LIBRO NONO

SOMMARIO

Negoziati inutili di pace. Stato della repubblica Cispadana: nuovo congresso dei popoli dell'Emilia. Squallore dei soldati francesi in Italia, e ruberie dei pubblicani. Lamenti di Buonaparte in questo proposito. L'Austria ingrossa di nuovo, e fa impresa di riconquistare le sue possessioni d'Italia. Alvinzi suo generalissimo. Nuova e terribil guerra. Feroci battaglie nel Tirolo con la peggio dei repubblicani: lentezza molto fatale all'Austria del generale Davidovich dopo le sue vittorie in questo paese. Disegni di Buonaparte per opporsi a questa nuova inondazione di Tedeschi. Fatti d'arme sulla Brenta. Battaglia di Caldiero. Condizione assai pericolosa di Buonaparte: arte mirabile, colla quale se ne riscuote. Prodigiosa battaglia di Arcole. Battaglia moltiforme di Rivoli. Gli Alemanni rincacciati del tutto dall'Italia. Il generale austriaco Provera fatto prigione con tutti i suoi sotto le mura di Mantova. Celerità maravigliosa di Buonaparte in tutti questi fatti. Guerra contro il Pontefice. Battaglia del Senio. Pace di Tolentino, e sue gravi condizioni a' danni di Roma. Mantova si arrende alle armi repubblicane: lodi di Wurmser. Lusinghe di Buonaparte alla repubblica di San Marino: risposte dei Sanmariniani.

Noi dobbiamo continuar nel fastidio di raccontar governi non così tosto creati che spenti, secondochè portava l'utilità od il capriccio del vincitore, di cui sempre più si scoprivano i pensieri indiritti a turbare tutta l'Italia. Abbiamo nel precedente libro descritto, come per quel principal fine dell'aver la pace coll'imperatore, il direttorio di Parigi, e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa natura ora all'imperatore medesimo, ora alla repubblica di Venezia, ora a quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria spaventata dalle calamità, a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena, se non di concludere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a Vicenza il generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke. Anche l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperatore, e dalla forza della repubblica francese, che ogni dì più pareva insuperabile, si era piegata, benchè mal volentieri, a voler trattare, ed aveva mandato a questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci di voler rimuovere tanto incendio dall'Europa afflitta, e di aver a cuore lo stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le vittorie dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte di Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più renitenti, e di nuovo convenne venirne al cimento delle armi. Solo la Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia, che nella propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo il re costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della guerra imminente col papa; al quale trattato il direttorio non volle ratificare a cagione della cessione, che vi si stipulava di alcuni territorj imperiali; perchè il re opportunamente valendosi della condizion sua armata, e dell'esser posto alle spalle dell'esercito francese, non cessava di addomandare o restituzione, o ricompenso delle perdute Savoja e Nizza. Il che pazientemente non poteva udire il governo di Francia, per essere quelle province unite per legge di stato alla repubblica.

Adunque il direttorio, trovata tanta durezza nell'Austria, nell'Inghilterra, e nel papa, che continuamente si preparava alla guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre, perchè non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare, se il timore delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che il timore delle armi non aveva potuto.

A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia, e le instigazioni di Trento. Ma per parlar dei primi, si voleva da Buonaparte, che a quello che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra, succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di constituzione, perchè lo stato disordinato, siccome quello che è temporaneo di natura, lascia da per sè stesso appicco a cambiamento di signoria nativa a signoria forestiera, mentre lo stato ordinato e riconosciuto non può darsi ad altrui senza nota d'infamia. Oltre a ciò sperava il generalissimo di accendere con questo allettativo d'independenza talmente quei popoli già di per se stessi tanto accendibili, che un fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti di quel fanatismo religioso, che per difesa propria s'ingegnava il pontefice di far sorgere in Italia contro i conquistatori. Sapeva che queste opere erano facili ad eseguirsi, perchè in alcuni ingannati operava l'amor della libertà, in altri consapevoli la peste dell'ambizione. Tanta paura aveva quel capitano vittorioso di coloro, che chiamava per isprezzo, non so se mel debba dire per la dignità della storia, pretacci. Bene ordinato era, quanto all'effetto, questo consiglio di opporre popoli accesi a popoli accesi. Ma ei conosceva bene il paese, e gli umori che vi correvano; perchè era solito dire, che in quella Cispadana repubblica erano tre sorti d'uomini: amatori dell'antico governo; partigiani di una constituzione independente, ma pendente all'aristocrazia, e quest'era il patriziato; finalmente partigiani della constituzione francese o della democrazia. Aggiungeva, che egli era intento a frenare i primi, a fomentare i secondi, a moderare i terzi, perchè i secondi erano i proprietari ricchi ed i preti, ch'ei credeva doversi conciliare, perchè rendessero i popoli partigiani di Francia. Quanto ai terzi affermava, esser giovani scrittori, uomini, che, come in Francia, così in tutti i paesi cambiavano di governo, ed amavano la libertà solamente, come diceva, per fare una rivoluzione. Dal che si vede in quale stima egli avesse quelli che professavano la libertà; e per verità non pochi fra di loro diedero tali segni al mondo, che fu manifesto come il giovane di ventott'anni con insolita sagacità avesse bene penetrato la natura loro: questo conoscere gli uomini fu cagione, ch'ei potè fare tutto quello che volle.

Erasi inditto il congresso dei quattro popoli dell'Emilia, Modenesi, Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì venzette decembre, malgrado di Buonaparte, che avrebbe desiderato, che più presto si adunassero per dar cagione di temere al papa in tempo, in cui, bollendo ancora le pratiche, non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero in Reggio i legati dei quattro Cispadani popoli, trentasei Bolognesi, venti Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano mandato amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si appartenesse; l'unione massimamente dei quattro popoli in un solo stato procurassero. Solo i Bolognesi avevano nel mandato loro qualche clausola di restrizione, o fosse che Bologna amasse di serbare, per la sua grandezza, qualche superiorità, o fosse che non volesse allontanarsi da quella forma di governo che con tanta solennità aveva pocanzi accettata, perchè prevedeva, che l'accomunarsi nello stato importava l'accomunarsi nelle leggi. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quelli spiriti repubblicani: pareva a tutti essere rinati a miglior secolo. Ordinarono, non potendo capire in se stessi dall'allegrezza, ad alta voce, non a voti segreti si squittinasse. Poi fecero una congregazione d'uomini eletti dalle quattro province, affinchè proponessero i capitoli dell'unione. Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli. Accrebbero la giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese venuti ad affratellarsi, erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano, Visconti da Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore, Lena da Como, Beccaria da Pavia:

«Poichè erano venuti i buoni tempi Italici, orarono, essere venuti gli uomini Lombardi a congratularsi coi Cispadani popoli dell'acquistata libertà; pari essere i desiderj, pari il destino; chiamare le Francesi vittorie a nuove sorti l'Italia; dovere i popoli Eridanici infiammare con l'esempio loro a nuova vita le altre Italiche genti; l'Italiana patria avere ad essere, non più serva di pochi, ma comune a tutti: ogni giusto desiderio dover sorgere con la libertà, e tanti secoli di crudele servitù concludere una inaspettata felicità: non dubitassero i Cispadani dello aver per amici e per fratelli i Transpadani; una essere la mente, come uni gli animi, ed uni gl'interessi: dimostrerebbero al mondo, che non invano aveva dato il cielo a quei popoli testè pure divisi sotto molesti dominj, ed ora congiunti per l'amore di una comune libertà, il medesimo aere, le medesime terre, le medesime città magnifiche con un forte volere, con un alto immaginare, con un maturo pensare, e se felicissima era la occasione, sarebbe il modo di usarla generoso.»

Fu fatto risposta da Facci presidente con gratissime parole:

«Corrispondere i Cispadani con pari amore ai benevoli Transpadani; accettare i felici augurj; avere la libertà spento il parteggiare fra i Cispadani, dovere spegnerlo fra tutti gl'Italiani; fuggirebbe dall'Italia la tirannide con tutto il satellizio suo; e poichè era piacciuto a chi regge con supremo consiglio queste umane cose, che principiasse un libero vivere sul Po, dovere gli Eridanici allettare i compagni coll'esempio di una incontaminata felicità».

Aprivansi in questo le porte del consesso; il Reggiano popolo, bramoso di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna a nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione dei quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita allegrezza la Cispadana confederazione, chiamarono la unità della repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo. Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto sembianza di energumeni, che di uomini gravi chiamati a far leggi.

L'entusiasmo dei Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il congresso statuito, che una prima legione Italica si formasse; nè questa truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri sotto le insegne; il generalissimo gli squadronava, e faceva reggere da' suoi uffiziali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione degli animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva della composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui per quel suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali, ed altri cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati; e quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero nè il nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo si lamentava, che Garreau e Saliceti, commissari del direttorio, gli guastassero i suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste instigazioni, e chiamando al reggimento dello stato uomini di poca entità, o troppo risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava con questi commissari, e gli ammoniva con forti riprensioni; ma essi se non apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni sorte di persone.

Scriveva il congresso il dì trenta decembre a Buonaparte: i Cispadani popoli chiamati per amore di lui, e per le sue vittorie a libertà, essersi constituiti in repubblica; direbbegli Marmont suo, quanto fossero degni del nuovo stato; direbbegli quanta forza il nome di lui alla loro risoluzione, ed alla loro allegrezza aggiugnesse.

«Accettate, continuavano, o generale invitto, questa nuova repubblica, primo frutto del vostro valore, e della vostra magnanimità. Voi ne siete il padre, voi il protettore: sotto gli auspicj vostri ella sarà salva, sotto gli auspicj vostri non s'attenteranno i tiranni di danneggiarla: noi cominciammo il mandato dei popoli, noi presto il compiremo; ma fate voi, che l'opera nostra sia, come il vostro nome, immortale».

Queste lettere del congresso Cispadano furono con lieta fronte ricevute dal conquistatore. Rispondeva, avere con molto contento udito la unione delle quattro repubbliche; l'unione sola poter dare la forza, bene avere avvisato il congresso dello aver assunto per divisa un turcasso: già da lungo tempo l'Italia non aver seggio fra le potenze d'Europa; se gl'Italiani degni sono di rivendicarsi in libertà, se abili sono di ordinare a se stessi un libero governo, verrebbe giorno, in cui la patria loro risplenderebbe fra i potentati d'Europa gloriosamente: pure pensassero, che senza la forza non valgono le leggi; si ordinassero pertanto all'armi; savie essere, ed unanimi le deliberazioni loro; null'altro mancare, se non battaglioni agguerriti, e mossi dall'amor santo della patria; aver loro miglior condizione del popolo Francese, libertà senza rivoluzione, ordini nuovi senza delitti; la unità della Cispadana repubblica simboleggiare la concordia degli animi, i frutti, se avessero per compagna la forza, avere ad essere una repubblica vivente, una libertà benefica, una felicità di tutti.

Il congresso annunziava ai popoli la creazione della repubblica: lodava la Francia institutrice di libertà; lodava Marmont testimonio benigno di popoli non indegni dell'amore della sua generosa nazione, annunziatore benevolo delle cose fatte al glorioso capo dell'esercito Italico: esortava i popoli della Cispadana a deporre le antiche invidie ed emolazioni, frutto infausto di funesta ambizione: in petto ed in fronte la libertà, la equalità, la virtù portassero, dell'ajuto della potente repubblica, che gli aveva chiamati a libertà, non dubitassero; guardargli attentamente il mondo, aspettare ansiosamente l'Italia, che a quell'antico splendore, che l'aveva fatta tanto grande, ed onorata presso le nazioni, la restituissero. Così parlava a concitazione degli animi il vincitor Buonaparte.

L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia; perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia, facevano un moto, correndo sulla piazza, ed intorno all'albero della libertà affollandosi: gridavano sovranità, e indipendenza, e volevano constituirsi in repubblica Transpadana. Dispiacque il moto all'amministrazione generale di Lombardia, non che ella non amasse l'indipendenza, ma le cose non le parevano ancora di tale maturità, che si potesse venire ad un partito tanto determinativo. Il sentirono peggio ancora il generalissimo, e gli altri capi Francesi. Tanto fu loro molesto questo moto, che Baraguey d'Hillires, generale che comandava alla piazza di Milano, e che conosceva la mente di Buonaparte, ne faceva carcerare gli autori principali, che erano i patriotti più ardenti.

Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori d'Italia; tanta era la voragine, non dirò della guerra, ma dei depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi per trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti; scosse l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle viscere delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme fonti di denaro.

Infatti i rubatori, gente frodolenta ed avara, erano una peste invincibile. Buonaparte, che per la mancanza delle cose necessarie vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: gli chiamava ladri, traditori, spie; ora ne faceva pigliar uno, ora cacciare un altro; ma nulla giovava, perciocchè tornavano, essendo protetti, perchè molti; e si liberavano, essendo i giudici corrotti, perchè mescolati. L'Italia pativa, i soldati pativano, gli amministratori infedeli trionfavano. In un paese opimo, e da lungo tempo immune da guerra, era penuria di soldo, di pane, di abiti, di scarpe, di strame. Al tempo stesso i provveditori ed i canovieri, incitati dall'ambizione e dalla libidine, tenevano, la maggior parte, gran vita con mense lautissime, e con cavalli pomposi, con cocchi dorati, con caterve di servitori; e ballerine e cantatrici mantenevano, strana foggia di repubblicani. Sapevaselo Buonaparte, che non ne capiva in se stesso dallo sdegno. Scriveva, che il lusso, la depravazione, il peculato avevano colmo la misura. Un solo rimedio ei trovava, e, come credeva, conforme alla sperienza, alla storia, alla natura del governo repubblicano, e quest'era un sindacato, magistrato supremo, che, composto di una o di tre persone, solo due o cinque giorni durasse, ed in questo tempo autorità amplissima avesse di far uccidere un amministratore, qualunque fosse, o con qual nome si chiamasse. «Potè, sclamava dispettosamente Buonaparte, il maresciallo di Berwick far impiccar l'amministrator supremo del suo esercito, perchè vi erano mancati i viveri, ed io non potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta abbondanza, quando i miei soldati sono penuriosi, e stremi di ogni cosa, spaventar con le opere, poichè le parole non giovano, questo nugolo di ladri?» Così dentro se stesso si rodeva: ma eran novelle, perchè l'oro d'Italia si dispensava anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni. Solo si soddisfaceva il capitano Italico dei servigi di Collot, abbondanziere delle carni, e di Pesillico, agente della compagnia Cerfbeer. Poi alcuni commissari erano facili alle signature, caso veramente orribile. Affermava Buonaparte nel mese di ottobre, che, eccettuati Deniée, Boinod, Mazade, e due o tre altri, gli altri commissari erano tutti ladri: pregava il direttorio, gliene mandasse dei probi, aggiungendo però la clausola, se fosse possibile trovarne: soprattutto già fossero provvisti di beni di fortuna; desiderava Villemanzy. Aveva particolarmente in grande stima il commissario Boinod, certamente a giusta ragione, perchè era Boinod uomo di costumi integerrimi; ed eziandio con ragione scriveva Buonaparte, che se quindici commissari di guerra, come Boinod, fossero all'esercito, potrebbe la repubblica far un presente di cento mila scudi a ciascuno di loro, e guadagnerebbevi ancora quindici milioni. Tanta era l'ingluvie di coloro, che per ufficio dovevano impedire, che altri non involasse le sostanze dei soldati! L'ira di Buonaparte particolarmente mirava contro un Haller, che credeva mescolato in questi traffichi. Scriveva sdegnosamente il dì diecinove novembre al commissario del direttorio Garreau: essere i soldati senza scarpe, senza presto, senz'abiti; gli ospedali penuriosissimi; giacere i feriti orribilmente nudi sulla nuda terra; pure essersi testè trovati quattro milioni in Livorno; essere in pronto merci di gran valore a Tortona ed a Milano; avere Modena dato due milioni, Ferrara gran valute; ma non essere nè ordine, nè buono indirizzo nella bisogna delle contribuzioni, di cui esso Garreau aveva carico; grave essere il male, dover esser pronto il rimedio: rispondessegli il giorno stesso, se potesse, sì o no, provvedere ai soldati: se no, comandasse all'Haller, spezie di furbo, come diceva, non per altro venuto in Italia, che per rubare, e che si era fatto sovrantendente delle finanze dei paesi conquistati, rendesse conto dell'amministrazion sua al commissario supremo, che era in Milano, e provvedessesi il bisognevole ai soldati: volere il governo, che i commissari nei bisogni dell'esercito si occupassero; veder mal volentieri, ch'egli, Garreau, non se ne prendeva cura, lasciando la bisogna in mano di un forestiero, di natura, e d'intento sospetto; Saliceti far decreti da una parte, Garreau farne da un'altra, e con tutto questo non esservi accordo, e manco denaro: soli quindici centinaia di soldati, che sono a Livorno, costare più di un esercito; esservi penuria estrema fra estrema abbondanza. Questi erano i risentimenti del capitano generale.

Nè era minore lo sdegno di lui contro la compagnia Flachat, ch'ei qualificava coi più odiosi nomi, senza credito, senza danaro, e senza probità chiamandola; avere, affermava, lei ricevuto quattordici milioni, avere somministrato solamente per sei, e ricusare i pagamenti; per lei essere sequestrate le mercatanzie pubbliche in Livorno; volere, che si vendessero; ma essere sicuro, che per le mene di costoro, quello che sette milioni valeva, sarebbe dato per due: insomma, aggiungeva tutto sdegnoso, essere gli agenti di essa compagnia i più bravi eruscatori d'Europa. Di più, alcuni fra gl'impiegati, non contenti al peculato, far anche le spie, e portare pubblicamente, come i fuorusciti, il bavero verde: di questo non potersi dar pace; servir loro Wurmser, servir la Russia, succiarsi la repubblica.

In tal modo Buonaparte riempiva di querele Italia e Francia: intanto andava a ruba l'Italia. Nè uno era il modo del guadagno, nè alcuna spezie di fraude si pretermetteva. I più usavano di non pagare sotto pretesto di non aver fondi, se non con grossi sconti, le tratte, che loro s'indirizzavano o dal governo, o dai particolari creditori; brutto veramente, ed infame traffico era questo; perchè essi erano cagione col non pagare, e con diffidenze artatamente sparse, che le tratte scapitassero, poi le ricevevano a perdita, e più scapitavano, ed a maggior perdita le ricevevano, e più grossi guadagni facevano, autori ad un tempo, e profittatori del male. La peste penetrava più oltre, perchè era cagione che i prezzi a bella posta s'incarissero, ed i contratti si facessero simulati; il male del rubare era il minore, perchè il costume si corrompeva. In queste laide involture si mescolavano anche Italiani, e tra di questi alcuni, che avevano le cariche nei governi temporanei, ed alcuni altresì, che facevano professione di amatori della libertà. Queste cose facevano da se, e per se, o per mezzo d'interposte persone, o intendendosela con gli amministratori infedeli. Con qual nome chiamare costoro, io non saprei; so bene, come gli chiamavano, e chiamano tuttavia, perchè son ricchi, i parasiti ed i giornali, che con parole magnifiche gli encomiavano in quei tempi, ed encomiano ancora ai giorni nostri; sicchè, se una volta era il proverbio, che la guerra fa i ladri e la pace gl'impicca, ora debb'essere quest'altro, che la guerra fa i ladri e la pace gli loda. Hanno costoro gioie, e gioielli, e palazzi in città, e ville in contado, e statue, e quadri, e mobile prezioso, ed ogni sorta di agio, con adulatori in quantità. Tali erano non pochi dei gridatori di libertà dei nostri tempi, ed io ne ho conosciuto alcuni, che stampati in fronte delle ruberie del loro paese, se ne andavano tuttavia predicando con singolare intrepidezza la repubblica e la libertà, anzi credevano, od almeno dicevano, esser loro i veri amatori, ch'elleno avessero. Così, se parecchi tra i Francesi che avevano cura dell'amministrazione involavano, si trovava anche fra gl'Italiani chi teneva loro il sacco; e vi era allora, qual sempre vi è, una gente, che, come i corvi intorno ai cadaveri, aliavano continuamente là dove erano i disastri pubblici, per farne il loro pro ed arricchirsene. Costoro, ed allora si mostrarono più che in altro tempo, sono una singolare generazione d'uomini perchè se è stagione di libertà e' gridano libertà, se è stagione di dispotismo, e' gridano dispotismo, e sempre ridenti, e sempre adulatori, aiutano a spogliar con arte chi già è spogliato dalla forza; nè abborriscono dallo spogliare e dal succiare e dallo straziare, quand'anche il soggetto sia la patria loro, che anzi le miserande sue grida sono incitamento alla ferina cupidigia di quest'uomini spietati.

Queste cose vedemmo con gli occhi nostri, nè la religione le impediva, perchè era venuta a scherno, nè la giustizia, perchè era compra. Così tra la forza che ammazzava, e l'arte che rubava, fu sobbissata l'Italia, e peggio, ch'ella era mira di calunnie da parte degli ammazzatori e dei ladri. Chi dava e pigliava gli appalti degli arnesi necessari alla guerra con ingordi beveraggi, ed a prezzi più cari del doppio del genuino valore; chi metteva, minacciando saccheggi, taglie sui paesi, e questi denari spremuti a forza dai popoli si appropriava. Questi prometteva di preservare dalle prede, se si desse denaro a lui: gl'Italiani davano, e qualche volta erano preservati, e qualche volta no: si vendeva il beneficio. Quest'altro faceva tolte di robe per gli ospedali, le usava per se. Diè Cremona cinquantamila canne di tela fine pei malati, e per se gli arrappatori se le pigliarono. Chi vendeva i medicinali dell'esercito, e convertiva il prezzo in suo pro: la corteccia tanto preziosa del Perù principalmente era divenuta materia d'infame ladroneccio. Quanti soldati consunti dalle perniziose febbri perirono, che sarebbero stati salvi, se i rubatori avessero avuto più a cuore le vite loro, che le mense, i teatri, e le meretrici! Nè era cosa che santa o sicura fosse, perchè si faceva traffico dell'asilo dei morenti, e sonsi veduti uomini abbominevoli minacciare di porre ospedali militari nei conventi col solo fine di costringergli a pagar denaro per ricomperarsi da quella molestia: i soldati intanto se ne morivano per le strade, perchè gl'insaziabili segavene s'ingrassassero, ed in ogni più immondo, in ogni più ingordo vizio s'ingolfassero. Le polizze dei passati si davano per chi non era passato, ed anche per chi era morto: i magazzini si empivano di grasce finte, e nissuno aveva, se non chi non doveva avere. I soldati perivano, i paesi pagavano, perchè a quello, che non era somministrato dalle riposte, bisognava bene, e per forza, che i paesi sopperissero. Così chi dava, non aveva, chi non dava, aveva; la brutta usanza fu generale. I capisoldi poi, i premj, le indennità largamente si davano a chi meno le meritava, nè vi era ufficiale, che di chi ministrava fosse amico, che alla menoma rotta non si trovasse ad aver perduto gli arnesi, e grassi compensi non toccasse, mentre gli uomini valorosi, che combattendo virilmente contro il nemico, avevano perduto tutto, richiedevano invano quello, a che la patria era loro obbligata. Cuocevano infinitamente a Buonaparte i raccontati ladronecci, e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete militari, instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come diceva, che non erano ladri ordinarj, ma tali, che con le malvagie opere loro interrompevano il corso alle sue vittorie, od erano almeno cagione che con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in queste diete dei segreti maneggi, onde i rei se ne andavano od assoluti, o condannati a pene nè proporzionate al delitto, nè capaci di spaventare i compagni.

«Voi avete presupposto certamente, scriveva Buonaparte sdegnoso al direttorio, che i vostri amministratori ruberebbero, ma farebbero i servizi, ed avrebbero un po' di vergogna: ma e' rubano in un modo tanto ridicolo e tanto impudente, che s'io avessi un mese di tempo, non ve ne avrebbe un solo che non facessi impiccare. Gli fo legar dai gendarmi, gli fo processar dai consigli militari continuamente. Ma che giova, se i giudici sono compri? Questa è fiera, e tutti vendono. Un impiegato accusato di aver posto una taglia di diciottomila franchi a Salò, fu condannato a due mesi di carcere. Così, come si potran pruovare le accuse? È un concerto: tante vili enormità fan vergogna al nome Francese.»

Così si querelava, e così inveiva Buonaparte contro i rubatori, e questa fu l'accompagnatura della libertà in Italia.

Ma egli è oramai tempo di far passaggio dall'avarizia degl'involatori al furore degli armati: incominciarono le armi a suonare più orribilmente che prima sulle Italiane terre. Non aveva il direttorio pretermesso alcun ufficio per inclinare l'imperatore alla pace, ora offerendogli compensi di nuovi stati, ora minacciando di sterminio quelli, che ancora gli restavano. A quest'ultimo fine scriveva Buonaparte all'imperatore Francesco, che s'ei non si risolvesse alla pace, colmerebbe per ordine del direttorio il porto di Trieste, e guasterebbe tutte le sue possessioni dell'Adriatico. Ma i prosperi successi dell'arciduca Carlo in Germania avevano ridesto nell'Austria la speranza di sostenere le cose d'Italia, ed anzi di riconquistare gli stati perduti; però non volle consentire agli accordi.

Il fondamento di questo nuovo moto era Mantova, perchè tutti i disegni potevano arrivare al fine desiderato, se la sua difesa tuttavia si sostenesse; ed all'opposto sarebbero stati disordinati, se cadesse in possessione dei Francesi. Non era ignoto a Vienna, che il presidio era ridotto all'estremo, dalle malattie e dalla strettezza dei viveri, e che solo si sosteneva per la costanza veramente maravigliosa dell'antico Wurmser. Nè solo il maresciallo vinceva con animo invitto l'urto delle armi nemiche, ma ancora la minaccia barbara e vile fattagli dal direttorio, che, se non desse la piazza in mano della repubblica, sarebbe quando si arrendesse, condotto a Parigi, e giudicato qual fuoruscito Francese. Vide l'Austria, che non era tempo da aspettar tempo, e che il pericolo di Mantova ricercava prestissima espedizione; perciò adunava con celerità mirabile un nuovo esercito di più di cinquantamila combattenti pronto a calare per mettere di nuovo in forse la fortuna Francese, che già tanto pareva stabile e sicura. Certamente fu maraviglioso l'impeto Francese in quei tempi, ma non fu meno maravigliosa la costanza Tedesca. Di tanta mole si mandavano venticinque mila soldati freschi nel Tirolo e nel Friuli, e tanto era l'ardore loro, che davano speranza di vittoria. Infatti nelle battaglie, che poco dopo seguirono, combatterono non solo con valore, ma ancora con furore, siccome quelli che erano cupidi non solo di ricuperare i paesi perduti, ma ancora di scancellare l'offesa fatta alle armi imperiali dalle precedenti sconfitte. L'emolazione altresì verso i soldati di Germania operava efficacemente nelle menti loro, e le vittorie dell'arciduca gli stimolavano. Fu posto al governo di queste fiorite genti il generale d'artiglierìa Alvinzi già pratico delle guerre d'Italia, e nel colmo della riputazione; e siccome quegli che era di natura pronta e speditiva, si sperava che fosse per allontanare da se quella lentezza che era stata cagione delle rotte precedenti. Aveva anche per consigliero un Veiroter, che si era acquistato nome di perito capitano in Germania. Era il disegno di questa nuova mossa non dissomigliante da quello posto in opera pochi mesi prima da Wurmser, con questa differenza però, che ove il maresciallo discese con tutto il pondo per la valle dell'Adige, ed interpose, certamente con imprudente consiglio, tra le due principali parti de' suoi tutta la larghezza del Lago di Garda, Alvinzi ordinava, che una parte guidata da Davidowich scendesse dal Tirolo con venti mila soldati, e conculcati i Francesi, che colà stanziavano alla difesa dei passi, se ne venisse a sboccare per Castelnuovo fra l'Adige e il Mincio. Egli poi con trenta mila combattenti venuti dalla Carniola e dal Cadorino, si proponeva di varcare il Tagliamento, la Piave e la Brenta, combattendo i repubblicani ovunque gli trovasse, e quindi varcato il fiume più grosso dell'Adige dove la occasione migliore si appresentasse, di congiungersi con Davidowich, e di marciare unitamente alla liberazione di Mantova. Già varcati con fatica incredibile i monti della Carniola, e traversati torrenti grossi ed impetuosi, erano, quando il mese di ottobre si avvicinava al suo fine, giunti gl'imperiali sulle sponde della Piave, e si accingevano a dar principio a quella terza guerra, dalla quale pendeva il destino della potenza Austriaca in Italia.

Non erano a tanta mole pari pel numero i Francesi; perchè certamente non passavano i quaranta mila, noverati gli assediatori di Mantova. A questi nondimeno debbonsi aggiungere gl'Italiani, ed i Polacchi ordinati a Milano, e nella Cispadana, che, sebbene Buonaparte non se ne servisse per combattere nelle battaglie giuste, erano a lui di grandissima utilità, ed accrescevano la sua forza, perchè tenevano i presidj nelle piazze, contenevano il papa, e facevano il paese sicuro insino alla Romagna ed al Veneziano. Trovavansi allora i Francesi raccolti nelle stanze, perchè Kilmaine con ottomila soldati stava attorno a Mantova, Augereau con altrettanti custodiva le sponde dell'Adige, Massena sempre il primo ad essere esposto alle percosse del nemico, alloggiava sulla Brenta, Vaubois assicurava il Tirolo con dieci mila soldati. In fine una schiera di riserbo, in cui si noveravano circa tre mila soldati tra fanti e cavalli, era distribuita negli alloggiamenti di Brescia sotto la condotta dei generali Macquart e Beaumont. Aveva Buonaparte comandato a Vaubois, impedisse ad ogni modo il passo a Davidowich, e siccome gli assalti sono sempre più fortunati pei Francesi, che le difese, volle che Vaubois medesimo, ancorchè fosse inferiore di forze, non aspettasse il nemico, ma lo andasse ad assaltare nei propri alloggiamenti: soprattutto il cacciasse dai luoghi tra il Lavisio e la Brenta. Egli intanto si apprestava ad arrestare con Massena ed Augereau l'impeto di Alvinzi, che già arrivato sulle rive della Brenta, ed avendola passata, faceva le viste di volersi incamminare verso Verona. Alloggiava Davidowich col grosso delle sue genti a Newmark, mentre la vanguardia occupava il forte sito di Segonzano, reso anche più sicuro dal posto eminente di Bedole, custodito da Wukassowich. Guyeux, obbedendo agli ordini di Vaubois, assaltava San Michele, terra posta oltre il Lavisio, con intento, se la battaglia riuscisse prospera, di correre contro Newmarck. Al tempo medesimo Fiorella urtava le terre di Cembra e di Segonzano. Fu grande la resistenza che incontrava Guyeux a San Michele; perchè gli Austriaci avevano chiuso l'adito alla terra con trincee, ed essendosi posti ai merli, di cui erano guernite le case, attendevano a difendersi virilmente. Tre volte andarono alla carica con grandissima animosità i Francesi guidati dal capitano Jouannes, e tre volte erano con grave uccisione risospinti. Era la fazione di grande importanza, e maggiore anche di quanto annunziassero il numero poco notabile dei combattenti, e la ristrettezza dei luoghi, in cui si combatteva, perchè dall'esito pendeva la conservazione, o la conquista del Tirolo, il potere gli Austriaci od i Francesi incamminarsi alle spalle del nemico per le valle della Brenta, e finalmente la congiunzione, o la non congiunzione delle due schiere Alemanne, capo principalissimo dei disegni fermati a Vienna per la ricuperazione d'Italia. In fine, fattosi dai Francesi un ultimo sforzo, entravano in San Michele, e se ne impadronivano a malgrado che i Tedeschi, ajutati anche da parte dei Tirolesi, avessero continuamente tratto contro di loro con morte di molti, e con ferita del valoroso Jouannes.

Bene auguravano i Francesi dei fatti loro in Tirolo, ma non fu loro ugualmente favorevole la fortuna a destra verso Segonzano; il che interruppe tutti i pensieri loro, e da vincitori diventarono vinti. Aveva bene Fiorella, con molta valenzia combattendo, espugnato il castello di Segonzano, ma non avendo, o perchè abbastanza non avesse fatto esplorare i luoghi, o qual'altra cagione che sel muovesse, sloggiato prima l'inimico da Bedole, questi scendendo improvvisamente, lo assaliva sul fianco destro ed alla coda, talmente che fu commessa non poca strage dei suoi, e fu costretto a ritirarsi più che di passo verso Trento. S'aggiunse, che Davidowich medesimo, udite le novelle dell'assalto dato ai Francesi, si era calato col grosso de' suoi a soccorrere la vanguardia; di modo che non fu lasciato altro scampo ai repubblicani, se non volevano essere tagliati tutti fuori, ed a pezzi, che quello di ritirarsi più sotto, lasciando, dopo breve contrasto sotto le mura, la città stessa di Trento in balìa degli antichi signori. Successe questo fatto ai due novembre. Due giorni dopo entrava Davidowich in Trento; rallegrandosene gli abitanti, amatori del nome Austriaco, ed asperati dalle intemperanze dei conquistatori.

Vaubois dopo di aver combattuto infelicemente a Segonzano, andava a porsi alla bocca delle strette di Calliano, alloggiamento, intorno al quale si era persuaso, per la sua fortezza, doversi fermare l'impeto dei vincitori. Assicurava alla sinistra il fianco dei Francesi il fiume Adige, la destra custodivano due colli eminenti, sui quali sorgono i due castelli della Pietra, e di Bezeno. Dava fortezza alla fronte un rivo assai profondo, sulle sponde del quale avevano i repubblicani eretto parapetti, e cannoniere munite di artiglierìe. Tenevano in guardia questo forte luogo quattromila soldati eletti, che aspettavano confidentemente l'incontro del nemico. Marciava Davidowich enfiato dalla prosperità della fortuna, grosso, e minaccioso, dopo l'occupazione di Trento, all'ingiù dell'Adige, avendo talmente diviso i suoi che Wukassowich scendeva sulla sinistra del fiume, Ocskay sulla destra. Laudon, condottosi ancor esso sulla destra con soldati più leggieri, camminava più alla larga verso Torbole, con intenzione di dar timore al nemico per la possessione di Brescia. Arrivavano Wukassowich a fronte di Calliano, Ocskay a Nomi. Avrebbe potuto, come alcuni credono, Davidowich, in vece di assaltar di fronte quel luogo tanto munito di Calliano, girato prima alla larga per le eminenze, scendere poscia, e riuscire per la valle di Leno alle spalle del nemico. Ma, qual si fosse la cagione, amò meglio venirne alle mani in una battaglia giusta, confidando nel valore e nella grossezza delle sue genti, massimamente nei feritori Tirolesi, che pratichi dei luoghi più inaccessi, e peritissimi nel trarre di lontano; avrebbero efficacemente ajutato lo sforzo Austriaco. Combattessi il giorno sei di novembre con incredibile audacia, e vario evento da ambe le parti, sforzandosi gl'imperiali di superare il passo, ed insistendo principalmente contro i castelli della Pietra, e di Bezeno. Restarono i repubblicani superiori, fu l'assalto degli Alemanni infruttuoso. Davidowich, veduto che l'impresa si mostrava più dura di quanto aveva pensato, mandava in rinforzo di Wukassowich il generale Spork ed il principe di Reuss, ed operava di modo che per diligenza di Ocskay, si piantassero artiglierìe presso a Nomi sulla destra dell'Adige, ed anche a fronte della strada che da Trento porta a Roveredo. Al tempo medesimo i feritori Tirolesi, postisi qua e là sui vicini gioghi, si apparecchiavano a bersagliare l'inimico. Cominciavasi il giorno sette una ferocissima battaglia, in cui come fu il valore uguale da ambe le parti, così fu varia la fortuna, perchè ora prevalevano i repubblicani, ed ora gl'imperiali. Venne verso le cinque ore della sera il castello di Bezeno in poter dei Croati dopo un lungo ed ostinato combattimento, in cui i Francesi si difesero con sommo valore, e con tutte sorti di armi, perfino coll'acqua bollente, che furiosamente versavano contro gli assalitori. Fu il presidio parte preso, parte tagliato a pezzi. Poco stante cedeva anche il castello della Pietra; ma di nuovo i Francesi se ne impadronivano, e di nuovo ancora lo perdevano. Con lo stesso furore si combatteva nei luoghi più bassi verso Calliano, e fu quel forte passo preso, ripreso, perduto, e riconquistato più volte ora da questi, ora da quelli. Era tuttavìa dubbia la vittoria, quantunque le artiglierìe di Ocskay, ed i feritori Tirolesi non cessassero di fare scempio dei Francesi, quando improvvisamente udissi fra di loro, se per paura, o per tradimento non bene si sa, un gridare, salva, salva, per cui ad un tratto si scompigliava tutto il campo, e si metteva in rotta. Non si perdeva per questo d'animo Vaubois, e raccolti, meglio che potè, i suoi e calatosi vieppiù per le rive dell'Adige, andava ad alloggiare nei siti forti della Corona e di Rivoli. Roveredo intanto, e tutte le terre circostanti tornavano sotto la divozione dell'antico signore. Perdettero in questo fatto i Francesi sei pezzi d'artiglierìa, e nella ritirata per a Rivoli, essendo seguitati dai Tedeschi, altri sei. Perdettero, oltre a questo, non poche munizioni; noverarono due mila soldati uccisi, e mille prigionieri con qualche ufficiale di conto. Furono dalla parte degli Austriaci molto lodati i Croati, e principalmente i cacciatori Tirolesi, ai quali fu l'imperatore obbligato dell'acquisto dei castelli di Bezeno e della Pietra. Mancarono fra gli Austriaci circa cinquecento soldati fra morti, feriti, e prigionieri; desiderarono due cannoni. Questa fu la seconda battaglia di Calliano, non inferiore alla prima, nè a nissuna pel valore, e per l'ostinazione mostrata da ambe le parti.

Questa vittoria avrebbe potuto partorire la ruina dei repubblicani, se Davidowich tanto fosse stato pronto a seguitare il corso della fortuna prospera, quanto erano stati valorosi i suoi soldati al combattere; conciossiachè, se pressato avesse, senza mai dargli posa, ed incalzato l'inimico innanzi che avesse avuto tempo di respirare, e di rannodarsi, verisimile cosa è, che avrebbe prevenuto tutti gl'impedimenti, e, superato facilmente la Corona e Rivoli, sarebbe comparso improvvisamente grosso e vittorioso sulle rive del Mincio: il che avrebbe posto in gravissimo pericolo Buonaparte, che era alle mani sulla Brenta con Alvinzi, e dato comodità al generalissimo d'Austria di farsi avanti a congiungere le due parti per correre grosso, ed intiero alla liberazione di Mantova. Ma Davidowich per una tardità o negligenza certamente inescusabile, se ne stava più di dieci giorni alle stanze di Roveredo, con lasciare quasi quiete le armi, e non si moveva per alle fazioni del Mincio, se non quando la fortuna, per la perizia e velocità di Buonaparte, aveva già fatto una grandissima variazione tra la Brenta e l'Adige.

Erasi il generalissimo Alvinzi fatto signore del passo della Brenta con occupare Bassano, Cittadella, e Fontaniva, ed avendo avuto avviso delle prime vittorie di Davidowich nel Tirolo, aveva ordinato, che i suoi varcassero il fiume. Sboccava Quosnadowich nella parte superiore da Bassano, e posava le sue stanze a Marostica, ed alle Nove. Liptay correva ad alloggiarsi più sotto tra Carmignano, e l'Ospedal di Brenta: ma siccome quegli, che solo guidava la vanguardia, fu stimato troppo debole, e però fu fatto seguitare dalla battaglia condotta da Provera, che aveva varcato il fiume a Fontaniva. Al tempo stesso Mitruski, padrone del castello della Scala, mandava guardie insino a Primolano per sopravvedere quello, che fosse per succedere nella valle della Brenta, della quale stavano le due parti in grandissima gelosìa. Buonaparte, confidando di compensare con la celerità quello, che gli mancava per la forza, aveva fatto venire a se, oltre le schiere tanto valorose di Massena e di Augereau, le guernigioni di Ferrara, Verona, Monbello e Legnago. Era suo pensiero di assaltare Alvinzi, di romperlo, e, camminando quindi con somma celerità per la valle verso le fonti della Brenta, di riuscire alle spalle di Davidowich, e di sgombrare per tal modo e al tempo stesso, l'Italia ed il Tirolo dalla presenza degli Austriaci; pensiero certamente molto audace, e da non venir in capo, che a lui, che tutto era, per la gioventù e pel vigor dell'animo, coraggio e prestezza. Urtava Augereau Quosnadowich, Massena Provera: ne nasceva il dì sei novembre una sanguinosa zuffa. Dure furono le prime Italiche battaglie, ma questa è stata molto più. Si attaccavano con grandissimo furore Augereau e Quosnadowich, ambi capitani esperti, ambi valorosi: ora cedeva l'uno, ora cedeva l'altro; Alvinzi, che conosceva l'importanza del fatto, mandava continuamente alla sua parte nuovi rinforzi. Fu preso, perduto, ripreso, e riconquistato più volte il villaggio delle Nove, e sempre con uccisione orribile delle due parti. Si combattè, prima con le artiglierìe, poi con la moschetterìa, poi con le bajonette, poi con le sciable, finalmente con le mani e con gli urti dei corpi; valore veramente degno della fama Francese ed Austriaca. Infine restarono i Francesi signori del combattuto villaggio; ma seppe tanto acconciamente Quosnadowich schierare i suoi, che grossi e minacciosi si erano ritirati dal campo di battaglia, nell'alloggiamento che dai monti dei sette comuni si distende per Marostica sino alla Punta, che quantunque urtato e riurtato da Augereau, si mantenne unito, e rendè vano ogni sforzo del suo animoso avversario. Ma dall'altro lato non si combattè tanto felicemente per Provera contro Massena; perchè, sebbene l'Austriaco non fosse rotto, sentissi non ostante tanto gravemente pressato, che stimò miglior partito il ritirarsi sulla sinistra del fiume, rompendo anche il ponte di Fontaniva, acciocchè il nemico nol potesse seguitare. Fessi notte intanto; l'oscurità e la stanchezza, poichè si era combattuto tutto il giorno, piuttosto che la volontà, pose fine al combattere che fu mortalissimo; perchè tra morti, feriti, e prigionieri desiderò ciascuna delle parti circa quattromila soldati. Il generale francese Lanusse, ferito da colpo di arma bianca, cadde in potere dei Tedeschi.

Il non aver potuto rompere gl'imperiali in questo fatto, diede a pensare a Buonaparte. Vano era lo sperare di poter riuscire a montare per la valle di Brenta verso il Tirolo. La perdita di Segonzano e di Trento, di cui egli aveva avuto notizia, dava giustificato timore per Verona e per Mantova, e l'ostinarsi a voler combattere un nemico grosso, avvertito, ed insistente in un sito forte, non sarebbe stato senza grave danno; perchè ponendo anche il caso, che la battaglia succedesse prosperamente, il perdere ugual numero di soldati era più pernizioso ai Francesi manco numerosi, che agli Austriaci più numerosi. Dal che si vede, quanto momento avrebbe recato in tanta incertezza di fortuna Davidowich, se si fosse spinto avanti con quel medesimo vigore, col quale aveva combattuto a Galliano, e fosse andato a dirittura a ferire Corona, e Rivoli. Mosso da queste considerazioni si deliberava Buonaparte a levar il campo dalle rive della Brenta per andarlo a porre su quelle dell'Adige nel sito centrale di Verona. Per la qual cosa il dì sette novembre molto per tempo mosse l'esercito verso Vicenza, e non fece fine al ritirarsi, se non quando arrivò sotto le mura di Verona. Il seguitavano il giorno medesimo i Tedeschi, succedeva un aspro combattimento a Scaldaferro. Entravano gl'imperiali il dì otto in Vicenza, il nove alloggiavano a Montebello. Quivi pervenivano ad Alvinzi le desideratissime novelle della vittoria di Calliano; perciò spingendosi più oltre andava a porre il campo a Villanova, terra posta a mezzo cammino tra Vicenza e Verona. Intenzion sua era di aspettare in quest'alloggiamento, che cosa portassero le sorti in Tirolo, e massimamente che Davidowich, superati i forti passi della Corona e di Rivoli, si fosse fatto vedere a Campara ed a Bussolengo; perchè allora si sarebbe mosso egli medesimo verso quella parte che più sarebbe stata conveniente per congiungersi col vincitore del Tirolo. Ordinava intanto varie mosse per dare diversi riguardi al nemico, e per tenerlo sospeso del dove volesse andar a ferire. Apprestava eziandio quantità grande di scale, come se fosse per dare la scalata a Verona. Già aveva mosso la vanguardia, e fatta posare nell'alloggiamento di Caldiero più vicino alla città.

Minacciato Buonaparte a stanca ed alle spalle da un generale vittorioso, a fronte da un generale, se non vittorioso, almeno più forte di lui, aveva tutti i partiti difficili: perchè l'aspettare era dar tempo a Davidowich di assalirlo alle spalle, e di far allargare ad un tempo l'assedio di Mantova; l'assaltare era un commettersi all'ultimo cimento per la salute de' suoi, e per la conservazione della sua gloria. Ma non istette lungo tempo in pendente, perchè sapeva, che i consigli timidi fanno i Francesi meno che femmine, i generosi, più che uomini. Si risolveva adunque a voler pruovare a Caldiero, se la fortuna volesse perseverare a mostrarsi benigna verso di lui, ed a cangiarsi in contraria. Usciva da Verona; guidava Massena l'ala sinistra, Augereau la destra. Incontrati i primi corridori nemici a San Michele ed a San Martino, facilmente gli fugava: il giorno dodici novembre era destinato alla battaglia. Eransi molto acconciamente accampati i Tedeschi; perchè l'ala loro stanca s'appoggiava a Caldiero, ed alla strada maestra, che da questa terra si volge a Verona. La destra era schierata sul monte Oliveto, ed occupava il villaggio di Colognola, sito erto, e difficile ad espugnarsi. Le restanti genti di Alvinzi continuavano a stanziare a Villanova in ordine di spignersi avanti, come prima si fosse incominciato a menar le mani a Caldiero. Non così tosto il giorno appariva, che andavano i repubblicani all'assalto. Già Augereau aveva conquistato Caldiero, e preso al nemico cinque cannoni: già Massena si distendeva a sinistra, e, fatti dugento prigionieri, aveva circuito la punta dritta degli Alemanni, passando per Lavagno ed Illasi, quando il tempo, che già era freddo e piovoso, si cambiava improvvisamente in minutissima grandine, che spinta da un vento di levante assai gagliardo, percuoteva nel viso i Francesi, e gl'impediva di vedere, e di combattere con quell'ordine, e con quel valore che si richiedevano. S'aggiunse, che, secondochè era stato ordinato dall'Alvinzi, la grossa schiera Tedesca giugneva correndo da Villanova per modo che tra pel tempo avverso, e l'urto di questa gente fresca, rallentavano i Francesi l'impeto loro, ed incominciavano a declinare. Le cose erano in grave pericolo; perchè il generale Schubirtz mandato dall'Alvinzi, aveva dato addosso con cinque battaglioni, passando per Soave e per Colognola, a Massena; e Provera con quattro battaglioni instava ferocemente contro la destra di Augereau, mentre nel mezzo Alvinzi medesimo rinforzava, e rincuorava i suoi con un nuovo nervo di genti. Già pareva disperata la fortuna Francese, quando Buonaparte spingeva avanti a combattere la sessagesimaquinta, che fin allora aveva tenuta in serbo; rinfrescava ella la battaglia, e la teneva sospesa fino alla sera, instando però sempre gl'imperiali grossi, ed ordinati. Finalmente, pruovato grave danno, levandosi i repubblicani con tutto l'esercito da Caldiero, si ritraevano di nuovo a Verona. Dei morti, feriti, e prigionieri fu uguale la perdita per ambe le parti; ma più grave pei Francesi, per la ferita e prigionia del generale Launay, e per la ferita del colonnello Dupuis, uno del guerrieri più animosi di Francia. Montarono gli uccisi a ducento, i feriti a seicento, i prigionieri a cencinquanta.

Era a questo tempo caduta in grande declinazione, e molto pericolosa la condizione dei repubblicani. Poteva Davidowich prostrare improvvisamente i campi della Corona e di Rivoli, e romoreggiare alle spalle di Buonaparte, mentre Alvinzi grosso e vittorioso lo assalirebbe di fronte, ed il manco che potesse avvenire, era la liberazione di Mantova, scopo principale di tanti pensieri. Il dar mano poi al ritirarsi non si sarebbe potuto fare senza fuga, e senza correre sino alla sponda destra dell'Adda, perchè già Laudon incominciava a farsi vedere sui confini del Bresciano. Quale effetto, quale sollevazione fosse per produrre nei popoli italiani un sì grave accidente, facile cosa è il pensare: l'Emilia perduta, il papa vittorioso, Milano titubante, il re di Sardegna con nuovi pensieri, tanti odj liberi, tante ire senza freno facevano temere ai repubblicani ogni più grave estremità. L'animo stesso di Buonaparte, avvengadiochè tanto vigoroso e forte fosse, da tristi pensieri annuvolato, ed in gran malinconia venuto, incominciava a fiaccarsi, e a diffidar della vittoria. Scriveva, avere ricondotto i soldati scalzi, e consumati dalle fatiche a Verona; disperare di Mantova; i più valorosi feriti; gli ufficiali superiori, i generali migliori non poter più sostener le battaglie; quelli, che arrivavano, essere inesperti, ed in loro non aver fede i soldati; l'esercito Italico ridotto a poche genti; gli eroi di Lodi, di Millesimo, di Castiglione, di Bassano o morti, o infermi; non aver più le legioni dell'antica possanza che l'animo, ed il nome; feriti Joubert, Lannes, Lanusse, Victor, Murat, Charlot, Dupuis, Rampon, Pigeon, Menard, Chabran; vedersi il repubblicano esercito, vedersi, e sentirsi abbandonato dalla sua patria nell'estreme regioni d'Italia; la fama delle sue forze avere fin là giovato, ma oggimai pubblicarsi a Parigi, solo essere di trenta mila soldati; i più valorosi mancati di vita, i superstiti avere presto in casi tanto pericolosi a lasciarla; forse esser giunta l'ora estrema di Augereau, di Massena, di Berthier, di lui medesimo; che sarebbe allora per avvenire di tanti bravi soldati? Questo pensiero farlo più cauto, non osar più affrontar la morte, perchè la morte sua condurrebbe all'ultima rovina tanti prediletti compagni; volere fra breve far un ultimo sforzo; se la fortuna il secondasse, fora Mantova sua, e l'Italia con essa.

Tali erano le querele di Buonaparte in quell'estremo momento. Ma se si era perduto di animo, non aveva perduto la mente, e tosto trovava modo di riscuotersi: al che gli aprirono occasione le lentezze Tedesche. Ebbe egli in quest'ultimo punto un pensiero, si vede come da un solo concetto spesso pendano i destini degl'imperi, dal quale nacque inopinatamente la sua salute, e quella de' suoi; per lui ancora rincominciossi la non interrotta sequela di fatti, che tanto il fecero glorioso in armi, e tanto potente sopra la terra. Aveva Alvinzi, dopo la giornata dei dodici, in mano sua tutto il destino della guerra; perchè, se subito dopo avuta quella vittoria, usando la diminuzione d'animo, in cui per lei si trovavano i repubblicani, gli avesse acremente e celeremente perseguitati, ogni probabilità persuade o che avrebbe vinto Verona, o che almeno, distendendosi a dritta, avrebbe potuto varcar il fiume in un luogo superiore, ed in tal modo accozzarsi con Davidowich. Ma invece di correre contro il nemico declinante, e di non dargli respitto, soprastava inoperoso due giorni nelle stanze di Caldiero a deliberare con Quosnadowich, Veiroter, e Provera intorno a quello, che fosse a farsi. Voleva Quosnadowich, animoso capitano, che si desse dentro incontanente; ma a questo non voleva risolversi Alvinzi, o che credesse, per troppa confidenza, la guerra già vinta, che volesse aspettare, che Davidowich avesse superato gli alloggiamenti della Corona e di Rivoli. Fatto sta, che Buonaparte usando assai maestrevolmente la occasione, ordinava una mossa, che, convertendo del tutto le sorti, fece che siccome prima Alvinzi era padrone della guerra, dopo, fosse Buonaparte; ed il generale Tedesco, che poteva dare l'indirizzo alle fazioni militari, come conveniente gli fosse paruto, fu costretto ad obbedire a quello, che fosse per dare al generale francese. Il fiume Adige calandosi dalle scoscese montagne del Tirolo corre dirittamente da tramontana a ostro insino a Bussolengo, terra situata alle ultime radici del Montebaldo; ma da questa terra il suo corso incominciava a declinare verso il levante, per guisa che volta le sue onde a scirocco, ed in tal modo calandosi incontra rapido e profondo Verona; quindi passa, seguitando sempre la direzione medesima insino a Zevio, dove giunto essendo, la sua inclinazione diventa maggiore, e corre, non più verso scirocco schietto, ma piuttosto verso levante scirocco: il quale corso ei serba insino ad Albaredo, dove di bel nuovo si volta a scirocco. Questa inclinazione del fiume è cagione, che chi il varcasse a Ronco, luogo situato fra Zevio ed Albaredo, avrebbe Villanova più vicina che Verona. Aveva Alvinzi lasciato a Villanova le più grosse artiglierìe, i carriaggi, le bagaglie, e le munizioni: era anche questa terra sulla principale strada da Verona a Vicenza. Bene considerate tutte queste cose venne Buonaparte in isperanza di sorprendere con un subito passo quell'alloggiamento principale degl'imperiali, e di tagliargli fuori da Vicenza e dai loro sicuri ricetti del Friuli e del Cadorino. E ponendo eziandio che il disegno non sortisse tutto quel fine, ch'ei si proponeva, questo almeno era sicuro di conseguire, che Alvinzi si sarebbe, per combatterlo, necessariamente condotto verso le parti inferiori dell'Adige; il che l'avrebbe allontanato da Davidowich, ed impedito la congiunzione dei due eserciti imperiali tanto temuta, e con tanta ragione dal generale Francese. Confidava Buonaparte, che, varcando di nottetempo l'Adige a Verona, e correndo speditamente sulla sua destra sponda sino a Ronco, e quivi sulla sinistra ripassando, e tuttavia velocemente marciando, sarebbe riuscito ad arrivar addosso a Villanova innanzi che Alvinzi si fosse accorto del pericolo, ed avesse potuto farvi i provvedimenti necessari. Dava favore a questa fazione il considerare, che il Tedesco, non addandosene, non aveva guernito la sinistra del fiume sotto Verona di presidj sufficienti. Solo aveva mandato il colonnello Brigido coi pochi Croati ed Ungari, piuttosto per sopravvedere che per combattere. La notte adunque dei tredici ordinava Buonaparte, e questo fu il pensiero salutifero, a Massena e ad Augereau, varcassero con tutte le genti loro l'Adige a Verona, corressero frettolosamente la destra del fiume sino a Ronco, quivi il rivarcassero sopra un ponte estemporaneo di piatte, e passando per Arcole e per San Bonifacio sovraggiungessero improvvisamente addosso a Villanova. Questa fu veramente una mossa da gran maestro dell'arte, e fra tutte quelle ordinate dai più rinomati capitani sì degli antichi, che dei moderni tempi non vedo alcuna, che più di questa sia non che da lodarsi, da ammirarsi. Riuscirono improvvisi, e senza che gl'imperiali sentore ne avessero, a Ronco i repubblicani, e tosto, fatto un ponte, varcarono. Varcava Augereau primo, Massena secondo: la duodecima fu lasciata a guardia del ponte, la cavalleria sulla destra sponda pronta a passare, ove il bisogno ne venisse. S'incamminava Massena a Porcile per sopravveder ciò, che fosse per nascere dalle parti di Caldiero, Augereau s'addirizzava verso Arcole. L'uno e l'altro dovevano ricongiungersi per marciare unitamente contro Villanova. La natura del paese pose impedimento all'esecuzione dell'intiero intento di Buonaparte, ma però non tanto, ch'ei non conseguisse una somma e gloriosa vittoria e con essa il principal fine del suo proponimento. Ma perchè tutte queste cose s'intendano da chi ci legge, necessario è, che per noi si descriva la natura dei luoghi, che furono sedia di fatti tanto memorabili. Giace Villanova, principal mira di tutto questo moto, sulla sinistra riva di un grosso torrente chiamato Alpone, il quale scendendo impetuosamente dalle montagne dei sette comuni, s'avvicina all'Adige, in cui mette foce tra Ronco, e Albaredo. Questo torrente approssimandosi alle rive del fiume, incontra una bassa fondura, dove serpeggiando e rallentando il corso, forma paludi, o terreni coperti da acque stagnanti. In questi terreni appunto per la bassezza loro sopraffatti dalle acque, ed in mezzo a queste paludi, e pure sulla sponda sinistra dell'Alpone siede il villaggio di Arcole, che i repubblicani dovevano necessariamente attraversare per condursi a Villanova. Due argini principali danno l'adito per questa limacciosa palude, dei quali il primo porta da Ronco ad Arcole, e quindi a Villanova; il secondo partendo dal primo, quando ei si volta verso Arcole, rade più accosto l'Adige all'insu, ed accenna a Porcile, e di là a Caldiero. Biasimano alcuni, per le cose che seguirono, Buonaparte del non aver passato l'Adige più sotto verso Albaredo; il che se avesse fatto, avrebbe evitato il passo dell'Alpone. Altri ancora gli danno carico del non aver passato l'Alpone con gettar un ponte là dove mette nell'Adige; ma siccome la sua risoluzione fu improvvisa, così ei non poteva conoscere tanto al minuto la natura dei luoghi, nè prevedere, che un ignobile torrente, ed un umile ponte di piccolo villaggio fuor di mano dell'esercito Tedesco avessero ad essere un intoppo sì duro al suo intendimento. Bene da dannarsi è la sua ostinazione dello aver voluto per due giorni continui sforzare il passo al ponte d'Arcole; il che fu cagione della morte di tanti valorosi soldati, mentre ei poteva, fin dal primo, quando incontrò tanta resistenza, fare quello, che fece il terzo. Prevedendo poi, che nella depressione di fortuna in cui si trovava, e nelle battaglie che erano imminenti, avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze, si era deliberato, subito dopo il ributtamento di Caldiero, di far venire al campo principale tre mila soldati, di quelli che stavano sopra l'assedio di Mantova. Infatti era il giorno medesimo, in cui Massena ed Augereau avevano varcato l'Adige a Ronco, che fu il quindici del mese, arrivato a Verona Kilmaine con la schiera dei tremila. Utile pensiero, nè ultimo fu questo a conseguire la vittoria.

Intanto Augereau già era alle prese col nemico al ponte d'Arcole. Avevano gli Austriaci munito questo ponte con artiglierìe, e con barricate, ed empiuto al tempo medesimo le case vicine, che erano merlate, di eccellenti feritori. Nè questo parendo bastare al colonnello Brigido per le difese, aveva collocato sopra e sotto il ponte sulla sinistra dell'Alpone qua e là spessi feritori alla leggiera, i quali tirando contro l'argine, per cui solo i Francesi potevano aver l'adito ad Arcole, faceva loro l'accostarsi difficile, e micidiale. I primi repubblicani che si affacciarono, furono da una immensa grandine di palle, e di scaglia sfragellati; e certamente non mai guerrieri combatterono con maggior valore nelle battaglie più aspre e più difficili, con quanto i difensori di Arcole combatterono in questo fatto. Disordinati e titubanti si allontanavano i Francesi da un luogo di sì grave tempesta. Ma i capi, che sapevano di qual momento fosse, e che l'impeto in tale caso era più sicuro dell'indugio, gli ricondussero allo sbaraglio. Conoscendo però, che l'esempio era più efficace per fargli andare avanti, che le parole, si fecero essi medesimi guidatori delle colonne, ed appresentarono i primi i valorosi petti loro a quei fulmini tanto terribili. Ma nè il nobile coraggio loro, nè la pietà tanto maravigliosa verso la patria non poterono operare di modo che si superasse quel mortalissimo intoppo. Imperciocchè i Tedeschi traendo spessi e fermi, ed opponendo una costanza invincibile ad un coraggio impetuoso, assottigliavano con tante morti, ed affievolivano con tante ferite le Francesi squadre, che fu loro forza tornarsene indietro disordinate e sanguinose: i granatieri stessi, scelta ed invitta gente, cedettero. Lannes fu ferito, feriti Verdier, Bon, Verne, prodi tutti, e sperimentati capitani di guerra. Ricordavasi in questo punto Augereau del ponte di Lodi, e, dato di mano ad una insegna, si piantava in mezzo al ponte, invitando i compagni a seguitarlo. Il seguitavano laceri e sanguinosi com'erano. Ma i Tedeschi gli sfolgoravano novellamente per tal maniera, che tra morti e feriti l'abbattuta fu in poco d'istante sì grande che i superstiti spaventati, ed Augereau medesimo a tutta fretta si ritiravano. Seguitava un silenzio nelle genti Francesi, segno di scoraggiamento; già i capi temevano che succedessero grida assai peggiori del silenzio; tuonavano tuttavia gli Alemanni con l'artiglierìe, e con l'archibuseria. Così poche genti trincerate a caso in un piccolo villaggio avevano posto in grave pericolo, a cagione della difficoltà dei luoghi, tutta una oste coraggiosa per natura, e confidente per vittorie. Pressava il tempo; la fortuna di Francia in Italia inclinava ad una fatale rovina. Nè poteva dubitarsi, che Alvinzi, subito che avesse avuto avviso del fatto, non fosse per venire con tutta la sua mole in ajuto de' suoi; e come potevano sperare i repubblicani di superar tutti, quando una sola e piccola parte si mostrava insuperabile? Queste cose riandava in mente Buonaparte, nè curando la vita, nè curando la sicurezza dell'esercito in sì estremo frangente, venuto là dove i più animosi lo potevano udire, disse loro ad alta voce: “Or non siete voi più i soldati di Lodi? or dov'è il vostro coraggio!”

Questo parlare di Buonaparte a Francesi non poteva non partorire un grandissimo effetto; si rianimavano anche i più timorosi: tutti gridarono, comandasse pure gli guidasse alla battaglia. Cominciava a sperar bene, si avventava egli il primo, attorniato dai principali verso il formidabil ponte. Intanto, cosa maravigliosa in un accidente tanto spaventoso, non aveva omesso Buonaparte di ordinare quello, che avrebbe potuto, se il terzo assalto, che si preparava, avesse avuto infelice fine, ristorare la fortuna cadente, e dargli in mano Arcole, passo tanto essenziale alla vittoria. Primachè si muovesse al cimento fatale comandava a Guyeux, che se ne gisse a varcar l'Adige al passo di Albaredo, ed evitato per tal modo l'Alpone, desse dentro all'impensata al fianco sinistro di Arcole. Egl'intanto, smontato da cavallo, e dato di mano ad una insegna, e postosi in capo alla stretta fila, che sull'argine insistendo, si avviava al ponte, animava i suoi a seguitarlo. Nè furono lenti, anzi coi corpi loro serrandosi attorno a lui, pietosa cura, i granatieri massimamente, coraggiosi per indole, furibondi per la resistenza, già facevano tremare coi tiri, e col calpestìo numeroso la destra sponda del contrastato ponte. Nè già più si ricordavano della morte di tanti compagni, nè delle ferite proprie, nè del sangue sparso: solo miravano a vincere quella pruova terribile e fatale, Lannes medesimo, quantunque già fievole per due grosse ferite, udito il pericolo di Buonaparte, non se ne volle star a badare, e si mescolava anch'egli nella battaglia. Procedeva avanti quel globo formidabile; già metteva piede sul ponte, quando gli sopraggiunse addosso da fronte e dai fianchi un nugolo sì fitto di Tedesche palle, tanto grosse quanto minute, che rotto e trafitto nelle più vitali parti, fu costretto a dare frettolosamente indietro. Restava ferito Lannes di una terza ferita, restava ferito Vignolle, restava ucciso Muiron, ajutante del generalissimo, a canto a lui. Sboccavano allora gli Austriaci dal ponte, e seguitando la vittoria, menavano, con l'armi corte e bianche, strage di coloro, che scampati alla furia delle artiglierìe, e degli archibusi si ritiravano. In quella feroce mischia era Buonaparte, per esortazione de' suoi, rimontato a cavallo, e già cedeva all'impeto del nemico, quando un furioso caricare di scaglia rotti avendo, lacerati, ed uccisi tutti coloro, che gli stavano intorno, trovossi solo esposto al furore di tutte le armi Austriache. In questo punto medesimo spaventato il suo cavallo da quell'alto romore, e da quel trambusto orrendo, gittava se, ed il suo signore nella vicina palude. Gli Austriaci, perseguitatori dei Francesi, non accorgendosene, oltrepassavano il luogo, dove il guerriero fatale ad Austria si giaceva; pareva del tutto disperata la sua fortuna. Ma il generale Belliard, accortosi del fatto, tanto disse, e tanto fece coi granatieri, amatori del loro capitano supremo, che voltato subitamente il viso, e dato un forte rincalzo ai Tedeschi, gli ributtavano di nuovo fino al ponte, ed impedivano un caso ponderosissimo. Già Buonaparte, al quale fu presto in quell'estremo pericolo, con troppo infelice opera per la sua patria, un soldato Veneziano, che militava nelle schiere di Francia, rimesso a cavallo, fu ricondotto dai soldati pieni di allegrezza per la sua insperata salute, ad un sicuro alloggiamento.

Non così tosto aveva Alvinzi avuto le novelle di un fatto tanto straordinario, che costretto ad obbedire a quel nuovo corso di guerra, che con tanta audacia e perizia aveva il suo avversario aperto, abbandonato il pensiero di assaltar Verona, e di congiungersi per allora con Davidowich, ordinava in primo luogo, che tutti gl'impedimenti e le munizioni si ritraessero da Villanova a Montebello; perciocchè ebbe tosto penetrato qual fosse l'intento del capitano di Francia. Poscia dirizzava sei battaglioni di fanti sotto la condotta di Provera a Porcile, e quattordici battaglioni di fanti con sedici squadroni di cavallerìa fidati a Mitruski a San Bonifacio per alla via di Arcole. Viaggiavano queste nuove schiere con molta prestezza, mentre si combatteva al ponte, e qualunque avesse a riuscir l'effetto della presenza loro sul campo di battaglia, già si comprendeva, che Buonaparte aveva conseguito il suo intento di rompere ad Alvinzi il disegno di conquistar Verona, e di unirsi con Davidowich. Già era Provera con la sua squadra giunto a Bionda, pronto a ferire sul fianco sinistro i repubblicani, ma a un duro incontro di Massena fu risospinto fin oltre Porcile.

Mentre in tal modo si combatteva ad Arcole ed a Porcile per la maggior parte dell'esercito Francese, erasi Guyeux, passato l'Adige ad Albaredo, andato aggirando sulla sinistra dell'Alpone, e compariva improvvisamente sotto le mura di Arcole al punto stesso, in cui i difensori ne erano usciti per dar addosso alla risospinta schiera di Augereau. Nè fu lungo il combattere, perchè e poco era il numero dei difensori, e la terra da quel lato priva di ogni difesa. Vi entrava facilmente Guyeux; il che fa vedere, quanto agevole vittoria avrebbe conseguito Buonaparte, se avesse in sulle prime egli medesimo fatto quello, che aveva ordinato a Guyeux di fare. Ma gli Austriaci, che conoscevano l'importanza della terra, si muovevano col grosso delle loro forze da San Bonifacio, e prestamente la ricuperavano. Già annottava: Buonaparte, perduta ogni speranza di acquistare Arcole in quel giorno, e temendo, giacchè era vicino l'esercito Tedesco, di essere condotto a mal partito in mezzo all'oscurità della notte, riduceva tutte le sue genti sulla destra dell'Adige, lasciando solamente la duodecima alla guardia del ponte, e la sessagesimaquinta alloggiata in un bosco a destra dell'argine, per cui si va ad Arcole.

Due cose mirabili sono a notarsi in questa notte, la prima delle quali si è la costanza di Buonaparte, e dei Francesi del non essersi sbigottiti pei due feroci ributtamenti di Caldiero e di Arcole, e questa è degna di grandissima commendazione; la seconda si è, e questa è certamente degna di molto biasimo, che Buonaparte si sia ostinato, ora che sapeva che tutto l'esercito d'Alvinzi era accorso alla difesa di Arcole, a volere assaltare questa terra pel ponte tanto funesto a' suoi, mentre avrebbe potuto o girare per Albaredo, come aveva fatto Guyeux, o far opera di passar l'Alpone verso la sua foce nell'Adige. Certamente assaltando Arcole pel ponte, era il terreno assai svantaggioso ai repubblicani, e se tanto mortale fu l'assalto dato a quel passo, quando vi erano pochi soldati a guardia, quale si doveva credere che fosse per essere, ora che tutta la possanza del generale Austriaco si era ridotta ad assicurarlo? Infatti l'effetto della seconda e terza battaglia di Arcole dimostrò apertamente, quanto fosse irragionevole l'ostinazione di Buonaparte; perchè ei non riuscì vincitore, se non quando si risolvè a passar verso la sua foce l'Alpone, per andar a ferire Arcole sul suo fianco sinistro.

Sorgeva appena il giorno sedici novembre, quando e Francesi, e Tedeschi givano di nuovo con animi infestissimi ad incontrarsi. Avevano i primi di nuovo varcato sulla sinistra dell'Adige, erano i secondi usciti di Porcile e di Arcole per andare a trovar l'inimico. Al tempo medesimo mandava Alvinzi una grossa squadra di cavallerìa a guardare il passo di Albaredo, donde era venuto il pericolo per opera di Guyeux, e muniva tutta la sinistra dell'Alpone di spessi ed esperti feritori alla leggiera. Fu come quello del giorno precedente, durissimo l'incontro dell'armi, combattendosi assai virilmente da ambe le parti. Fu il primo Massena a far piegare la fortuna in favore dei repubblicani, perchè attaccatosi con Provera, che veniva da Porcile, dopo un ostinatissimo conflitto, lo risospingeva sin dentro a questa terra con perdita di molti uccisi, ottocento prigioni, sei cannoni, e quattro bandiere. Il generale Robert assaltava i Tedeschi sull'argine di mezzo, e molti ne buttava nel pantano. Nè se ne stava Augereau ozioso; che anzi opponendo valore a valore, già aveva risospinto gli Alemanni sin dentro ad Arcole, e dava nuovo assalto al ponte. Ma quivi accadeva quello, che era accaduto prima; che con tal furia menarono le mani gl'imperiali condotti da Alvinzi medesimo, ed alloggiati al ponte, nelle case vicine, e lungo la sinistra del contrastato Alpone che i Francesi se ne tornarono indietro dopo di aver patito un orribile macello. Parecchie volte andava alla carica Augereau, altrettante era costretto a cedere con istrazio maggiore: miserabile era la scena di tanti Francesi morti e feriti ammonticchiati sulla bocca del ponte, mentre gli Austriaci, siccome quelli che combattevano da luoghi sicuri, avevano sofferto leggier danno. Sette ufficiali Francesi, o generali, o superiori, furono sconciamente feriti in questa fiera mischia. Chiaro si vedeva l'errore di Buonaparte del volersi ostinare a guadagnare, con far forza di fronte, questo varco. Alcuni accusano Augereau di questa ostinazione, come se Augereau avesse assaltato il ponte non per comandamento di Buonaparte, come se egli si fosse ardito di usare una tanta trasgressione in un affare massime di tanto momento, e sotto gli occhi stessi del generalissimo. Errare è comune destino degli uomini, e nissuno dee dubitare a dire, che anche Buonaparte abbia errato in materia di guerra, perchè anche con qualche errore, sarà egli sempre, e meritamente riputato dagli uomini, sinceri estimatori delle cose, uno dei migliori capitani, che siano comparsi al mondo, e non è punto necessario di maculare la fama altrui per far risplendere la sua, che già tanto in queste guerresche faccende da per se stessa risplende veramente.

Finalmente la sorte declinante della battaglia, più che tante infelici morti de' suoi, faceva accorto Buonaparte del commesso errore, e pensando a quello, a che avrebbe dovuto pensare prima, si metteva all'opra del far gettare in copia fascine nell'alveo dell'Alpone verso la sua foce, con isperanza che avrebbero fatto un sodo sufficiente, perchè i suoi soldati potessero passare a man salva. Ma riusciva vano l'intento, perchè la corrente delle acque diveniva per quell'ostacolo tanto impetuosa, che il passare si pruovò più difficile di prima. In questo fortunoso punto succedeva un fatto di grandissimo ardimento, e fu, che il generale Vial, portato da incredibile ardore, volle far pruova di passare a guado con tutto un intiero battaglione, quantunque i soldati avessero l'acqua fino alla gola, ed i Tedeschi continuassero a trarre furiosamente dalla riva opposta. Ma non era ancor giunto alla metà del rivo, che fu obbligato a tornarsene sulla destra a cagione di una fittissima tempesta di scaglia, che gli lanciarono addosso gl'imperiali. Restava ucciso in quest'incontro un Elliot, aiutante di Buonaparte, ufficiale assai riputato pel suo valore. In questo mentre Alvinzi, volendo usar la occasione della diminuzione d'animo prodotta necessariamente nel nemico da tanti e sì mortali ributtamenti, usciva grosso da San Bonifacio, con intento di pruovare, se gli venisse fatto di cacciar i Francesi nell'Adige, od almeno di costringergli a ripassare il ponte di Ronco più frettolosamente, che non l'avevano passato. Il pensiero del generale Tedesco era assai pericoloso pei repubblicani; ma fu pronto al riparo Buonaparte, poichè, siccome gli Austriaci erano obbligati a marciar sull'argine per gire all'assalto, con alcune artiglierie piantate da lui in un luogo opportuno, gli faceva star addietro. Così la strettezza dei luoghi nocque ai Tedeschi, come nociuto aveva ai Francesi, perchè nè gli uni nè gli altri potevano spiegare le ordinanze loro; ma fu di più grave danno ai Tedeschi, perchè essendo più grossi, avevano maggiore speranza, se avessero potuto allargarsi, di vincere l'inimico. Sopraggiungeva in fine la seconda notte, che faceva sosta al sangue ed alle morti. Tornavano gl'imperiali negli alloggiamenti loro di San Bonifacio e di Arcole, i repubblicani si ritiravano sulla destra dell'Adige, lasciata di nuovo la duodecima a guardia del ponte di Ronco.

S'avvicinava il giorno, in cui doveva definirsi a chi dei due possenti nemici avesse a rimanere la possessione d'Italia. Non isbigottitosi Buonaparte a tante infelici pruove, e persuaso finalmente, che l'assaltar di fronte il ponte di Arcole era uno sparger sangue dei migliori soldati senza frutto, aveva abbracciato quelle risoluzioni, che sole potevano dargli la vittoria; poichè usando l'oscurità della notte, e la cessazione delle armi, aveva fatto dar opera allo edificar del ponte con cavalletti, ed assi sopra l'Alpone in poca distanza dal luogo dove mette nell'Adige. Si erano accorti i Tedeschi del disegno, e però la mattina dei diciassette, come prima incominciava ad aggiornare, erano usciti da Arcole con intenzione di rituffare la duodecima nell'Adige, e d'impedire che il nemico passasse di nuovo pel ponte di Ronco dalla destra sulla sinistra del fiume. A ciò dava loro maggiore speranza un accidente fortuito, perchè una barca del ponte di Ronco improvvisamente si era affondata. Ma le artiglierìe francesi trassero sì aggiustatamente dalla riva destra, che fu fatto abilità ai soldati di Buonaparte di racconciar il ponte, di conservar la duodecima, e di varcare. Andavasi adunque alla battaglia terminativa: il maggior numero delle genti, e l'esito delle precedenti fazioni facevano i Tedeschi confidentissimi: il nuovo ordine dell'assalto, l'avere facoltà di passare sulla sinistra dell'Alpone, il presidio di Legnago, che già si approssimava, ed il valore di tanti soldati agguerriti mettevano i Francesi in isperanza di diventar possessori della vittoria.

Incominciava a colorirsi il disegno di Buonaparte; conciossiachè Massena con piccola parte della sua schiera marciava contro Porcile per operare, che Provera non isboccasse da questo lato; si accostava con la restante ad Arcole per aiutare l'opera della sessagesimaquinta, in faccia al ponte d'Arcole, e della trigesimaseconda, che sotto la condotta di Gardanne si era alloggiata in un bosco vicino all'argine. Era il fine di questi ordinamenti l'impedire, che i Tedeschi non potessero condurre a mal partito le genti repubblicane poste sulla destra dell'Alpone, e non s'impadronissero del passo di Ronco. Ma lo sforzo principale doveva farsi da Augereau, che, passato l'Alpone sul ponte construtto la notte, si avventerebbe, secondato dal presidio di Legnago, contro Arcole da quella parte, dove meno era difendevole. Le cose succedevano come il generale Francese le aveva ordinate; perchè Provera non potè far frutto da Porcile, Augereau varcava l'Alpone, e la sessagesimaquinta condotta da Robert, rincacciava, marciando sull'argine, i Tedeschi insino al ponte di Arcole. Ma gl'imperiali, sboccandone di nuovo più grossi, si scagliavano con tanto impeto contro di lui, che non solo fu risospinta sin là donde si era mossa, ma disordinatamente fuggendo già aveva dato indietro sino al ponte di Ronco. Fu percosso con grave ferita in questo fatto Robert. Seguitavano i Tedeschi questa parte dei Francesi, che fuggiva, credendo di possedere la vittoria, mentre ella effettivamente già loro usciva di mano; imperciocchè Massena, che sapeva bene corre i tempi, ed usargli con vigore, compariva improvviso sulla destra loro, la diciottesima gli percuoteva di fronte, Gardanne uscito dall'agguato gli urtava sul fianco sinistro. Tanti contemporanei assalti disordinavano la schiera Tedesca, di cui parte si ritirava più che di passo verso Arcole, parte fu spinta nella palude vicina, dove divenne miserabile bersaglio delle artiglierìe, e dell'archibuserìa di Francia. Morirono in quest'abbattimento, del quale la principal lode si debbe a Massena, quantità grande di buoni soldati Tedeschi; circa tre mila vennero in poter dei repubblicani.

Alvinzi manteneva tuttavia la battaglia contro Augereau, che, varcato il nuovo ponte, si era condotto sulla sinistra dell'Alpone. Nè era facile a Buonaparte di sforzarlo, perchè il Tedesco aveva con lui il miglior nervo delle sue genti, e la sua destra si appoggiava ad una palude, mentre la sinistra era assicurata da luoghi anche pantanosi, e da una fiorita cavallerìa. Durava la battaglia già buon tempo con esito incerto, quando, siccome narrano, sovvenne a Buonaparte uno stratagemma, e fu di mandare una compagnìa di soldati a cavallo, acciocchè girando velocemente dietro il fianco degli Austriaci, andasse a romoreggiar loro alle spalle con le trombe, e con quel maggiore strepito che potesse. Scrivono, che questo carico fu dato dal generale Francese ad un luogotenente Ercole, e che Ercole lo condusse a fine con quella celerità ed avvedutezza, che meglio si potevano desiderare. Certo è bene che, o che il romore improvviso di questo Ercole, od il presidio di Legnago, che già uscendo dalla vicina terra di San Gregorio incominciava a tempestare sul sinistro fianco, ed alle spalle dei Tedeschi, o finalmente la vittoria avuta da Massena contro il destro, sel facessero, gli Austriaci incominciavano a declinare manifestamente, ed infine a cedere il campo, se non con fuga, almeno con ritirata molto presta. Occupavano con infinita allegrezza i Francesi il tanto combattuto Arcole, e vi pernottavano. Ritirava Alvinzi le sue genti ad Altavilla, poscia a Montebello sul Vicentino. Lasciava, ovunque passava, ogni più sfrenato eccesso commettendo i suoi soldati, funesti vestigi sui desolati paesi. Poco meno di tremila Tedeschi furono uccisi nella giornata di Arcole, circa cinque mila prigionieri, tra i quali sessanta ufficiali, diciotto pezzi d'artiglieria, e quattro insegne ornarono il trionfo dei vincitori. Grave esser stata la perdita dei Francesi nissuno potrà dubitare, considerando le spesse ed aspre battaglie, ed i mortali ributtamenti, massime il silenzio del generale repubblicano in questa parte. Ma la vittoria intiera, la mantenuta fama, la conservata Italia, l'aver superato con un esercito vinto e minore, un esercito vincitore e più grosso, l'aver impedito la congiunzione dei due eserciti Tedeschi, l'aver fatto passaggio, per mezzo di una mossa maravigliosa, da una condizione quasi disperata ad una condizione prosperissima, e finalmente la presa di Mantova, che già si vedeva sicura per Francia, di gran lunga compensarono i sopportati danneggiamenti.

La battaglia di Arcole, che finchè saranno in onore presso agli uomini il valore e la scienza militare, sarà celebratissima, e stimata uno dei più esimj fatti di guerra, che dalle storie siano tramandati ai posteri, pose per allora in sicuro la fortuna Francese in Italia. Aveva bene Davidowich, calatosi da Ala il dì medesimo in cui Buonaparte vinceva ad Arcole, rotto e fugato Vaubois da Corona poscia da Rivoli, e ridotto in potestà sua il posto importante della Chiusa. Aveva bene anche scacciato Vaubois medesimo dai monti di Campara con presa di undici cannoni, e di due mila prigionieri, fra i quali si noveravano Fiorella e Lavalette; finalmente aveva bene altresì, seguitando il corso della fortuna prospera, occupato Bussolengo, e distendendosi sulla sinistra insino a Castelnuovo, e sulla destra insino in prossimità di Peschiera, minacciato di riuscire alle spalle di Verona, e di correre al riscatto di Mantova. Ma quello, che sarebbe stato fatale ai Francesi, se fosse stato effettuato cinque o sei giorni avanti, non poteva partorire, se non la ruina di Davidowich, effettuato essendo a questo tempo. Il che fa vedere, quanto sia stato funesto alla casa d'Austria, e disonorevole, per non dire colpevole, a Davidowich l'avere soprastato, e consumato invano tutto il tempo utile alle stanze di Roveredo. Non arrivò alle sponde del Mincio, quando era il tempo di arrivarvi, e vi arrivò, quando non era più il tempo. Così piuttosto agli errori de' suoi capitani che alla natura dei soldati restò l'Austria obbligata delle rotte sofferte, e della perduta Italia.

Non così tosto ebbe Buonaparte vinto ad Arcole, che si rivoltava con le sue schiere vincitrici contro Davidowich, e trovatolo a Campara lo debellava. Vero è però, che il Tedesco, avendo avuto avviso della calamità di Arcole, stimandosi, come era realmente, impotente al resistere, ebbe combattuto rimessamente, e solo per dar tempo agl'impedimenti di condursi in salvo. Poi vieppiù tirandosi all'insu, si conduceva prima a Dolce, poi ad Ala, seguitato velocemente dai Francesi, che lo danneggiarono nella retroguardia. Nè fuvvi in questa ritirata cosa notabile, se non che una squadra di otto cento Alemanni governati dal colonnello Lusignano, tanto trattenne, valorosamente combattendo, Augereau, che con ottimo intendimento era partito da Verona per riuscire, valicando i monti della Mallara, alle spalle di Davidowich, prima che fosse giunto ad Ala, che rendè vano il disegno dei repubblicani. Essendo diventati novellamente i Francesi padroni di tutto il Veronese, e la stagione correndo molto sinistra, condussero i due avversari i soldati loro alle stanze. Fermossi Davidowich in Ala, Alvinzi in Bassano, con la vanguardia a Vicenza ed a Padova, ed il grosso sulle rive della Brenta. Si avvisò anche di alloggiare un grosso a Primolano per aver in tal modo più vicina, e più spedita la via di comunicare, pel corso della Brenta, con Davidowich. Stanziò Buonaparte nel Veronese, rimandata però la schiera di Kilmaine al campo di Mantova per istringere viemaggiormente l'assedio della piazza, che, siccome priva dell'ajuto d'Alvinzi, credeva aver tosto a venire in sua possanza.

Gli Alemanni, ancora quando fossero respinti, non erano però rotti, e se molti buoni soldati erano morti, grave danno avevano anche patito i Francesi; le fazioni di Caldiero, e le vittorie conseguite da Davidowich nello scendere dal Tirolo compensavano le perdite fatte nella battaglia di Arcole. Si vedeva manifestamente, che, ove Alvinzi si fosse riforzato per nuovi ajuti venuti dagli stati ereditarj, sarebbe di nuovo in grado di uscire alla campagna, e di ritentar la fortuna delle armi: di nuovo le Austriache sorti potevano risorgere. Sapeva queste cose Buonaparte; perciò continuamente rappresentava al direttorio, avere bisogno di nuovi soldati, e tosto gli mandassero se a loro stavano a cuore la fama, e la potenza acquistata nelle contrade Italiche.

Mandava apportatore delle felicissime novelle a Parigi Lemarrois, suo ajutante di campo. Appresentava le conquistate insegne al direttorio; i segni delle avute vittorie tanto più volentieri furono veduti, quanto maggiore era stata la sollevazione degli animi all'apparato Austriaco. Le lodi del capitano invitto, e dell'esercito Italico andavano al cielo.

Decretava la repubblica, le repubblicane bandiere portate da Augereau e da Buonaparte contro gli Alemanni nella battaglia di Arcole, a loro in nazionale ricompensa si donassero. Bene considerato certamente fu questo decreto in quel che diceva, ma non in quel che taceva, perchè Massena aveva vinto gran parte della battaglia.

Le armi infelicemente usate dall'Alvinzi non avevano tanto sbigottito l'imperatore, che non confidasse di poter soccorrere con frutto le cose d'Italia. Perochè e le sue genti erano tuttavia quasi intiere, e la divozione dei popoli grande, e la somma della guerra consisteva in una vittoria, alla quale la volubile fortuna avrebbe, quando meno si pensava, potuto aprire il varco.

Nasceva altresì la sicurezza dell'Austria dalla risoluzione del pontefice di volere piuttosto incontrare una guerra pericolosa, che accettare condizioni inonorate, e contrarie, siccome credeva, alla purità della fede. Pareva, che l'autorità ed il pericolo della santa sede avessero a muovere gl'Italiani, ove l'Austria apparisse di nuovo grossa in Italia, e qualche vittoria l'assicurasse. Non si dubitava poi che se la fortuna voltasse il viso più benigno a coloro, ai quali fino allora era stata avversa, Napoli non fosse per mutar fede, per la grande entratura che avevano gl'Inglesi in quella corte. Le quali cose molto bene considerate e ponderate dall'Austria, la confortarono a fare un nuovo sforzo anche prima che la stagione si fosse intiepidita. Solo dava timore la piazza di Mantova, che si sapeva essere ridotta agli estremi, e l'averla, o non averla era per ambe le parti l'importanza della guerra. Ma Wurmser non indugiava a torre in questo proposito ogni dubbio; perchè non perdutosi d'animo all'esito infelice delle battaglie d'Alvinzi, tanta era la costanza di questo vecchio, nè alle malattie che infierivano in mezzo a' suoi soldati, nè alle tante morti che gli avevano scemati, si deliberava di trovar modo per qualche improvvisa sortita a procurare a se nuova vettovaglia. Assaltava i giorni diecinove, e ventitre novembre con quasi tutto il presidio i repubblicani a Sant'Antonio, ed alla Favorita, ed avendogli fatti piegare, predava, ed introduceva dentro la piazza non poca quantità di viveri. Avendo poi avuto avviso, che erano arrivate nel porto alcune barche cariche di munizioni da bocca ad uso dei Francesi, usciva nuovamente molto grosso gli undici, e quattordici decembre, e le predava; prezioso sussidio alle sue affamate genti. Oltre le munizioni conquistate, la sortita di Wurmser per la porta Pradella cagionava non poco danno alle trincee fatte dai Francesi.

Erasi intanto Alvinzi condotto in Tirolo per consultare con Davidowich sulle faccende comuni, e per fermare i consigli sull'indirizzo a darsi alle nuove armi, che si preparavano. Poco dopo Davidowich, la cui tardità era gravemente spiaciuta all'Imperatore, fu richiamato, ed ebbe lo scambio nel principe di Reuss, capitano pratico dei luoghi, avendo pochi mesi innanzi guerreggiato, non senza lode, con Quosnadowich sulle spiaggie del lago di Garda. Deliberava Alvinzi, al quale l'imperatore serbava fede malgrado dell'infelice successo della guerra testè terminata con la sconfitta di Arcole, che il principale nervo si muovesse, ed il principale sforzo si facesse dal Tirolo, calando per le rive dell'Adige; alla quale deliberazione si era accostato per la difficoltà incontrata di passare questo grosso fiume a Verona. Aveva argomentato, che venendo dal Tirolo, si trovava a campeggiare naturalmente tra l'Adige e il Mincio, ed in grado di correre senza impedimento di fiumi al soccorso della città assediata. Aveva poi ordinato, che la parte di mezzo condotta da Quosnadowich si pruoverrebbe, percotendo verso Verona, di congiungersi con la destra, che era la più grossa, e veniva dal Tirolo, e che al tempo stesso la sinistra guidata da Provera si sforzerebbe di passar l'Adige verso Porto-Legnago. Ma per poter meglio ingannare l'inimico, e tenerlo sospeso del dove avesse a ferire quella nuova tempesta, aveva Alvinzi operato, da una parte, che Laudon con una mano di soldati armati alla leggiera, disceso per la destra del lago, andasse a romoreggiare sino alle porte di Brescia, dall'altra, che un'altra parte di simil gente, partita da Padova, e traversato il Polesine di Rovigo, passasse l'Adige a Boara per mettere in sentore Ferrara e Bologna, dove i Francesi s'ingrossavano per far la guerra al papa. Era lo scopo d'Alvinzi nell'ordinare la mossa contro Brescia il far credere a Buonaparte, ch'ei volesse far campo della nuova guerra le regioni tra il Mincio e l'Oglio, e col correre contro le due legazioni intendeva di dar animo e forza al papa, che già aveva adunato le sue genti sulle rive del Senio. Sperava poi generalmente, che tempestando coi due corni estremi del suo esercito, avrebbe allontanato dalla credenza del generale repubblicano, ch'ei fosse per fare il principale sforzo tra l'Adige e il Mincio. Così come pareva nuovo questo disegno, confidava, che avrebbe suscitato nuovi pensieri di Buonaparte, e messo in sospetto di una maniera di guerra non ancora usata. Per arrivare a questo fine aveva cinquanta mila combattenti, se non tutti sperimentati, almeno tutti ardenti; perchè aveva con se in Tirolo venticinque mila soldati, dieci mila ne aveva Quosnadowich in Bassano, altrettanti Provera a Padova, il resto sulle ali estreme. Maravigliosa cosa è il pensare, come l'Austria, dopo tante rotte, abbia potuto raccorre in sì breve tempo un esercito sì grosso. Ma dal Reno erano venuti più di tre mila soldati, quattro mila dall'Ungheria: gli altri stati ereditari fornivano a proporzione. Risplendè principalmente la fedeltà e l'ardore dei Viennesi in tanta depressione della potenza Austriaca; perchè quattro mila giovani delle prime famiglie, lasciati in sì grave pericolo della patria, gli agi e le morbidezze, e prese le armi, accorrevano bramosamente fra le nevi del Tirolo, e fra i veterani dell'esercito al voler riconquistare al loro signore le perduta Italia. Buonaparte, che stimava l'utile, non il generoso, si faceva beffe di questa gente, giovinastri chiamandogli, e ciamberlani. Ma si vide alla pruova, ch'erano valenti soldati, e che se non era di una spia, e della celerità di un giorno, i vinti sarebbero divenuti vincitori, gli scherniti trionfatori.

Erasi il generale repubblicano ingrossato per nuove genti venute di Francia. Non ostante non arrivava il suo esercito al novero di quello d'Alvinzi, poichè passando i quarantacinque mila, non arrivava ai cinquanta. L'aveva egli spartito in cinque schiere principali, una delle quali governata da Serrurier teneva il campo sotto Mantova, l'altra con Augereau stanziava a Verona, distendendosi verso le regioni inferiori dell'Adige, la terza retta da Massena alloggiava pure in Verona, ma spingeva le sue genti innanzi per sopravvedere quello che fosse per annunziare la guerra dalle sponde della Brenta; la quarta, che obbediva a Joubert, surrogato a Vaubois, guardava le fauci del Tirolo, avendo il campo alla Corona, a Rivoli, e nei luoghi intermezzi; la quinta finalmente, quale corpo di ricuperazione, e per assicurare la destra del lago, aveva le sue stanze a Brescia, Peschiera, Desenzano, Salò e Lonato.

Da tutto questo si può conoscere, che Buonaparte si era persuaso, che lo sforzo dei Tedeschi avesse a indirizzarsi contro Verona; ma però, siccome astuto e prudente capitano, aveva ordinato i suoi per forma che se la tempesta si scagliasse dal Tirolo, fossero in grado di resisterle, perchè e Joubert era grosso di dieci mila soldati, ed Augereau e Massena potevano arrivare prestamente in soccorso di lui da Verona. Il primo a dar le mosse alla sanguinosa guerra, che siam per raccontare, fu Provera, che partito da Padova il dì sette gennajo, si dirizzava verso Bevilacqua, terra posta sul rivo, che chiamano la Fratta. Era in Bevilacqua il generale Duphot con una squadra, che serviva come antiguardo al presidio di Porto-Legnago. Era intendimento di Provera di tentare il passo dell'Adige poco sopra a quest'ultima fortezza per recarsi quindi al soccorso di Mantova. Il dì otto sul far del giorno il principe Hohenzollern marciava contro Bevilacqua difesa da un piccolo castello: trovato per istrada un grosso corpo repubblicano, che gli voleva far contrasto, dopo un aspro combattimento, lo fugava. Al tempo medesimo il colonnello Placseck sulla sinistra s'impadroniva del posto di Caselle, e sulla destra un capitano Giulay occupava i passi di Merlara e di San Salvaro. Frattanto i Francesi si erano rinforzati a Bevilacqua per le genti fresche venute da Porto-Legnago. Ma assaliti in diverse parti dagli Alemanni, fu loro forza di pensare al ritirarsi, e si ridussero a Bonavigo ed a Porto-Legnago sull'Adige, non senza grave danno, e con perdita di due cannoni. Combattè molto animosamente in questo fatto Duphot, ma con non minor valore combatterono i volontari Viennesi, che furono gran parte della vittoria. Conseguìti questi primi vantaggi, confidava Provera di poter presto passar l'Adige tra Ronco e Porto-Legnago. Era, quando seguirono queste prime battaglie, Buonaparte a Bologna, intento ad ordinar la guerra contro il papa, e non così tosto ne ebbe avviso, che giudicando bene del tempo, comandava a due mila soldati, che già aveva indirizzato contro gli stati della chiesa, retrocedessero, e gissero a congiungersi con Augereau, che difendeva le rive dell'Adige assaltate da Provera. Il che dimostra quanto intempestiva, e troppo presta fosse la mossa del generale Austriaco; perchè avrebbe fatto di mestiero, che si fosse dato tempo ai pontificj di venire avanti tanto che congiunti con gl'imperiali avessero potuto concorrere coi medesimi al fine, che gli uni e gli altri si proponevano.

Buonaparte, poichè tanto stringeva il tempo, e le cose se gli dimostravano pericolose, condottosi celeremente, e soprastato alquanto al campo di Mantova per ordinar quello che fosse a farsi in tanto pericolo, s'avviava a Verona la mattina del dodici, dove trovava Massena alle mani coi Tedeschi venuti a Bassano; imperciocchè Alvinzi per tener incerto l'avversario del luogo, dove principalmente volesse ferire, aveva comandato, che al tempo medesimo si urtasse contro tutta la fronte del nemico. Trovavasi l'antiguardo di Massena a San Michele, poco distante da Verona, quando assalito dai Tedeschi fu costretto a ritirarsi dentro le mura. Ma Massena, uscito fuori con tutti i suoi, attaccava la battaglia, che fu molto aspra e sanguinosa. Restava il campo ai Francesi, e prendevano al nemico seicento prigionieri con tre bocche da fuoco. Non fu senza grave danno la vittoria, perchè i repubblicani perdettero a un di presso il medesimo numero di soldati con quattro pezzi d'artiglierìa.

Non insistevano maggiormente gl'imperiali, contenti allo aver fatto credere al nemico, che lo volessero assalire fortemente, e grossi in questa parte. Si ritraevano per iscaltrimento indietro alle montagne; anzi una parte guidata da Quosnadowich si conduceva celatamente, e con molta prestezza per la valle della Brenta a rinforzare Alvinzi in Tirolo. Restava la rimanente sotto il generale Bajalitsch. Nè qui si restavano i tentativi degli Austriaci, perchè sulle due ali estreme Provera varcava l'Adige il dì tredici, non però senza molta difficoltà, contrastatogli animosamente il passo da Guyeux. Alvinzi sforzava le strette della Corona con avere obbligato Joubert a ritirarsi sull'alloggiamento forte, e fortificato di Rivoli. Pendeva in tale modo incerto Buonaparte del vero intento dell'avversario; nè sapendo a qual parte volgersi, se ne stava tuttavia a Verona, aspettando che il tempo, e più aperte dimostrazioni degli Austriaci gli dessero maggior lume. Nè tardava ad essere appagato del suo desiderio; perchè, in primo luogo, un Veronese, amatore dei Francesi, e congiunto d'antica amicizia con Alvinzi, si era segretamente condotto a Trento per visitarlo, ed ivi soprastato essendo tre giorni, ebbe trovato modo di copiare tutto il disegno di guerra del generale Austriaco, il quale disegno, tornatosene a Verona, consegnava ad un Pico, che nato in Piemonte, e mescolatosi nelle congiure di quel paese, si era ricoverato in Francia, e seguitando sempre l'alloggiamento principale, si adoperava come esploratore delle operazioni militari del nemico. Da questo Pico fu incontanente il disegno d'Alvinzi dato in mano del generalissimo di Francia. Così ebbe sicura notizia di quanto intendesse fare il generalissimo d'Austria. Giungevano in secondo luogo lettere espresse di Joubert, che portavano, quanto grossi fossero comparsi gli Austriaci alla Corona. Da tutto questo divenne chiaro, che gl'imperiali farebbero il più grosso sforzo per le regioni superiori dell'Adige col fine di andar a percuotere direttamente quelle, che sono poste fra l'Adige ed il Mincio. Buonaparte allora, solito a spingere con incredibile celerità sempre innanzi le occasioni, comandava a Massena, corresse con tutta la sua schiera a Rivoli più prestamente che potesse. Lo stesso ordine mandava a Rey, che se ne stava alle stanze di Desenzano e di Lonato. Egli poi, la notte medesima del tredici, s'incamminava frettolosamente a Rivoli per ivi sostenere la fortuna vacillante. Confidava Alvinzi, che il generale repubblicano, trovandosi alle prese a Verona, e sul basso Adige, non sarebbe accorso sull'alto con tutte le sue forze. Però si persuadeva di aver solo a fronte la schiera di Joubert. Per la qual cosa aveva ordinato talmente i suoi, che una parte urtasse contro il forte passo di San Marco occupato dalla vanguardia di Joubert, e che è la chiave di chi scende dal Tirolo verso Verona; l'altra condotta da Liptay girasse sui monti per Campione per andar a ferire alla schiena il rimanente corpo di Joubert, che alloggiava in Rivoli. Un'altra colonna grossa di quattromila soldati, e governata dal generale Lusignano, girando più alla larga, doveva riuscire più alle spalle dei Francesi, per la valle del Tasso. Arrivava intanto Quosnadowich, e romoreggiava sulla sinistra dell'Adige. Aveva infatti Alvinzi con un urto gagliardo acquistato il passo di San Marco. Ma non era ancora spuntato il giorno del quattordici, che Buonaparte già ingrossato dalle genti più leggieri di Massena, aveva dato dentro a San Marco, e dopo un grave conflitto, se n'era impossessato. Si accorgeva allora Alvinzi, che i suoi pensieri erano stati penetrati, e che in vece di avere a combattere col solo Joubert, gli era forza di sostenere l'impeto della maggior parte dell'esercito repubblicano. Ciò cambiava le sue sorti, perchè quello, che era conveniente combattendo molti contro pochi, non era parimente combattendo molti contro molti, anzi contro più. Tuttavia non diminuendo per questa difficoltà della speranza di vincere, ed essendo già presente il nemico, non aveva più comodità di cambiare l'ordine incominciato della battaglia, e dovette far fronte con mosse non acconce ad un caso inaspettato. Nè sicuro consiglio sarebbe stato il ritirarsi, perchè avrebbe portato con se la perdita di tutta l'impresa, oltrechè in cospetto di un nemico tanto attivo, la ritirata sarebbe stata accompagnata da gravissimi pericoli. Vi era adunque pel generale Austriaco necessità di combattere, e d'incontrar la fortuna, qualunque ella si fosse.

Già si combatteva asprissimamente dalle due parti alle cinque della mattina, e siccome gli Austriaci per ordine del loro generale puntavano massimamente contro la sinistra dei Francesi, per secondare le colonne che giravano alle spalle, così quest'ala Francese, ed anche la mezza pativano grandemente, e già, crollandosi, si tiravano indietro disordinate: erano la ottuagesimaquinta, e la vigesimanona. Pareva la fortuna inclinare a favore dei Tedeschi. Mosso Buonaparte dall'estremo pericolo, comandava a Berthier, nel quale e pel valore e per l'esperienza molto confidava, sostenesse con la quartadecima l'inimico in mezzo. Egli poi accorreva alla sinistra, che tuttavia sempre più piegava, e pericolava. Sosteneva la quartadecima un urto ferocissimo. Questo sforzo, e la terribile trigesimaseconda, che arrivava, ristoravano in questo luogo la battaglia, che inclinava. Ma non procedevano con simile prosperità le cose dei Francesi sulla sinistra, che continuava a cedere del campo: era sempre il rischio estremo, quando ecco arrivare a gran tempesta Massena, ed entrare nella battaglia sulla sinistra. Quivi risvegliatasi in lui la solita caldezza, e combattendo con grandissimo valore, fe' strage orribile del nemico, e ricuperò alcuni dei siti perduti sulle eminenze. Mentre Massena rintegrava la fortuna, e guadagnava del campo a sinistra, il mezzo e la destra dei repubblicani acremente incalzati si ritiravano, e già gli Austriaci erano in punto d'impadronirsi dell'eminenza di Rivoli, che era a chi l'avesse in poter suo, la vittoria della giornata. In questo momento compariva sulle alture a man manca Liptay, e mettendosi alla scesa già era vicino a ferire di fianco l'ala sinistra dei repubblicani. Quest'era il momento determinativo della fortuna; perchè, se gli Austriaci, in vece che erano spartiti in parecchi corpi, tanto sulla destra, quanto sulla sinistra dell'Adige, fossero stati ammassati in un solo e grosso per far forza contro Rivoli, cosa è più che probabile, che avrebbero acquistato la vittoria. Ma trovandosi le schiere divise, perchè Alvinzi, credendo di aver a far solo con Joubert, le aveva ordinate piuttosto per circondare, che per combattere, non poterono urtar tutte al medesimo tempo e di concerto, e lasciarono intervalli fra di loro, pei quali poteva il nemico penetrare, ed assaltarle di fianco. Tuttavia, spignendosi avanti con mirabile coraggio, avevano recato in poter loro il fatale Rivoli; ma Buonaparte, veduto che poteva, per la separazione delle colonne nemiche, riunire i suoi in un grosso corpo senza pericolo, il fece, e ricuperava con breve battaglia Rivoli. Pinsero di nuovo avanti i Tedeschi, e dopo una mischia spaventevole, se lo pigliavano una seconda volta. Buonaparte, che vedeva stare ad un punto la fama e la fortuna sua, comandato a Berthier, che trattenesse con la cavallerìa i Tedeschi nel piano, che fra le alture a sinistra, e Rivoli a destra si apre, acciocchè non potessero aiutare i difensori di Rivoli, adunava in un solo sforzo tutti gli squadroni che potè raccorre in quel momento, ed uniti e grossi gli conduceva contro Alvinzi, occupatore per la seconda volta del contrastato passo. Là erano le sorti d'Italia, e di tutta la guerra, là di Mantova si diffiniva. Nè nissuno creda, che dappoichè gli uomini fan guerra, e neanco nelle battaglie più famose dell'antichità, e dei tempi moderni si sia combattuto o più ostinatamente, o più coraggiosamente, come in questo fatto si combattè. Ebbero l'uno assalto e l'altro felice fine pei buonapartiani, perchè e Berthier frenava il nemico nel piano, e Joubert, che in questa giornata lasciò dubbio, se fosse più valoroso soldato, o più esperto capitano, cacciato a forza il nemico da Rivoli, se ne impossessava.

Intanto già si era per modo accostato Liptay che incominciava a percuotere l'ala sinistra dei Francesi, non ancor del tutto rimessa in ordine dal precedente scompiglio. Correva pericolo, che quello, che la mezzana e la destra avevano guadagnato, la sinistra perdesse. Se a ciò si aggiunge, che Lusignano già si approssimava, e batteva il campo sulle alture, donde si cala il Tasso, si verrà a conoscere, a quale ripentaglio fossero ridotte, malgrado del riacquistato Rivoli, le Francesi sorti. Ma le ristorava, secondo il solito, quel Massena, il quale, spintosi tra la squadra di Liptay, e l'estremità della mezzana, tanto batteva l'una e l'altra, che le sforzava, non senza grave disordine, al ritirarsi: si ricoverava Liptay a Caprino. Massena poi, prevedendo l'arrivo di Lusignano, andava a porre alcune sue genti su certi colli, pei quali si poteva riuscire dietro a Rivoli. A questo modo la fortuna, che sul principio, e per parecchie ore aveva inclinato a favor degl'imperiali, voltato il viso, guardava propizia i repubblicani; il quale accidente all'opera principalmente di Buonaparte e di Joubert a dritta, di Berthier in mezzo, e di Massena a stanca si debbe attribuire. Rimaneva Lusignano, che poteva ancor disordinare la vittoria, s'ella non avesse avuto, con la rotta di lui, la sua perfezione. Infatti compariva, già erano le nove della mattina, con terribile mostra, dopo di aver varcato i monti di Sperano, di Montegazo e del Lavaletto, nella terra di Pesena, e già s'incamminava più sotto, costeggiando il Tasso, verso Affi. Debole presidio era contro questa colonna la diciottesima, alloggiata a Rocca di Garda. Infatti, dopo un grosso affronto a Calcina, aveva Lusignano continuato il suo viaggio, e già pervenuto sul monte Fiffaro a fianco ed alle spalle di Rivoli, rendeva dubbia la vittoria.

Mentre così in una battaglia già tante volte vinta e perduta stavano ancora sospese le sorti, arrivava Rey, che, come abbiam narrato, per ordine di Buonaparte veniva da Desenzano e Lonato, in luogo donde già poteva essere di sussidio a' suoi. Erasi egli, velocemente marciando, condotto sulle alture di Cavaglione custodite da alcune bande di Croati, e fatto dar dentro dai generali Partoneaux e Boyer, facilmente le superava; perchè i Croati, gente nuova e collettizia, nè usa alle battaglie ferme, fatta debole resistenza, si diedero facilmente alla fuga. Superatisi da Rey i monti di Cavaglione, e traversata la valle che gli parte dall'eminenze di Rivoli, aveva trovato modo di aprirsi la strada fino a Massena. Si avventavano allora tutti ad un tempo contro Lusignano, Massena da una parte, Monnier dall'altra, Rey alle spalle, per forma che attorniato da tutte bande, non aveva più altro rimedio, che quello di arrendersi, o di far pruova di aprirsi il varco con le bajonette. Si appigliava volentieri, come uomo di molta prodezza, a quest'ultimo partito. Ma soperchiato dal numero soprabbondante dei nemici, nè avendo con se difesa di artiglierìa, o di cavallerìa, di cui gli assalitori abbondavano, fu costretto a cedere, deponendo le armi, e dandosi con tutti i suoi prigioniero in poter dei repubblicani. Dava questo fatto piena vittoria a Buonaparte, perchè tutta la restante oste d'Alvinzi, sbigottitasi a sì infelice caso, rapidamente verso la parte più alta e più aspra del Tirolo si ritirava. Buonaparte, conseguita tanta vittoria, ed avute le novelle dell'accostarsi di Provera a Mantova, conoscendo quanta variazione potrebbero ancor fare le cose, malgrado della vittoria di Rivoli, se Mantova si rinfrescasse, con celerità uguale a quella, con cui aveva camminato da Verona a Rivoli, correva da Rivoli a Mantova, conducendo con se Massena e la sua schiera, tanto sicuro fondamento alle vittorie.

Intanto Joubert, al quale partendo aveva dato il carico di perseguitar l'inimico, mandava sui monti a sinistra Murat coi soldati più veloci, con intendimento di girare alle spalle di Corona, dove pareva che gli Austriaci volessero rannodarsi. Riusciva la fazione, come era stata ordinata dal Francese; perchè rotta da Murat per via una banda di nemici, un terror tale entrava subitamente negli Alemanni, che pensarono meglio a salvar le persone che l'onore. Fu generale la sconfitta, e se si eccettuano dieci battaglioni, ed otto squadroni, che il giorno innanzi aveva Alvinzi spedito a Bassano per assicurare quel passo, nissun reggimento si ritirava, che intiero od ordinato fosse. Vollero fermarsi a fare un poco di fronte a Torbole ed a Mori, dove Laudon e Wukassowich avevano fatto a questo fine alcune trincee; ma la trepidazione dei soldati, una improvvisa comparsa alle spalle di Vial, che per nevi e per dirupi aveva corso un cammino malagevolissimo, e finalmente un assalto inopinato e subito dato a Torbole da quel rischievole Murat, che aveva a questo intento attraversato il lago, sbigottirono gli Austriaci per modo che, tolta ogni difesa, fuggivano a precipizio. Nè fecero fine gli uni al perseguitare, gli altri al ritirarsi, finchè Wukassowich non giunse a Lavisio, dove nelle antiche trincee distribuiva le genti. Entrava Joubert trionfante in Trento con bella e lieta mostra guerriera. Così coloro, che già abbracciavano colla mente la possessione di Mantova, non poterono nemmeno conservare la metropoli del Tirolo, antico e fedele seggio della potenza Austriaca.

Spente le speranze dell'Austria nei campi di Rivoli, si ravvivavano alcun poco, ma per breve tempo, nelle regioni vicine a Mantova. Erasi Provera accostato all'Adige coll'intento di varcarlo per accorrere prestamente al sussidio di Mantova. Simulava per ingannare Augereau, che stava schierato sull'altra riva, ora di assaltar Ronco, ora Porto-Legnago, perchè il suo pensiero era di passare ad Anghiari, passo più comodo per certi rilevati, che vi sono sulla sinistra sponda, molto atti a dar facilità di nascondere i soldati, e le artiglierie. Venendo poscia più alle strette, aveva mandato le piatte abili a far i ponti estemporanei sui fiumi, a Nichesola, e pareva, che vi si affaticasse per passare. Ma finalmente, gittatosi improvvisamente ad Anghiari, e fatto star indietro con le artiglierìe i Francesi, che dall'opposta riva lo oppugnavano, vi piantava il ponte e varcava, come abbiam detto, il giorno tredici di gennajo. I volontari Viennesi venuti sulla destra sponda, cacciavano i repubblicani da Anghiari. Non così tosto ebbe Provera effettuato il passo, che, chiamate a se le bande spartite mandate a Bonavigo, a Ronco, ed a Legnago, marciava velocemente alla volta di Mantova; perciocchè nella celerità era riposta la vittoria. Passava per Cerea, Sanguinetto, e Nogara: alloggiava in quest'ultima terra la notte dei quattordici. Il quindici, continuando a viaggiare molto per tempo, e prestamente, passato Castellara, compariva in cospetto di San Giorgio, sobborgo di Mantova. Il seguitavano più che di passo Guyeux, ed Augereau, e sebbene non potessero giungere il corpo principale, davano nondimeno addosso al retroguardo, e tutto lo ridussero, armi, soldati, e munizioni, in potestà loro. Tuttavia era ancor Provera grosso di più di cinque mila soldati. Ma Buonaparte, con celerità, unica quasi nelle storie, marciando, arrivava contra di lui la notte dei quindici, e da ogni parte il circondava. Splendeva il giorno sedici: Wurmser e Provera assaltavano la Favorita, e Sant'Antonio. Fu tanto impetuoso l'assalto del maresciallo, che Dumas, posto alla guardia di Sant'Antonio, fu costretto a piegare, lasciando le trincee in mano dei Tedeschi. Mandava Buonaparte un rinforzo di genti fresche a Dumas, con le quali potè raffrenare l'impeto del nemico, ma non tanto che Wurmser non arrivasse sino in cospetto della Favorita: già anzi si accingeva ad assaltar alle terga i repubblicani, che guardavano quelle fortificazioni. Ma non era passato con la medesima felicità l'assalto dato alla fronte della Favorita da Provera, perchè ributtato aspramente da Serrurier, che stava dentro, non potè far frutto. Wurmser combattuto validamente da Victor venuto con le genti da Rivoli, temendo di esser tagliato fuori da Miollis, che poteva uscire da San Giorgio, ed assalito a mano manca da Massena, si riduceva prontamente in Mantova.

I Francesi liberati dagli assalti di Wurmser, stringevano viemaggiormente Provera. Percuotevanlo a fronte Serrurier, a stanca Victor, a destra Miollis, e già tempestando alle spalle Augereau, che arrivava da Castellara, gli faceva segno, che l'arrendersi era più sicuro che il combattere. Pure perseverava, volendo, se la malvagità della fortuna lo sforzava a depor le armi, averle almeno usate da guerriero franco e valoroso. Finalmente veduto che Victor già gli aveva tolto i cannoni, e che il reggimento molto bravo dei cavalleggieri di Erdodi, costretto dalla forza sopravvanzante, si era dato in potestà del vincitore, chiedeva i patti, e gli otteneva. Fecero conspicua la vittoria meglio di cinquemila prigionieri, dei quali non poca parte erano i volontari di Vienna. Furono i gregari condotti in Francia; ebbero gli ufficiali abilità di tornarsene sotto fede di non militare contro Francia. Conquistarono in questo fatto i repubblicani, oltre i prigionieri, venti cannoni, e di carriaggi, munizioni e bagaglio una quantità notabile. Grave ed importante vittoria, perchè Mantova restava senza rimedio: tutta l'Italia in balia dei repubblicani; di una parte erano padroni per la presenza, dell'altra pel terrore.

Combatterono gli Austriaci in tutte le fazioni, che abbiamo raccontate, con molto valore; nè si può negare, che i disegni dei capitani loro fossero bene ordinati: ma mancarono dell'effetto; primieramente perchè per le rivelazioni fatte da chi ne sapeva quanto Alvinzi, essendo Buonaparte conscio delle intenzioni del nemico, gli fu fatto facile il disegno della battaglia, secondamente per la incredibile celerità sua, e de' suoi soldati, che corsero da Verona a Rivole, poi da Rivole a Mantova, e nell'uno e nell'altro luogo in punto fatale arrivarono. Che se avessero indugiato poche ore solamente a sopraggiungere a Rivole, era per loro perduto quel che guadagnarono e se poche ore altresì avessero soprastato a raggiungere il campo di Mantova, sarebbe Provera entrato dentro la fortezza. Fu accagionato Provera dello aver troppo presto varcato l'Adige, la quale accusa non apparirà senza fondamento, se si avvertirà alla non effettuata congiunzione coi pontificj, ma non parimente, se si farà considerazione delle altre mosse degl'imperiali sulle rive dell'Adige superiore. Del resto il suo mandato era di romoreggiare, e di assaltare sulla sinistra sponda, e di far le viste al passare sulla destra dopo i sei del mese, ma non di passare effettualmente, se non quando avesse udito fauste novelle della mossa d'armi fatta da Alvinzi.

Perdettero gl'imperiali in tutte le descritte battaglie, inclusa quella di Provera, tra morti, feriti, e prigionieri circa ventimila soldati con sessanta bocche da fuoco, e ventiquattro bandiere. Tutti i volontari Viennesi furono o morti, o presi: le bandiere loro ricamate per mano dell'imperatrice d'Austria, ornavano il trionfo di Buonaparte. Traversarono la superiore Italia in sembianza di gente cattiva per alla volta di Francia. Non fu loro fatto scherno, nemmeno dai più scapestrati. Ammirarono anzi tutti in loro il valore, ammirarono la carità verso la patria.

Scriveva Buonaparte, essere mancati de' suoi tra morti e feriti solamente due mila; il che è lontano dalla verità, perchè furono assai più; e se si noveravano i prigionieri, che però montarono a poca gente, fu perdita di più di seimila soldati.

In modo tanto misero si terminava il quarto sforzo dell'Austria a difesa, ed a ricuperazione de' suoi stati Italiani. Se ne fecero grandi allegrezze in Francia, e nell'Italia suddita a Francia; ne stette l'Europa attonita, l'Austria spaventata. Ma Buonaparte non era di natura tale, che volesse lasciare l'opera imperfetta. Per la qual cosa risolutosi a non dar posa al nemico, se non quando ei fosse giunto in luoghi del tutto insuperabili, e vedendo anche avere un campo più largo a cibare i soldati nelle Veneziane pianure, si spingeva oltre perseguitando le reliquie dei vinti. Occupavano, Massena Vicenza, Augereau Padova; poi da questi luoghi partendosi si avviavano, il primo a Bassano, il secondo a Treviso. Riusciva l'impresa molto facilmente ad Augereau, perchè, eccettuati alcuni incontri di cavallerìa, tutto il paese veniva senza ostacolo a sua divozione. Treviso stesso l'accoglieva fra le sue mura. Poi il capitano di Francia più oltre spignendosi, cacciava gli avversari da tutte le regioni della Piave inferiore. Ma più verso i monti, le cose andarono più strette per Massena. Quivi Alvinzi, per gelosia dei passi del Tirolo, aveva alloggiato Mitruski e Bajalitsch con qualche nervo di gente. Massena, che aveva vinto ben altre battaglie che queste, dava dentro al ponte di Carpeneto, dove gli Austriaci volevano far testa, e gli rompeva, per opera massimamente di Menard, non senza grave perdita di soldati e d'artiglierìe. Vinto Carpeneto, gli fu agevol cosa vincere ancora Primolano, essendosi gl'imperiali intieramente ritirati a Feltre, ed ai luoghi più inaccessi della superiore Piave. Per tal modo fu aperta la strada al generale della repubblica di comunicare con Joubert, che uscito di Trento aveva rotto gli Alemanni a San Michele. Non vi fu più allora altro rimedio pei vinti, che di ritirarsi, come fecero, alle regioni più rotte, e quasi del tutto chiuse appresso a Bolzano. I soldati dell'imperatore, abbandonate intieramente le rive della Brenta, e financo le sue sorgenti, si riposarono nelle invernali stanze, avendo la fronte loro distesa dai luoghi più alti della riva destra del Lavisio, passando per le fonti della Piave vicino a Cadore, e per la sinistra di questo fiume sino alla sua foce. Quivi stavano aspettando ciò, che fossero per portare con se la stagione migliore, e la fortuna fino allora vittoriosa dell'arciduca Carlo, che già si vociferava avere ad essere fra breve capo dell'esercito Italico. I Francesi, signori di Bassano e di Treviso, attendevano anch'essi, essendo pel sopravvenire della vernata divenuti i tempi sinistri, dall'un de' lati a riposarsi, dall'altro a ridurre in potestà loro Mantova, a soggezione il papa.

Buonaparte, conoscendo, che dopo la rotta tanto compiuta degli Austriaci, era Mantova divenuta sua certa preda, si voltava incontanente contro il pontefice per condurre a fine con le armi quello che aveva incominciato col terrore per la rivoluzione di Modena, e delle due legazioni di Bologna e di Ferrara. Era entrato in Roma uno spavento grande dopo la sconfitta degl'imperiali; se ne stava dubbio il pontefice del partito che avesse ad abbracciare, perchè il calare subitamente e senza che si venisse almeno una volta al ferro, agli accordi, che sarebbero stati molto ignominiosi, e forse contrari alla sedia apostolica, gli pareva risoluzione troppo vergognosa dopo le dimostrazioni fatte; il non acconciarsi col vincitore gli pareva partito pericolosissimo, perchè vano era lo sperare, che le armi pontificie potessero resistere a quell'impeto, che aveva prostrato tante volte gli eserciti potenti ed agguerriti dell'Austria. Pure si deliberava a mostrar il viso alla fortuna, perchè con un vincitore fantastico forse la pace non sarebbe stata peggiore dopo, che prima di un combattimento. Colli dava speranza di poter opporsi con qualche frutto, prendendo i luoghi, e fortificando gli alloggiamenti. Fors'anche credeva Pio, siccome quegli che tanto altamente sentiva di Roma, che Buonaparte non si sarebbe ardito di precipitarla negli estremi. Oltre a tutto questo non s'ignorava pel pontefice, che quantunque il governo di Francia fosse divenuto tanto potente per le armi, una debolezza interna il rendeva vacillante, e questa consisteva nelle credenze cattoliche, che per le persecuzioni, e per le disgrazie erano ripullulate in Francia; il che rendeva necessario il venire ad una composizione con Roma. Sapevaselo Clarke, il quale di ciò scrivendo affermava, avere i Francesi guastato la loro rivoluzione di religione; di bel nuovo essere divenuti cattolici romani; forse aver loro bisogno del papa, affinchè i preti secondassero la rivoluzione politica in Francia.

I consiglieri del Vaticano si prevalevano dell'efficacia di queste opinioni, e si mettevano al fermo di non voler accettare le condizioni proposte dal direttorio. Ma a Buonaparte, che ora obbediva al suo governo, ed ora no, piaceva la guerra col pontefice per amplificazione di fama, e le dolci parole, che indirizzava ora al cardinal Mattei, ora al pontefice medesimo, erano piuttosto fraudi che carezze; perciocchè mentre faceva loro profferte d'accordo, e gli lusingava dicendo, che non aveva mai approvato il trattato proposto dal direttorio, e ch'ei farebbe gran cose in favor di Roma, se ella volesse comporsi con Francia, ordinava che Cacault, ministro di Francia appresso al pontefice, ed incaricato di negoziare la pace, andasse astutamente temporeggiando per ingannare, come diceva, la vecchia volpe, parlando del papa, e ciò facesse insino a tanto che il tempo fosse venuto di prorompere a compire i disegni concetti: voleva che Ancona fosse, alla pace, data per sempre alla repubblica; voleva che continuamente si sbigottisse il papale governo con dare speranze artifiziose agli scontenti di far novità. Nè migliore era la fede di Cacault nelle sue dimostrazioni amichevoli; perchè, se gli pareva poco onorevole l'andar a Roma solamente per porvi una taglia ed obbligare forzatamente il pontefice a far la pace, bene gli pareva onorevole l'andarvi per cambiarvi ogni cosa, e per atterrarvi il trono pontificale; e se per volontà del direttorio, e per le condizioni generali d'Europa ciò era impossibile a farsi, essere di bisogno, affermava, lasciare per allora la dispregevol Roma, come diceva, nel suo stato attuale, finchè sicuramente potesse la Francia voltarla tutta sottosopra; insinuava inoltre, che sarebbe stato conveniente il creare tre repubbliche dello stato ecclesiastico, delle quali una fosse di Bologna e Ferrara unite, l'altra di Perugia con la Romagna, la terza di Roma fino alle spiagge del Mediterraneo: osservava con questo, che tutto ciò poteva farsi lasciando il papa, capo della chiesa universale, risedere, come prete, e con la sua corte di preti, e come pontefice là dove volesse, e nel modo in cui risedeva a Roma innanzi che alcuna donazione dei Francesi non l'avesse fatto sovrano di un territorio. Pensava non ostante, che fosse bene per quell'inverno unire solamente la legazione di Ravenna a quella di Bologna e di Ferrara, e formare un nuovo stato del Perugino, del ducato d'Urbino e della Romagna, Roma lasciando, e la sua campagna pestilente a se stesse, perchè la Francia le potrebbe signoreggiare per via del mare. Persuadeva oltre a questo Cacault, che la introduzione della libertà, e di buone repubbliche da Milano fino al regno di Napoli fosse senza dubbio ciò, che meglio poteva far sicuri gl'interessi della Francia in Italia, e tener nel dovere, dall'un dei lati il re di Napoli, dall'altro la potente Alemagna. Il qual disegno non si può negare, che non fosse per riuscire utile alla Francia di quei tempi; ma quale sincerità fosse questa verso il duca di Parma, il gran duca di Toscana, ed il papa medesimo, col quale il direttorio allora negoziava la pace, il mondo lo potrà vedere. Giudicheranno altresì gli uomini prudenti e giusti, se tali macchinazioni non solo non autorizzassero, ma ancora non obbligassero, come a strettissimo dovere il pontefice a fare con le armi e con le alleanze il peggio che potesse agli autori loro. Se si considerano poi le scritture in numero quasi infinito, che ogni giorno si pubblicavano nei paesi conquistati contro il papa e contro le romane cose, non si potrà in alcun modo dubitare dei pensieri sinistri, che il generale repubblicano nutriva contro Roma. Anzi procedeva tant'oltre in questo la sfrenatezza, che sul gran teatro di Milano, a ciò stimolando i capi francesi che comandavano in questa città, si dava un ballo, in cui erano sconciamente scherniti il papa ed i cardinali. Costoro adunque, che con modi parte frodolenti, parte incivili s'ingegnavano d'ingannare e di distruggere il papa, si recavano poi a male, ch'egli tentasse di assicurarsi per mezzo di un'alleanza con l'Austria. Una lettera, che il cardinal Busca, segretario di stato, scriveva al prelato Albani mandato dal papa a Vienna, ed intrapresa da Buonaparte, dava occasione al generalissimo di levar romore, e di sputar fuori il veleno che aveva concetto contro Roma, ancorchè il modo stesso, con cui fu la lettera intercetta, desse e segno al pontefice del rispetto, che portava il generale della repubblica alle neutralità, e fondato motivo di correre all'armi. Erano i dispacci di Roma sotto fede pubblica, e della neutralità Veneziana affidati ai corrieri di Venezia, che gli portavano sino ai confini Austriaci. Uno di questi corrieri fu improvvisamente fatto arrestare alla Mesola il dì dodici gennaio da Buonaparte, e come fu svaligiato, così gli fu trovata la lettera del cardinale. Favellava il segretario di stato dei negoziati introdotti a Vienna per concludere un'alleanza, della condotta del generale Colli, di bande Tedesche da farsi venire in Romagna, del non aver voluto udire le proposizioni d'accordo fatte dalla Francia, mentr'egli negoziava con l'Austria. Quindi sorsero le note di perfidia date da Buonaparte al pontefice, come se questi il quale si trovava in condizione di guerra con la repubblica a cagione del rifiuto fatto di sottoscrivere al trattato proposto dal direttorio, non dovesse cercar rimedi ovunque rinvenire gli potesse. Bene pare a noi, che fosse sincerità il non voler concludere con Francia, mentre ei trattava con Austria.

Buonaparte, usando la occasione della lettera intercetta, e liberato dal timore delle armi Austriache, sdegnosamente dichiarava a Bologna; essere rotta la tregua col papa, si apparecchiava a fargli guerra. Allegava, avere il pontefice ricusato l'esecuzione dei capitoli ottavo e nono della tregua; gridato la crociata contro i Francesi; mandato le sue genti a minacciar Bologna; intavolato un trattato con l'Austria; condotto generali e ufficiali Austriaci al suo soldo, ricusato di rispondere alle proposizioni di Cacault. Delle quali cose si può dire, che se Buonaparte pretendeva che il pontefice fosse in condizione ostile contro i Francesi, aveva ogni ragione, ed anche aveva ragione di correre all'armi contro il pontefice, giacchè il pontefice se ne stava armato contro Francia. Ma accusarlo di non aver mandato ad esecuzione certi capitoli della tregua, non può esser altro, se non una seduzione d'intelletto, o un abuso di forza; perchè quei capitoli in ciò consistevano, che il pontefice desse milioni di denari, e vettovaglie ai repubblicani. Ora il trattato proposto, o per meglio dire, imposto dal direttorio al pontefice, non essendo stato accettato, non si sa comprendere, come ei dovesse somministrar mezzi al suo nemico di nuocere a se medesimo. Delle altre accuse date a Pio questo si può affermare, che poichè l'immoderanza del direttorio avea fatto la pace impossibile, e la guerra inevitabile, non solo poteva, ma doveva usare ogni modo per restare assicurato delle cose contro la prepotenza altrui.

Intanto Buonaparte intendeva alle sue preparazioni: circa venti mila soldati stavano pronti a correre contro il papa: e perchè Italiani ferissero Italiani, e fra tante calamità non mancasse la guerra civile, erano fra i buonapartiani molti soldati Italiani delle due repubbliche Transpadana, e Cispadana. Buonaparte richiamava da Roma Cacault: il che dimostra quale libertà fosse in un governo, in cui un generale comandava agli ambasciadori. Erano nell'oste destinata a far la guerra al papa cinque legioni di fanti Francesi, due di cavalli, tre battaglioni di fanti Lombardi, altrettanti di Cispadani con pochi cavalleggieri d'ambe le repubbliche. Comparivano inoltre due compagnie di fanti Polacchi raccolte di disertori, e prigionieri Austriaci: questo fu il primo principio di quella legione polacca, che condotta da Dombrowsky si acquistò poscia nome nelle guerre Italiche. Adunava il generalissimo tutte queste genti in Bologna; ne faceva la rassegna sulla piazza della Montagnola, esortandole alla guerra. Comandava, al cospetto suo armeggiassero. Fatta la rassegna, le spingeva oltre contro lo stato ecclesiastico, partite in tre schiere, alle quali aveva preposto Victor, testè fatto chiaro per la vittoria della Favorita. Guidava la prima Lannes, la seconda Fiorella, la terza La-Salcette. Ordinavasi una banda di corridori, e feritori alla leggiera, che composta di Lombardi aveva, sotto il colonnello Robillard, carico di sopravvedere il paese, e d'ingaggiare le prime battaglie. Marciavano il dì primo febbrajo; occupata facilmente Imola, si avviavano alla volta di Faenza per combattere i pontificj, che stavano accampati sulle rive del Senio. Tenevano Lannes e Fiorella la strada maestra per a Castelbolognese; La-Salcette i colli a destra. L'intento loro era di assaltar di fronte il nemico; e nel tempo medesimo, esplorando i luoghi sul fiume, riuscirgli alle spalle. Ma siccome Buonaparte più temeva i popoli, che i soldati, così mandava fuori un bando parte amichevole, parte minaccioso, col quale dall'un canto annunziava alle terre pacifiche pace ed amicizia, dall'altro alle ostili rigore e vendetta.

Prima però di raccontar la guerra pontificia, è d'uopo, l'ordine della nostra narrazione seguitando, che per noi si scriva, come e quando Mantova se ne venisse in potere dei Francesi. L'infelice battaglia della Favorita aveva persuaso a Wursmer, che per la carestia dei viveri la dedizione era inevitabile. Ciò non ostante quel suo invitto animo non ancora si sgomentava, deliberato a patire qualunque estremità prima di arrendersi. Eppure le cose sue erano ridotte in angustissimo luogo: il presidio scemato per morti frequenti, infievolito da febbri mortalissime, gli ospedali, le case tutte piene di soldati moribondi, chi non inabilitato dalla malattia, inabilitato dalla disperazione; l'ultima fame già tormentava, oggimai erano consumati tutti gli alimenti, gl'infermi si moltiplicavano ogni momento, mancavano per loro i rimedi. A tale era giunta la penuria della piazza, che un uovo vi si vendeva uno scudo, un pollo quattro, e non se ne trovava; solo pane era di saggina, sola carne la cavallina, fresca e poca pei ricchi, salata e poca pei poveri. S'appiccavano i morbi dai soldati ai cittadini: era in ogni luogo uno squallore, un fetore, una miseria, che male si potrebbe con le parole descrivere. A tale condizione era ridotta la sede dei Gonzaga, la patria di Giulio Romano, perchè Francesi e Tedeschi volevano avere in mano loro quel freno da tener in bocca agl'Italiani. Ecco intanto arrivare le acerbe novelle a Wurmser, essere state predate sul lago dal capitano Sibilla trentadue barche cariche di vettovaglie, che Alvinzi, quando era in possessione delle rive, aveva inviato in soccorso della travagliata Mantova. Questo accidente, che toglieva al capitano dell'Austria la speranza, con la quale si sostentava nell'estremità della fame, il fece accorto, che gli era oggimai necessità di mandar a prendere accordo coi Francesi, poichè certamente il poteva fare senza macchia dell'onor suo. Mandò dunque dicendo a Serrurier, che darebbe la piazza, purchè la guarnigione uscisse libera con armi, bagagli, suono di tamburi, bandiere al vento, tregua di un mese in Italia. Non volle il generale repubblicano consentire a queste domande, parendogli troppo alte; pure finalmente si convenne tra Wurmser e Serrurier in questa sentenza: darebbe il maresciallo la città, la fortezza e la cittadella ai Francesi; uscirebbe il presidio onoratamente secondo gli usi di guerra, deporrebbe le armi fuori della barriera; restasse prigioniero fino agli scambi; uscisse libero Wurmser, e con lui liberi i suoi aiutanti, ducento soldati a cavallo, cinquecento altre persone a sua elezione; solo contro la Francia per tre mesi non militassero; gissene securamente il presidio a Gorizia per Legnago, Padova e Treviso; curassersi umanamente i malati ed i feriti; fosse data venia a ciascuno delle cose fatte, e niun Mantovano potesse esser ricerco, nè molestato per opinioni o per fatti a favor dell'imperatore, condizioni onorate conformi all'onorata difesa.

Usciva Wurmser circondato da' suoi liberi soldati: ammiravano in lui la fortezza, e la volontà egregia con un corso di fortuna troppo indegnamente contraria. Debbonsi lodare i vincitori, che con ogni più cortese dimostrazione il vecchio, prode, ed infelice guerriero onorarono. Buonaparte, che poco prima della dedizione era presente al campo, se n'era andato, o per modestia, o per superbia, a Bologna: ma non omise, affetto raro in lui, solito a deprimere gli avversarj, di esaltare il guerriero Austriaco, scrivendo al direttorio, avere con intento proprio voluto dimostrare la francese generosità verso il vecchio Wurmser, generale di settant'anni, segno d'avversa fortuna, d'animo invitto: avere Wurmser, perduto nella battaglia di Bassano l'esercito, concetto il pensiero di ricoverarsi in Mantova lontana a cinque giorni, passato l'Adige, prostrato i repubblicani a Cerea, traversato la Molinella, guadagnato la piazza; essere quinci più volte sortito, sempre infelicemente, sempre valorosamente, sortito essere con soldati consunti da malattie pestilenti: tale essere stato Wurmser: pure sapere, non avere a mancar uomini, soliti a perseguitare cui la fortuna perseguita, che incolperebbero l'incolpabile Wurmser. Quest'erano le generose voci di Buonaparte rispetto a Wurmser vecchio, e valoroso.

Entravano i Francesi nella desolata terra. Pietosi miravano nelle case arse o diroccate volti pallidi e sparuti; argomentavano qual fosse stata la costanza e la pazienza dei difensori. Trovavano centoventisei cannoni di sedici libbre di palla, centoquindici di quindici, con altri pezzi minori. Si rallegravano massimamente al vedere settantadue bocche da breccia conquistate dagli Austriaci al tempo, in cui per l'arrivo di Wurmser fu allargato l'assedio; s'aggiunse alla presa artiglierìa una fiorita archibuserìa: acquisto prezioso specialmente fu quello di settantadue piatte ad uso di far ponti estemporanei, le quali giunte a quelle che già avevano i repubblicani, montarono al numero di centotrenta, suppellettile capace a passare qualunque più grosso fiume. Così Mantova combattuta dalla forza e dalla fame, venne in potestà della repubblica, e per questo accidente cambiossi in Italia la servitù Tedesca in servitù Francese.

Ora è tempo di ritornare ai travagli che erano in Roma. L'esercito pontificio si era, come abbiam narrato più sopra, accampato sulla destra del Senio, pronto a difendersi, non ad offendere. Corre il Senio precipitandosi dagli Apennini, a fronte di Faenza, e va a metter foce nel destro ramo del Po, che chiamano col nome di Po Primaro. Avevano i soldati del pontefice, che ascendevano al numero di sei in settemila fanti, e cinquecento cavalli, munito il ponte del Senio sopra e sotto con buoni ridotti, e con quattordici pezzi di artiglieria. Un altro pezzo assicurava il ponte medesimo, che guarda quasi per diritto la strada di Faenza. Oltre a ciò avevano cavato un fosso a sinistra del ponte, che oltre il medesimo si sprolungava, empiendolo di feritori alla leggiera, affinchè bersagliassero coloro, che primi si fossero attentati di passare. Avevano, cavando il fosso, alzato sulla sua sponda un ciglione di terra verso il fiume, che a guisa di parapetto gli preservava dalle ferite. La cavalleria alloggiava dietro i ridotti per perseguitar l'inimico oltre il ponte, se fosse rotto, o far sicura la ritirata dei compagni, se fossero vinti. Il generale di Francia, come prima giunse ad un quarto di miglia da Castelbolognese, arrestava il passo a Lannes ed a Fiorella, e mandava avanti Junot con un buon reggimento di cavalleria ad ordinarsi in battaglia a sinistra della strada vicino al ponte, ma oltre il tiro dell'artiglierie pontificie. Robillard schierava, non fitti, ma larghi duecento feritori alla leggiera lungo il fiume sulla riva sinistra. Voleva Victor, che costoro facessero opera di passare a qualche agevole guado, poichè pei tempi secchi era il fiume guadoso in molti luoghi. Non così tosto si affacciarono al fiume, che pioveva loro addosso una tempesta di palle; già piegavano; ma incuorati dai capi, erano tutti soldati di Lombardia, tornavano al cimento, e non solamente sostenevano quel duro bersaglio, ma cacciatisi nel fiume, che correva molto rapido, il passarono. Del quale ardimento sbigottiti i soldati del papa, abbandonavano il fosso per ricoverarsi nei ridotti; al che tanto più volentieri ne vennero, quanto più Victor, accortosi del fatto, e non volendo lasciar soli al pericolo i primi feritori, aveva ordinato alla quinta dei leggieri, che varcasse ancor essa. Ma i pontificj, siccome il fosso era stato scavato per diritto, e perpendicolarmente ai ridotti, nè l'avevano munito con le necessarie traverse, si trovavano esposti a tutto il bersaglio dei feritori nemici; il che gli fece disordinare, e sbigottire vieppiù. In questo punto la cavalleria del papa, mossa da uno spavento repentino, si metteva in fuga. Victor, conosciuto che quello era il tempo buono per vincere, mandava a dar la carica al ponte due compagnie di Lombardi, due di Polacchi. Non contrastarono più lungamente le truppe pontificali il passo, e si ritirarono con grave disordine, e precipitosamente a Faenza. Non poterono tostamente seguitarle i repubblicani per la difficoltà delle strade. Quattordici cannoni vennero in poter dei vincitori. Scrisse Buonaparte, avere ucciso in questo fatto quattrocento pontificj, presone mila. Ma mancarono solamente tra morti e feriti circa trecento cinquanta, e alcuni più di prigionieri. Perdettero i repubblicani circa settanta soldati tra morti e feriti. Morì con dolore di tutti un capitano Fokalla, giovane Polacco di grande aspettazione. Noverossi fra i feriti Lahoz, colonnello dei Lombardi. Narrò il generale repubblicano, non senza scherno, che fra gli uccisi si noverarono preti, che quando ardeva la battaglia, avevano animato i soldati del pontefice a combattere. Bene sarebbe stato meglio, che i preti non si fossero mescolati fra le armi, ma certo questa divozione loro verso Roma, e verso il loro signore, non era atto da essere beffato da nissuno, e manco da colui, che non contento al combattere con le armi, combatteva ancora con le instigazioni, per far levare contro i propri governi e chi aveva inclinazione a tumultuare, e chi non l'aveva. Affermano alcuni storici, avere i pontificj subitamente perduto la battaglia del Senio per la inaspettata ribellione di un reggimento Corso ai soldi del pontefice. Il quale accidente, come troppo grave, noi non saremo nè per affermare, nè per negare, non avendone pruove sufficienti.

Superato il Senio, s'appresentavano i repubblicani alle porte di Faenza, le quali atterravano coi cannoni, ed entrarono nella terra abbandonata dal presidio pontificio. Fu notabile in Faenza, città nobile e ricca, la moderazione del vincitore; conservò intatte ed inviolate le proprietà e le persone; anzi Buonaparte, fatti venire a se i preti ed i frati, gli confortava a star di buona voglia, dimostrando volere, che da tutti la religione si rispettasse, ed i suoi ministri si beneficassero. Davansi facilmente, discorrendo i Francesi per tutto il paese come un folgore, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, quantunque il passo di quest'ultima fosse munito di buoni difensori. Si era Colli tirato indietro fino ad Ancona, sperando di poter quivi fare qualche resistenza sì per la cittadella, e sì per un forte alloggiamento munito di trincee, che aveva fatto sopra un monte chiamato nel paese la Montagnola, e che sta a sopracapo della città. Prevedendo intanto il pericolo della Casa di Loreto, intorno alla quale non ignorava i pensieri rapaci manifestati già fin da principio del novantasei dal direttorio, aveva spacciatamente comandato, che posti sui carri gli arredi, e le reliquie più preziose, s'indirizzassero alla volta di Roma. Stava Colli accampato sulla Montagnola con cinque mila soldati, e sette pezzi di buone artiglierie. Ordinava Victor agl'Italiani, ed ai Polacchi, andassero all'assalto: le genti grosse, girando a destra, facevano sembianza di voler riuscire alle spalle dei pontificj. Fu debole la difesa; perchè i soldati di Colli spaventati dalla rotta precedente si ritirarono in gran fretta: appena Colli fu a tempo di vuotare Ancona, e la cittadella. Se ne impadronivano i repubblicani. Il generale della chiesa, come prima potè raccorre i soldati disordinati, andava a porre il campo tra Foligno e Spoleto. La Marca, tutto il ducato d'Urbino, eccettuata la metropoli, la più gran parte dell'Umbria, venivano sotto l'obbedienza della repubblica. Espilavasi Loreto. La statua della madonna, con alcuni altri capi più singolari trascelti dai commissari Monge, Villetard, e Moscati, si avviavano alla volta di Parigi. Del resto si mostrava assai continente Buonaparte, minacciando morte ai soldati che facessero sacco. Anzi sapendo quanta efficacia abbia a legare gli animi degli uomini l'umanità, usava un atto molto pietoso verso i preti di Francia fuorusciti, che nello stato Romano si erano ricoverati: comandava, vivessero sicuri, dessero loro i conventi il vitto, e quindici lire al mese pel vestito, risoluzione degna di grandissima commendazione. Piantava Victor il suo principale alloggiamento a Foligno.

Andando tanto impetuosamente in precipizio lo stato pontificio, un alto terrore assaliva Roma. Rammentavano i tempi antichi sotto Attila, i moderni sotto Borbone. Già pareva ai Romani, che quel primo seggio della cristianità dovesse andare a sacco ed a fuoco, per opera di coloro che dai pulpiti, e dai più secreti luoghi erano stati, quai barbari, rappresentati. Nè il romore che si udiva continuo, nè lo scompiglio che si vedeva, erano fatti per riconfortare gli spiriti. L'erario, le suppellettili preziose, le lauretane ricchezze si avviavano a gran pressa a Terracina. Nè i ricchi se ne stavano, perchè ancor essi incamminavano le suppellettili più nobili e più care, e così le persone al medesimo viaggio. I religiosi, sì secolari che regolari, erano presi di spavento; ne erano piene le strade; chi verso Terracina, chi verso Firenze, chi alle montagne si ritirava. In mezzo a sì grave precipizio, uscivano, ad ora ad ora, come suol accadere in simili casi, voci più spaventose ancora, che già i nemici fossero alle porte, e chi diceva di avergli uditi, e chi di avergli veduti. Raddoppiavansi le grida, il terrore, la confusione, la fuga: pareva ad ognuno, che già spenta fosse ogni salute, che già Roma, l'antica madre, rovinasse. S'aggiungeva, che il papa medesimo s'apprestava a partir per Terracina; il che era agli occhi dei popoli spaventati segno d'eccidio imminente, presagio che Dio già abbandonasse, e già portasse altrove quella veneranda sede di Pietro apostolo.

In caso tanto lagrimevole e spaventoso, potendo i Francesi a volontà loro correre per tutto lo stato ecclesiastico, non era più luogo ad altra deliberazione, se non di piegarsi a quella necessità, che o sdegno di Dio, o malvagità degli uomini aveva apprestato. Si mostrava costante il pontefice nel non voler consentire a quelle condizioni, che nel modello del trattato imposto dal direttorio erano a lui parute contrarie alle dottrine della sedia apostolica ed alle consuetudini della chiesa; nè mai volle scemare, o a se od agli oracoli suoi, con pusillanimi e disonorevoli ritrattazioni quella fede, e quella dignità che pretendeva a tutte le cose sue, e che erano il fondamento principale della grandezza della Romana chiesa. Così in quest'ultimo urto di fortuna fortemente resisteva. Quanto agl'interessi temporali, preponendo il titolo della salvezza di Roma a qualunque altro rispetto, si preservasse con opportune concessioni, sclamava, la città, alla concordia con Buonaparte si provvedesse. Aveva sempre il generale della repubblica veduto molto volentieri il cardinale Mattei: parve mediatore opportuno a piegare lo sdegno del vincitore. Scrivessegli, deliberarono, richiedendolo della pace, e del trattare umanamente Roma desolata. Spacciarono anche incontanente a Napoli, a Parma, al ministro Azara, perchè intercedessero. Facevano i pregati intercessori l'ufficio; furono uditi benignamente; soprastava la risposta al cardinale. Cresceva tuttavia il pericolo, cresceva il terrore. Destinava il pontefice quattro legati al generale, il cardinale Mattei, monsignor Galoppi, il duca Luigi Braschi, il marchese Camillo Massimi; concludessero ad ogni modo la pace, salva però la religione, e la sedia apostolica. Incontravano per viaggio il corriero portatore delle lettere di Buonaparte al cardinale: erano molto benigne, recatrici di tregua, promettitrici d'accordo, questa fu la prima consolazione di Roma. Avute le novelle, viaggiavano più confidentemente verso Tolentino, dove Buonaparte aveva le sue stanze. S'incontravano al terminarsi della via Flaminia coll'antiguardo repubblicano, in cui erano e Francesi ed Italiani. Maravigliavansi i repubblicani al vedere quelle vecchie fogge d'abiti e di carrozze, che per loro erano nuove, e se ne muovevano a riso. Arrivavano i legati a Tolentino: accolti con dimostrazioni cortesi dal generale, si restringevano tostamente con lui a negoziare in una faccenda, che oggimai non aveva più in se difficoltà d'importanza, perchè nè Buonaparte voleva toccare lo spirituale, nè il papa aveva più, pel terrore e per l'estremità del caso, arbitrio nel temporale, essendo già posto tutto in balìa del vincitore. Sospese intanto per volontà del generalissimo le offese, visitavano Victor e Lannes, prima i campi del Trasimeno, poi le grandezze di Roma. Gli guardava curiosamente il popolo; gli accoglieva molto umanamente il pontefice.

Si concludeva il giorno diecinove febbrajo a Tolentino il trattato di pace fra il papa, e la repubblica di Francia. Si obbligava il pontefice a recedere da qualunque lega segreta o palese contro la repubblica; a non dar soccorsi nè d'armi, nè di soldati, nè di viveri, nè di denaro, nè di navi a chi nemico ne fosse; a licenziare i reggimenti nuovi, a serrare i porti ai nemici di Francia, ad aprirgli ai Francesi; al cedere alla Francia Avignone, il Contado, e le dipendenze; al cedere ugualmente le legazioni di Bologna e di Ferrara, con ciò però che non vi si facessero novità pregiudiciali alla religione cattolica; al consentire, che la città, la cittadella, ed il territorio d'Ancona sino alla pace si depositassero in mano della repubblica. Oltre a questo si obbligava il papa a pagare fra un mese ai Francesi quindici milioni di tornesi, dieci in contanti, cinque in diamanti, fra due mesi altrettanti, parte pure in pecunia numerata, parte in diamanti. Consentiva inoltre a somministrare ottocento cavalli, bestie da tiro altrettante, buoi, bufali, ed altri animali dello stato della chiesa; a dare i manoscritti, i quadri, le statue pattuite nel trattato di Bologna; a disappruovare l'uccisione di Basseville, ed al pagare per ristoro dei danni alla famiglia dell'ucciso trecentomila tornesi; a liberare i prigionieri per cause di stato; a restituire ai Francesi la scuola delle arti in Roma: volle finalmente il vincitore, e consentiva il papa, che il trattato fosse obbligatorio per lui, e pei successori nella cattedra di San Pietro per sempre.

Così finiva la Romana guerra. Nei capitoli della pace si vede, che se il papa restò di sotto per denari e per territorj, furono vantaggiate le condizioni attinenti alle materie religiose; perchè furono cassi dal trattato i capitoli delle disdette, delle rivocazioni, e delle ritrattazioni, che il direttorio aveva voluto imporre al pontefice, e che erano stati la cagione del rifiuto e della guerra. Intanto, per pagar la taglia, si richiedevano a Roma gli ori e gli argenti, sì dei religiosi che dei laici, e vi si facevano accatti rovinosi.

Il generale invitto, domati i grandi, volle far mostra di rispettare ed onorare i piccoli, o fosse in lui nuova spezie d'ambizione, o qualche radice di affetto buono. Pure riuscì la cosa troppo magnifica per non esser perniziosa tentazione ai modesti. Mandò, trovandosi agli alloggiamenti di Pesaro addì sette febbraio, Monge a certificare la repubblica di San Marino della fratellanza ed amicizia della repubblica francese. Andò Monge sulla cima del monte Titano. Introdotto in cospetto dei padri, disse enfaticamente parlando, dappoichè Atene, Tebe, Roma e Firenze avevano perduto la libertà, quasi tutta l'Europa essere venuta in servitù; solamente in San Marino essersi ricoverata la libertà, ma pur finalmente il popolo francese, del proprio servaggio vergognandosi, essersi vendicato in libertà: l'Europa, posti in non cale i propri interessi, posti in non cale gl'interessi del genere umano, essere corsa all'armi contro di lui; la civil guerra avere aiutato la forestiera; pure essersi avventato lui alle frontiere, avere debellato i suoi nemici: avere trionfato: venuti i suoi eserciti in Italia, avervi vinto quattro eserciti Austriaci, recatovi la libertà, acquistatovi gloria immortale quasi fin sotto agli occhi della Sanmarinese repubblica; avere la repubblica di Francia, abborrente dal sangue, offerto pace, ma averla anche offerta indarno; perseguitare pertanto i suoi nemici, passare presso a San Marino per perseguitarli, ma vivessero sicuri, che Francia era amica a San Marino. A questo passo veniva Monge offerendo alla repubblica da parte del generalissimo territorj di stati vicini. Troppo squisito e magnifico parlare, e troppo inconveniente offerta era questa a quegli uomini semplici ed ammisurati; nè so perchè Monge, che uomo temperato era anch'egli, la facesse. Il torre e l'accettare, erano ugualmente brutti e pericolosi per una repubblica, che era vissa sì lunga età innocente, e pura da quel d'altrui. L'ingiustizia e la rapina erano cose ignote per lei. Buonaparte venne poscia in sull'offerire egli stesso: darebbe quattro cannoni, darebbe fromenti; riceverebbe in sua protezione San Marino, e farebbe portar rispetto ovunque e quandunque a' suoi cittadini.

Rispose il consiglio, accetterebbe i cannoni volentieri, accetterebbe anche i fromenti, ma pagandoli; dei territorj contento agli antichi, non volerne nuovi: solo pregare qualche maggior larghezza di commercio, e di ciò richiedere l'eroe invincibile. Il seguito fu, che i cannoni non furono dati, e che non si parlò più di San Marino; ciò successe molto prosperamente per lui. Continuò nella solita quiete e libertà; continuò a rispettare i diritti degli uomini senza vantargli, il che è meglio che il vantargli senza rispettargli; continuarono dall'altra parte intorno al felice monte gli strepiti, e la licenza dei popoli e dei soldati.

Rimoveva Buonaparte appoco appoco le sue genti dallo stato ecclesiastico; poscia si conduceva a Bologna intento a nuove imprese, perchè già l'Austria un'altra volta ingrossava.

Fine del Tomo II.

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