SOMMARIO
Nuovi pensieri politici, che sorgono nella mente degl'Italiani più savj dopo le vittorie replicate di Buonaparte. Rivoluzioni nel ducato di Modena. Comizj di Bologna. Congresso dell'Emilia. Spaventi del pontefice; pure non consente alla pace. Sue gravi esortazioni ai principi. Pace del re di Napoli colla repubblica di Francia: il principe di Belmonte Pignatelli suo ambasciadore presso al direttorio. Pace tra Francia e Parma. Morte di Vittorio Amedeo III, ed assunzione di Carlo Emanuele IV, re di Sardegna; qualità di questi due principi. Progetti di Buonaparte e del direttorio sul Piemonte. Conte Balbo, ambasciadore del re Carlo Emanuele a Parigi sue qualità, e suo discorso d'introito al direttorio. Nuove tribolazioni di Genova. Gl'Inglesi vengono ad un fatto condannabile, che fa gettarsi Genova del tutto alla parte Francese. Spinola, suo plenipotenziario a Parigi: conclude un trattato col direttorio. Maneggi politici in Italia. Clarke mandatovi dal direttorio: perchè, e con quali istruzioni. Proposizione d'alleanza tra Francia e Venezia. Rifiutata da Venezia, e perchè. Proposizione d'alleanza tra l'Austria e Venezia. Rifiutata dalla seconda, e perchè. Proposizione d'alleanza tra la Prussia e Venezia. Rifiutata da quest'ultima, e perchè. Desolazione dei paesi Veneti per opera sì dei repubblicani, che degl'imperiali. Querele dei Veneziani. Venezia si arma per le minacce fatte da Buonaparte al provveditor generale Foscarini. Sospetti della Francia in questo proposito, e dilucidazioni date dal senato Veneziano.
Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime: l'avere ridotto a condizione servile il re di Sardegna, costretto ad accordi poco onorevoli quel di Napoli ed il pontefice, l'avere non solo vinto, ma anche spento due eserciti d'Austria, l'essere disarmata la repubblica di Venezia, e l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo sventolar d'un'insegna, davano argomento, che la potenza Francese metterebbe radici in Italia, e che questa provincia sarebbe per cambiare e di signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che sorgessero ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato, e contro il vecchio. Se per lo innanzi la parte Francese solamente seguitavano o coloro che erano presi con esagerazione evidente da illusioni fantastiche di bene, o coloro che in vantaggio proprio disegnavano convertire quei rivolgimenti politici, vedute tante vittorie, si accostavano a voler secondare le mutazioni molti uomini savj e prudenti, i quali opinavano, che, poichè la forza aveva partorito movimenti di tanta, anzi di totale importanza, era oramai venuto il tempo del non dover lasciare portar al caso sì gravi accidenti; che anzi era debito di ogni amatore della patria Italiana di mostrarsi, e di dar norma con l'intervento loro, per quanto fra l'operare disordinato dell'armi possibil fosse, a quei moti, che scuotevano fin dal fondo la tormentata Italia. Prevedevano, che quantunque nella probabilità delle cose avvenire avessero i Francesi a restar signori, si sarebbero tuttavìa, per l'impazienza e l'instabilità, di cui sono notati, presto infastiditi delle cose d'Italia, ed in parte ritirati, e che la signorìa, divenuta semplice autorità, avrebbe avuto natura piuttosto di patrocinio, che di dispotismo. Allora, speravano, le cose si sarebbero ridotte ad uno stato più tollerabile, e forse gl'Italiani avrebbero potuto ordinare una libertà fondata dall'una parte sovra leggi patrie, dall'altra scevra dall'imperio insolente dei forestieri. Si persuadevano che se era scemato il pericolo delle armi Tedesche, era cresciuta la necessità di soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male accetti essere ai popoli gl'Italiani intemperanti, che avevano prevenuto, o troppo ardentemente, o troppo servilmente secondato i primi moti dei Francesi, e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose. Gravi uomini, pensavano, avere ad essere i fondatori di un vivere libero, non cantatori, o ballerini intorno agli alberi della libertà; nè alcun nuovo stato potersi fondare senza l'autorità degli uomini autorevoli, perchè i nuovi stati non si possono in altro modo fondare che con la opinione dei popoli, che alla lunga fugge gli esagerati, seguita i savj. Costoro adunque consentivano a farsi vivi in ajuto dello stato, quantunque sapessero in quali travagli avessero a mettersi.
Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni d'Italia, in cui uomini prudenti per la necessità dei tempi, vennero partecipando delle faccende pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti ed indotti, e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da quelle acque tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro. Fra costoro non tutti pensavano alla medesima maniera; perciocchè alcuni più timidi, o di più corta vista, o forse di più ristretta ambizione, amavano i governi spezzati; altri innalzando l'animo a più alti pensieri, desideravano l'unità d'Italia, perchè credevano, che l'Italia spezzata altro non fosse che l'Italia serva. Fra i primi si osservavano i più attempati, fra i secondi i più giovani; i primi moderavano, i secondi incitavano; i primi più manifestamente operavano, i secondi più nascostamente; i primi erano amati ed accarezzati dai francesi, i secondi odiati e perseguitati. Chiamavano questi ultimi, come se fossero gente di molta terribilità, la lega nera, e di questa lega nera avevano i capi dell'esercito più paura che dei Tedeschi, perchè e la potenza di lei di per se stessi alle menti loro esageravano, ed era loro esagerata dagl'Italiani adulatori e rapportatori che credevano, che il dar sospetto ai Francesi facesse stimare più necessarj i servigi loro. Pieni erano gli scritti, piene le parole segrete di questi rapportatori ai generali e commissarj della repubblica, del nome della lega nera, ed io ho veduto di molti sonni turbati da questo fantasma. Egli è vero, che gli addetti a questa setta tanto odiavano i Francesi, quanto i Tedeschi, e bramavano che l'Italia sgombra degli uni e degli altri, alle proprie leggi si reggesse, avvisando, che lo sconvolgimento totale prodotto dalla guerra potesse aprir la occasione a quello, a che non avrebbe mai potuto condurre lo stato quieto. Sapevano che nè i Francesi nè i Tedeschi amavano l'independenza Italiana; perciò volevano servirsi dei primi per cacciare i secondi, poi servirsi della forza dell'Italia unita per cacciare i primi. Ma questo era un ferire a caso, piuttosto che andare ad un disegno certo, perchè, essendo in quei gravissimi accidenti non attiva, ma passiva l'Italia, non era da credersi che vi sorgessero personaggi civili di estrema autorità, nè generali di gran nome, ai quali concorressero con opinione ed impeto comune per la desiderata liberazione i popoli. Pure aspettavano confidentemente il benefizio del tempo, e preparavano, non con ischiamazzi e con grida, ma con un parlare a tempo, ed anche con un tacere a tempo, i semi alle future cose. Di questi non pochi entrarono nei nuovi magistrati creati dai Francesi, che loro diedero autorità, perchè non gli conoscevano; ed essi i comandamenti altieri od avari, o moderavano coi fatti per acquistar favore presso ai popoli, o con parole gli magnificavano per acquistar odio ai Francesi. Creata la setta, entravano anche gli addetti nei magistrati instituiti dai Tedeschi, quando questi riusciti superiori inondarono il paese, e con le medesime intenzioni, ed al medesimo fine indirizzavano le operazioni loro, cioè a creare autorità a se stessi, ed odio ai Tedeschi. Questa, o vera lega che si fosse, o solamente desiderio universale, si era propagata e radicata in tutti i paesi, ed a lei s'accostarono personaggi, a cui non piacevano nè i Francesi nè la libertà, perchè pareva a tutti un dolce ed onorato vivere l'independenza dai forestieri. A questi desiderj mancarono piuttosto i principi, che i popoli Italiani, perchè i principi avevano più paura della libertà, che amore dell'independenza, i secondi più amore dell'independenza, che della libertà. Ma se un principe si fosse abbattuto in Italia, non dico quali gli partorivano i Romani tempi, ma solamente quali nascevano ai tempi di Lorenzo, di Castruccio, e di Giulio della Rovere, avrebbe prodotto, queste opinioni assecondando, ed una Italiana bandiera al vento innalzando, effetti notabilissimi non che in Italia, in tutta Europa. Ma Sardegna era fissa nel desiderio di acquistarsi una provinciuzza Milanese, o Francese, o Genovese, Genova nel commercio, Venezia nella mollezza, Roma nel sacerdozio, Napoli nel volersi una particella delle Marche, Firenze in un felice e pacifico stato; Milano privo del principe proprio ed in preda ai forestieri poteva solo seguitare, non cominciare. Così per troppo godere, o per troppo temere, o per istrettezza di mente, o per fiacchezza d'animo, i principi Italiani trasandarono le occasioni, ed indirizzarono tutti i pensieri loro al difendersi dai Francesi, non avvertendo che il proporsi per fine di tornare allo stato vecchio, indifferente a molti, odiato da alcuni, non poteva far muovere i popoli con quella efficacia, con cui gli avrebbe mossi un disegno nuovo, generoso e grande.
Quanto al reggimento interno di ciascuna parte, o di tutta l'Italia, amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la volevano ridurre al patriziato, istituito con la moderazione della potenza popolare prudentemente ordinata, governo antico e naturale all'Italia; il quale patriziato molto è diverso dalla nobiltà feudataria, frutto di tempi barbari; perchè il primo fa i clienti protetti ed affezionati, la seconda gli fa servi ed avversi. Può e debbe il patriziato consistere con l'egualità dei diritti civili, ma induce necessariamente inegualità di diritti politici, mentre la nobiltà vive con l'inegualità degli uni e degli altri. Nè in quei tempi, in cui tanto si gridava sulle piazze la egualità, si ristavano questi prudenti Italiani ai popolari e servili schiamazzi; perchè da una parte sapevano, che negli stati grandi la democrazìa pura non può sussistere, se non con soldatesche grosse e con tribunali terribili, atti a contenere i popoli nella quiete; i quali soldati e tribunali sono peste mortalissima di ogni libertà e di ogni egualità. Seppeselo la Francia rossa di cittadino sangue, videlo la Guiana piena dei più virtuosi uomini, pruovaronlo le stanze di San Clodoaldo, fatte testimonio di quanto ardisca e di quanto possa coi soldati un audace e fero conquistatore. Dall'altra parte, non ignoravano, che anche nella democrazìa la egualità politica è impossibile, perchè coloro che esercitano i magistrati, non sono in termini di equalità con coloro che ne son privi, nè chi comanda con chi obbedisce. Adunque vedevano, che una sola differenza poteva essere tra il patriziato misto di democrazìa, e la democrazìa pura, e quest'era, che in quello la inegualità politica è perpetua, in questa temporanea. Credevano governo non solo naturale, ma necessario ed inevitabile nelle umane società essere il patriziato; perchè chi è famoso per ricchezza, o per dottrina, o per virtù, o per servigi fatti alla patria, avrà sempre clientela, nè tutte insieme le grida democratiche potranno impedire, stantechè cosa naturale ed insita nell'uomo è il corteggiare i potenti ed il rispettare i buoni. Neanco fa effetto lo spegnere con le mannaje e con gli esigli come suol fare la democrazìa pura, i buoni ed i potenti cittadini; perchè nuovi sottentrano, e se non s'appresentano da se, il popolo se gli crea; tanta è la necessità del patriziato. Ora pensavano, dovere i legislatori prudenti usare, per ordinar bene una società, questa necessità; e poichè è il patriziato inevitabile, volevano che per leggi fondamentali si organizzasse, e non che si lasciasse sorgere, ed operare a caso; perciocchè organizzato essendo, contribuisce all'armonìa dell'umana società, non organizzato la turba. Buono, anzi necessario consiglio essere opinavano, per bene constituire uno stato, usare gli elementi insiti nella natura umana, perchè, quantunque sia l'uomo di origine divina, soggiace non pertanto, come tutti gli altri animali, a certe leggi naturali; e siccome nel domare gli animali usa l'uomo questo modo o quest'altro, secondochè la natura di ciascuna spezie di loro il richiede, così per reggere gli uomini debbono i legislatori adoperare quel modo, che dalla natura della umana spezie è necessitato. Nè è da temersi che questo procedere conduca al dispotismo, perchè l'uomo ha in se una qualità nobile, che gli fa amare le cose generose, ed abborrire le vili e le vituperevoli, nè può volere il proprio danno. Questo ordinare le società secondo la natura è ben altro che ordinarle secondo certi principj astratti e geometrici, e questo è stato altresì l'errore continuo dei legislatori Francesi ai nostri tempi, solleciti sempre dei principj astratti, non degli affetti e passioni naturali. Quali effetti ne siano nati, il mondo dolente se lo ha veduto. Adunque gl'Italiani volevano un patriziato per la conservazione della società, una democrazìa temperata per la conservazione della equalità, l'uno e l'altra per la conservazione della libertà. A questo salutare consiglio si opponevano le operazioni disordinate delle armi sì Francesi che Tedesche, l'assurdo capriccio dei Francesi di quei tempi del voler applicar il modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la volontà di Buonaparte nemico della libertà, amico del dispotismo, amatore, anzi ammiratore della nobiltà feudataria, ed odiatore del patriziato paterno; finalmente gl'Italiani, servili imitatori delle cose d'oltremonti, ed incapricciti ancor essi dei governi geometrici. Ma gl'Italiani, veri speculatori e scrutatori delle umane cose, non si sgomentavano, sperando dal tempo e dalla necessità ajuto agl'intendimenti loro; e poichè pareva che per destino l'autorità regia fosse giunta al suo fine, confidavano che la società si sarebbe fermata al governo patrizio, misto di democrazìa, e non scesa al democratico puro.
Questi sentimenti a sicurazione e salute d'Italia, principalmente sorgevano nell'Emilia, e più particolarmente in Bologna, ma non potevano impedire che la fazione democratica, pazza e servile imitatrice di quanto si era fatto in Francia, non vi producesse una grande inondazione. Nè essa operava da se, quantunque ne avesse voglia, ma suscitata a bella posta dagli agenti di Buonaparte e del direttorio. Il duca di Modena solo, e senza amici, e quel che era peggio, ricco, o in voce di essere, si trovava senza difesa esposto ai tentativi di quest'uomini fanatici e sfrenati; nè rimaneva per la forza delle opinioni, e degli esempj che correvano, fedele disposizione nei popoli. Furono le prime mosse date da Reggio, città scontenta, per le emolazioni con Modena, del governo del duca. La notte dei venticinque agosto vi si levarono improvvisamente a romore i partigiani della democrazìa. Era il presidio debole, i magistrati timidi, l'infezione grande. Laonde senza resistenza alcuna crescendo il tumulto, in poco d'ora fu piena la città di lumi, di canti repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar continuo di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale governo: Reggio fu, o credessi libero. I soldati del duca impotenti al resistere se ne tornarono di queto a Modena. Si accostarono ai primi motori uomini riputati per ricchezze e per dottrina, sì per dar norma a quell'impeto disordinato, e sì per isperare, che egli, se non era libertà, poteva col tempo divenire: l'allegrezza del popolo somma, e così anche sincera. Certamente i Reggiani amavano la buona e vera libertà, solo s'ingannavano credendo, che potesse sussistere coi conquistatori. Condotto a fine il moto, crearono un reggimento temporaneo con forma repubblicana, moderarono l'autorità del senato, instituirono magnati popolari, descrissero cittadini per la milizia. Questi erano i disegni interni. Ma desiderando di rendere partecipi i vicini di quanto avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in Lunigiana, ed in Garfagnana, acciocchè parlando e predicando muovessero a novità. Inviavano Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi Milanesi; fece Milano feste per la conquistata libertà di Reggio. L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a se stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare con segrete insinuazioni, e con incentivi palesi quella città. Tanto operarono, che già una banda di novatori, portando con se non so che albero, il volevano piantare in piazza: gridavano accorruomo, e libertà. Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie ai Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze dei comuni.
Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non voleva, che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello, che le Reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca; non avere pagato ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano dagli stati; lasciare interi gli aggravj di guerra ai sudditi, nè volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della repubblica; incitare i sudditi con perniziose arti, e per mezzo di agenti contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli Austriaci. Dichiarava pertanto, non meritare più il duca alcun favore dalla Francia; essere annullati i patti della tregua, l'esercito Italico ricoverare sotto l'ombra sua, e ricevere in protezione i popoli di Modena e di Reggio; chiunque offendesse le proprietà, ed i dritti dei Modenesi e dei Reggiani, sarebbe riputato nemico di Francia. Buonaparte non era uomo da minacciare con le parole prima che eseguisse coi fatti. E però non ancora comparso il manifesto, già i suoi soldati s'impadronivano del ducato. Due mila entravano in Modena, prendevano la fortezza, sconficcavano le casse, cacciavano i soldati, afferravano le insegne, chiamavano i popoli a libertà. Al tempo medesimo occupavano Sassuolo, Magnano, ed altre terre del dominio ducale, facendo variare lo stato, e ponendo mano in tutto, che al pubblico si appartenesse. Pure le allegrezze furono molte; piantossi l'albero, contossi, ballossi; furonvi conviti, teatri, luminarie. Fatte le allegrezze, si venne alle riforme; annullaronsi i magistrati vecchi, crearonsi i nuovi, giurossi alla repubblica di Francia; dello stato politico si aspettavano i comandamenti di Buonaparte.
Trattati gli affari di Modena e di Reggio, l'ordine della storia richiede, che torniamo al filo interrotto delle cose di Bologna, che non era vacua nè di sospetti nè di fatiche. Aveva il senato fatto, per conservarsi lo stato, quanto pei tempi abbisognava, cattivatosi il generale repubblicano, fatto restituir Castelbolognese, promesso riforme conformi al secolo. Ma l'aristocrazìa era odiosa ai più ardenti instigatori, la democrazìa trionfava. Perlochè voci subdole si spargevano contro gli aristocratici, gli chiamavano tirannelli; si ergevano gli spiriti allo stato popolare puro; il popolo sempr'era di mezzo e lo dicevano sovrano. Imperversavano gridando, che scacciato quel tiranno del papa, così lo chiamavano, era mestiero scacciare anche quei tiranni dei senatori, e tutto dare in balìa del popolo sovrano: il popolo adombrava, perchè non sapeva che cosa tutto questo si volesse significare: i capi repubblicani volevano consuonare con Modena e con Reggio. Vide il senato il tempo tempestoso per le condizioni tanto perturbate del paese, e volle rimediarvi con dare speranza di riforme, non accorgendosi, che se il resistere alla piena era impossibile, il secondarla era insufficiente. Pubblicava, si creasse una congregazione d'uomini dotti e probi, affinchè proponessero un modello di constituzione consentanea ai tempi, ma conforme a quel modo di reggimento, che sussisteva in Bologna prima della signorìa dei pontefici. Non parve compito il disegno, perchè quell'antica forma non piaceva, ed i nominati della congregazione si tacciavano d'aristocrazìa. La verità era, che niuna forma buona, se non la democratica, pareva a coloro che menavano più romore. Compariva intanto il modello della constituzione, tutto democratico e, secondo il solito, levato di peso dalla constituzione Francese, ma contenente molte buone parti: si abolisse la tortura, si abbreviassero i processi, si moderassero le pene. Buoni, oltre a ciò, erano gli ordini politici, quanto alla elezione dei rappresentanti nei nazionali comizj.
Io narrerò i comizj di Bologna, ancorchè creda, che questo accidente delle mie storie non parrà di molta importanza, perchè non ebbe nè frutto nè durata, e ad altro non servì, che a contristare gli spiriti prudenti nel veder messa a vicina comparazione la semplicità dei conquistati con l'arti dei conquistatori.
Era la chiesa di San Petronio destinata ai comizj, correva il dì quattro decembre; il fine era di accettare, o di rifiutare la constituzione. La milizia urbana in armi ed in arredo, manteneva gli spiriti queti; la secondavano i Francesi in armi, ed in arredo ancor essi. Entravano in quel principal tempio, e fra spettacolo solenne i rappresentanti eletti dal popolo ad accettare, od a ricusare. Era in tutti spirito raccolto, speranza dell'avvenire, desiderio di bene, riverenza alle cose sante. Chiamaronsi i nomi, verificaronsi le credenziali. Chiuse le porte, si venne alla elezione del presidente. Per voti concordi nominarono Aldini, avvocato. Intuonava Aldini, l'inno del Santo Spirito; echeggiava il tempio. Raccolto il partito, trovossi, avere squittinato quattrocento ottanta quattro, quattro cento trenta quattro pel sì, cinquanta per il no. Bandì il presidente, il popolo Bolognese avere accettato la constituzione: lodassero, ringraziassero il sommo Iddio. Intuonossi l'ambrosiano canto, al tempo stesso udissi un suonar di campane, un dar nei tamburi, una musica guerriera, un cantar repubblicano per tutta Bologna. Godeva il popolo per lo avere a memoria dell'antica libertà usato in quel giorno la sovranità; la notte fuochi artificiati, luminarie, teatri, e quanto si usa fare dai popoli contenti nelle grandi allegrezze.
Nè con minore caldezza procedevano le faccende in Ferrara. Vi si creavano i magistrati popolari; vi si bandiva la repubblica. Mandavano deputati a Buonaparte per ringraziarlo, ai Milanesi per affratellarsi: tutta l'Emilia commossa chiamava libertà.
In questo mentre arrivava Buonaparte a Modena. Concorrevano in folla i popoli per vederlo, Ferraresi, Bolognesi, massime Reggiani, che in questi moti con maggiore ardenza camminavano. Non si potrebbe con parole meritevolmente descrivere il concorso, e la giubbilazione di queste genti cispadane. Scriveva il generalissimo al direttorio, che quello che vedeva con gli occhi suoi, era vero amore di libertà, e che i popoli cispadani erano chiamati a gran destino.
La sua presenza in Modena fruttava altro che parole. Chiamati a se i primi, fece loro intendere con un'arte esortatoria, che era in lui molto efficace, che lo star divisi era servitù, lo essere uniti libertà; che le mani inermi sono serve d'altrui, le armate padrone: si unisse adunque tutta l'Emilia in una sola repubblica, e si facesse forte sull'armi. Questi consigli trovavano disposizioni conformi in popoli esaltati. Però si adunavano il dì sedici ottobre in Modena ventiquattro deputati per parte di Bologna, altrettanti per parte di Ferrara, venti per Modena, venti per Reggio. Le parole dette, ed i partiti posti e presi in quest'adunanza generale dell'Emilia furono degni di commendazione; furono lontane le esagerazioni, solo si pensò d'ordinare uno stato libero. Tacquero eziandio pel bene comune le antiche emulazioni fra i diversi membri della lega. Buonaparte medesimo pareva, che volesse diventar savio in mezzo a gente savia. Parlava di quiete per tutti o assenzienti o dissenzienti, abborriva le persecuzioni, detestava i rapitori dei popoli e dei soldati. Decretava il consesso, tutta l'Emilia in una sola repubblica sotto protezione della Francia si unisse; la nobiltà feudataria si abolisse; fossero salve e sicure a tutti i pacifici uomini le proprietà; un magistrato si creasse, che avesse carico di levare, ordinare, armare quattromila soldati a difesa comune; un altro congresso di tutta l'Emilia si tenesse in Reggio il dì venzette decembre; questo secondo congresso statuisse la constituzione, che avesse a reggere la nuova repubblica. Questo muoversi dei Cispadani all'armi molto piaceva a Buonaparte, perchè serviva d'esempio ai Milanesi, che la medesima volontà non dimostravano. In fatti questi ultimi, per non parer da meno, offerirono dodicimila soldati. Già si dava opera a Milano ad ordinare la legione Lombarda, in cui entrarono Italiani di ogni provincia, e la legione Polacca, in cui si scrissero molti Polacchi o disertori, o fuorusciti, e parte anche uomini raccolti di tutta Germania. I Reggiani più infiammati non si contentarono nè delle parole, nè delle mostre. Dato dentro ad una squadra d'Austriaci usciti per fazione militare da Mantova, e tagliati fuori dai Francesi, gli facevano prigioni a Montechiarugolo, non senza fatica e sangue da ambe le parti. Presentarongli in una Modenese festa trionfalmente a Buonaparte, gratissimo dono, perchè ed agguerriva gl'Italiani, e gli faceva intingere contro l'imperatore.
Tutte queste cose affliggevano e spaventavano il pontefice, che si vedeva restar solo esposto alle percosse delle armi repubblicane. Aveva fatto quanto per lui si era potuto per adempir le condizioni, ancorchè gravissime fossero, della tregua. La pace che si trattava a Parigi, non veniva a conclusione. Voleva il direttorio, che il papa recedesse da qualunque lega contro Francia, negasse il passo ai nemici, il desse ai Francesi; serrasse i porti agl'Inglesi, rinunciasse a Ferrara, a Bologna, a Castro, a Benevento, a Ronciglione, a Pontecorvo, proibisse l'evirazione dei fanciulli. Quanto alla religione, il direttorio richiedeva, che il papa rivocasse qualunque scritto, od atto emanato dalla santa sede rispetto alle faccende ecclesiastiche di Francia dall'ottantanove in poi. Posto il partito dal pontefice, opinò con consentimento unanime il collegio dei cardinali, doversi rifiutare tutte le pratiche, non potersi accettare i patti, alla forza si resistesse con la forza. Quando così deliberarono, già sapevano essere in ordine una terza mossa Austriaca per l'Italia, e per questa cagione speravano di aver seco congiunte le armi imperiali.
Sapeva Pio Sesto a quale pericolo sottoponesse se medesimo, e tutto lo stato ecclesiastico col rifiutare la pace. Perciò non ometteva alcuno di quegli ajuti, che pei tempi confermare lo potessero. Scriveva un breve a tutti i principi cattolici, col quale gravissimamente favellando, gli esortava a non abbandonare dei sussidj loro la santa sede in così imminente pericolo; corressero, ammoniva, in soccorso di quella religione, che con tanta pietà professavano, e che era cagione che i sudditi con tanto amore e soggezione a loro obbedissero; sapere il mondo quale strazio avesse fatto, e tuttavìa facesse il governo di Francia, di questa santa religione e de' suoi ministri, non solamente in Francia, ma ancora in tutti i paesi che restavano aperti alle armi sue; già minacciarsele una totale sovversione in Italia dalle rive contaminate dell'Adda, e del Po; già titubare su quelle dell'Adige, e già innoltrarsi per le nemiche rupi verso il cuore della illibata Austria; considerassero, che non si può la religione spegnere, che non si spenga, o non si turbi immoderatamente lo stato: avere ciò pruovato in Germania, quando opinioni nuove secondate da poche armi vi erano sorte; che sarebbe per accadere presentemente, che nuove e molto più disordinate opinioni, accompagnate da armi tanto formidabili sorgevano? Avere il mondo a scerre tra la pietà, e l'empietà, tra la civiltà e la barbarie, tra la libertà e la servitù; non essere il santo padre per mancare al debito suo; ma soccorrergli poche armi temporali, nè le spirituali, in tanta diminuzione di fede e di religioso costume, avere quella efficacia, che una volta avevano; nel suo ultimo ridotto essere oppugnata la religione; se anche questo si superasse, niuna speranza restare, dovere la umana generazione governata essere dalla cieca forza, dalla disordinata fortuna: sorgessero adunque, esortava, accorressero, pruovassero avere cura di quanto ha posto il cielo quaggiù di più sociale, di più salutevole, di più sacro; darebbe egli tanto vicino al pericolo l'esempio della costanza, nè potere o il romore di sì perniziosa guerra, o l'età sua oramai cadente, o le instigazioni dei male affezionati tanto operare, ch'egli non sorgesse con animo invitto a difesa di quella religione, che scesa da Cristo Dio pel ministero dei santi Apostoli sino a questi miseri tempi incorrotta e pura doveva parimente ai posteri pura ed incorrotta tramandarsi.
Queste voci mandava ai principi cattolici il pontefice ottuagenario, primo sostenitore e con le parole e con l'esempio, dell'autorità e della dignità dei principi. Ma le opinioni religiose, massimamente le cattoliche, erano diminuite: in alcuni poi fra i principi il timore superava la religione, in altri l'interesse politico la corrompeva. Solo dall'imperator Francesco veniva qualche speranza, il quale però si muoveva piuttosto per gl'interessi proprj, che per quei del papa.
Non aveva il re di Napoli intermesso per mezzo del principe di Belmonte Pignatelli i suoi negoziati a Parigi, ora con più vivezza procedendo, ora allungando il dichiararsi, secondochè gli accidenti d'Italia succedevano o più prosperi, o più avversi alle armi Francesi. Lo stimolavano dall'un de' lati l'Austria e l'Inghilterra a mantenersi in fede, dall'altro il ritraeva il timore dei Francesi saliti a tanta potenza. Il direttorio, che si accorse dell'arte, volle stringere, e fece bene: bensì merita riprensione dello aver tacciato, accennando alle tergiversazioni del principe di Belmonte, d'infame nota la fede Italica, come la chiamò; perchè noi non vediamo come si possa accusare una nazione dell'infedeltà de' suoi governi, e nemmeno vediamo come le arti usate dal principe Napolitano, ora di stringere, ora di allargarsi, possano stimarsi arti fedifraghe, e da chiamarsi con nome odioso; perciocchè di simili arti usano tutti i governi in tutti i loro negoziati politici, e la Francia stessa le usò in ogni tempo, e più ancora a quei del direttorio. L'udire poi accusarsi la fede Italica, come infedele, da coloro che a bella posta cercavano lite ai principi Italiani per cavarne danaro, e per distruggergli, non si potrà certamente senza sdegno da chi libero da ogni anticipata opinione essendo, è solo amatore del giusto e dell'onesto.
Intanto tra per la mediazione di Spagna, e per le nuove che ogni dì più si moltiplicavano del venire i Tedeschi verso l'Italia, fu concluso tra Francia e Napoli un trattato di pace il dì dieci ottobre, molto onorevole, secondo i tempi, al re; perchè nè gli si comandava di serrare del tutto i porti alle potenze nemiche della repubblica, nè gli s'imponeva l'obbligo di scarcerare i mescolati in congiure. Le principali condizioni furono, che il re rinunziasse a qualunque lega coi nemici della Francia; si mantenesse puntualmente in neutralità con le potenze belligeranti; vietasse l'entrata nelle sue marine alle navi armate in guerra di esse potenze, così Francesi come di altre nazioni, se più di quattro fossero; si restituissero tutti i beni sì mobili che stabili sequestrati, e confiscati tanto in Francia quanto nel regno a motivo della presente guerra; si stipulasse un trattato di commercio; avesse luogo nella pace la repubblica Batava.
Fatto l'accordo, orava pubblicamente il principe di Belmonte in cospetto del direttorio con amichevoli parole. Rispondeva il direttorio con parole magnifiche di fede, di amicizia, di pace.
Anche la tregua tra Francia e Parma si convertiva in accordo per verità non troppo superbo pel duca, per la protezione, in cui l'aveva la Spagna, sicchè la pace gli recò minor danno che la tregua: accidente insolito, perchè le paci del direttorio erano per l'ordinario peggiori delle tregue.
Udissi a questi giorni la morte di Vittorio Amedeo terzo re di Sardegna, principe che avrebbe avuto in se tutte le parti, che in un reggitore di popoli si possono desiderare, se non fosse stata quella smania di guerra, che notte e dì il tormentava. Quindi consumò l'erario per mantener i soldati, ed i soldati consumarono il paese: lo soggettarono anche alla forza, che sarebbe stata intollerabile, se la natura buona del principe, e le vecchie abitudini di governo regolato non l'avessero temperata. Quand'io considero il destino degli uomini, non posso non maravigliarmi, come spesso eglino s'ingannino in quello, che debbe rendergli o chiari od oscuri nella posterità; perchè il re Vittorio Amedeo, che sempre anelava a voler fare commendabile il suo nome per le armi, il fece per questa parte poco degno di lode; anzi la guerra il fece andare in precipizio, mentre restano, e sempre resteranno le memorie delle onorate cose fatte da lui in pace, e nel riposo de' suoi popoli. In somma Vittorio Amedeo lasciò, morendo, un regno servo, che aveva ricevuto intiero, un erario povero, che aveva ereditato ricchissimo, un esercito vinto, che gli era stato tramandato vittorioso. Così le sue virtù, che furono molte e grandi, contaminate dal vizio della guerra, non partorirono pe' suoi sudditi tutto quel benefizio che promettevano.
Successe nel regno a Vittorio Amedeo terzo Carlo Emanuele quarto di questo nome, principe ammaestrato in molte belle discipline, ornato di tutte le virtù che in uomo capir possono, e devotissimo alla religione. Ma con l'animo santo aveva il corpo infermo; perciocchè pativa straordinariamente di nervi, e questo male, al quale non vi era rimedio, gli rappresentava spesso di strane fantasìe, che il facevano parere assai diverso da quello ch'egli era veramente. Per tal modo Carlo Emanuele quarto cominciò a regnare in un regno desolato, fu afflitto continuamente da ombre e da ubbìe singolari, e cessò di regnare più miserabilmente ancora, che non aveva incominciato. Essendo gli stati del re frapposti tra Francia ed Italia, e provveduti tuttavìa di buone armi, sebbene infelicemente usate, molto importava alla prima di averlo per amico; perciò il direttorio niuna cosa lasciava intentata per congiungerselo in amicizia stabile per un trattato di alleanza. Si aggiungeva la tenerezza di Buonaparte pel re, e massimamente pei nobili, perchè a lui parevano buoni stromenti del governare assoluto. Primario intendimento fu sempre di Buonaparte di trasportare il dominio del re dal Piemonte nello stato di Milano, e d'incorporare alla Francia il Piemonte, e l'isola di Sardegna. Questo pensiero stesso ei si volgeva per la mente, quando più con le instigazioni tentava di accalorare lo spirito repubblicano in Milano. Ma non andava a grado del direttorio, o fosse che non avesse ancor deposto il pensiero di restituire, se bisognasse, il Milanese all'imperatore, o fosse che per non so quale ambizione di repubblica credesse, che con tante vittorie potesse alzar l'animo a maggiori cose, con fondare una nuova repubblica negli stati dell'imperatore in Lombardìa. Amava meglio compensare il re a spese della repubblica di Genova. Ambidue cercavano con queste speranze di adescar tanto Carlo Emanuele, ch'ei venisse a concludere con la repubblica la confederazione. E siccome queste pratiche non si potevano tenere tanto segrete, con le altre potenze non le subodorassero, confidavano che l'imperatore intimorito si sarebbe più facilmente inclinato a fare la volontà della repubblica. Ma il re non volle a questo tempo consentire al trattato, perchè gli pareva, che se congiunto fosse in lega difensiva ed offensiva con Francia, sarebbe stato costretto a volgere le sue armi contro il papa, al quale sapeva che i repubblicani macchinavano allora di far guerra. Non gli poteva sofferir l'animo di offendere il capo della chiesa che non gli aveva fatto alcuna ingiuria. Per questa cagione non ebbe per allora effetto il trattato.
In questo mentre Carlo Emanuele aveva chiamato ai consiglj dello stato, in vece del conte d'Hauteville, stimato troppo aderente all'Austria, il cavaliere San Damiano di Priocca. Inoltre, avendo il direttorio ripudiato il conte di Revel, come fuoruscito Francese, dall'ambascerìa di Parigi, il re gli aveva surrogato il conte Balbo, uomo di alto legnaggio, di molte lettere, e di non poca dottrina. Del rimanente, quanto al politico, era il conte piuttosto amatore di mettere l'Italia in Piemonte, che il Piemonte in Italia, ed aveva ottimamente conosciuto di che qualità fosse la libertà di quei tempi. Arrivato come ambasciadore di Sardegna a Parigi, gli furono date gratissime parole; ed egli, siccome quegli ch'era accorto e buon conoscitore degli uomini, si mise tosto in sul negoziare, non disperando di trovar modo di far servigj importanti al re fra quei repubblicani amatori di denaro, e di nomi illustri. Intromesso al cospetto del direttorio, disse, non essere mai stato il re suo signore nemico a Francia, nè al governo di lei; tempi fatali avergli posto in mano le armi, nel corso di quella infelice guerra, ma fatta con coraggio e con lealtà, non avere mai cessato di desiderare la pace; essersi, come prima il momento comodo fu giunto, affidato in loro senza riserva alcuna, senz'altra sicurtà, che la sincerità sua propria e la loro; d'allora in poi avere il direttorio rettamente giudicato e dell'animo, e dell'opere sue; consigliarlo il rispetto dell'interesse suo, che era quello stesso del suo popolo, che restasse affezionato alla Francia: naturale adunque essere, soggiungeva, l'amicizia dei due stati; avere lui carico di nudrirla, e perchè nissuna cattiva impressione restasse, avere carico di disdire i fatti accaduti in Piemonte contro l'ultimo ambasciadore di Francia; presentare le sue credenziali; vedrebbero per loro quanta fede avesse il re posta in lui; stimerebbe meritarla, se quella del direttorio meritasse.
Rispose magnificamente il presidente, la moderazione del principe di Piemonte (quest'era la qualità di Carlo Emanuele prima della sua assunzione) avere preparato la strada alla stima del popolo Francese verso il re; accrescersi la contentezza del direttorio alle nuove protestazioni; renderebbe il governo di Francia amicizia per amicizia; desiderare, che l'esempio di un re amatore della pace piegasse tutti i nemici della repubblica ad accettarla; rallegrarsi il popolo Francese per le vittorie acquistate ad assicurazione della sua libertà, ma vieppiù essere per rallegrarsi, quando tutte le nazioni vivessero in amicizia con lui; non conoscere la repubblica l'astuzia politica; stipulare i trattati con lealtà, osservargli con fede, difendergli con coraggio; soddisfarsi il direttorio al vedere, che il re l'avesse eletto a nutritore di concordia, sperare si sforzerebbe in adempir bene il quieto mandato.
Tali furono i vicendevoli parlari tra Francia e Sardegna. Quantunque il re non potesse amare un governo che l'opprimeva, la sua amicizia politica verso di lui era nondimeno sincera, e non si può dubitare, che suo proponimento fosse di seguitar la Francia piuttosto che l'Austria, perchè credeva, che ciò importasse alla salute ed agli interessi del suo reame. Dall'altro lato il direttorio mostrava il viso benigno al re per aver seco congiunte le sue armi, sebbene avesse disegni di distruzione del governo regio in Piemonte.
Ma quel che faceva ricercare il re della sua amicizia in questo momento, cagionava il pericolo della repubblica di Genova: il direttorio tanto odiava l'aristocrazìa, quanto la monarchìa; nè avendo Genova, come il re di Sardegna, la protezione del generale vittorioso, correva pericolo che di tanto si scemasse il suo stato, di quanto si voleva accrescere quello del suo vicino. Vennesi in sui cavilli, e sulle superbe parole. Rincominciaronsi le querele pel fatto della Modesta già composto tante volte. Esortava Faipoult Buonaparte a venire armato a Genova per cacciare dai magistrati gli avversi a Francia, a bandirgli, a cambiare le forme delle deliberazioni del governo.
Mandava la signorìa all'alloggiamento di Buonaparte Francesco Cattaneo, uno dei più gravi e più riputati cittadini della repubblica, affinchè s'ingegnasse di mitigare quella superbia; ma si tirava più su con le richieste: serrassero, imponeva, tutti i porti agl'Inglesi, seimila Francesi il golfo della Spezia occupassero, apprestasse la repubblica quanto abbisognasse alla Francia; venti milioni pagasse a compenso dei danni inferiti dagl'Inglesi e dagli Austriaci sui mari; per impedire l'entrata agl'Inglesi nel porto di Genova un presidio Francese la lanterna munisse, gli abitatori della Polcevera si disarmassero. Il senato, siccome quello, a cui le condizioni parevano intollerabili, mandava con autorità d'inviato straordinario a Parigi Vincenzo Spinola, patrizio veduto volentieri dagli agenti Francesi. Si faceva lo Spinola avanti parte con le parole, parte con fatti più efficaci delle parole.
Intanto il dì undici settembre venivano gl'Inglesi ad un fatto, che fece precipitar Genova alla parte Francese. Stavano i repubblicani sbarcando da una nave loro sorta sulla spiaggia di San Pier d'Arena armi, ed arnesi ad uso dei loro soldati. Ebbe Nelson, vice-ammiraglio d'Inghilterra, che voleva comandare con insolente arbitrio sui mari, come Buonaparte voleva comandare col medesimo arbitrio su terra, avviso del fatto: perciò, uscito incontanente dal porto di Genova con una grossa nave, e con una fregata, ed allargatosi un poco, e messi in mare i palischermi pieni di gente armata, si fece sopra alla nave Francese, e violentemente la rapì. Fu il caso tanto improvviso che i marinari della repubblica appena trovarono scampo a terra; nè la batterìa Francese piantata sul lido a tutela della nave, nè le artiglierìe della lanterna furono a tempo a rompere il disegno agl'Inglesi. Fu certamente questa una grave prepotenza: pure la batterìa piantata dai Francesi sulla terra neutrale, dava qualche motivo a Nelson di fare quello che fece. Ma fu inescusabile il capitano d'Inghilterra di essere uscito a questa fazione da quell'ospitale ricovero di Genova. Faipoult usando l'occasione, ed acceso in gravissima indegnazione domandava, che Genova intercludesse i porti agl'Inglesi, e desse, in compenso della nave rapita, in mano di Francia tutte le navi loro sorte ne' suoi porti: quando no, sarebbe tenuta del fatto verso la repubblica.
Le insolenze d'Inghilterra, e le minacce di Francia fecero facilmente andar innanzi la mutazione nelle deliberazioni di Genova. Per la qual cosa, tacendo, o poco contrastando nelle consulte coloro che inclinavano alla parte Inglese, sorse più potente la parte Francese. Però fu risoluto nel consiglio grande, ed appruovato nel piccolo, che si chiudessero tutti i porti ai bastimenti Inglesi sì da guerra che da commercio; si ritenessero quelli che nei porti stanziassero.
Il serenissimo governo, datosi tutto alla parte del nome Francese, pubblicava per giustificare la sua deliberazione, un manifesto, in cui, raccontate tutte le ingiurie ricevute da poi che aveva incominciato la guerra, dagl'Inglesi, concludeva, che, poichè la lunga pazienza ed i frequenti ricorsi erano stati indarno, nè alcuna speranza si aveva che gl'Inglesi fossero per venirne a termini più temperati, si era risoluto ad escludere insino a nuova deliberazione dai porti Genovesi le navi Britanniche, la presenza delle quali, sotto colore di non adempita neutralità per gli altrui fatti violenti, aveva dato occasione a tanti incomodi, ed a tanti pericoli.
Intanto si stipulava il dì nove ottobre a Parigi tra il direttorio ed il plenipotenziario Spinola una convenzione, con la quale si fermarono le condizioni, a norma delle quali i due stati dovevano vivere fra di loro. L'accettarono i Genovesi sperando, che con lei sarebbe confermato lo stato. L'accettarono il direttorio e Buonaparte, perchè procurava loro denaro. Fu convenuto fra i due stati, che il decreto del governo di Genova, per cui si serravano i porti agl'Inglesi, avesse la sua esecuzione fino alla pace; proibisse Genova il soccorrere di viveri e di munizioni gl'Inglesi; presidiasse sufficientemente i porti; se non potesse, la Francia la servirebbe di presidj; se la Gran Brettagna intimasse guerra a Genova, la difenderebbe la Francia; annullasse Genova i processi fatti ai sudditi per opinioni, discorsi, o scritti politici; i nobili processati, nel grande e nel piccolo consiglio si redintegrassero, la Francia promettesse di conservare intero il territorio della repubblica, di agevolarle la pace con le potenze Barbaresche; di far libere e franche le terre vincolate per dritti di feudo all'impero Germanico; i Genovesi accettassero la mediazione della Francia per comporre le loro differenze colla Sardegna; pagassero alla Francia, per prezzo dell'amicizia e della conservazione dei territorj, due milioni di franchi e le facessero un presto di altri due milioni. Furono i due milioni di taglia estratti dal banco di S. Giorgio, i due del presto pagati dai più ricchi.
Genova debole, e lacerata da due nemici potenti, fu obbligata a comporsi con uno di loro; il che non fu la sua salute: Venezia lacerata ancor essa da due nemici potentissimi, ma più forte, più padrona di se medesima, più vicina all'Austria che alla Francia, più tenace nella neutralità, non volle comporsi, nè ciò fu la sua salvezza, perchè si aveva a far con uomini tali, che il comporsi ed il non comporsi con loro erano ugualmente di rovina. Ma prima di raccontare le Veneziane disgrazie, sarà conveniente che da noi si narrino i maneggi politici, che allora giravano per l'Italia. Le vittorie di Buonaparte avevano dato speranza al direttorio, che l'imperatore d'Alemagna avrebbe concetto pensieri di pace, e che gli manderebbe ad effetto, solo che gli si proponessero condizioni, se non onorevoli, almeno non disonorevoli; conciossiachè principal mira del governo di Francia, alla quale tutte le altre erano subordinate, fosse sempre la pace con l'imperatore, non solamente per la sua potenza, ma ancora per la dignità della casa, e del grado. Parevagli, che ove Francesco avesse accettato le condizioni, la repubblica riconosciuta da un tanto principe, sarebbesi bene radicata, e per così dire, naturata in Europa. Sola l'Inghilterra sarebbe rimasta nemica: ma non avendo più speranza di muovere l'Europa contro la Francia, si conghietturava, che anch'essa sarebbe sforzata al venirne agli accordi. Chiaro appariva, che dalle condizioni dell'Italia, essendo già i Paesi Bassi Austriaci posti in possessione della Francia, pendeva principalmente la pace con l'imperatore. A questo principal fine dirizzando i suoi pensieri il direttorio, aveva mandato in Italia il generale Clarke, personaggio molto dipendente da Carnot, col mandato di veder vicino le cose, e di fare convenienti proposte d'accordo all'Austria. Era Clarke uomo molto atto a questo negozio, non solo per la sua destrezza, ma ancora perchè detestava, e sapevasi, le esagerazioni dei tempi. Inoltre egli pare, che il direttorio, od almeno qualche membro di lui avessero concepito sospetto di pensieri ambiziosi in Buonaparte, e però si erano risoluti a mandare in Italia un uomo, quale loro sembrava Clarke, molto fidato, affinchè investigasse, ed accuratamente rapportasse gli andari del generale Italico. Del che o accortosi, o sospettando Buonaparte, quando se lo vide comparire innanzi, siccome quegli che non amava gl'imperj dimezzati, gli disse a viso scoperto, che se veniva per accordarsi con lui, il vedrebbe volentieri e l'accetterebbe: quando no, se ne poteva tornare. Questa insolenza o non seppe il direttorio, o saputa, per lo meno male, la passò. Clarke, che uomo accorto era, avvisò facilmente dove era, e dove aveva a rimanere la potenza; si piegava perciò facilmente, e da inviato del governo divenne fidato di Buonaparte. Da quel punto nacque fra ambidue quella benevolenza e quella intrinsichezza, che si mantennero in tanti e sì diversi tempi, ed in tante rivoluzioni d'uomini e di cose.
Ma venendo al mandato politico di Clarke, quantunque ei dovesse principalmente indirizzarsi all'imperatore, fece opera per viaggio di racconciar le faccende colla Sardegna. Offeriva in nome della repubblica di dare al re Genova co' suoi territorj con patto che egli cedesse alla Francia l'isola di Sardegna, e si unisse in lega con la repubblica, obbligandosi a congiungere all'esercito Italico un numero determinato di soldati. Disordinò anche questo pensiero il rifiuto di Carlo Emanuele del voler entrare in questa lega; perchè, come già rapportammo, detestava grandemente di voltar le sue armi contro il papa. Allora fu fatto il trattato con Genova, col quale il direttorio, non potendo più farla cosa del re, la fece cosa sua.
A questo succedeva nei consigli dei reggitori della Francia un altro disegno per opera principalmente di Buonaparte, e questo era, persistendo sempre nella volontà di conservar la possessione dei Paesi Bassi, di dare per compenso all'imperatore la Baviera, e tutti, od alcuni territorj della terra ferma Veneta; e già i capi della repubblica facevano pubblicare nei loro giornali di Parigi, che Venezia era usurpatrice di parecchi territorj imperiali: intendevano principalmente dell'Istria e della Dalmazia. Così abbisognava, per soddisfare all'ambizione del direttorio, e perchè la Francia fosse accomodata dei Paesi Bassi, che ed il duca di Baviera ed i Veneziani fossero spodestati dei loro dominj.
A queste proposizioni se ne stava dubbiosa l'Austria, non che non avesse voglia di avere quello d'altrui, ma perchè, parendole il caso strano, il decoro la riteneva, e non aveva ancora perduto la speranza di ricuperare per forza d'armi gli stati d'Italia; perciocchè questi negoziati correvano prima delle ultime rotte di Wurmser. Oltre a ciò, e quest'era il principale motivo che la faceva stare sospesa, sapeva che la Prussia non avrebbe sopportato quietamente, ch'ella riunisse alle sue antiche possessioni in Germania la Baviera tanto opportuna a' suoi disegni, e tanto aumentatrice della sua potenza. Finalmente l'accettare la Baviera, e gli stati Veneti in una condizione di tempi non ancor maturi, come erano quei del novantasei, ed ancor soggetti a grosse e probabili mutazioni, pareva all'Austria cosa troppo insolita, e troppo lontana dal consueto suo andare cauto e prudente. Tutte queste considerazioni operarono tanto nei consigli Austriaci, che non potè avere effetto la dazione della Baviera. Ma quello che faceva la salute della Baviera, faceva la rovina di Venezia; perchè Clarke e Buonaparte, non ostante le vittorie avute contro Wurmser, insistevano maggiormente presso all'Austria per darle in mano i territorj Veneti in compenso della Lombardìa, e dei Paesi Bassi.
Conosceva il direttorio la renitenza dell'Austria. Perciò aveva mosso, per vincerla, altre pratiche lontane, per le quali sperava di operare, che il timore superasse a Vienna il pudore. Dipendeva intieramente la Spagna pei consigli, e per l'autorità del principe della Pace, dalla Francia. Dipendeva anche da lei per la necessità delle cose la Porta Ottomana. Venne adunque il direttorio in pensiero, condotto da quel suo fine principalissimo di aver amicizia con l'imperatore, di fare proposizioni di lega difensiva tra la Spagna, la Porta Ottomana, la Francia e la repubblica di Venezia contro l'Austria: presumeva il direttorio, oltre il timore da darsi all'imperatore, che Venezia, stante la costanza del senato a volersene star neutrale, avrebbe ricusato d'entrar nella lega, e però, che se gli sarebbe porta più colorita cagione di dar la repubblica in mano altrui; che se pel contrario Venezia, il che non era verisimile, si fosse mostrata inclinata a collegarsi, avrebbe avuto l'Austria giustificato motivo di accettar quello che le si offeriva. Il Reis Effendi, favellando a Costantinopoli col dragomanno di Venezia, si era lasciato intendere, che in quel totale sovvertimento d'Europa il senato Veneziano non poteva, e non doveva più starsene isolato e da se, ma sì consentire a quelle congiunzioni, che per la sicurtà de' suoi stati fossero necessarie, e che nissuna congiunzione migliore poteva essere, che un'alleanza con la Porta, la Francia, e la Spagna. Poco dopo Verninac, ministro di Francia a Costantinopoli, avuto un segreto colloquio con Ferigo Foscari, bailo della repubblica, gli aveva significato le medesime cose, protestando dell'amicizia della sua repubblica verso quella di Venezia, e non solamente promettendo sicurtà per tutto il territorio Veneto, ma ancora dando speranza di considerabile ingrandimento. Infine in qualità di persona pubblica procedendo, l'ambasciadore dava al bailo uno scritto, acciocchè lo tramandasse al senato, in cui veniva ragionando, che la repubblica Francese oltre modo tenera della quiete generale, e della preservazione degli stati contro i disegni di alcune corti ambiziose, si era risoluta a non istarsene da se in mezzo all'Europa commossa; che a questo fine desiderava congiungere a quella d'altri tutta la forza sua; che confidava che i governi interessati sarebbero disposti a secondarla; che sperava che specialmente il senato Veneziano si mostrerebbe pronto a concorrere a questo fine; che perciò proponeva al senato per mezzo del bailo, e per comandamento espresso del direttorio un'alleanza fra le due repubbliche. Quindi più apertamente spiegandosi, dimostrava, uno e medesimo essere un nemico a Francia ed a Venezia, quest'esser l'Austria perpetuamente cupida delle provincie della terra ferma Veneziana, e del dominio dell'Adriatico; ad essa accostarsi la Russia sua alleata, ambiziosissima dell'impero d'Oriente, impero, che già tentava con le armi, che già macchinavano nel cuor loro i Greci: darebbe volentieri la Russia Venezia in preda all'Austria, perchè l'Austria le desse in preda la Grecia, e l'imperio dei Turchi. Allora qual sicurezza, quale speranza resterebbe al senato di conservar Zante, Cefalonia e Corfù con l'altre isole del mare Ionio? Pensasse il senato, e nella prudenza sua deliberasse, se in casi tanto estremi, non più nascosti ma aperti, non più lontani ma vicini, altro mezzo rimanesse di scampo, che quello della lega, che il direttorio veniva proponendo. Non avendo il bailo mandato per trattare una sì importante materia, rispondeva pei generali, offerendosi solamente di trasmettere lo scritto di Verninac al senato.
Le medesime mosse diedero a Madrid il principe della Pace ai nobili Bartolo Gradenigo, e Almorò Pisani, a Parigi il ministro degli affari esteri Lacroix al nobile Alvise Querini, finalmente a Brescia Buonaparte al provveditor generale Francesco Battaglia. Quest'era un concerto per maggiormente muovere la repubblica. Ma il senato non avendo ancora deliberato, perchè i Savj non gli avevano partecipato un affare di tanta importanza, il venzette settembre, quando appunto più vive bollivano le pratiche fra Clarke e gli agenti dell'Austria e che più instanti erano le esibizioni e le esortazioni del primo ai secondi, affinchè consentissero, in premio della pace, a pigliarsi le province Venete, si appresentava in Venezia al serenissimo principe con un memoriale il ministro di Francia Lallemand, col quale, annunziando che la repubblica Francese, desiderosa di stringersi vieppiù in amicizia con l'antica sua amica la repubblica di Venezia, le proponeva di nuovo per mezzo suo quello, che già le era stato proposto e da lui medesimo e da altri ministri di Francia, cioè un'alleanza a difesa ed assicurazione de' suoi stati; conoscere Venezia, ragionava Lallemand, la condizione sua rispetto alla casa d'Austria, sempre cupida dei Veneziani dominj; sapere, esserle stati conservati per l'amicizia di Francia; non isfuggirle l'ambizione della Russia a danno dei Turchi, la quale se venisse a soddisfarsi, tutte le isole Venete sarebbero preda del vincitore; l'avida Inghilterra, certo molto imprudentemente, voler dividere le spoglie d'Oriente con porsi nel Mediterraneo a rovina totale del commercio e della navigazione dei Veneziani; non esser mai per perdonare queste tre potenze al senato il non aver voluto entrare nella lega contro la Francia; già l'Austria apparecchiare la vendetta; già volersi risarcire con Veneziana preda dei danni ricevuti dalla Francia; più onesto che considerato consiglio del senato, essere quello di voler seguitare le antiche consuetudini in tempi tanto rotti; più non esservi nei negoziati politici la probità; saperlo la Polonia divenuta preda degli amici suoi; avere potuto Venezia conservarsi intera, quando era in piè la condizione librata d'Europa; ma fatto lo sbilancio, non potere più sussistere senza appoggio; offerire il direttorio l'alleanza del popolo Francese; essere questo popolo, fatto potentissimo per le sue vittorie, in grado di dare al mondo, e per quiete sua, quell'assetto che gli piacerebbe; stipulerebbe patti proficui e nobili per una nazione alleata; obbligherebbe tutte le sue forze a difenderla, se i suoi vicini s'attentassero di molestarla; se mandasse il senato un negoziatore a Parigi, si concluderebbe un trattato ad unione dei due popoli fondato sulla sincerità e sulla buona fede, sole basi della politica Francese; già prepararsi la pace del continente, già esser vicine a definirsi le sorti d'Italia; ogni cosa dovere sperar Venezia congiunta in alleanza con Francia.
In tale modo instava con molta pressa Lallemand in cospetto del serenissimo principe. Aggiungeva poscia, per aprir l'adito alle future cose, che se Venezia per rispetto verso i suoi nemici naturali, che macchinavano la sua ruina, trasandasse la occasione, che le si offeriva, di liberarsi per sempre dall'ambizione dell'Austria, non eviterebbe alcuno di quei pericoli, che le sovrastavano, e non avrebbe più ragione alcuna di richiedere di assistenza una potenza, ch'ella avrebbe trascurato, e che sola la poteva guarentire: dure parole, continuava a dire Lallemand, essere queste a proferirsi, ma non sapere la lealtà Francese risparmiar parole, quando si trattava di avvertire, e di salvare un amico.
I motivi di Lallemand ajutava presso al senato il provveditore Francesco Battaglia, il quale, non so se per amor di bene, o per amor di male, si era discostato, accettando le nuove, dalle antiche consuetudini del governo Veneziano. Inoltre conversando egli spesso in Brescia col generalissimo, parte tratto dal nome tanto glorioso del giovane guerriero, parte svolto e raggirato dalla loquela di lui, che per verità era molto persuasiva, si era lasciato condurre a prestar fede alle sue parole melliflue e magnifiche, ed a credere esser falso quello ch'ei vedeva con gli occhi suoi proprj, e vero quello che non vedeva. Mandava continuamente Battaglia a Venezia, ed instantissimamente pregava, si risolvesse il senato ad accettare la lega; con vivissimi colori rappresentava l'energia, la virtù, il valore, e le vittorie dei Francesi trionfatori di tutta Europa; che già l'Europa vinta dalle armi, convinta dalle ragioni e dal merito di quei nuovi repubblicani, non aveva più altro rimedio, che il volere quello, che essi volevano; che i Turchi ed i Veneziani dovevano usare quell'occasione propizia di scuotersi dalla lunga inerzia, che gli aveva occupati, e che gli avrebbe resi certa preda di grandi potenze, che a ciò anelavano; che se, mostrandosi ingrati a tanta lealtà, a tanta beneficenza dell'amica Francia, non avessero afferrato il crine della favorevole fortuna, bene poteva accadere, che ella ai proprj interessi provvedendo, e mossa a sdegno dal rifiuto, ritirasse da loro la mano sua protettrice, e divenissero i Veneziani prezzo di riconciliazione tra nemici potentissimi, dei quali uno voleva essere conosciuto qual era, l'altro preservare i proprj stati da una rovina minacciata: ricordassesi il senato, ed avvertisse, che se le coscienze morali sono mosse dal buono, le politiche sono dall'utile, e che l'innocenza non è stata mai scudo contro la forza.
Grave al certo deliberazione era questa, e che importava alla somma tutta della repubblica; perchè se da una parte si vedeva, che il collegarsi con la Francia in mezzo a tanta vertigine di cose avrebbe necessariamente condotto Venezia per sentieri insoliti, non mai battuti da lei, e pieni di un dubbioso avvenire, dall'altra il non collegarsi poteva portar con se una immediata pernicie; ed in questo non si era infinto il ministro di Francia, avendo accennato a quale pericolo si esporrebbe Venezia, se a starsene scollegata, e da se continuasse. Questa materia fu maturamente esaminata in una consulta di tutti i Savj di collegio, e sebbene la sentenza, in cui entrarono, sia stata da molti biasimata, e da alcuni allegata come pretesto valevole di fare a Venezia quello, che le fu fatto, come se uno stato independente fosse obbligato, sotto pena di eccidio, di opinare come uno stato forestiero vorrebbe che opinasse, noi non dubitiamo di affermare, ch'ella fu giusta, onorevole e conveniente ai tempi. Era a considerarsi, e considerarono i Savj da chi, e contro chi, ed in quali circostanze fosse proposta l'alleanza. La proponeva il direttorio, al quale più importava la pace con l'Austria, che l'esistenza di Venezia; che aveva, non era gran tempo, sollecitato il Turco a muoversi contro di lei; il cui disegno era chiaramente d'intimorir piuttosto l'Austria, che di preservar Venezia; che al tempo medesimo proponeva di dar gli stati della repubblica all'Austria medesima; che per mezzo di Clarke aveva testè suggerito al marchese Gherardini, ministro d'Austria a Torino, di far occupare dagli Austriaci la Dalmazia; che offeriva, per prezzo di alleanza, Genova alla Sardegna; che aveva imputato a delitto alla repubblica l'avere dato un pietoso ricovero ne' suoi stati ad un principe perseguitato dalla fortuna; che già prima che le armi Francesi romoreggiassero sui confini Veneziani, aveva concetto il pensiero di cavare, prevalendosi di quel lontano terrore, milioni di denaro dalla repubblica; che questo era quel direttorio stesso, che anche prima che l'esercito suo entrasse in Italia, voleva far espilare la casa di Loreto; che pagava con ingiurie, e con occupazioni violente, e con progetti di tor lo stato, l'amicizia di Ferdinando di Toscana; che si corrucciava, se le monarchìe non seguitavano le massime delle repubbliche, e se le repubbliche non seguitavano le massime della democrazìa. Considerarono anche i Savj, che queste medesime mosse erano date da Buonaparte, cioè dal rompitore delle promesse di Brescia, dal conculcatore degli stati Veneziani, dall'insidiatore della disarmata Peschiera, dal minacciatore della pietosa Verona, dallo spogliatore dei monti di pietà di Milano, di Piacenza e di Bologna. Quale fede porre, quale speranza avere nelle promesse, e nelle protestazioni di costoro? Volere al certo render Venezia colpevole verso l'imperatore per darla in preda all'imperatore; volere al certo distruggere quell'innocenza, che era il principal fondamento della sua salvazione.
Oltre a questo maturamente avvertirono i Savj, che l'Austria, innanzi che i repubblicani pervenissero negli stati Veneziani, non aveva mai offeso la repubblica; che dalla lega di Cambray in poi questa potenza non aveva mai manifestato pensieri ambiziosi contro di lei; che sempre aveva portato rispetto a' suoi territorj; che sempre le era stata ajutatrice fedele contro le armi dei Turchi; che sempre si era opposta ai progetti messi avanti da altri e principalmente dalla Francia, di smembramento e di occupazione degli stati Veneti; che segnatamente l'imperatrice Maria Teresa aveva sdegnosamente rifiutato tale proposta fattale dalla Francia per prezzo della pace generale del quarantasette: che l'imperatore Francesco medesimo non aveva pure testè voluto udire le offerte fatte della occupazione della Dalmazia Veneta dal negoziatore Clarke al ministro d'Austria in Torino, e che certamente qualunque fosse stata l'antica fede dell'Austria e della Francia verso la repubblica, d'infinito spazio ai tempi presenti migliore era stata quella della prima, che quella della seconda. Concludevano da tutto questo, che se la fortuna Francese preponderante non permetteva che si pendesse di più verso l'Austria, la maggior fede dell'Austria non permetteva che si pendesse di più verso la Francia. Pensarono finalmente, che se era destinato dai cieli, che la repubblica perisse, doveva ella perire piuttosto innocente che rea, piuttosto per violenza altrui che per colpa propria, piuttosto con compassione che con biasimo del mondo, e senza che ne fosse diminuita la maestà del suo nome.
Tutte queste considerazioni appartenevano all'incorrotta fama: altre appartenevano alla sicurezza. Era la repubblica disarmata, nè così presto si sarebbero potute apprestare le armi necessarie all'importanza di una tanta guerra; perciocchè non era da dubitare, che la congiunzione a difensione con Francia non fosse stimata congiunzione ad offensione dell'Austria. Dal che conseguitava, che poco momento poteva arrecare la repubblica con la sua alleanza, e l'effetto inevitabile ne sarebbe stato, che le province Venete poste ai confini Austriaci, ed ancora immuni dalle armi, sarebbero state incontanente occupate in forma di guerra dagl'imperiali per modo che tutti i territorj Veneti, nissuno eccettuato, sarebbero divenuti o campo di feroci battaglie, o stanza di amici intemperanti, o bersaglio di nimici irritati. Nè era da passarsi senza essere avvertito il pensiero, che il farsi alleata del direttorio importava alla repubblica il farsi serva di lui, ed il dover consentire a quanto egli volesse, dar l'ingresso alle genti di Francia in Venezia per la spedizione tanto desiderata di Trieste, dar loro accesso, e copia dell'arsenale sotto colore di voler armar navi contro l'Inghilterra, e tutto questo apparato nuovo e grosso di armate navali dover essere a carico della già consunta repubblica, nè si potevano sperare ajuti di denaro da Francia, perchè gli alleati grossi sogliono prendere, non dar denaro ai piccoli, e fra gli alleati grossi il direttorio era quello, che ne prendeva più, e ne dava meno. Poi di somma importanza era, che la lega con la Francia avrebbe prodotto la guerra con l'Inghilterra; il quale accidente di quanto danno fosse per riuscire ai Veneziani per traffichi di mare, nissuno è che non veda; l'isole Ioniche stesse avrebbero portato gravissimo pericolo; che se per renderle sicure contro i moti dell'Inghilterra, vi si fossero introdotti presidj Francesi, si poteva bene sapere quando vi sarebbero entrati, ma non quando ne sarebbero usciti. Quest'era la guerra di mare; ma quella di terra, avrebbero dovuto farla i Veneziani con quei medesimi modi, coi quali la facevano i repubblicani di Francia, che è quanto a dire con incitare i sudditi Austriaci alla ribellione; ed i territorj, che per premio si promettevano a Venezia, sarebbero stati il frutto d'instigazioni abbominevoli. Il che quanto fosse lontano dalla fede, dalla dignità, e dalla consuetudine della Veneziana repubblica, e quanto potesse macularle, facile è il vedere. Ma in tutto questo negozio, certamente tanto importante quanto geloso, un motivo era più potente di tutti, perchè la repubblica non si scostasse dalla illibata neutralità, e quest'era, che la Francia era lontana e l'Austria non solo vicina, ma confinante per lungo spazio con gli stati Veneti, e che quantunque la fortuna tanto si fosse fino allora dimostrata favorevole alle armi Francesi, poteva accadere ch'ella improvvisamente si voltasse in favor dell'Austria; ed allora quale speranza, quale sicurezza sarebbe rimasta a Venezia, perchè non diventasse preda dell'imperatore? Del quale avvenimento dava ragionevole sospetto l'essere sempre state le stanze dei Francesi subite e corte in Italia. Al postutto, sebbene vi fosse da ogni parte incertezza e pericolo, più prudente consiglio era in un affare, in cui andava la somma tutta dello stato, il fidarsi di un governo antico, regolato e vicino, che di un governo nuovo, sregolato e lontano. Finalmente pareva cosa troppo brutta all'integerrima repubblica, e che non potesse passare senza grande offesa della sua dignità, il dover correre addosso ad uno stato amico, ed ajutare alla sua oppressione, ora che la fortuna lo aveva precipitato in una sì grande avversità. Serbando adunque l'antica consuetudine di Venezia, opinarono i Savj, e fu appruovato dal senato, che signora di se medesima, e da ogni vincolo libera si serbasse la repubblica. Rispondeva il senato gravemente a Lallemand, che grate ed accette gli erano le dimostrazioni amichevoli fatte dal governo della repubblica Francese, che appunto per queste stesse disposizioni amichevoli sperava il senato, che il direttorio non avrebbe voluto condurlo a deliberazioni, che verrebbero a produrre effetti contrarj all'intento; che per antico instituto la repubblica di Venezia lontana dall'ambizione, e solita a temperare se medesima, aveva riposto il fondamento dell'esser suo politico nella felicità e nell'affezione dei sudditi, e nella sincera amicizia verso tutti i potentati d'Europa; del quale giusto ed immacolato procedere si erano sempre, malgrado degl'inviti e delle sollecitazioni contrarie in varj tempi fatte, essi potentati mostrati contenti; che per esso ancora era stata la quiete conservata ai Veneti dominj con utile costante, e contentezza inestimabile dei sudditi; che questa condotta del senato confermata dal corso di tanti secoli felici, non poteva abbandonarsi senza incontrare inevitabilmente il pericolo di guerra; che erano le guerre calamitose a tutte le nazioni, ma assolutamente insopportabili al senato pel suo amore paterno verso i sudditi, per la constituzione fisica e politica de' suoi stati, e per la sicurezza delle nazionali navigazioni. Alle quali cose s'aggiungeva il pericolo funesto di sconvolgere le basi del proprio governo, senzachè derivar ne potesse alcun rilevante appoggio alle grandi nazioni, alle quali egli strettamente si unisse. Terminava il suo grave ragionamento con dire, sperare, che il direttorio, conosciuta la ingenuità, e la verità di queste considerazioni, le avrebbe per accette, e non sarebbe per alienare l'animo, nè in qualunque evento, dalla innocente Venezia, da Venezia risoluta a conservare con ogni studio l'amicizia con Francia.
A questo modo si terminarono i negoziati di alleanza tra il senato, e il direttorio. La quale risoluzione, avvegnacchè da alcuni, i quali credono che il senato Veneziano doveva deliberare come conveniva alla Francia, e non come conveniva a Venezia, sia recata come segno di nemicizia contro la Francia medesima, e come pretesto del tradimento fatto a Venezia, non sarà se non lodata da tutti gli uomini prudenti. Bene appruovolla il direttorio stesso, che più di tutti avrebbe dovuto disappruovarla, avendo dichiarato al nobile Querini in Parigi, che il governo Francese sentiva perfettamente come il senato in tale materia, e che mai non l'avrebbe consigliato ad unirsi con la Francia in questa guerra contro la casa d'Austria, conoscendo benissimo a quanti pericoli poteva Venezia esporsi. Alla quale risposta era venuto il direttorio, perchè il nobile Querini l'aveva, in proposito dell'alleanza parlando, interrogato, se egli potesse assicurare, che i Francesi riuscissero a cacciare gli Austriaci per modo che i Veneziani non avessero mai in progresso di tempo a pentirsi dello aver abbandonato la loro neutralità.
Rifiutata dal senato l'alleanza con la Francia, restava a considerarsi, se non sarebbe stato utile e sicuro alla repubblica il collegarsi con l'Austria; perchè, se non si poteva temere che la Francia lontana volesse far sue le spoglie di Venezia, bene si poteva dubitare di tale intendimento nell'Austria vicina. Al qual timore davano maggiore forza le recenti offerte fatte degli stati Veneziani dal direttorio all'imperatore, e le parole che incominciavano a metter fuori i comandanti Austriaci in Italia; essere l'Austria male soddisfatta delle opere della repubblica, troppo parziale essersi dimostrata verso i Francesi. L'alleanza con l'Austria avrebbe fermato tutti questi mali pensieri, e non era da credere ch'ella si tirasse indietro, perchè in mezzo alla fortuna avversa l'accessione di Venezia avrebbe recato peso nella somma delle faccende militari. Ma prevalsero i consigli quieti, perchè il senato non voleva pendere più da questa parte che da quella, e non voleva soverchiamente irritare contro di se i repubblicani già padroni di buona porzione de' suoi territorj. Era chiaro altresì, che per la presenza dei due nemici era Venezia giunta a tale che non poteva collegarsi nè con l'uno nè con l'altro senza correre pericolo di totale ruina. Nondimeno, se ella avesse congiunto le sue armi con quelle dell'imperatore, massimamente quando erano queste cose ancora minacciose e forti, avrebbero i Francesi potuto ricevere grave danno. Il non aver ciò fatto pruova la sincerità della repubblica.
Ma patti pieni di molta sicurtà venne offerendo a questo tempo medesimo a Venezia una potenza forte per proteggerla, lontana per non darle ombra. Le offerte fatte dalla Francia di dare i dominj Veneti all'Austria non furono tanto segrete che l'altre potenze non le risapessero. Seppele fra le altre la Prussia, a cui più importava la cosa, siccome emola e solita a recare a propria diminuzione ogni aumento dell'Austria. Avvisò, che quello che voleva il direttorio di Francia, avrebbe finalmente avuto effetto, perchè stimava che l'Austria, passate le prime ripugnanze, non fosse di tale moderazione che non consentisse ad accrescere gli stati proprj con quelli d'altrui. Per la qual cosa il barone di Sandoz-Rollin, ministro plenipotenziario di Prussia a Parigi, in un abboccamento avuto col nobile Querini, si fece avanti dicendo, che con dolore infinito vedeva la condizione del senato, e delle Venete province, divenute campo e bersaglio di una crudele guerra; lodò il consiglio del senato dello aver saputo conservare in mezzo a tanto turbine e con tanto costo la sincera neutralità; che migliore contegno non poteva nè immaginare, nè tenere il senato: soggiunse poi però, che non doveva il senato aspettare i tempi sprovveduto d'amici, e collegato con nissuno, nè abbandonare gl'interessi dello stato ad un avvenire certamente molto incerto, e probabilmente tempestoso; che il governo che facevano i Francesi delle terre veneziane con aver violato le leggi le più sante della neutralità, poteva facilmente dar pretesto agli Austriaci di turbare l'attuale quiete e sicurezza della repubblica; che perciò gli pareva, che la prudenza del senato il dovesse indurre a premunirsi di qualche sostegno valevole a guarentire le sue possessioni contro qualunque tentativo della casa d'Austria; che bene conosceva, che non poteva la repubblica collegarsi con la Francia, quando questa non fosse per mantener sempre in Italia ai comandamenti del senato cinquantamila soldati, pronti a difenderla da ogni improvviso assalto; la quale supposizione, soggiungeva, era impossibile a verificarsi. Detto tutto questo, passava Sandoz-Rollin a dire, ch'ei credeva, che la sola potenza con la quale la repubblica avrebbe utilmente e sicuramente potuto stringersi in alleanza, fosse la Prussia, perchè gl'interessi politici del re tanto erano lontani da quei di Venezia, che il senato non poteva a modo nissuno sospettare, ch'ei volesse una tale alleanza procurarsi per qualche sua mira particolare; che anzi era la Prussia la sola potenza, che potesse por freno agli appetiti ambiziosi dell'Austria, e conservare l'incolumità e l'integrità dei dominj veneti; che a lui pareva, tale essere la opportunità e la necessità di quest'alleanza, che non fosse nemmeno da tenersi segreta; perchè la casa d'Austria non poteva recarsi a male, che la repubblica cercasse di guarentirsi da quei sinistri effetti, che a lei potevano derivare dal cambiamento di quei principj che fino allora avevano conservato la buona corrispondenza fra i due stati; che finalmente, quando l'imperatore vedesse, essersi la repubblica collegata veramente con la Prussia, avrebbe deposto il pensiero di tentare cosa alcuna contro di lei. Insistè finalmente il prussiano ministro affermando, che doveva il senato con la sapienza e prudenza sua internar la vista in un avvenire, che non si poteva ben prevedere quale fosse per essere, poichè fatalmente la presente guerra poteva aver dato motivo all'imperatore di chiamarsi scontento dei Veneziani, e di recar loro col tempo qualche grave molestia.
Questo parlare profetico, e questa profferta tanto secondo il bisogno, potevano essere la salvazione dell'insidiata Venezia, ed ogni motivo di stato concorreva a far deliberare che si accettasse; perchè nè gli Austriaci, nè i Francesi potevano far peggio attualmente di quel che facevano alla repubblica, nè peggiori disegni macchinare contro di lei, di quelli che macchinavano; il che dimostra, che la lega con la Prussia poteva solo causar bene, non male a Venezia, e che sola poteva medicare i mali presenti. Ben si era fino allora consigliato il senato, seguitando il suo antico costume di non congiungersi nè con questa nè con quella parte; ma certamente fu pur troppo timorosa risoluzione quella di non aver voluto accettare la lega tanto necessaria, e tanto opportunamente esibita dalla Prussia; abbenchè, come trovo scritto, questo fatale rifiuto non sia stato colpa del senato, ma sì piuttosto degl'inquisitori di stato, checchè a ciò fare gli muovesse, e dei Savi, che avuto il dispaccio del Querini, nol rappresentarono, avendo da loro medesimi deliberato di scrivergli, che non entrasse in questo trattato. Della quale deliberazione la posterità tutta, e massimamente la patria loro diventata suddita, da sovrana ch'ella era, gliene avranno biasimo ed indegnazione eterna. Forse a sì strano partito, e ad impedire sì salutifero consiglio si mossero pel rispetto di non volere offendere la Francia, e principalmente l'Austria, e per la speranza, che la sincerità e l'imparzialità della repubblica avessero a condurla a salvamento; semplicità certamente maravigliosa in una Venezia, ed in tempi tanto scapestrati. Bene gli aveva avvertiti Lallemand, con verità dicendo, che la probità politica non era più al mondo.
Intanto prima che si tradisse lo stato, si laceravano i sudditi sì dai Francesi che dai Tedeschi con ogni maniera di più immoderata barbarie. Nè più si vanti la libertà di frutti dolci, nè la regolarità degli antichi governi di frutti moderati, nè il secolo decimottavo di umanità; poichè e repubblicani ed imperiali, pretendendo parole soavi di amicizia, rapivano nei miserandi territorj veneti, non solo per necessità, ma anche per capriccio, non solo per forza, ma anche con violenza, non solo con comando, ma anche con ischerno le vite, l'onore, e le sostanze di coloro, che amici chiamavano. Nè più si portava rispetto ad una età che ad un'altra, nè ad un sesso che ad un altro; e quello che non periva per sangue, era contaminato per bruttura; spesso anche il sangue succedeva alla bruttura; perciocchè e' furono veduti vecchi e fanciulli uccisi, perchè non pronti a discoprire dove fossero riposte le sostanze, o le madri, o le figliuole loro, e se gli uomini stati fossero fiere, non sarebbero stati trattati peggiormente dai crudeli dominatori, come i Veneziani furono. Quello poi che era involato per forza, era profuso per iscialacquo; il paese desolato, i soldati sì vincitori che vinti si consumavano per mancamento di ogni genere necessario; chi per ufficio, o per grado aveva debito di provvedere ai soldati, e di ritirargli dalla barbarie, si arricchiva; il perchè si vedevano capi ricchi, soldati squallidi, abitatori spogliati: non che non vi fossero nell'uno esercito e nell'altro uomini incorrotti, che anzi ve n'erano molti, ma non avevano autorità, perchè il malo esempio dominava, e tra i repubblicani erano chiamati aristocrati, come se gli amatori della libertà si debbano conoscere dagli stupri e dalle rapine. Le case s'incendevano, gli alberi fruttiferi si atterravano, le ricolte preziose si sperdevano dagli sfrenati forestieri: i cavalli dei ricchi si rubarono dai repubblicani, perchè, come dicevano, erano cavalli di aristocrati; i cavalli, e gli altri animali da tiro e da soma appartenenti ai villici s'involavano dai repubblicani e dagl'imperiali, perchè erano, come dicevano, animali di spie; e tant'oltre procedè questa rapina, che le mosse militari ne divennero tarde e difficili per la mancanza di bestie. Il male era ancora peggiore nelle bovine, parte scialacquate dalla licenza, parte consumate da un morbo epidemico gravissimo. Pubblicavansi dai generali ordini e regole per frenare tanta rabbia, ma vano era il proposito, perchè quando si veniva alla esecuzione, si andava molto rimessamente, essendo i capi intinti. Buonaparte poi, quantunque facesse qualche dimostrazione in contrario, dava a' suoi la briglia sul collo, e comportava loro ogni cosa, per farsegli più suoi pei disegni avvenire. A questo tempo medesimo gli eserciti di Francia governati sul Reno da Moreau e da Jourdan, assai diversi dal buonapartiano erano per moderazione, e per rispetto ai vinti. In fatti venne in Italia dal Reno la schiera di Bernadotte, che temperatamente portandosi, e con maggior disciplina delle altre procedendo, era cagione, che a gara le città italiche in presidio la chiamassero. Per questo le compagne la chiamavano la schiera aristocratica, e vi furono delle male parole, e dei peggiori fatti in questo proposito. Di tante enormità si lamentava il veneziano senato a Vienna, si lamentava a Parigi; estorquere, gridava a Francesco imperatore, i comandanti imperiali dai sudditi veneti con minacce nella vita, e con dar in cambio semplici ricevute, quantità esorbitanti di provvisioni; avere saccheggiato Villanova con uccisione di parecchi abitatori, avere saccheggiato Salò e Fontanaviva, e molte altre terre del Veronese e del Vicentino; essere la licenza dell'imperiale esercito, ovunque passava, incomportabile, e se nella sua prima giunta a Bassano aveva mostrato qualche moderazione, sapere le desolate sponde dell'inferiore Brenta in quanta sfrenatezza si fosse cangiata la prima temperanza. Nè portarsi da lui maggior rispetto ai particolari innocenti, che allo stato amico: avere ad onta della professata neutralità assaltato i Francesi in Brescia, uccisone alcuni, imprigionatone molti, cacciato i restanti con forza, e con pericolo d'incendio e di sacco di quella popolosa città; avere minacciato di atterrare violentemente le porte di Verona, se presto non gli fossero aperte; avere altresì con volere resistervi dentro ai Francesi fatti più forti, posto a gravissimo ripentaglio tutta la terra; vincitore, saccheggiare per insolenza, vinto per rabbia; se aveva, domandare per ladroneccio; se non aveva, domandare per bisogno: in ambi i casi rapire con violenza; accusare i Francesi per imitargli, accusare i Veneziani, come partigiani dei Francesi per rubargli: le opinioni non fare; segno essere alle cupide soldatesche così i pacifici cittadini, come i parziali di Francia: non fare la dignità; le chiese contaminate, i parochi insultati, le municipali sedi spogliate e rotte, nè sapersi più discernere, se gl'Imperiali volessero la salute, o la perdizione di Venezia; cotali essere le opere degl'imperiali soldati. Le giustissime querele del senato Veneziano porte a Vienna non fruttarono, perchè furono passate o con silenzio sprezzatore, o con promesse inutili.
Nè meno lamentevoli voci, nè meno vere gittava per mezzo del nobile Querini a Parigi, i detestabili fatti del buonapartiano esercito nella terraferma veneta narrando: avere saccheggiato la dogana pubblica in Desenzano; avere a Castello Lagusaro rapacemente spogliato le stanze della guardia veneta, minacciato barbaramente nella vita il paroco, ucciso una miseranda vecchia, saccheggiate le case, violate le donne; sperperate essere in fondo le provincie Bresciana e Veronese; Bassano non aver più da vivere; pure non cessare le sforzate tolte, e chi s'indugiava alla Francese impazienza, essere ucciso; fumare da ambi i lati le terre arse dei Lezini monti; Lubiara, Corrodetto, Albarè di Gardezzana, il contado tutto di Verona essere desolati; andare raminghe le genti fameliche per la rapina violenta dei loro averi; trecento famiglie all'estremo ridotte dal sacco errare squallide e nude per iscoscese montagne; Este, e Montagnana soprattutto portare i segni del repubblicano furore; ivi una povera donna, a cui la natura aveva fatto dono infausto di bellezza, e vicina al termine della sua gravidanza essendo, chiamata da soldati brutalissimi agli ultimi oltraggi, avere fra doglie orribili cessato di vivere; il misero marito desideroso di sottrarla dalla sfrenata cupidigia, avere avuto un braccio reciso dagli oltraggiatori dell'infelice moglie; avere il repubblicano esercito di Francia, quale furiosa tempesta, calpestato ogni cosa ad Arcole, a Ronco, a Tomba, a Villafranca, le terre tutte fra l'Adige e il lago; campagne devastate, granai dispersi, cantine vuotate, cavalli, buoi, animali d'ogni spezie rapiti, mobili involati o distrutti, case rovinate od arse, vergini violate, santuarj profanati, vasi sacri rubati, abitanti, alcuni uccisi, inumerabili spogliati e ridotti ad errare raminghi, coi teneri figliuoli loro asilo e sussistenza mendicando. Questi essere gli effetti della presente guerra, i quali parrebbero anche incredibili, se le voci stesse di tutto il Francese esercito non gli attestassero: eppure non esser mai mancata qualunque comodità alle genti Francesi; l'ospitalità la più amichevole essersi per la parte Veneta e sempre, ed in ogni luogo mostrata; avere i generali, gli ufficiali, i commissarj, i famigliari loro, i soldati stessi trovato le case aperte per accorgli amorevolmente, per trattargli umanamente; essersi vedute intiere famiglie di regolari, di vergini sacre, ed anche di semplici particolari cedere ai nuovi ospiti il proprio tetto; chiamargli a parte delle mense e di ogni comodo loro; avere sempre abbondato ogni sorte di provvisioni; avere il governo sempre, e non invano esortato i sudditi a sopportare pazientemente tante calamità; essersi i sudditi con rassegnazione incredibile mostrati obbedienti alle esortazioni, ma ciò non giovare; più si concedeva, più domandarsi; maggior cortesia si usava, maggiore violenza adoperarsi; le più gentili persone svillaneggiate da una soldatesca insolente; ai modi più ingenui corrispondersi con inumani oltraggi; la nobile Verona diventata un quartier sucido di soldati tutta, venire per la forestiera contaminazione a schifo ai Veronesi stessi le antiche e dilette stanze loro: certamente, dappoichè i miserabili uomini trattano la guerra, non mai essersi dimostrata dall'un canto tanta pazienza, non mai dall'altro tanta barbarie, e peggio, che gli oppressori chiamavano la pazienza perfidia, la barbarie libertà. Così periva sotto nome di amicizia la misera Venezia, non solo senza gratitudine da parte di coloro che si succiavano le sue sostanze, ma ancora senza compassione; e per ristoro finalmente fu fatto vendita e compra di lei dai feroci saccheggiatori, non meno cupidi di rapire, che vogliosi di tradire. Dolevasi il senato al direttorio; dolevansi i magistrati a Buonaparte, dolevansi ai Tedeschi capitani: rispondevasi per gli uni e per gli altri non solo freddamente, ma anche ironicamente, esser questi mali inseparabili dalla guerra: esser veramente Venezia infelice; si ordinerebbe, si provvederebbe, e gli ordini, e le provvisioni erano, che diveniva ogni dì più insopportabile l'insolentire dei soldati. Io non so quello, che il mondo corrompitore o corrotto sarà per dire di queste mie narrazioni; questo so bene, che l'universale dei Francesi e degli Austriaci, anzi tutti, eccettuatone solamente quelli, che credono che la gloria consista nell'opprimere le nazioni forestiere, danneranno con tutti i buoni sì detestabili eccessi, e di perpetuo biasimo noteranno coloro che vi ebbero colpa.
Nè meglio erano rispettate da coloro, che accusavano Venezia di non esser neutrale, le sostanze pubbliche che le private, come se chi reca ingiuria, avesse a stimarsi offeso, e chi la riceve, offenditore. Verona massimamente era segno alla repubblicana furia. Vi rompeva a capriccio suo Buonaparte le porte delle fortificazioni, toglieva per forza le chiavi della porta di San Giorgio all'uffiziale Veneto, portava via dalle mura le artiglierie di San Marco, poneva le sue là dove voleva, prendeva le armi, prendeva le munizioni ammassate nell'armerìa e nelle riposte Veneziane, demoliva i molini, ardeva le ville della campagna di Verona, quando credeva che a' suoi bisogni importasse; occupava finalmente i forti, vi ordinava mutazioni e lavori, e vi piantava le insegne Francesi. Chiodava poi a Porto-Legnago le artiglierie Veneziane, tagliava i ponti levatoi, rompeva i ponti del fiume; occupava forzatamente il castello di Brescia, e postovi presidio a grado suo il fortificava. Quindi, mandato innanzi a Bergamo Cervoni per ispiare e per sopravvedere i luoghi, quantunque nessuna strada fosse aperta per quelle valli a calate di Tedeschi, occupava improvvisamente con sei mila soldati la città ed il castello di Bergamo, dove attese, come a Brescia, a fortificarsi. Involava, armata mano, una cassa dell'arciduca di Milano depositata in casa del marchese Terzi sul territorio Bergamasco, e finalmente levava le lettere dalle poste Veneziane, aprendole per vedere che cosa portassero; le quali cose tutte erano forse utili alla sicurezza dei Francesi, ma certamente rompevano la neutralità di Venezia, ed autorizzavano questa repubblica a romperla dal canto suo, ed a fare una subita presa d'armi contro chi con tanta violenza, e con violazione sì manifesta del diritto delle genti, turbava il suo vivere quieto.
Considerando io l'aspro governo fatto degli stati Veneziani, non so con qual nome chiamare l'enormità di quel Rewbel, uno dei quinqueviri di Parigi, il quale si lamentava che i Veneziani non amassero i Francesi: il che vuol dire, che a posta di quei repubblicani e' bisognava non solo ringraziare, ma anche amare chi crudelissimamente vi straziava.
Trattati a questo modo gli stati della repubblica di Venezia sì dagli Austriaci che dai Francesi, apparivano intieramente mutati da quello che erano prima che quella feroce illuvie gli sobbissasse. Le opere più pregiate della umanità perivano perchè divenute segno di scherni barbari; quello che s'era durato un secolo a edificare, un solo momento distruggeva; quello che dalle più estreme regioni si veniva curiosamente visitando, come fregi eccellenti della rispettata Italia, era guasto da chi si vantava di avere a cuore questi preziosi ornamenti del vivere civile; nè la necessità serviva di scusa, perchè per giuoco si guastava, non per vivere, nè per difesa. Quanti sontuosi palazzi sconciati per bruttura, o laceri per ruina! quanti nobili arredi involati o guasti! quante onorate statue mutilate o rotte! Quanti alberi o di dolci frutti carichi, o di peregrina bellezza risplendenti, per trastullo atterrati dalle sfrenate soldatesche venute d'oltre Alpi, o d'oltre il Norico a conculcare l'innocente Italia! Là dove nacque Virgilio, là dove nacque Catullo, là dove nacque l'infelice Bonfadio, là dove in dolce filosofia se n'era stato meditando il dolcissimo Bembo, erano i maggiori segni della moderna barbarie, stampati da chi pretendeva di riformare, o da chi pretendeva di mantenere il vivere sociale. Peggio poi, che a chi si lamentava, si rispondeva che la guerra è migliore della pace, la distruzione della conservazione, la disperazione della tranquillità, e se non si rispondeva con pessime parole, si rispondeva con peggiori fatti; il sangue si mescolava alle ruine. Sorgevano in ogni lato pianti e lamenti, donde poco innanzi solo si udivano i canti di un popolo felicissimo, del quale se di tanto era cambiata la condizione, non era in lui colpa alcuna, poichè la colpa era tutta in una feroce querela nata in lontani paesi fra popoli amatori della guerra. Le amene spiagge del Benaco, le molli sponde della Brenta, ornate le une e le altre di quanto hanno la natura e l'arte di più grazioso e di più magnifico, giacevano ora desolate ed arse. Nè si poteva mostrar compassione, perchè chi la mostrava, era stimato nemico d'Austria o di Francia: le preghiere cagionavano le ingiurie, i pianti gli scherni, la bellezza gli oltraggi, la forza le uccisioni. In mezzo a sì orribile strazio di sostanze e di persone, chiamavansi, per aggiunta, gl'Italiani perfidi e vili, come se sincerità fosse il rubare e l'ammazzare sotto titolo d'amicizia, e se coraggio fosse l'uccidere i deboli ed i traditi. Certo stupiranno i posteri dei mali fatti commessi, ma stupiranno vieppiù delle promesse fatte, e se il secolo avrà nome di crudele, lo avrà ancora più d'ingannatore. Così periva Venezia: che s'ella poi, per un qualche sussidio al suo estremo caso, voleva chiamare a' suoi stipendi un capitano riputato in Europa, se ne sdegnava Vienna, e se voleva ranuare quattro cannoni sul lido, se ne sdegnava Parigi: le accuse di perfidia tosto si proferivano da coloro, che si facevano mezzo principale per distruggere a Venezia la perfidia.
Intanto gli atroci fatti inasprivano gli animi, e gli riempivano di sdegno, parte contro il senato, come se senza difesa desse in preda i popoli a nemici crudeli, parte contro i commettitori di tanti scandali. Non mai dai Veneziani si erano amati i Tedeschi, troppo diversi per indole e per lingua, ed anche la prossimità, come suole avvenire, gli alienava: ma in ogni tempo erano stati amatori del nome Francese, ed è certo, che fra tutte le nazioni del mondo la Francese era quella, che la Veneziana con più benevolenza abbracciava. Ma per l'opere ree di Buonaparte, e di chi a lui aderiva, molto si era rimutata questa inclinazione dei Veneziani, e se odiavano i Tedeschi, certamente non amavano i Francesi. Da tutto questo ne nacque, che le popolazioni della terraferma, tocche da quel turbine insopportabile domandavano al senato ordini, armi e munizioni per difendersi con la forza da coloro, presso ai quali l'amicizia era mezzo, non impedimento al danneggiare. Il senato, piuttosto rispettivo che prudente, cercava di mitigar gli animi, e quanto alle armi andava temporeggiando, perchè sperava, che qualche caso di fortuna libererebbe i dominj da ospiti tanto importuni, e perchè temeva che chiamati i popoli all'armi, non fosse più padrone di regolare e frenare i moti incominciati, con grave pregiudizio e pericolo della repubblica. Solo accettava le offerte della provincia Bergamasca, la quale in questo procedeva con più calore delle altre, sì per la natura ardita de' suoi abitatori, e sì per l'autorità del potestà Ottolini. Offeriva trenta mila armati pronti a mettersi a qualunque pericolo per la patria, ov'ella della opera loro abbisognasse. Ma il senato, che conosceva bene la natura dei popoli armati, massimamente in mezzo a tante occasioni di sdegno, temendo che più oltre procedessero, che l'umanità ed il bisogno della patria richiedevano, aveva sottoposto a certo ordine quella moltitudine, partendola in compagnie, e ponendo a reggerle uomini prudenti. Raccomandava al tempo medesimo la moderazione, e non si muovessero, se non quando la necessità e gli ordini del senato gli chiamassero. La quale raccomandazione fu poi imputata al senato dagli storici parziali, come pruova di perfidia, come se avesse dovuto abbandonar senza freno all'impeto suo una moltitudine armata, e giustamente irritata da tante ingiurie. Queste sono deliberazioni, che in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni caso si fanno dai governi, nè si può comprendere come possano fare diversamente. Ma il secolo, e chi loda il secolo, volevano e vogliono, che quello che deliberava il senato Veneziano, o che armasse o che non armasse, o che parlasse o che tacesse, tutto gli fosse imputato a delitto; e più volte Buonaparte gli disse, voi dovete armare, e più volte ancora, voi non dovete armare. Contro chi poi fosse allestito tutto quell'apparato delle Bergamasche armi, facile è il giudicare, poichè certamente era contro coloro, che sotto spezie di amicizia trattavano Venezia da barbari, e sotto spezie anche d'amicizia la volevano tradire. Ma queste armi si apprestarono dopo venuta la barbarie, ed a questa unicamente, ed agli autori suoi debbonsi imputare, se non forse si voglia credere, come odo che alcuni uomini schifosi credono, che Venezia fosse obbligata, per far piacere ai forestieri, di lasciarsi straziare e distruggere, non solo senza difesa, ma ancora senza lamento. Intenzione poi del senato era di non adoperarle, se non quando i distruttori si fossero accinti a mandar ad effetto il pensier loro. Adunque se alcuno sarà per biasimarle, farà segno, ch'ei non sa che cosa siano nè giustizia nè patria.
Ritornando ora al filo della storia, seguiteremo a raccontare, che non così tosto il senato ebbe avviso delle minacce fatte da Buonaparte il dì trentuno maggio in Peschiera al provveditor generale Foscarini, si accorse che non vi era più tempo da perdere per apprestar le difese, non già per la terra ferma quasi tutta disarmata ed occupata dai repubblicani, ma almeno pel cuore stesso della repubblica, con assicurare tutte le parti dell'estuario con armi sì terrestri che marittime. Abbiamo narrato, come il generale repubblicano avesse affermato con modi peggio che amichevoli, perchè erano incivili, che aveva ordine dal direttorio di ardere Verona, e d'intimare la guerra ai Veneziani. A tale gravissimo annunzio pervenuto celerissimamente per messo a posta spedito da Foscarini, si adunava il senato a tutta fretta, e con voti unanimi decretava, si comandasse al capitano in golfo, che si riducesse tosto con tutta l'armata della repubblica nelle acque di Venezia; si levassero incontanente in Istria, in Dalmazia, ed in Albania, in quanto maggior numero si potessero, le cerne, ed ai Veneziani lidi si avviassero; i reggimenti stessi già ordinati, che avevano le stanze in quelle province, senza indugio alcuno alla volta di Venezia s'indirizzassero; si chiamassero nelle acque dell'Istria tutte le navi che si trovavano nell'Ionio sotto il governo del provveditor generale da mare, e con queste anche le due destinate a portare il nuovo bailo della repubblica a Costantinopoli. Queste deliberazioni furono prese il dì primo di giugno. Siccome poi l'unità dei consigli è il principale fondamento dei casi prosperi, così trasse il senato, il dì due dello stesso mese, a provveditor delle lagune e lidi Giacomo Nani, dandogli autorità e carico di armare nel modo che più acconcio gli paresse, tutto l'estuario. Gli diede per luogotenente Tommaso Condulmer, affinchè avesse cura particolare delle navi sottili allestite per custodia dei lidi, e delle bocche dei fiumi. Ebbero queste provvisioni del senato presto effetto; perchè in poco tempo si videro fortificati, e presidiati i posti principali di Brondolo, Chiozza, Portosecco, San Pietro della Volta, lido di San Niccolò, Malamocco. A Brondolo specialmente, dove mettono foce i fiumi Adige, Po, e Brenta, furono fatti stanziare i bastimenti più sottili. Già arrivavano, siccome quelle che erano state mandate con molta sollecitudine, in Venezia e nei circonvicini luoghi le soldatesche del mare Ionio, dell'Albania, e della Dalmazia; piene ne erano le case, pieni i conventi dei lidi, piene le isole vicine alla metropoli. Perchè poi l'erario potesse bastare a questo nuovo stipendio, fu posta una tassa sui beni stabili di Venezia, e del dogado a cui diedero il nome di Casatico. Per cotal modo Venezia spinta dalla vicina guerra intimatale da Buonaparte, si apprestava a difendere l'estuario, nel quale consisteva la vita della repubblica.
Noi siamo abborrenti per consuetudine e per natura dal biasimare chi scrive, e meno ancora chi scrive storie. Ma l'amore della verità, e la innocenza di Venezia ci spinge a notare, che uno storico dei nostri tempi, lasciandosi trasportare ad una parzialità tanto più degna di riprensione, quanto è diretta contro il tradito ed il misero, si lasciò uscir dalla penna, troppo incomportabilmente scrivendo, che queste provvisioni del senato Veneziano furono fatte prima delle minacce dei Francesi. Eppure è chiaro e manifesto a chi vorrà solamente riscontrar le date, che le provvisioni medesime furono fatte dopo, ed a cagione delle minacce intimate da Buonaparte al provveditor generale Foscarini; imperciocchè minacciò Buonaparte il dì trentuno maggio, deliberò il senato il dì primo, e secondo giugno. Il perchè l'allegazione dello storico è contraria alla verità, e crudele a Venezia; che se poi egli pretendesse che Venezia, sentite le mortali minacce di Buonaparte, non doveva armarsi, staremo a vedere s'ei dirà, che la Francia non doveva armarsi, sentite le minacce di Brunswick e di Suwarow. Quanto poi ai sommi geografi così Francesi, come Italiani, i quali sostengono l'opinione del citato storico, saria bene, che ci dicessero quale maggiore distanza vi sia, o qual maggiore difficoltà di strade tra Peschiera e Venezia che tra Parigi e Roano. Saria anche bene, che ci dicessero, caso che nascesse oggi in Roano un accidente, che minacciasse di totale ruina lo stato della Francia, se il governo non delibererebbe in proposito il dimane a Parigi. Veramente, quando l'uomo vuol impugnare la verità conosciuta, diventa ridicolo. La distruzione della repubblica di Venezia è stata una grandissima sceleraggine, e non fa onore al secolo il volerla giustificare. Sonci poi alcuni in Italia, che dicono, e credo eziandio, che stampano, che Venezia perì, e meritava di perire perchè seguitò le massime del Sarpi. A questo io non so che cosa rispondere, se non forse, che ella ha avuto torto di voler punire colle patrie leggi due ecclesiastici sceleratissimi, e che là doveva esser lecito a chi portava chierica, l'infamare le rispettabili donne, ed il commettere assassinj.
Il medesimo storico, a fine di pruovare la parzialità dei Veneziani verso l'Austria, narra come, non così tosto dimostrò l'imperatore desiderio, che la repubblica non conducesse a' suoi stipendi il principe di Nassau, il governo Veneziano se ne rimase. Ma la verità è, che il consiglio di condurre il principe fu dato dal provveditor delle lagune Nani, e che questo consiglio era già stato rifiutato, non già dal senato, al quale non fu mai riferito dai Savi, ma sibbene dai Savi medesimi molto innanzi che l'imperator d'Austria manifestasse il suo desiderio. Mal volentieri mi sono io indotto a parlar di questo fatto, perchè quando anche fosse vero ciò che è falso, non si vede come per una condiscendenza di Venezia verso l'imperatore si dovesse venire alla distruzione e vendita di lei.
Al tempo stesso, in cui il senato ordinava l'apparato militare delle lagune, temendo che la Francia s'insospettisse con credere, ch'ei pensasse di portar più oltre di una legittima difesa, in caso di assalto, i suoi provvedimenti, scriveva un dispaccio al governo Francese, col quale andava esponendo, che mentre la repubblica di Venezia se ne viveva tranquilla all'ombra della più puntuale neutralità, e della sincera e costante sua amicizia verso la repubblica Francese, erano gli animi del senato rimasti vivamente traffitti dal colloquio avuto dal generale Buonaparte col provveditor generale Foscarini, dal quale si poteva argomentare un'alterazione nell'animo del direttorio verso Venezia: che dal canto suo il senato si persuadeva di non aver dato occasione a tale alterazione che era conscio specialmente di non meritare alcun rimprovero per l'occupazione violenta fatta dall'armi Austriache di Peschiera, contro di cui non era restato alla repubblica disarmata, e solo fondantesi sulla buona fede delle nazioni sue amiche, altro rimedio che la più ampia e solenne protesta, e la più efficace domanda della restituzione, siccome infatti non aveva omesso nel momento stesso di fare; potere lo stesso general Buonaparte rendere testimonio dello aver trovato inermi e tranquille le città Venete, e della prontezza, con la quale i governatori Veneti ed i sudditi somministravano, anche in mezzo alle angustie dei viveri, quanto era necessario al suo esercito. Aggiungeva a tutto questo il senato, essere suo costante volere il conservare la più sincera amicizia colla Francia, e pronto a dare quelle spiegazioni, ed a fare quelle dimostrazioni dei sentimenti propri, che fossero in suo potere per confermare quella perfetta armonìa che felicemente sussisteva fra le due nazioni.
Frattanto il ministro Lallemand, e questa fu una nuova ingiuria fatta a Venezia, domandava al senato, perchè ed a qual fine si apprestassero quelle armi, come s'ei non sapesse, che il perchè erano gl'improperj e le minacce di Buonaparte a Foscarini, e che il fine era il difendersi in una guerra, che lo stesso Buonaparte aveva dichiarato voler fare fra pochi giorni a Venezia. Si maravigliava inoltre il ministro, che simili apprestamenti guerrieri allora non si fossero fatti, quando instavano presenti gli Austriaci sul territorio della repubblica, come se egli non sapesse, che l'Austria non aveva mai minacciato di guerra Venezia, come la Francia per mezzo di Buonaparte, aveva fatto. Richiedeva finalmente, si cessassero quelle armi dimostratrici di una diffidenza ingiuriosa, e contraria agl'interessi ed alla dignità della repubblica Francese: il che significava, che si voleva far guerra a Venezia, e che non si voleva ch'ella si difendesse.
Rispondeva pacificamente il senato, le armi, che si apprestavano, essere a difesa, non ad offesa; voler solo tutelare l'estuario, non correre la terraferma; pacifica essere Venezia, volere vivere in amicizia con tutti; in mezzo a tanto moto, ad opinioni tanto diverse, a discorsi tanto infiammativi, a moltitudine sì grande di forestieri non conosciuti, che abbondavano nella città, dovere il governo pensare alla quiete ed alla sicurezza del pubblico: a questo fine essere indirizzati i nuovi presidj, ed a fare, che siccome l'intento suo era di non offendere nissuno, così ancora nissuno il potesse offendere: sperare, che il governo Francese meglio informato dei veri sensi della repubblica, deporrebbe qualunque pensiero ostile contro di lei, e persevererebbe, ora che la Francia tanto era divenuta potente, in quella stessa amicizia che il senato le aveva costantemente, ed a malgrado di tutte le suggestioni ed instigazioni contrarie, conservata, quando la Francia medesima era pressata da tutte le potenze d'Europa; che finalmente pel senato non istarebbe, che un sì desiderato fine si conseguisse: a questo tutti i suoi pensieri, a questo tutti i suoi consigli, a questo tutte le sue operazioni dirizzare.
Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire con esso lui sulle faccende comuni, ch'egli era grato al senato per la gentile, e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere nè più sincera, nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita a Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei pubblici sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto egli aveva sempre rappresentato: insomma ei si chiamò contento intieramente, e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il dieci luglio; eppure questo medesimo giorno, noi lo diremo, giacchè siamo serbati a raccontare queste contraddizioni fastidiose, egli scriveva al ministro degli affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine di far odiare dal popolo i Francesi; che il generale Buonaparte, richiesto di rimborsi, aveva con ragione risposto, che i Francesi erano entrati nei diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che tenevano per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi occupati. Tanta poi è la forza della verità anche in coloro che vorrebbero servire ad interessi contrari, che il medesimo Lallemand, scrivendo pochi giorni dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo, che il governo Veneziano si era mostrato molto avverso alla rivoluzione Francese, ed aveva nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio contro i Francesi; ma che in quel momento era vero del pari, che sincere erano le sue protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la Francia; che le male impressioni lasciando luogo alla considerazione de' suoi veri interessi, lealmente desiderava veder rotto quel giogo Austriaco tanto grave a lui ed a tutta Italia; che per verità non si poteva sperare che si ajutasse con le proprie mani, ma che questo poteva bene la Francia promettersi di Venezia, che non tanto che ella contrariasse coloro che ne la volevano liberare, desidererebbe nell'animo suo felice compimento all'impresa loro; che, quanto all'armare, quantunque dubbiosi potessero esserne i motivi, pareva a lui, che tale qual era, non potesse far diffidare della fede Veneziana; che troppo le armi apprestate erano deboli da dare giustificata cagione di temere; che con gli occhi suoi propri vedeva, che i preparamenti che si facevano, non avevano altro fine, che quello di custodire le lagune ed i lidi vicini, e che insomma tutto quell'apparato non aveva in se cosa, che fosse ostile contro la Francia. Quest'era il testimonio di Lallemand, che ocularmente vedeva. Pure gridossi per questo medesimo fatto dell'armamento delle lagune, guerra e distruzione a Venezia. Così Venezia, segno di tanti inganni, se armava, era stimata nemica, se non armava, perfida; i tempi tanto erano perversi, che anche in chi conosceva la verità, si annidava la calunnia; la pace non le era più sicura della guerra, nè la guerra della pace, e l'estremo fato già la chiamava.
Tali quali abbiam narrato, erano i pensieri e le opere di Buonaparte e del direttorio verso la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi disegni furono interrotti da una nuova inondazione di armi imperiali in Italia.