Il Giaur Daghda - Un villaggio fellah - il Pascià d'Adana

Dal giorno in cui avevo lasciato la tranquilla mia vallata nell'Asia Minore avevo avuto, come si è potuto vedere, non poche occasioni di avvezzarmi agli stenti ed ai pericoli della vita dei viaggiatori nel Levante. Da Angora ad Adana mi ero [85] fermata poco e di rado, mentre le marcie erano state faticose e quasi continue. Pertanto i pochi giorni che passai ad Adana, giorni di riposo e di festa rallegrati dalla presenza di europei ed anche di italiani, mi hanno lasciato un ricordo gradevole. Debbo dire che il fascino di quel mio soggiorno mi era aumentato dall'idea che avrei dovuto affrontare altri pericoli appena lasciata la città.

Sul punto d'intraprendere una spedizione abbastanza pericolosa attraverso il Giaur-Daghda (montagne del Giaurro), mi sentivo meglio disposta ad apprezzare qualche momento di calma trascorso in mezzo ad amici devoti. Vi è in ogni vita attiva qualcuna di queste tregue, quasi sempre troppo brevi e che hanno un incanto tanto maggiore quando devono esser seguite da un domani avventuroso.

Ma cos'era dunque questo Giaur-Daghda, che mi si descriveva ad Adana con colori così poco rassicuranti? È una catena di montagne tre volte più vasta dell'Alvernia e con una popolazione di 500 mila anime. Io ripeto quanto mi è stato detto senza garantire nulla. Questa popolazione è divisa in due gruppi che potrebbero essere chiamati dei deboli o sedentari e dei forti o nomadi: i primi abitano i villaggi, i secondi errano lungo le strade. Converrà parlare degli uni e degli altri.

La parte sedentaria e pacifica di questa popolazione consiste in vecchi, in donne e in bambini; numerosi villaggi sparsi sul fianco delle montagne o celati in fondo alle valli sono il loro rifugio. Il mussulmano, bisogna riconoscerlo, ha un gusto istintivo per le bellezze della natura. Fabbrica sempre i suoi villaggi all'ombra di begli alberi, nel mezzo di verdi aiuole od in riva a limpidi ruscelli. [86] Se gli domandate le ragioni che gli hanno fatto scegliere un posto più di un altro per dimorarvi, sarà imbarazzatissimo a rispondervi, perchè non saprebbe spiegare a sè stesso le sue preferenze. Quand'egli cerca le posture pittoresche obbedisce al medesimo istinto che guida l'aquila fra le roccie, che spinge la rondine ad annidarsi sotto ai tetti, il passero a rifugiarsi nei giunchi, la quaglia a nascondersi nel grano. Egli ha udito ai piedi di un albero, sulla vetta di quella collina il gorgoglio dell'acqua fra le erbe alte od il fruscio del vento nel bosco vicino: l'ombra gli è parsa gradevole e l'aria imbalsamata e si è fermato. A qual pro andar più innanzi? Così sorge un villaggio turco laddove la vita è parsa facile e la natura aveva l'aspetto ricco ed attraente. I greci, ben diversi dai turchi, non vedono che il lato positivo nella collocazione dei villaggi. Nella scelta di una dimora si preoccupano, a ragione, che il terreno sia solido, le pietre per costruire abbondino e non manchino le comunicazioni coi mercati periodici. I greci non disdegnano la vicinanza degli alberi, ma allo scopo di fare assi dei tronchi e fascina dei rami. Così a prima vista e da lungi un villaggio greco si può distinguere da uno turco. Il primo è triste e repugnante, attraente il secondo; ma purtroppo la differenza cessa quando si penetra nelle strade. Vedute da vicino le case greche e le case turche si rivelano tutte egualmente brutte, tetre ed inabitabili.

Gli abitanti validi del Giaur-Daghda non s'incontrano, come ho detto, che lungo le strade e quei rozzi montanari non sono vicini molto comodi. Guai alle carovane che essi sorprendono ed alle tribù che vivono nel raggio delle loro incursioni! [87] Ogni popolazione che abita in case di legno facili a bruciare o che non ha granaio per ricoverare i suoi cereali è trattata da nemico dagli abitanti del Giaur-Daghda dediti alle avventure. Perciò le strade che attraversano il loro paese sono le meno frequentate che esistano al mondo. Un bey, dipendente dal pascià di Adana, delegato del potere imperiale, dovrebbe, è vero, governare nelle montagne del Giaurro, ma non si può negare che il potere centrale qui non esiste che in apparenza. Per quanto gli ordini di Costantinopoli possano essere promulgati nel Giaur-Daghda, imponendo leve e tasse, non troverete un montanaro che indossi l'uniforme o che versi un centesimo al fisco. Agiscono così, non per vigliaccheria, ma per amore della vita indipendente. Il Levante novera molte popolazioni nello stesso caso e dalla Siria all'Egitto potrete incontrare i Drusi, gli Ansariani, i Mettuali, ecc. Tanti popoli ad un tempo non potrebbero esser fronteggiati che da eserciti così numerosi come quelli di Senacheribbo e per ottenere qualcosa da schiatte così indomite è preferibile ricorrere ai mezzi pacifici. Nondimeno talvolta scoppiano delle crisi ed un pascià si risolve a mandare alcune compagnie di fantaccini contro le tribù ribelli. Queste allora hanno due vie da seguire: o si ritirano in massa in rifugi sicuri e lasciano le truppe regolari in balìa dei rischi di marcie mal sicure, in paesi deserti, oppure sdegnose della tattica di Fabio prendono l'offensiva, dopo essersi assicurate una grande superiorità numerica. Per esempio 25,000 montanari affrontano un migliaio di soldati, gesto che di regola basta a terminare le ostilità. Le truppe rientrano nelle loro caserme; i montanari riprendono [88] le loro faccende e si ristabilisce la buona armonia fra governo e popolo fino alla prossima leva od alla scadenza delle imposte.

Ecco il popolo di cui dovevo traversare il territorio dopo aver lasciato Adana. Aspettando il giorno della partenza vivevo come ho detto, molto piacevolmente. Ero lieta di dimorare finalmente in quella vecchia terra delle palme e dei cedri, fra genti arabe che nel tipo e nei costumi evocavano ai miei sguardi le splendide scene della Bibbia. È sotto il cielo d'Oriente che dovreste leggere le pagine dell'antico Testamento. I casi del vecchio Giobbe, fra gli altri, si rinnovano qui ogni giorno. La ricchezza di un abitante della campagna non consiste che nelle sue greggi; l'orientale non tiene capitali in deposito in una banca o presso un notaio. Il ricco non ha denaro in maggiore abbondanza del povero; ma ha i suoi granai, grandi buche scavate nella terra e riempite di grano avuto in cambio dei prodotti del bestiame, ha il bestiame stesso, dal quale ricava tutto ciò che gli occorre. Con questi cespiti, i granai e le greggi, il ricco deve pure mantenere una famiglia e un gran numero di servi, ha una tenda sempre aperta al viaggiatore o all'amico che presentandosi trova una tavola sempre servita, se si può dare questo nome al vassojo di stagno che piega sotto il peso di agnelli e di capretti arrostiti intieri e ripieni d'uva secca e di fichi. Ecco ciò che nel Levante si chiama un ricco proprietario, un gran signore; ma che accadrà di lui se un'eruzione infetta le greggi di questo potente? Se un fiume inonda i suoi granai? Esattamente quello che è accaduto al vecchio Giobbe, giacchè non gli rimane che la terra che qui non ha alcun valore [89] venale. Io non dubito che vi sia a quest'ora più di un Giobbe in Oriente, e, se molti secoli ci separano dai tempi biblici, si può dire che le grandi famiglie arabe, dalle quali furon tratti quei tipi, hanno serbata intatta in fondo la loro fisionomia e che, a differenza degli altri popoli, non hanno subito profonde metamorfosi.

Io osservava con un'attenta simpatia i costumi orientali quali mi si presentavano dal mio arrivo ad Adana, quando un medico piemontese, il signor Orta, stabilito da parecchi anni in Oriente e possessore di una bellissima collezione di antichità, mi propose di andare a visitare un villaggio fellah non lontano dalle porte di Adana. Rimasi male, perchè io credeva che i fellah non vivessero che in Africa, sulle rive del Nilo. Il dottor Orta, vedendomi disorientata, venne in ajuto della mia erudizione presa in fallo e mi assicurò che questi fellah derivavano realmente da quelli d'Egitto ed erano stati qui trapiantati da Jbrahim Pascià. La mia sorpresa doveva però crescere ancora. Non appena avevo coordinato l'esistenza alle falde del Tauro dei fellah del buon medico, colle nozioni attinte sul loro conto in una quantità di libri eccellenti, ecco un altro abitante di Adana affermarmi che alquanti milioni di fellah indigeni della Siria vivono lungo tutto il litorale, da Tarso fino ai dintorni di Beyrut ed anche nelle montagne che dal litorale si protendono verso l'interno. Cosa potevano essere i pochi fellah del dottore dirimpetto a queste schiere di fellah disseminate in una gran parte della Siria, malgrado tutte le affermazioni dei viaggiatori che danno loro l'Egitto per culla? In realtà i fellah venuti dall'Egitto e quelli della Siria non si assomigliano affatto: i primi sono veri [90] negri che alloggiano in grandi ceste di vimini ove trascorrono giorno e notte, obbedendo al capo della loro razza che onorano col titolo di re e che si distingue dagli altri per la sua lunga veste rossa e per un parasole rosso anch'esso, che uno schiavo tiene sempre aperto sul suo capo.

- Quali sono le attribuzioni di questo monarca?

- Nessuna.

- E le sue rendite?

- Non ne ha.

- Qual'è il suo potere?

- È nullo.

- Che fanno i suoi sudditi?

- Niente.

- Ma come e di cosa vivono?

- Dei legumi e dei frutti che crescono quasi spontaneamente accanto alle loro capanne di vimini.

Ecco le dimande che rivolsi alla mia guida e le risposte che ne ottenni. Che aveva dunque pel capo Ibrahim Pascià quando condusse seco questa popolazione fino sulle frontiere della Siria e ve la lasciò perchè crescesse e si moltiplicasse? Crescere e moltiplicarsi costituisce un programma molto semplice e poco ambizioso; nondimeno i fellah di Adana non hanno saputo eseguirlo, poichè il loro numero diminuisce tutti i giorni. Non si adattano al clima e ne soffrono. Per uomini avvezzi sin dall'infanzia alle cocenti carezze del sole africano, un leggero vento di levante è una calamità.

Quanto agli altri fellah della Siria, che ho poi visto in buon numero, nulla li distingue dagli indigeni salvo le loro vesti ed i loro turbanti completamente bianchi. La loro origine è ignota; ma si [91] sono stabiliti lungo le coste della Siria probabilmente da lungo tempo. Non è il caso di domandarsi perchè il tempo non abbia attenuato la diffidenza che isola questa razza dagli altri popoli dell'Oriente. La tenacia di sentimenti e di pregiudizi che regna fra gli orientali supera ogni immaginazione; io suppongo che i fellah ignorino perchè essi detestino e disprezzino i turchi e gli arabi allo stesso modo che questi non conoscono il motivo della loro esecrazione per i fellah, ciò che non impedisce nè agli uni nè agli altri di augurarsi scambievolmente i maggiori mali e di danneggiarsi tutte le volte che lo possono fare impunemente. I fellah possiedono od hanno in affitto quasi tutti i terreni coltivati di quelle contrade della Siria che essi abitano, mentre gli indigeni cacciano lungo le strade ed inseguono le carovane. Come accade nelle società semi-barbare, il lavoro non è punto onorato in Asia e gli oziosi, per non dire i briganti, guardano gli artigiani ed i coltivatori dall'alto della loro nobiltà. Arti e mestieri sono l'appannaggio dei greci e degli armeni e l'agricoltura è riservata ai fellah.

Sebbene poveri ed ignoranti, disprezzati ed odiati, essi hanno un'aria seria, dolce e melanconica e fatico a crederli così crudeli e perfidi come vogliono dipingerli. La loro religione è un mistero, e, a dir il vero, l'intolleranza dei mussulmani ha costretto tutte le genti non maomettane a compiere i loro riti in segreto. Solo i cristiani hanno osato proclamare a testa alta la loro fede di fronte ai mussulmani e perciò hanno sofferto persecuzioni e martirio. Quanto ai fellah, sono accusati a volte di adorare il fuoco oppure un animale favoloso o un idolo di legno, altre volte di non aver religione.

[92]

Dopo aver visitato quel villaggio in vimini volli far visita al pascià di Adana, premendomi di assicurarmene la protezione prima di penetrare fra i monti del Giaurro. Quando entrai nella corte che ha in fondo una torre quadrata di legno, che ospita l'alto funzionario, constatai ancor meglio il trapasso che avevo compiuto dal mondo turco all'arabo. L'Oriente turco non assomiglia affatto, ahimè, all'Europa; ma le si accosta assai più che non l'Oriente arabo, il quale reca l'impronta sua propria sia nelle sue ricchezze, sia nelle sue miserie. Molte cose vi sono sgradevoli, assurde, incomode, repulsive; noi vi ci troviamo via via a disagio, scontenti, inquieti, indignati; ma lo siamo in modo diverso che in qualunque altro luogo e indubbiamente, finchè questo stato di cose è per noi nuovo, tanta novità vale a compensarci di molti inconvenienti.

È difficile vedere qualche cosa di più brutto, sudicio ed irregolare dell'esterno del palazzo abitato dal pascià di Adana. La corte nella quale ero entrata è chiusa da un lato dalla torre quadrata di sua Eccellenza, e dagli altri tre lati con edifici ad un solo piano, le cui linee pesanti e disadorne corrispondono esattamente alla loro destinazione, a scuderie, prigioni e cucine. Un pajo di palmizi, colla corteccia in brandelli, ombreggiano qualche poco un angolo della corte. Questo recinto così mal decorato brulicava, quando vi entrai, di tante persone singolari nelle forme, nelle fisionomie, nei costumi, nella lingua, nelle movenze, che avrei voluto rimanervi un giorno intiero a contemplarle. Qua stavano degli arnauti albanesi colla loro veste bianca floscia e corta, le loro ghette rosse ricamate a lame metalliche, la loro casacca colle [93] maniche spioventi ed il corpetto carico d'oro e di argento, giocando ai dadi sul pavimento lastricato della corte, ben decisi tutti ad un modo a non perdere la partita. Un poco più in là un beduino del deserto ritto accanto al suo cavallo nella cui briglia aveva passato il braccio, tutto avvolto in un immenso mantello bianco, salvo la testa coperta da un fazzoletto di seta gialla e rossa che ricadeva come un velo sul suo viso scuro e fiero, guardava con sdegnosa indifferenza i giocatori avidi ed impazienti reggendo colla mano la sua lunga picca di dodici piedi. Lungo i muri di destra splendidi cavalli arabi, attaccati da catene agli anelli di ferro infissi nella parete, ricevevano nitrendo e scalpitando le cure attente di palafrenieri egizi vestiti di tela turchina, piccoli, magri, di colorito quasi nero, ma vigorosi ed intelligenti. Infine, sporgendo un poco dal muro di sinistra, un piccolo spazio riservato fra la muraglia ed una palizzata di legno custodiva una decina di uomini seminudi, incatenati alle mani ed ai piedi, che tendevano le braccia chiedendo l'elemosina. Fra quei banditi rilevai dei visi espressivi e delle movenze che sarebber piaciute a Salvator Rosa; tutta la loro bellezza era nei tratti e nell'espressione viva, prepotente della brutalità delle passioni. Non potrei dire che quei visi sembrassero dimessi; non basta di avere un'anima, occorre sentire la presenza di quel divino ospite per soffrire, nella vergogna e nel turbamento, della sua decadenza. La Dio mercè, quasi tutti i delinquenti del nostro mondo occidentale recano in fronte le traccie di una lotta più o meno recente contro la loro perversa natura. Quella stessa aria di trionfo che risplende così spesso in viso al colpevole recidivo non rende anch'essa testimonianza [94] della realtà di un interno combattimento? Qui si tratta di ben altro e purtroppo il delinquente non è un uomo profondamente diverso dal buon cittadino. Talune azioni sono riprovate dalle leggi umane, ma devo supporre che questa legge religiosa le ignori, perchè, se i colpevoli sono qualche volta puniti nel loro corpo, non perdono affatto la loro riputazione. In nessun paese io vidi mai un così gran numero di uomini entrare ed uscire di prigione con tanta naturalezza ed indifferenza.

Poichè parliamo dei prigionieri incarcerati dietro la staccionata della corte del pascià, debbo dire che il loro sguardo era così sicuro, forse anche più sicuro che il nostro mentre li stavamo guardando. Mi era impossibile di riconoscere in essi uomini che non avessero una natura diversa dalla nostra, effettivamente ignari del senso delle parole vizio e virtù. Anche in Europa mi furono additati più volte autori di grandi delitti come incapaci di comprendere il senso di quelle due parole; ma devono esser stati giudicati male, giacchè nessuno nella società cristiana può essere estraneo alla distinzione tra il vizio e la virtù. Solo all'infuori del Cristianesimo, anzi della natura primitiva, solo in seno ad una civiltà quasi altrettanto antica che la cristiana, ma basata su tutt'altri principii, si deve cercare questo fenomeno: un uomo senza coscienza!

Scorsi un altro gruppo poco numeroso nascosto in un angolo della corte, sotto una specie di tetto che sporgeva sopra una finestra. Questi uomini che contrastavano negli abiti e negli atteggiamenti col resto della folla variopinta erano ricchi negozianti armeni di Adana che forse per la ventesima volta venivano a chiedere un'udienza che il pascià [95] si dimenticava sempre di accordare loro. I sudditi cristiani del Sultano ormai non hanno nulla da temere nè per le loro persone, nè per i loro averi; ma la timidezza è naturale nei figli delle vittime. Guardando i loro turbanti neri, le loro lunghe vesti sbiadite e lacere, l'espressione umile e timorosa del loro viso, la linea sempre curva della loro spina dorsale, potreste credervi ancora al tempo delle confische, delle spogliazioni, dei ratti e delle impiccagioni. Chiedendo loro di che temono, il loro spavento si accresce; se poi cercate di far loro comprendere che la crudeltà, la violenza, la cupidigia sono così estranee all'anima del giovane sultano come lo sarebbero a quella di un bimbo appena nato, rischiereste di farli svenire. Tutto fa loro l'effetto di uno spauracchio ed il meglio che vi resta a fare è di lasciarli rabbrividire quanto vogliono, per la paura che cercando di rassicurarli non abbiate a gettarli in un parossismo di terrore.

Avrei ben voluto fermarmi qualche momento in questa corte, ma gli amici che mi accompagnavano mi andavano ripetendo che la mia visita era già stata annunciata al pascià, che questi mi attendeva e che bisognava che ci affrettassimo. Quando fui giunta all'ingresso del vestibolo della torre quadrata, le loro esortazioni divennero superflue. Mi venne incontro una fiumana di segretari, sottosegretari, accenditori di pipe, tostatori di caffè, camerieri ed altri simili dignitari vestiti mezzo all'europea secondo l'uso di Costantinopoli. Facevano un gran baccano: e chi mi prendeva per il braccio, per l'orlo della mia veste o per un lembo del mio mantello, chi si slanciava innanzi per annunciarmi al padrone, chi infine chiudeva il corteo, sì che fui sollevata, come in un vortice, fino [96] all'alto della scala. Ho una vaga idea d'aver camminato sui piedi, sulle ginocchia ed anche sulle mani di tutta una serie di sollecitatori che aspettavano l'udienza accoccolati sui gradini; ma in ogni caso quei disgraziati devono aver compreso che ubbidivo ad una spinta altrui, giacchè non udii levarsi dietro a me alcuna di quelle imprecazioni così naturali in circostanze simili e dalle quali forse neppur io avrei saputo trattenermi.

Trovammo il pascià nella sua sala d'udienza di cui tutto il lato sul quale si aprivano le finestre era accompagnato nell'intera sua lunghezza da un divano, secondo l'uso ottomano. Tutto il mobilio consisteva in tale sedile, una tavola rotonda posta in mezzo alla sala, un lampadario appeso sopra la tavola ed inoltre un piccolo scrittojo collocato sullo stesso divano accanto al pascià. Bisogna dire che tale divano non è un mobile che possa rimpiazzare i nostri sofà, ma una serie di assi che sono considerati un semplice rialzo del pavimento, tanto che la gente vi si siede sui tacchi come farebbe in mezzo alla stanza, giacchè qui non si crede possibile di sedersi dove non si è camminato o non si è rimasti in piedi. A casa mia, cioè nella mia fattoria d'Asia Minore, ho alcune seggioline intrecciate in isparto che mi sono state mandate da Milano; nei primi tempi del mio soggiorno in Turchia ebbi l'imprudenza di offrirle, come sedile, ad un bey, piuttosto corpulento, che veniva a farmi visita. Quale non fu il mio spavento allorchè lo vidi rialzare il suo abito come per eseguire un movimento difficile e porre il suo piede largo sulla mia seggiolina! La disgraziata fece udire uno scricchiolio di cattivo augurio ed il bey terrorizzato ritirò il suo piede e si sedette per terra. Da quel momento [97] si radicò l'opinione nel paese che i Franchi sono incomparabilmente più leggeri che i Turchi poichè usano sedersi sui mobili che si sfasciano sotto il peso dei Turchi. A nessuno venne in mente che il modo di sedersi potesse influire su tale fenomeno.

Il pascià di Adana è cortesissimo, sembra intelligente ed abbastanza istruito. Credo abbia viaggiato, parla il francese e discorre volontieri cogli stranieri. Non avrebbe potuto essere più amabile con me; ma v'è sempre qualcosa che ci sorprende nel tratto di chi differisce così completamente dalla nostra educazione e dai nostri costumi. Il loro modo d'interrogare non può che imbarazzare l'interlocutore. M'era appena seduta al posto d'onore che il pascià mi aveva forzato ad accettare, ed avevo risposto ai complimenti di rito sul mio arrivo, il mio soggiorno e la mia partenza, quando il pascià mi indirizzò a bruciapelo domande simili:

- Cosa pensate che la Russia potrà fare in Oriente? Quanto credete che durerà in Francia la forma attuale di governo? Credete il movimento rivoluzionario represso per sempre in Europa?

Cercai invano di tergiversare e di declinare il compito di oracolo che mi si offriva, insinuando inutilmente che problemi così gravi e complessi non potevano essere risolti con poche parole ed in pochi minuti. Ma il pascià, senza badare alle mie scappatoje, ripeteva imperturbabilmente le sue domande. Finii per rassegnarmi e con tutta la mia presunzione risposi in tono serio qualche banalità, ciò che non impedì al pascià di sembrare incantato della profondità e della precisione delle mie idee.

Dopo ciò parlammo di cose meno gravi, fra l'altro del tempo che avrei impiegato per arrivare a [98] Gerusalemme ed il pascià venne a sapere che intendevo viaggiare per terra. Il mio proposito lo allarmò visibilmente, come la maggiore delle imprudenze, «giacchè senza parlare degli arabi che infestano tutti i valichi del Libano» egli diceva «avrei dovuto attraversare, tra Adana ed Alessandretta, una parte dei monti del Giaurro che, a buon diritto, spaventano non meno delle regioni più mal famate del deserto».

- Ma perchè non andreste per mare? - mi ripeteva continuamente.

Ebbi allora l'idea di chiedergli se, rinunciando al mio progetto per imbarcarmi, avrei potuto trovare un battello a vapore che mi trasportasse da Tarso a Giaffa. La domanda era opportuna, giacchè il pascià guardò in viso i suoi segretari, confidenti e domestici che scossero il capo. Dopo qualche minuto di consulti e di discussioni in arabo, S. Ecc. finì per confessare che il passaggio del vapore aveva luogo molto irregolarmente, che Tarso non era uno scalo cioè uno dei porti toccati dal servizio di navigazione, che vi sarebbe forse un'occasione nel corso del seguente mese, ma che essa avrebbe potuto tardare tre mesi. Mi propose anche d'imbarcarmi su una nave a vela, ma quando gli ebbero obbiettato che nel golfo i venti soffiavano in tutte le direzioni e gli ricordarono tutti i naufragi dell'ultimo inverno, il buon pascià fini là dove avrebbe dovuto cominciare e concluse che, se volevo essere a Gerusalemme per le feste di Pasqua, dovevo prendere la via di terra.

Mi rimaneva da affrontare un ultimo argomento. Poichè stavo per attraversare questo terribile Giaur-Daghda ed il dado era tratto, sì che non vi era più luogo a smentirsi, si trattava di superare [99] il pericolo. Il pascià mi aveva parlato del bey della montagna come di un uomo che conoscesse e stimasse in modo particolare e credetti di potergli chiedere senza indiscrezione qualche riga di raccomandazione. L'ottenni, anzi dovetti accettare una scorta di venti uomini; inoltre uno de' miei amici di Adana mi procurò un'altra lettera di un negoziante che aveva reso molti servizi al bey, sì che ormai mi consideravo al riparo dei pericoli. Preso congedo da quel gentile pascià, ritornai al mio alloggio per prepararmi alla partenza che ebbe luogo l'indomani mattina.

In una città del Levante la partenza, come l'arrivo, è una faccenda importante: tutta la città è in subbuglio. Anzitutto la curiosità, poi quel sentimento d'ospitalità di cui nessuno oserebbe mostrarsi privo, da ultimo la consuetudine fanno sì che per il momento qualsiasi viaggiatore, fosse pure insignificante per sè stesso, diventa una specie di idolo che non si saprebbe onorare abbastanza. Tutte le case gli si aprono, si scaldano per lui tutte le caffettiere e tutti i vasi di marmellate hanno la loro parte in queste cerimonie del saluto. Non voglio svelare la parte che vi hanno l'ostentazione, l'abitudine od i sentimenti davvero benevoli; tale ricerca sarebbe tanto più difficile in quanto che le proporzioni varierebbero da un luogo all'altro. Ciò che è certo si è che il viaggiatore non si sente straniero in una città che visita per la prima volta e dove non conosce nessuno. Come ho detto tutte le porte gli sono aperte, anzi si potrebbe dire altrettanto dei cuori; quanto alle borse lo sono di certo. Più di una volta mi accadde di esaurire la somma, colla quale avevo contato di raggiungere la residenza di un banchiere, quando non ero [100] ancora a mezza strada. In un caso simile in Europa avrei interrotto il mio viaggio, e scritto al banchiere, presso il quale ero accreditata, di mandarmi il denaro là dove rimanevo ad attenderlo. Ma in Oriente, grazie all'irregolarità ed alla lentezza delle comunicazioni postali, il ritardo avrebbe potuto prolungarsi parecchi mesi. Non dovetti mai sottostare ad una così lunga attesa, giacchè fra tante domande che ovunque mi rivolgevano i miei ospiti ed i numerosi miei amici non mancava quasi mai questa: - Avreste bisogno di denaro? - E se rispondevo di sì, non vedevo dei visi lunghi, perchè le offerte de' miei bravi ospiti non erano vane formule di cortesia. Mi avevano offerto il denaro e me lo recavano colla stessa intonazione e collo stesso viso. Naturalmente non ho bisogno di dire che queste somme erano restituite puntualmente; ma chi lo garantiva a' miei ospiti?

Una volta in un villaggio in pieno Libano, ove avevo dovuto fermarmi oltre 15 giorni, dopo una serie di incidenti, un monaco carmelitano sopraggiunse e mi chiese perchè io non continuassi il mio viaggio. Gli risposi che avevo speso, con quella forzata interruzione, il denaro col quale avrei dovuto raggiungere Homs, ove avevo dei fondi e che vi avevo scritto di mandarmi del denaro. Il frate ritornava da Tripoli, dove si era recato per riscuotere alcune centinaia di piastre. Trattele dalla bisaccia che era attaccata alla sella del suo cavallo, me le consegnò dicendo: «Il mio convento è a pochi passi di distanza, io ed i miei confratelli potremo aspettare nelle nostre celle più facilmente che voi sotto le vostre tende. Arrivando ad Homs rimettete la somma al tale.» Mi diede le istruzioni sul modo di fargliele pervenire e riprese [101] la sua strada. Altre volte ricevetti la stessa prova di fiducia, da un negoziante, da un turco, da un latino, e anche da un armeno! Questa fiducia era concessa non a me personalmente, ma al viaggiatore, all'ospite, giacchè ogni abitante di una città considera suo ospite lo straniero che vi si trova.

Quando lasciai Adana, la guida che camminava in testa alla carovana aveva già oltrepassato le ultime case del sobborgo e l'ultimo cavaliere della mia scorta non era ancor escito dalla porta di casa mia. Come si vede, formavamo una processione di aspetto molto imponente e la popolazione della città, assiepata sul nostro passaggio, poteva esser soddisfatta dello spettacolo che le offrivamo. Tutte le persone che avevo conosciute, durante il mio soggiorno ad Adana, tutte quelle che erano venute da Tarso per vedermi, avevano voluto accompagnarmi fino ad una certa distanza dalla città. Aggiungete al corteo la scorta del pascià e la nostra vera e propria carovana, bagagli, domestici e viaggiatori e comprenderete che potevamo ben occupare una metà di Adana.

Confesso che mi allontanavo con rammarico da quel piccolo mondo di cui ero stata il centro durante una settimana, da quegli uomini che avevano tralasciato i loro affari per non occuparsi che di rendermi la vita dolce e gradevole, per quanto il mio soggiorno ad Adana fosse stato breve e quei nuovi amici di data recente. La partenza non è mai cosa lieta e del resto non ero la sola a provare questi rimpianti e coloro che li inspiravano non ne erano immuni. Non vi era solo della tristezza sul volto de' miei amici; vi notai qualche ansietà, specie se accadeva ad uno di essi di [102] trattenersi qualche momento a parte cogli uomini della scorta. Questi non avrebbero avuto un'aria più cupa e grave se avessero accompagnato al patibolo una schiera di condannati. Devo ammettere che cominciavo ad aver paura. Tutti tremavano per me e giungevo a rimproverarmi l'ostinazione che poteva compromettere non solo la mia vita, ma quella di una cara fanciulla che non aveva che me per proteggerla e difenderla. Se a quel momento qualcuno della carovana mi avesse proposto di ritornare indietro credo che avrei accettato l'invito con trasporto; ma chi sa mai che avviene nel cuore del suo vicino? Mentre io formavo i voti più timidi, forse i miei compagni deploravano la mia temerità.

Gli abitanti di Adana che mi avevano scortato finirono per fermarsi presso un vecchio albero disseccato che segna il limite oltre il quale non si accompagnano mai i partenti. Grandi strette di mano, le formule commoventi di augurio delle quali tutti sono così prodighi in Oriente e che si imparano facilmente da loro furono scambiate e ripetute da ognuno: «Dio vi benedica e vi riconduca! Dio vi conceda la salute e la pace! Voglia farvi felici in quelli che voi amate! Possano i miei occhi rivedervi! Possa la vostra voce rallegrare il mio cuore!» Voltarono poi i loro cavalli verso la città ed il settentrione; noi indirizzammo i nostri verso il deserto ed il mezzogiorno. Da ambo i lati la nebbia copriva il paese a breve distanza e ci nascondeva la vista dei luoghi ove ci dirigevamo; ma quelli che ci lasciavano sapevano bene che vi fosse dietro quella nebbia, la città, il focolare, la famiglia. Noi invece andavamo verso l'ignoto: a che gli valeva quel velo?

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