, nè di un gesto che possa offendere una donna, e, se tratta sua moglie presso a poco come un essere irragionevole, in realtà essa non fa nulla per elevarsi ad una condizione superiore. Vorrei che vedeste l'attitudine imbarazzata e scandalizzata di un turco che si trovi collocato fra una signora europea e la sua mandra di odalische. Si badi che odalisca può esser tradotto letteralmente «cameriera» o meglio ancora «donna per la camera»!

Bisogna imparare il turco per perdere così le ultime illusioni! Un turco dunque in un caso simile si mostra più ruvido del solito colle sue mogli, e le riduce al silenzio appena socchiudono le labbra, le allontana con un pretesto o coll'altro, ed intanto lancia all'europea delle occhiate di [124] traverso che rivelano il suo timore e la sua diffidenza e le ripete ad ogni momento: «Non badate a quello che dicono, sono turche!» od ancora: «Voi mi trovate ben grossolano con queste donne, non è vero? che volete, sono turche!» Ah Dio mio! Sì, sono delle turche, nel senso che voi date a tale parola, vale a dire delle creature sciocche e degradate; ma chi le ha rese tali? E perchè il nome che date alle vostre compagne è divenuto il sinonimo di tutto ciò che vi ha di basso e di incolto nel sesso femminile? Gli è che voi avete costituito la famiglia coll'unico intento di moltiplicare i vostri piaceri sensuali. Avete voluto che la donna vi fosse sottomessa come una schiava; che può dunque essere se non una schiava? Ma forse io ho già troppo prolungato queste riflessioni generali. Ormai il lettore sa cosa voglia dire il nome di harem in Oriente e lo posso ricondurre alla residenza che mi aveva suggerito queste divagazioni, all'abitazione del nobile mio ospite Mustuk bey.

Il principe del Giaur-Daghda ha ormai varcato i limiti della prima gioventù. È un uomo d'una quarantina d'anni, alto e ben fatto, con una fisionomia che sarebbe un po' volgare, se non fosse illuminata da due begli occhi azzurri, limpidi, sorridenti e penetranti come due spade. Nulla rivela in lui il feudatario ambizioso ed astuto che resiste senza posa agli ordini del suo sovrano, pur conservando le apparenze del rispetto e della sottomissione. In Mustuk bey, o per lo meno ne' suoi modi e nel suo linguaggio, vi è una certa bonomia. Egli non ostenta il lusso orientale dei pascià e dei capi della sua tribù; il suo abito, il suo contegno, la sua casa, la sua tavola, tutto in lui respira la massima semplicità.

[125]

Dietro la casa del bey vi è una piccola corte quadrata, cinta di fabbricati bassi ad un solo piano. Poichè la corte è rettangolare, i due edifici che formano i lati occupano una superficie doppia all'incirca di quella che coprono le costruzioni collocate alle estremità. Una di queste non è che il muro divisorio fra l'harem e la casa del bey e vi è praticata la porta d'ingresso. Due porticine, fiancheggiate entrambe da due finestre, comunicano con ciascuno degli edifici laterali della corte selciata. Il fabbricato in fondo non ha che una porta e due finestre, ed è impossibile di entrare in quel chiostro silenzioso senza ripensare all'interno di un convento di certosini. Si accede anzitutto ad una stanza piuttosto grande, mobiliata con materassa e cuscini e che si apre a sua volta su un'altra camera adoperata come magazzeno e granajo. In ognuna delle celle disposte intorno alla camera principale, regna e governa una delle spose del bey. Si sussurra nel villaggio, ed anche nelle città vicine, che l'universo non è concentrato per il bey in quelle quattro mura e che altri stabilimenti, analoghi a questo, sono scaglionati ad una certa distanza sui pendii del monte del Giaurro. A dir il vero, sarebbe quello un lusso un po' dispendioso.

La gerarchia è sempre rispettata negli harem e, per Sardanapalo che possa essere, e per innamorato che sia di una o dell'altra delle sue giovani spose, Mustuk bey terrà sempre circolo presso la prima sua moglie in ordine di data. Infatti mi condusse da lei, quando, dopo aver visto che la grande sala fuori dalla cinta sacra era stata apparecchiata perchè io vi potessi dormire, mi dichiarai pronta a fare il dover mio con quelle signore.

La «signora in capo» mi sembrò stranissima nell'aspetto e, guardandola, pensavo involontariamente [126] ad una acrobata pensionata. Questa sultana era stata bellissima e la sua bellezza non era ancor tutta scomparsa; il suo colorito presentava una strana mescolanza della secchezza recatavi dal sole e di una serie di strati di pittura sotto la quale la pelle originaria non era più visibile. I suoi grandi occhi verde-mare erano straordinariamente cerchiati: si sarebbero detti serbatoi posti sotto la glandola lacrimale per raccogliere i torrenti che ne potessero escire. La sua bocca grande, ma ben modellata, lasciava vedere dei denti ancora bianchissimi, ma troppo staccati gli uni dagli altri e che sembravano oscillare nelle gengive, il cui rosso troppo vivo e la malsana enfiagione evocavano cattivi pensieri. Evidentemente essa sdegnava le parrucche di pelo di capra, ma aveva tinto in rosso fulvo i suoi propri capelli. Tutta la sua acconciatura era, non solo accurata, ma ricercata e colpiva col contrasto offerto dallo spettacolo de' suoi bimbi vestiti come piccoli mendicanti. Finchè suo marito fu presente essa si mostrò timida e spaventata come una giovanissima sposa il giorno del matrimonio, coprendosi il viso col velo, colle mani, con tutto ciò che era alla sua portata, e non rispondendo che a monosillabi. Voltato il naso contro il muro, essa tratteneva lo scoppiettare di un riso nervoso, sembrava sul punto di piangere alla prima occasione favorevole, ripeteva insomma le piccole manovre che avevo veduto eseguire così spesso da donne nella stessa posizione e che lusingano sempre visibilmente i mariti orientali.

Essi si dicono che tale turbamento deriva, nelle donne, dal senso della loro inferiorità e, poichè l'inferiorità di chi ci circonda suppone necessariamente la nostra propria superiorità, il padrone di un harem interpreta come un omaggio l'imbarazzo [127] prodotto dalla sua presenza. È questo un sentimento che non spetta, del resto, esclusivamente, nè ad un popolo nè all'uno dei due sessi: fa parte degli elementi che costituiscono la natura umana.

Dopo aver goduto per qualche tempo il simpatico turbamento che egli produceva ed avermi supplicata più volte di non fare attenzione a sua moglie che era una semplice turca, il bey ci lasciò soggiungendo che io non avrei potuto cavare una parola da lei, finchè egli fosse stato presente. Quand'ebbe varcato la soglia, io mi voltai verso sua moglie ed al primo momento credetti che fosse scomparsa in una botola, lasciando dietro di sè a rappresentarla i suoi vestiti accomodati in un pacco. Una leggera ondulazione in quell'informe ammasso mi convinse del mio errore e tosto il viso dipinto della mia bella ospite ne emerse come da una nuvola. L'addio del suo caro sposo l'aveva piombata in una così grande emozione che aveva provato la necessità di nascondere la sua testa fra le sue gambe. Quelli che conoscono il modo di sedersi degli orientali capiranno che le evoluzioni della moglie di Mustuk non offrivano grandi difficoltà.

Quando fummo sole, essa depose la sua maschera di fosca timidezza e chiacchierò per qualche tempo a suo agio. Mi fece domande sulle nostre usanze che le sembravano altrettanto strane quanto divertenti, se devo giudicare dalle risate che si ripetevano così spesso come i ritornelli di una canzone ed altrettanto a proposito. Rimasi nondimeno convinta che quella bella signora era assai più intelligente di quello che volesse ammettere suo marito, giacchè vedevo l'interesse che essa prendeva ad una quantità di cose che non la riguardavano e la costanza con cui essa mi domandava il perchè [128] di ogni cosa. Mi sarebbe stato difficilissimo di rispondere categoricamente a tutte le sue domande in modo da farmi comprendere; ma io conoscevo già la parola magica, il talismano che addormenta e paralizza subito ogni curiosità degli orientali. Supponete il vostro interlocutore meravigliato al massimo grado ed intento a chiedervi la ragione di ciò che a lui sembra inesplicabile, mostruoso, pazzesco: vi basterà di rispondere: «Così si usa nel nostro paese» e la sorpresa si dissiperà, non udrete più ripetere la domanda ed il curioso si dichiarerà interamente soddisfatto. Non vi accadrà mai che vi risponda: «Ma perchè si usa così?» e neppure: «Chi vi impedisce di cambiare?» No, gli orientali sono così bene avvezzi dalla più tenera infanzia a vedere, fare e tollerare un numero infinito di assurdità consacrate dall'uso, che giungono a considerare quest'ultimo come gli antichi consideravano il destino, come una divinità immutabile, inesorabile, superiore a tutte le altre, e contro la quale è inutile irrigidirsi. Quando mi accada di trovarmi in mezzo di un popolo che si contenti di venire a sapere che una cosa è in uso in un dato posto, per credersi dispensato dall'esaminarla meglio e dal giudicarla, saprò cosa pensare del valore delle sue istituzioni.

La striscia di luce che entrando dalla porta aperta, disegnava un grande rettangolo sul pavimento, apparve d'un tratto intercettata; un rumore di ciarle sussurrate e di pantofole strascicate sulle pietre umide si fece udire dal di fuori e le tre altre mogli del bey, che si trovavano per il momento a casa, vennero a fare la mia conoscenza ed a darmi il benvenuto. La seconda e la terza si assomigliavano a tal punto che le credetti sorelle: erano due grassoccie, la cui salsedine precoce poteva [129] essere scambiata per freschezza in un paese di gusti poco raffinati. Entrambe trascinavano al loro seguito la schiera di bimbi che la Provvidenza aveva loro regalato.

Dietro queste due donne, stava umilmente nell'ombra una figura che attrasse subito i miei sguardi e li tenne avvinti a sè, malgrado tutte le manovre compiute dalle altre sultane per farmi voltare dalla loro parte. Io non ricordo d'aver mai visto nulla di più bello. Questa donna indossava una lunga veste a strascico di raso rosso, aperta sul seno che era appena velato da una camiciola di garza di seta, le cui larghe maniche giungevano fin sotto il gomito. L'acconciatura del suo capo era quella delle Turcomane e, per farsene un'idea, occorre imaginare una complicazione, una molteplicità infinita di turbanti, messi gli uni sugli altri o gli uni attorno agli altri, fino a raggiungere altezze inaccessibili. Eranvi sciarpe rosse arrotolate, sei o sette volte a spirale e formanti una torre nel genere della dea Cibele; fazzoletti di tutti i colori intrecciati colle sciarpe che salivano o scendevano senza un disegno prestabilito e componendo dei fantastici arabeschi; metri e metri di mussola fina che coprivano col loro candore una parte dell'impalcatura, incorniciavano con cura la fronte e ricadevano in drappeggi lunghi e leggeri lungo le guancie, intorno al collo, fino sul petto. Catenelle d'oro o piccoli zecchini, infilati gli uni negli altri, spille in pietre preziose od in diamanti puntate nella mussola, ondeggiavano graziosamente fra le pieghe, dando loro una certa stabilità che non sarebbe stato ragionevole di attendersi da un tessuto così vaporoso. I piccolissimi piedi di bambina, che sembravano scolpiti nel marmo, apparivano [130] e scomparivano tratto tratto sotto la lunga veste scarlatta, mentre braccia e mani, come non ne vidi giammai, scuotevano un numero infinito di braccialetti e di anelli che non dovevano pesar poco e scintillavano come veri diamanti. Tutto ciò costituiva un insieme bizzarro e grazioso al tempo istesso, ma si cessava dal vederlo appena si avesse guardato il viso cinto da quei drappeggi ondeggianti e che una così grande toeletta mirava ad abbellire. La bellezza di quel viso era così singolare che io rinuncio a descriverla perchè non è possibile dare, a chi non ha potuto contemplarla, un'idea di un capolavoro così incantevole della natura, di un misto tanto delizioso di grazia e di timidezza.

Come ho detto, ciascuna delle due nuove venute trascinava con sè, aggrappati alla sua veste, i frutti delle sue viscere, assolutamente come la madre dei Gracchi. Invece la bella donna che prediligevo camminava sola dietro alle sue «metà», come è chiamato in Oriente il grado di parentela che consiste nell'avere un marito comune. Essa teneva la testa bassa e sembrava piuttosto umiliata che umile. Feci in fretta i miei convenevoli colle due prime, perchè ero impaziente di arrivare all'ultima e di vedere quel bel viso animarsi nella conversazione. La saluto e non mi risponde. Le domando perchè non ha condotto con sè i suoi bimbi, sempre silenzio. Allora le tre altre metà, parlando tutte insieme, m'informano colla maggiore soddisfazione che essa non ne ha, mentre la bella china il capo ed arrossisce esageratamente. Mi dolsi di aver toccato un tasto così delicato; ma non si indovinerebbe mai ciò che soggiunsi per attenuare l'effetto della mia imprudenza. Avrei dato prova della più odiosa brutalità, se avessi parlato a qualsiasi altra donna che non fosse stata un'abitante [131] dell'harem; ma vivevo da tre anni in Asia, e conoscevo abbastanza bene il terreno sul quale mi inoltravo. Prendendo dunque un'aria di confidenza elogiosa, come se dovessi dire qualcosa che potesse metter certo un termine all'imbarazzo della bella Turcomana e restituirle l'onore, replicai: «Certo i figli della signora son morti?»

- Non ne ha mai avuti, - urlarono le tre arpie ridendo a crepapelle. Questa volta due lagrime scesero lungo le gote infiammate della poveretta.

Nulla è più spregiato, vilipeso, rejetto in Oriente di una donna sterile. Avere dei figli e perderli è certo un dolore, ma è possibile consolarsene, dimenticarli, sostituirli. Dopo tutto, se anche mancassero i conforti, l'oblio, ed i nuovi rampolli, la madre che ha perduto i suoi figli non resta per questo meno una signora e la sua posizione sociale e domestica rimane la medesima; è rispettata, ammirata, fors'anche amata e non ha nulla da arrossire. Ma non mettere al mondo figliuoli, quella è una disgrazia vera, immensa, irreparabile, che vi getta nel fango e nella polvere e che autorizza l'ultima delle schiave, pur che sia incinta, a calpestarvi. Siate pur bella, graziosa, adorata, abbiate pur recato a vostro marito la sostanza di cui vive, corra nelle vostre vene sangue imperiale, mentre vostro marito non è che un facchino, dal momento che la vostra sterilità è accertata, non avete più da sperare salvezza. Sarebbe meglio per voi finirla colla vita, perchè ognuno dei vostri giorni sarà riempito di dolorose umiliazioni e d'insulti.

Durante tutto il tempo che passai con quelle signore, non mi riescì di strappare alla più bella una sola parola. Abbassava le sue lunghe ciglia con un gesto ammirabile, i più incantevoli colori [132] andavano e venivano sulle sue guancie di velluto, i sorrisi più amabili gareggiavano sulle sue labbra, ma se fosse stata muta non avrebbe potuto rimanere più ostinatamente silenziosa. Non fu che alla fine della mia visita, quando prendevo congedo dalle mie ospiti, ed avevo fatto osservare alla bella taciturna, che la lasciavo senz'aver udito il suono della sua voce, allora soltanto, fatto un passo verso di me e, assunto un atteggiamento deciso, come se stesse per salire su una breccia, essa disse tutto d'un fiato, con una voce dolcissima e molto pura, ma priva della menoma modulazione nel suono:

- Signora, rimani ancora, perchè ti voglio molto bene.

Ciò detto, la bocca si richiuse, gli occhi ricominciarono a guardare il pavimento, l'ardore della risoluzione si spense su quel magnifico viso; l'impresa era stato coronata da successo, il complimento era giunto al suo indirizzo e la bella fra le belle poteva riposare sugli allori.

Non so perchè, ma a partire da quel momento fui perseguitata dall'idea che la mia regina di bellezza potesse essere idiota e che mi avesse servito una delle frasi, forse l'unica, colla quale salutava il signore suo sposo. Quando lo rividi gli feci, secondo l'uso, molte lodi delle sue donne, ma insistetti sopratutto sulla rara bellezza della mia favorita.

- La trovate dunque così bella? - disse egli con una certa sorpresa.

- Mirabilmente bella! - gli risposi.

Parve che riflettesse un momento, poi rialzò le sopraciglia, disegnando, con questo movimento una quantità di rughe orizzontali sulla sua fronte; spinse innanzi il labbro inferiore ed il mento, abbassò [133] la testa allungando il collo, alzò leggermente le spalle ed un poco le braccia per lasciarle poi ricadere sulle coscie; finalmente mi disse in tono semi-confidenziale:

- Non ha figli.

Era giudicata!

Avevo fretta di rimettermi in cammino.

Dopo aver passato alcuni giorni presso il principe del Giaur-Daghda, dovevo raggiungere Alessandretta per dirigermi di là a Beirut. Sgraziatamente il tempo piovoso venne a contrariare i miei progetti di partenza e dovetti, molto a malincuore, prolungare il mio soggiorno nella residenza di Mustuk, senz'altri mezzi di distrazione che conversazioni molto monotone, un poco col bey ed un poco colle sue mogli. Finalmente il sole ricomparve, ed io abbandonai il monte del Giaurro, con un senso vivissimo di soddisfazione, cioè in una disposizione d'animo ben diversa da quella in cui mi trovavo alla mia partenza da Adana.

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