SOMMARIO
Pensieri di Buonaparte. Intenzioni del Direttorio circa le potenze d'Italia. Spoglio delle opere egregie delle belle arti: lusinghe ai dotti ed ai letterati. Tregua col duca di Parma. Come trattato il duca di Modena. Accidenti del Milanese; imposizioni e rapine; mala contentezza dei popoli. Moto pericoloso nel Pavese, massimamente a Binasco ed a Pavia. Sacco di questa città accaduto ai venticinque e ventisei di maggio del 1796. Buonaparte si volta contro Beaulieu, e dopo nuove battaglie, lo sforza a ritirarsi in Tirolo. Niccolò Foscarini nominato dai Veneziani provveditor generale in terra ferma. Sue paure. Minacce, che gli fa Buonaparte. Quel che restava a farsi dai Veneziani in sì pericoloso ed importante caso. Debolezza di Foscarini. Buonaparte in Verona. Minacce contro Verona per aver dato ricovero al conte di Lilla. Il castello di Milano si arrende alle armi Francesi. Rivoluzione di Bologna. Giuramento prestato dai Bolognesi in presenza di Buonaparte. Moto di Lugo, e suoi accidenti. Spavento in Roma. Tregua fra Buonaparte e il papa. Esortazioni del pontefice ai suoi sudditi ed ai Francesi. Sforzi e solenni protestazioni del re di Napoli. Tregua fra il re e Buonaparte. Occupazione di Livorno. Ree intenzioni di Buonaparte rispetto al gran duca di Toscana. Nuovo moto dell'Austria a ricuperazione delle sue possessioni d'Italia: vi manda il maresciallo Wurmser con un esercito assai grosso. Il maresciallo rompe le prime schiere di Buonaparte, fa risolvere l'assedio di Mantova, entra in questa piazza, e la rinfresca d'armi, di soldati e di vettovaglie. Buonaparte raduna i suoi troppo sparsi. Moltiplici battaglie fra i due valorosi emoli. Battaglia di Castiglione combattuta il dì cinque agosto. Wurmser si ritira ai passi del Tirolo; i Francesi lo seguitano. Battaglia di Roveredo succeduta ai quattro settembre. I Tedeschi si ritirano ai più alti passi. Disegni di Buonaparte sopra la Germania; Wurmser gli storna, calandosi di nuovo in Italia per la valle della Brenta. Buonaparte lo seguita. Battaglia di Primolano e di Bassano. Il maresciallo valorosamente combattendo arriva finalmente in Mantova, che è di nuovo cinta d'assedio dai Francesi. Descrizione di Mantova. La Corsica si aliena dall'obbedienza degl'Inglesi, e torna sotto quella di Francia.
Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede nella città capitale degli stati Austriaci in Italia, si apparecchiava Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar il Mincio, e cacciando le genti Tedesche oltre i passi del Tirolo, vietare all'imperatore, che non mandasse nuovi ajuti per ricuperare le Province perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperto la occasione al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere verso le potenze Italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese, con darle in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio gli si convenisse, o al re di Sardegna, e all'imperatore, si taglieggiassero i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di altre ricchezze, che possibil fosse, si ricavasse. Nè in questo mostrava il Direttorio maggior rispetto agli amici che ai nemici. Nella quale risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta, e l'amicizia finta, e la necessità di assicurare l'esercito.
Voleva prima di tutto, che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito Alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i soldati, e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare, o restituire. «Usate, scriveva il Direttorio a Buonaparte, la occasione del primo terrore concetto dalle nostre armi, ed aggravate la mano sui popoli Lombardi per cavarne denaro. I canali e le altre opere pubbliche di quel paese siano anch'esse un po' tocche dalla guerra; ma si usi prudenza».
Nè qui finivano le parole crude rispetto alla miseranda Italia:
«Ite, scrivevano, e correte contro il gran duca di Toscana, che è servo degl'Inglesi in Livorno; ite, ed occupate Livorno; non aspettate che vi consenta il gran duca; il sappia quando voi già sarete padrone di quel porto; confiscatevi le navi e le proprietà Inglesi, Napolitane, Portoghesi, e di altri stati nemici della repubblica; sequestrate le proprietà dei sudditi loro; se il gran duca si opponesse, sarebbe perfidia, e sì allora trattate la Toscana come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria; comandate a quel principe, che ordini incontanente, che quanto ai nemici nostri si appartiene, sia in poter nostro posto, e risponda egli del sequestro: pascete le genti della repubblica in Toscana, e date in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale. Fate poi le viste di voltarvi verso Roma e Napoli per metter timore nel pontefice e nel re; assicurate Livorno con un forte presidio, e fate che sia scala a muovere la Corsica per ritorla al giogo della superba casa di Brunsvick-Luneburgo, e ridurla di nuovo sotto il dominio della repubblica».
Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara, poichè se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra, o d'Inglesi e di altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta, ed accordata col gran duca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole loro la sincerità, e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica, e fatta la pace con lei, e dato lo scambio per instanza del Direttorio al suo ministro conte Carletti per avere lui mostrato desiderio di visitare la reale figliuola di Luigi decimosesto testè uscita dal carcere del Tempio per esser condotta in Alemagna. Mandò il gran duca, in vece di Carletti, il principe don Neri Corsini, giovane ingegnoso, di buona natura, e di non mediocre aspettazione. Nè valsero a frastornare dalla felice Toscana la cupidigia dei repubblicani le dolci parole usate dal Corsini medesimo, quando fece il suo ingresso al direttorio, nè le parole magnifiche che gli furono date in risposta dal presidente. Nè io voglio dare a chi mi leggerà il fastidio, questi discorsi raccontando, di udire parole di adulazione inutili da una parte, e promesse d'amicizia infedeli dall'altra.
Era Genova stata straziata dalle armi Francesi e dalle armi Tedesche, e poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali, che dove mancavano le cagioni, s'inventavano i pretesti, ed il fine era non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da Genova, s'incominciò ad insorgere contro il governo Genovese, con dire che le turbazioni seguite contro i Francesi nei feudi imperiali confinanti con lo stato Genovese, e le uccisioni, che pur troppo sui confini dei territorj Piemontese e Genovese accadevano di soldati Francesi, se non erano opera espressa della signorìa, erano almeno troppo più rimessamente che si convenisse, da lei udite e tollerate; che le armi e gli stimoli alla sedizione nei feudi imperiali erano venuti da Genova, e che da Novi venivano le armi e gl'incentivi per assassinare i Francesi ai confini. Per la qual cosa scriveva con una insolenza incredibile Buonaparte al senato ch'era Genova il luogo, donde partivano gli uomini scelerati, che datisi alle strade intraprendevano i carriaggi, ed assassinavano i soldati Francesi, che da Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi, e munizioni da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini accoglieva, ancor bruttati di sangue Francese; che parte di questi orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva, che essa col tacere e col tollerare appruovasse opere tanto scelerate; che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti atti barbari, perciò arderebbe i comuni dove sarebbe ucciso un Francese; voleva che il governatore di Novi dal suo impiego si cacciasse, Girola da Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità, osserverebbe bene e puntualmente la neutralità, ma volere che la repubblica di Genova non fosse rifugio di gente malandrina. Allo stesso modo al governatore di Novi, persona moderata e dabbene, scrivendo, lo accusava di essersi fatto ricovero di assassini, e superbamente gli comandava, che arrestasse gli abitatori dei feudi imperiali che fossero nel suo territorio, e se nol facesse, avrebbe a far con lui; poscia vieppiù soldatescamente infiammandosi, ripeteva, arderebbe terre e case, dove gli assassini si ricoverassero.
Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè l'attribuire a se medesimi opere tanto nefande non era nè verità, nè dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato, era pericolo. Certo è bene, che per quelle strade si commisero contro i Francesi opere di molta barbarie, e certo è altresì, che Buonaparte doveva con quei più efficaci mezzi che potesse, aver cura de' suoi soldati, e porre la vita loro in salvo: ma che queste tanto terribili dimostrazioni ei facesse contro i Genovesi, meno per amor di salute verso i suoi soldati, che per occasione di muover querela contro di loro a fine di denaro, e forse di distruzione, sarà manifesto a chiunque farà considerazione, che questi omicidj ed assassinamenti, di cui con tanta ragione si querelava, non già solamente sul territorio Genovese accadevano, ma ancora, e molto più sul territorio Piemontese; imperciocchè i villici di quei confini tra Novi ed Alessandria, gente allora pur troppo solita al gettarsi alla strada, erano quelli massimamente, che, stando agli agguati, uccidevano i Francesi isolati: nel che intendevano bensì al rubare, ma molto più ancora al saziare nel sangue Francese l'odio che contro quella nazione avevano concetto. Eppure non fece il generale di Francia che un leggiere risentimento, e nissuna minaccia contro il re di Sardegna. La verità era, che nè il governo Piemontese, nè il Genovese erano rei di sì brutti eccessi, ma bensì la sfrenatezza di costume, che porta con se la guerra tanto nei vinti quanto nei vincitori, e l'odio di quei popoli contro il nome Francese. L'insolenza poi di accusare tutto un governo, composto di persone dabbene e temperato per tanti secoli, di prezzolare ed incitar i ladri ed assassini, non poteva procedere se non da un uomo sfrenato.
A queste minacce soldatesche succedevano le prepotenze Parigine. Comandava il direttorio a Buonaparte, s'impadronisse o di queto, se i Genovesi consentissero, o per forza, se ricusassero, di Gavi a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona: col medesimo pensiero già si era impadronito della fortezza di Vado; il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia più oltre procedendo, voleva il direttorio, che come prima avesse l'esercito repubblicano occupato il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia, mettesse in preda. Nè contento a questo, non dimenticato il denaro, nè risguardo alcuno avendo che il fatto della Modesta fosse accaduto non solamente senza saputa, ma ancora con sorpresa del senato di Genova, nè che già fosse stato composto in quattro milioni col governo di Francia, nè che la fermezza del senato nel contrastare alla prepotenza Inglese per serbar la neutralità fosse stata non solo vera, ma anche lodata dal consesso nazionale di Parigi, nè che finalmente molte fossero le molestie che per la serbata neutralità avevano ricevuto i Genovesi dagl'Inglesi, e tuttavìa ricevevano dai Corsi, comandava a Buonaparte, che domandasse vendetta, e milioni di contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro, che si erano mescolati in tale fatto, fossero come traditori della patria dannati: oltre a ciò voleva e comandava, che si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorj tutti i fuorusciti Francesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale.
Questi comandamenti, che un governo civile avrebbe avuto vergogna di fare ad una potenza del tutto serva, si era risoluto il direttorio di fare ad uno stato, di cui protestava voler riconoscere e rispettare l'indipendenza e la neutralità.
Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano, repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire, che volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore di certi pretesti vecchi, che già sussistevano, poichè non era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorj Veneziani. Poi prosperando vieppiù la fortuna delle armi repubblicane in Italia, insorse il direttorio con volere che Verona desse grossa somma di denaro in presto, a motivo che ella aveva accolto nelle sue mura Luigi XVIII, convertendo per tal modo in colpa un ufficio di pietà. Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava, che Venezia desse in presto dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questa detta alla repubblica Batava, che era debitrice di questa somma, a norma dei freschi trattati, alla Francia; il che era un farsi far presto per forza, e pagar a modo suo. Voleva oltre a ciò, e comandava, che si consegnassero alla repubblica tutti i fondi dei potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero nel porti Veneziani. Quest'erano le domande fatte dal direttorio alla repubblica Veneta, delle quali direi, ch'io non so s'egli desiderasse che fossero piuttosto negate che concedute, se non sapessi che neanco il concederle sarebbe stato salute per Venezia.
Quanto al papa, se volesse trattar d'accordo, si esigesse da lui, imponeva il direttorio, per primo patto, ordinasse subito preci pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che faceva il direttorio gran fondamento per l'autorità che aveva la sedia apostolica sulla opinione dei popoli sì Francesi, che Italiani. Si venne quinci in sul toccar il solito tasto del denaro, intimando desse venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli, che se pace volesse, badasse a cacciar da' suoi stati gl'Inglesi e gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro che nei Napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse l'entrarvi, nemmeno con bandiera neutrale. Sapesse poi il re, che col mantenimento dei patti ne andava la salute del regno.
Questi superbi comandamenti, che potevano bensì fare i potentati Italiani amici in sembiante di Francia, ma non veri, perchè mescolavano l'oltraggio alla forza, gli rendevano disprezzabili agli occhi del mondo, e davano timore di danni ancor maggiori, quando, distrutta intieramente la potenza dell'Austria, le armi repubblicane avessero inondato tutta l'Italia.
Vengo ora ad alcuni potentati minori, che non avevano fatto guerra con le armi alla Francia, perchè non ne avevano, e nemmeno avevano fatto pace, perchè la Francia essendo lontana e l'Austria vicina, temevano di ricevere o ingiuria o danno dai Tedeschi. Non ostante correndo la fama che avessero ricchezze, coloro che reggevano le faccende della repubblica sempre pronti ad abbracciare ogni apparente colore per involare quel d'altrui, avevano a loro volto le proprie cupidità. In conformità di questo voleva il repubblicano governo, che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del secondo per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di sangue. Quanto al duca di Modena, intenzione dei repubblicani era, che si aggravasse la mano sopra di lui per fargli sborsar denaro in copia, perchè aveva voce di averne, e perchè, avendo sposata l'unica sua figliuola ad un principe Austriaco, si presumeva, o si supponeva, che dipendesse molto dall'Austria. Lallemand, ministro di Francia a Venezia (a questo era serbata dai cieli la sua canuta testa) esortava, che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il Modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto ed era avaro; e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe. I frutti della lunga parsimonia di un principe non solamente ordinato allo spendere, buono, e previdente, ma ancora non nemico alla Francia nè per uso, nè per costume, nè per massima, erano destinati a cadere in mano di gente capace a dissipargli in poco d'ora.
Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà, che dai repubblicani di quei tempi si andavano fino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo ai principi vinti, dessero in poter dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando, esser venuto il tempo, in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia, e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dello avere spogliato l'Italia di tanti preziosi ornamenti; che se il rapire l'oro, l'argento e le sostanze dei campi era uso di guerra, non dirò comportabile, ma utile a nutrire i conquistatori, l'aggiungere alla preda statue e quadri, non poteva essere se non atto di superbia eccessiva, e disegno di vieppiù avvilire i vinti. Rispettarono i Francesi ai tempi andati nelle guerre loro in Italia questi frutti eccellenti dell'umano ingegno: Francesco primo re accarezzava con munificenza veramente reale gli operai, non rapiva le opere. Gli rispettarono nei tempi andati, e gli rispettarono nei moderni i Tedeschi. I repubblicani che allora reggevano la Francia, e che non avevano altro in bocca che parole di umanità, di civiltà, di rispetto verso le proprietà, d'amicizia verso i popoli, fecero quello, che uomini meno parlatori e meno ostentatori di dolci discorsi non avevano fatto. Ma lo spoglio piaceva loro, ad alcuni per l'amore della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempj Italiani: con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia.
In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le opere preziose da rapirsi, i più dolci andavansi confortando con la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose: i più severi poi, trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano predicando, che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Così questi buoni utopisti condotti da una inremediabile illusione, in mezzo agli ori e le gemme, di cui già risplendevano i capi repubblicani di Francia, ed al gran lusso in cui vivevano, andavano continuamente sognando Sparta, e conservandosi austeri ed inflessibili, facevano fede di quanto possa in animi forti e buoni una fissazione, che abbia in se l'immagine del bene.
Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buonaparte, che sapeva quel che si faceva, voleva, che se le opere più insigni delle arti servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri gli lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente, ed imponeva al suo generale, che ricercasse, e con ogni modo di migliore dimostrazione accarezzasse gli scienziati, ed i letterati d'Italia. Indicava nominatamente l'astronomo Oriani, uomo certamente non degno per bontà e per dottrina di essere accarezzato da un governo e da un capitano, che spogliavano la sua patria. Recava il generale ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni. Degli accarezzati alcuni adulavano parlando, altri sprezzavano tacendo, chi mostrò più forza fu l'eunuco Marchesi, che non volle cantare.
Egli è tempo oramai di esporre come i raccontati comandamenti, che finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una trepidazione nella corte di Parma, tanto maggiore quanto il duca aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i Francesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la divozione dei repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il volessero, a venire in poter loro. Così il duca si trovava del tutto a discrezione dei repubblicani, nè sapeva a quali patti questa gente vittoriosa consentirebbe ad accettarlo in amicizia. Nè stava senza timore, che per opera dei Gallizzanti seguisse qualche turbazione, non già ch'essi fossero o numerosi o potenti, ma il terrore rappresentava alle menti commosse questo pericolo più grave assai, che realmente non era. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare di assicurar gli stati con un accordo, che quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe ciò non ostante men grave, che la perdita di tutto il dominio. Tentò il ministro di Spagna di mitigare l'animo del vincitore; ma egli, che era assai meno sdegnato che avido, non voleva udire le proposte che gli si facevano, e non ammetteva che il duca avesse avuto luogo nel trattato di Spagna. Perciò domandava superbamente l'accordo, che ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie, e tavole dipinte di estremo valore. Adunque come si suol fare nei casi estremi da coloro che non sono più padroni di loro medesimi, fece il duca mandato amplissimo ai marchesi Pallavicini e della Rosa di trattare, accettando tutte le domande, quantunque immoderate, che si facessero dal vincitore.
In primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di Spagna il dì nove maggio in Piacenza. Non aveva il duca nè fucili, nè cannoni, nè altre armi, nè fortezze da dare, ma si obbligava a pagar in pochi giorni sei milioni di lire Parmigiane, che sono a un di presso un milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava oltre a ciò ad allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi, fra i quali il San Girolamo del Coreggio. Questi furono i patti che per la intercessione di Spagna ottenne il duca di Parma, i quali di quale natura siano, ognuno per se potrà giudicare. Nientedimeno trovo scritto, che il cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, opinava che e' fossero molto moderati. Mandava intanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità mandava le ducali argenterìe alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le sue. Così usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti Parmigiani e Piacentini, ritiratisi in Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia. Rappresentavansi spesso questi fuorusciti al generalissimo nelle sue stanze di Milano, ed ei gli accoglieva benignamente, e profferiva loro favori ed impieghi. Di questi alcuni accettavano, ed adulavano; altri repubblicanamente rifiutavano, affermando non volere altro che la libertà della patria loro: questi Buonaparte aveva per pazzi.
Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte de' suoi tesori; il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza, che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più fra quarantott'ore rispondessero del sì, o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi, e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro passando per gli stati del duca.
A questo modo fu trattato il duca di Modena, che non aveva mai commesso ostilità contro la Francia, sotto titolo ch'ei fosse feudatario dell'impero d'Alemagna; qualità assai vana, che a niuna soggezione verso il corpo germanico obbligandolo, il lasciava intieramente libero di accostarsi a quale potenza più gli venisse a grado. Di questo non fu mai imputato, e solo si mise in campo questo pretesto, quando giunse il momento dello spoglio.
Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati, e uomini o partigiani, o dipendenti da Francia, e di procacciar denaro e fornimenti, che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di stato, creava la congregazione generale di Lombardìa, ed al consiglio dei Decurioni surrogava un magistrato municipale, in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato. Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato, ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti.
Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardìa una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarj, e capi di soldati di torre per forza i generi necessari, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era, ch'ella cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati, e sul corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione la esecuzione: ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con sinistre insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti, e licenziavano i servitori, che, poco bene disposti in se per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarj ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi di ogni spezie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese. Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro, di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento, perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più, che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose.
Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano, massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini, come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi, con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi, furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria contro i forestieri, e contro chi gli favoriva.
A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso, od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi, facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case, perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove per mancanza di vitto era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivavano in questo punto i contadini, e congiuntisi coi cittadini aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per se, perchè sapevano che il popolo infuriato dà ugualmente contro gli amici e contro i nemici, e più volentieri contro chi ha ricchezze che contro chi non ne ha, o che volessero ajutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarj, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardìa, e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale Francese Haquin, il quale non sapendo di quel moto, se ne viaggiava a sicurtà verso l'alloggiamento principale di Buonaparte; nè così tosto ebbe posto il piede dentro le mura, che minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati Francesi, che disarmati ed incerti della vita o della morte se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto dai municipali nella parte più rimota del palazzo, e facevano ogni sforzo per sedare quel cieco impeto, che fremeva loro intorno. Ma ogni parola era vana, perchè il furore aveva cacciato la ragione. Finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e trovato Haquin lo voleva ammazzare; ma i municipali, facendogli scudo dei corpi loro, il preservavano. Nondimeno, ferito da bajonetta in mezzo alle spalle, il traevano per le contrade fra una calca immensa, e chi si avventava, come bestia feroce, contro di lui con orribili minacce, e chi con gli archibusi inarcati il voleva uccidere. Pure prevalse contro tanta furia la virtù dei municipali, che con memorabile esempio, e degno di essere raccontato nelle storie come caso meritevole di grandissima commendazione, amarono meglio esporsi al morir essi, che sofferire che avanti al cospetto loro il generale Francese morisse. Mentre alcuni si adoperavano per la salute di Haquin, altri s'ingegnavano di salvar la vita dei Francesi presi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Così non pochi Francesi, riscossi da un gravissimo pericolo, restarono obbligati della vita alla umanità di magistrati Italiani, che privi di armi altro mezzo non avevano per frenare un popolo fuor di se, che le esortazioni, e l'autorità del nome loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine, a Buonaparte, che ritornata Pavia a sua divozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli, e con le più instanti parole pregandolo, perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato, che a concitar il quieto, a uomini non usi a casi tanto strani, e che per una generosità molto insigne, e con pericolo proprio, erano cagione ch'egli e più di cencinquanta soldati Francesi superstiti pregare il potessero di dar la vita a coloro, ai quali erano della vita obbligati. Gran conforto è stato il nostro del poter raccontare l'atto pietoso di questo buono e valoroso Francese in mezzo a tante ruine, a tante stragi, a tante devastazioni, ed a tanti vicendevoli rimprocci, sempre condannabili, perchè sempre esagerati, della perfidia Italiana, e della immanità Francese.
Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia, non già perchè vi si temessero dai più i Francesi, avendo la rabbia tolto il lume dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano, che quella furia, per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della misera città. I giorni spaventevoli, le notti più spaventevoli ancora, ridotta quella sede nobilissima a dover perire o per furore degli amici, o per vendetta dei nemici. Così passarono le due notti dei ventitre ai venticinque: ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il giorno venticinque maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco. Spargevano, fossero i Tedeschi; ma i più nol credevano, ed incominciavano a trepidar dell'avvenire. I Pavesi soprattutto stavano molto atterriti, perchè all'estremo punto i villani non conosciuti, e di domicilio incerto, se ne sarebbero fuggiti; ma la città, bersaglio certo ad un nemico sdegnato, sarebbe stata sola percossa da quel nembo terribile.
Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a Lodi con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè quest'incendj più presto si spandono che non si estinguono, tornossene subitamente indietro, conducendo con se una squadra eletta di cavalli, ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione uguale alla rabbia, o forse volendo risparmiare il sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto applicando l'animo a far sicuro con la forza quello, che le esortazioni non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati, e gli teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i Binaschesi, facilmente gli rompevano, facendone una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco, l'arsero tutto: il funesto incendio indicava al mondo, che strage chiama strage, fuoco chiama fuoco, e che male con forche, e con bastoni, e da gente tumultuaria si resiste a bajonette, a cannoni, a battaglioni ordinati. Rimasero lungo tempo in essere le ruine affumicate e le ceneri accumulate dell'infelice Binasco, terribili segni a chi stava ed a chi passava.
Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e fattosi al balcone del municipale palazzo orava instantemente alle genti, che si erano affollate per ascoltarla. Rappresentava la disfatta intiera dei Tedeschi, la vittoria piena dei Francesi, la soggezione universale, l'incendio di Binasco, le repubblicane schiere avvicinantisi pregne di vendetta, Buonaparte già vicino, vincitore di tanti eserciti, e solito piuttosto a compatire a chi s'arrende, che a perdonare a chi resiste. Pensassero a Dio, che condanna ogni eccesso; pensassero alle mogli ed ai figliuoli loro oramai vicini a divenir orfani dei mariti e dei padri condotti al precipizio da un insensato furore; avessero risguardo a quell'antichissima città, sedia di tanti artifizj preziosi, di tanti palazzi magnifici, la quale nè munita, nè difesa da esercito guerriero, sarebbe tosto preda di gente forestiera chiamata a vendetta da un capitano invitto: già fumare Binasco, presto aver a fumare anche Pavia, se più prestassero fede ad una illusione manifesta, che alle parole vere di chi per costume, per grado e per età aveva l'ingannare più in odio, che la morte.
Così parlava l'arcivescovo desiderosissimo di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno, che le persuasive parole. Gridarono, non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai Francesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare nei Tedeschi era vano, e che i Francesi già stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura di armi e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte, ed atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna: si nascondevano i cittadini per le case. Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse: aspettava Pavia l'ultimo eccidio.
Entrava la cavallerìa della repubblica, correva precipitosamente, trucidava quanti incontrava: cento sollevati in questo primo abbattimento perirono. Entrava per la Milanese porta Buonaparte, e postovisi accanto con le artiglierìe volte contro la contrada principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestìo dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo spaventevole e miserando. Ma se periva chi andava per le vie, non era salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco, dava Pavia in preda ai soldati. Come prima si sparse fra i miseri cittadini il grido del dover andare a sacco, vi sorse tale un pianto, tale un terrore, tale una miseria, che avrebbe dovuto aver forza di piegare a pietà ogni cuor più duro. Ma le soldatesche, avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni non si ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone; e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Le stanze poco innanzi seggio sì gradito di domestica felicità, divenivano campo di dolore e di terrore. I padri e le madri vedevano in cospetto loro contaminate quelle vite, che con tanta cura nodrite avevano illibate e caste; ed il minor dolore che si avessero erano le perdute sostanze. Funesti vestigj si stampavano nei penetrali più santi, della forestiera rabbia. Quanti nobili palazzi desolati! quanti ricchi arredi spersi! quanti utili arnesi fracassati! ma più periva il povero che il ricco; perciocchè perdeva questi il mobile, piccola parte del suo avere, perdeva quello l'uniche sostanze che si avesse. Quest'erano le primizie della libertà. Al che se per Buonaparte si rispondesse, che il sangue de' suoi soldati trucidati, e la sicurtà del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nissuno sarà per negare ciò esser vero; ma ognuno aggiungerà dall'altro lato, che non era stato punto necessario che si espilasse il monte di pietà, nè che s'insultassero le persone, nè che si rubassero le campagne. Perlochè ragion vuole, che questi atti barbari siano dagli uomini imputati alla vera origine loro, siccome le imputa certamente il sommo Iddio, giusto estimatore delle opere dei mortali.
Scese intanto la notte del venticinque maggio, e coperse i fatti abbominevoli da una parte, il dolore e la disperazione dall'altra. L'oscurità accresceva il terrore; le miserabili grida che uscivano da luoghi reconditi e bui, facevano segno che vi si venisse ad ogni estremo, di cui più la umanità ha ribrezzo, e terrore. Così fra mezzo ad un confuso tramestio di voci disperate, alle minacce di chi, avuto già molto, voleva ancora aver di vantaggio, all'andar e venire di soldati correnti con preda, od a preda, ai lumi incerti, che di quando in quando splendevano funestamente fra le tenebre, si trapassava quella notte orribile. Nè pose l'alba del seguente giorno fine al pianto ed alle ingiurie. Solo la cupidigia del rapire, che non mai si sazia, continuava più intensa della cupidigia del contaminare, che si sazia, e se il sacco era tuttavìa avaro, non era più lascivo. Ma la luce rendeva più miserabile agli occhi dei risguardanti il guasto che era seguìto la notte; potevano i padroni giudicare di vista quale e quanta fosse stata la ruina loro. Piangevano: la soldatesca intanto od adunatasi nelle vuotate case, od assembratasi nelle riempiute piazze con esultazioni romorose, e con risa smoderate, e col bere, e col tracannare, e col raccontare, e col vantare come suole, con soldatesco piglio quello che aveva fatto, e quello che non aveva fatto, mandava fuori l'allegrezza concetta per una immensa ingiuria vendicatrice di una immensa ingiuria. Tal era l'universale dei soldati: ma noi non vogliamo che lo sdegno, e la compassione da noi sentita per opere tanto enormi, ci faccia dimenticare i pietosi uffici fatti da molti soldati Francesi in mezzo a confusione sì fiera e sì orribile. Non pochi furono visti che abborrendo dalla licenza data da Buonaparte, serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare; altri più oltre procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini, ed alle miserande donne, chiamate a preda od a vituperio dai compagni loro. Sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì strana contesa, pietosa ad un tempo e scelerata; ed io ho udito raccontare, non senza lagrime di tenerezza, a fanciulle castissime, come della illibatezza loro in sì estrema sventura state fossero a Francesi soldati obbligate. Alcuni così operarono per buona natura, altri tirati da compassione; poichè entrati nelle desolate case con animo di far sacco, visto lo spavento ed il dolore degli abitatori, si ristavano, e da infuriati nemici ad un tratto diventavano generosi guardiani e difenditori. Nè mancarono di quelli, i quali vedendo le donne svenute alle immagini atroci che agli occhi loro si appresentavano, posto in obblìo il primo intento di far preda, intorno ad esse si affaticavano per farle risensare, e riconfortarle, potendo in loro più la compassione che l'avarizia. Altri finalmente furono visti, i quali trasportati dall'impeto comune, e già poste a ruba le magioni altrui se ne venivano carichi di bottino, tornarsene subitamente indietro a far la restituzione delle rapite suppellettili, solo perchè soccorreva loro in mente la miseria di coloro ai quali rapite le avevano. Così, se in mezzo a tanta concitazione alcuni Francesi di perduta natura non si rimasero nè alle preghiere nè alle grida compassionevoli dei saccheggiati, si scoverse in altri od una bontà intemerata, od una compassione più forte dell'ira e della cupidigia: nel che tanto maggior lode loro si debbe, che ebbero a superar l'esempio. Nè si dee passar sotto silenzio, che se si fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano nel sangue. Il che non oserò già dire che mi rechi maraviglia; ma bene dirò, che mi par degno di grandissima commendazione, perchè il soldato poteva uccidere non solo impunemente, ma ancora utilmente. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle case dell'università, le quali furono da quel turbine preservate, quantunque in se avessero, massimamente il museo di storia naturale, molti capi di pregio, anche per soldati. Questo benigno risguardo si ebbe per comandamento dei capi; e certamente le generazioni debbono con gratitudine riconoscere Buonaparte dello aver fatto in modo che il rispetto verso gli studj e verso i sussidj loro trovasse luogo fra tanti sdegni. Più mirabile ancora fu la temperanza dei capi subalterni, od anche dei gregarj medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani, e di altri professori di grido, si astennero o pregati leggermente, od anche non pregati dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente il nome di scienza, e di virtù, anche negli uomini dati all'armi, ed al sangue!
Finalmente il mezzodì del giorno ventisei, siccome era stato ordinato da Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva fatto, non incrudelì di soverchio contro a coloro, che presi con le armi in mano ancora grondanti di sangue Francese, meritavano, secondo le leggi, come le chiamano, della guerra, che i repubblicani facessero a loro quello, che essi avevano fatto ai repubblicani. Un solo fu fatto passar per le armi in sul primo fervore a Pavia; poi altri tre, che portati all'ospedale, già vi stavano per le ferite avute, con mal di morte. Raccontarono falsamente le gazzette e le storie dei tempi, che i municipali, uomini tutti nobili, fossero stati castigati con la morte, perchè solo furono tolti d'ufficio, e con altri cittadini di maggior credito, in qualità di ostaggi, condotti in Antibo. Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni, ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro, e fuoco avrebbe.
Pavia percossa da tanta tempesta, se ne stette occupata molto tempo da uno stupore misto tuttavìa di spavento. Ma finalmente un vivere più regolato, quantunque non fosse senza molestia, le maniere piacevoli dei Francesi, soprattutto la mansuetudine di Haquin fecero di modo, che succedendo la sicurezza al terrore, ognuno tornasse all'opere consuete. Cominciavano intanto i Pavesi ad addomesticarsi con quei soldati, che avevano creduto tanto terribili per fama, e pruovato vieppiù terribili per atto. Siccome poi il primo e principale ornamento di Pavia era l'università, così il nuovo reggimento poneva cura, che ed ella si aprisse, ed i professori si accarezzassero. Secondavano il buon volere di chi governava i Francesi medesimi, particolarmente quelli, che non nuovi essendo nelle scienze e nelle lettere, onoravano e con ogni gentil modo accarezzavano Spallanzani, Scarpa, Volta, Mascheroni, Presciani, Brugnatelli, ed altri celebrati uomini, lume e splendore d'Italia. Fra il romore dell'armi sorgeva l'università di Pavia, e l'opera più bella di Giuseppe II imperatore era fomentata ed ajutata da coloro, che avevano cacciato i suoi successori da quelle loro antiche possessioni. Solo dispiacque la elezione procurata e fatta di Rasori alla carica di professore, perchè camminava, come giovane, con soverchio affetto nelle nuove cose, e quei professori, uomini gravi, prudenti e pratichi del mondo, amavano meglio chi si mostrava inclinato al conservare uno stato già pruovato, di coloro ai quali piacevano innovazioni d'effetto incerto.
Buonaparte, posato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni contro Beaulieu, che, come già fu per noi narrato, alloggiava con le reliquie delle sue genti sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che essendo padrone dei ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica Veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi territorj, doveva fra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni cosa presagiva aver a riuscire ostinate e micidiali. Vedeva il senato, che la terraferma quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva, che i Francesi si erano risoluti ad andar ad assalire il loro nemico, dovunque il trovassero. Impossibile era il prevedere quali avessero ad essere precisamente gli effetti del duro contrasto, che sulle terre Venete si preparava, ma certo era, che avrebbe portato con se accidenti di somma pernicie, perchè non più si trattava del semplice passo di un esercito che va ad altro destino, e che non avendo alcun timore, non occupa con stanze stabili le terre grosse, nè i luoghi forti; ma bene si era giunto a tale che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e l'altra per primo pensiero il procacciarsi i proprj vantaggi, anche a pregiudizio della neutralità Veneziana; perciocchè la salute propria, e la necessità di vincere sono più forti del rispetto, che si dee portare alla dignità ed ai diritti altrui.
Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di Bergamo, principalmente quest'ultimo, cittadino zelantissimo, d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui confini; e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave: ma le instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava, ed i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando il senato, che in un caso di tanta, anzi di totale importanza, le cose di terraferma fossero rette con unità di consiglj aveva tratto a provveditor generale in essa Niccolò Foscarini, stato ambasciadore a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già si mostrava pieno di spaventi, e di pensieri sinistri. Sperava il senato che Foscarini avrebbe potuto con la sua destrezza intrattenere convenevolmente i due capi nemici, e dimostrando loro la sincerità della repubblica, ottenere che inferissero il minor male che possibil fosse, a quelle terre innocenti. Confidava altresì che i popoli della terraferma, vedendo in una persona sola un tanto grado e tanta autorità, si confermerebbero vieppiù nella divozion loro verso la repubblica; perchè il mandare un provveditor a posta, affinchè vigilasse sulla salute loro, era testimonio che la repubblica non gli abbandonava. Diessi, come moderatore a Foscarini, il conte Rocco San-Fermo, con quale prudenza non si vede, perchè San-Fermo parteggiava piuttosto pei Francesi, ed era in cattivo concetto presso ai Tedeschi per essere stata la sua casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in Verona, città grossa, posta sul fiume Adige, e vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero allegrezze, confidando che la sua presenza avesse pure ad operar qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi: il senato medesimo non gli conosceva: perchè lo sperare in tanta sfrenatezza di principj politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava tutta la fortuna dello stato, che si sarebbe portato rispetto al retto ed all'onesto, e che un magistrato privo di armi potesse fare alcun frutto, era fondamento del tutto vano. Bene il predicava il procurator Pesaro, armi chiedendo ed armati; ma impedirono così salutifero consiglio le fascinazioni della parte avversaria, ed abbandonossi inerme la repubblica nella fede di coloro, che non ne avevano.
Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero, per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu, ch'egli volesse, correndo per la occidentale sponda del lago di Garda, occupare Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada, che dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela, poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi procedendo più oltre, mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa credenza, che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro e sulla destra le sue genti indietro per guisa, che in vece di star minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.
Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè gli Austriaci avevano passato pei territorj Veneti, ma non occupato le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia il dì ventinove di maggio un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in animo di attenere, avere, diceva, l'esercito Francese superato ostacoli difficilissimi per venire a torre il grave giogo dell'Austria superba dal collo della più bella parte d'Europa: vittoria, e giustizia congiunte avere compito il suo intento; le reliquie del nemico essersi ritratte oltre Mincio; passare, a fine di seguitarle, i Francesi per le terre della Veneziana repubblica; ma non essere per dimenticare l'antica amicizia, da cui erano le due repubbliche congiunte; non dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione, il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti, informassero di questi suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse quell'amicizia, che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli nell'onore, fedeli nella vittoria. A questo modo Buonaparte, il dì ventinove di maggio del novantasei, chiamava amica di Francia quella repubblica, che il direttorio, e Buonaparte medesimo già avevano accusato, come di gran reità, dello aver dato ricovero al conte di Lilla; qualificava fedele nell'onore quella nazione, che già avevano accagionato di aver dato il passo alle genti Tedesche. La forza della verità operava da un lato, la cupidigia del rapire e del distruggere dall'altro.
Come prima Beaulieu ebbe avviso, avere i repubblicani occupato Brescia, valendosi del pretesto, pose presidio in Peschiera, fortezza Veneziana situata all'origine dell'emissario del lago di Garda, e che altro non è, se non il fiume Mincio. Temeva, che Buonaparte non portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima, se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del fiume. Era Peschiera piazza forte, ma il senato, o, per meglio dire, i Savj, persistendo in quella loro eccessiva neutralità, nè sospettando di un turbine tanto impetuoso, l'avevano lasciata senza difesa. Solo sessanta invalidi la presidiavano: aveva bene ottanta cannoni, ma senza carretti, e per munizioni, cento libbre di polvere, ma cattiva; fortificazioni in rovina, ponti levatoj impossibili a levarsi, difese esteriori senza palizzate, strada coperta ingombra d'alberi, non una bandiera da rizzarsi sulle mura per far segno a qual sovrano la fortezza appartenesse. Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati, armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura del difendersi, che del non difendersi, aveva trasandato le domande del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente rimproverata da coloro, in favor dei quali ei l'aveva usata, perciocchè Buonaparte affermava, che se il provveditor generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata; il che era vero: ma se Foscarini non l'aveva fatto, ciò era stato per non offendere il capitano Francese, non per compiacere al capitano Tedesco.
Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono, rassettando i bastioni e le altre difese cadute in rovina per la vetustà. Intanto Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico con dargli concetto che volesse spingersi verso la punta superiore del lago, si apparecchiava a mettere ad esecuzione il suo disegno. Era questo di sforzare il passo del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale Austriaco senza sospetto, quantunque per le dimostrazioni del suo avversario avesse ritirato parte delle sue genti ai luoghi superiori, che il vero pensiero di Buonaparte fosse di assaltarlo a Borghetto. Però aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che quattromila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaja di cavalli stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna, ed a calpestare chi s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto al ponte per accorrere in ajuto della vanguardia, ove pericolasse. Muovevansi improvvisamente la mattina i repubblicani da Castiglione, Capriana, Volta e s'indirizzavano al ponte di Borghetto. Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci già tante volte vinti, non si erano perduti d'animo, anzi valorosamente combattendo sostenevano l'impeto dei Francesi. Restavano superiori sulla prima giunta, perchè non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia, che dovevano dar dentro, la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, fortemente pressata dalla cavallerìa Tedesca, cominciava a crollare ed a ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi, massimamente cavalli ed artiglierìe, furono gli Austriaci risospinti, nè potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si ricoverarono sulla sinistra. Guastarono un arco del ponte, acciocchè il nemico non gli potesse seguitare. Qui succedeva un tirar di cannoni molto fiero da una parte e dall'altra del fiume, ma senza frutto, perchè nè i Francesi potevano passare per la natura del ponte, nè i Tedeschi si volevano ritirare. Ma erano le battaglie dei Francesi di quei tempi più che d'uomini, e con più costanza e' le sostennero che i loro antichi. Ed ecco veramente che il generale Gardanne, postosi a guida di una mano di soldati coraggiosissimi, si metteva in fiume, non curando nè la profondità di lui, perciocchè l'acqua gli arrivava insino a mezzo petto, nè la tempesta delle palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava, ed alla sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia il timore occupava gli Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese, fu fatto abilità ai repubblicani, non solo di passare a guado, ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria compita ai Francesi: e come l'ebbero, così l'usarono; perchè avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo intieramente, e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte, che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della fortezza, e corresse a Castelnuovo ed a Verona. Così impossibilitati a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra, s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa, e sostenere una stretta battaglia tra Valleggio e Villafranca, sulla sponda di un canale largo e profondo, che congiunge le acque del Mincio con quelle del Tartaro. Infatti mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e per tal modo, raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo la notte interrotto la battaglia del canale verso l'Adige: quindi passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo. Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera.
Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da cui si rende manifesto, che se le armi Francesi di tanto riuscirono superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore nei soldati dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare, per cui il giovane generale di Francia di sì gran lunga superò il vecchio generale d'Alemagna. Del resto fu Beaulieu capitano pratico e risoluto, e la perdita della battaglia di Montenotte, che aperse i passi d'Italia ai Francesi, hassi unicamente a riconoscere da un accidente straordinario; le disposizioni prese da lui innanzi, e durante il fatto furono per ogni guisa eccellenti, e senza l'impensato intoppo di Rampon, è verisimile che la fortuna si sarebbe scoperta favorevole a Beaulieu piuttosto che a Buonaparte. Certamente per poco stette, che il cattivo consiglio di quest'ultimo, nel quale ebbe anche contrarj i suoi migliori generali, dello aver corso a Voltri e fortificato debolmente Montenotte, non fosse cagione della sconfitta dei repubblicani.
S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno, che il direttorio e Buonaparte nutrivano contro la repubblica di Venezia, meno forse per odio che per utile; il che peraltro è più odioso. Due erano i principali fini a cui tendevano, dei quali uno accidentale e temporaneo, l'altro da lungo tempo premeditato e perpetuo. Si conteneva il primo in questo, che l'esercito acquistasse per se tutti i mezzi di perseguitar l'inimico e d'impedire il suo ritorno. Era il secondo di turbare lo stato quieto della repubblica Veneta, perchè pel presente si aprissero le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero pretesti per darla in preda, secondochè pei tempi si convenisse, a chi l'accetterebbe, come prezzo di pace con la Francia. All'uno ed all'altro fine conduceva acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono tre punti, è padrone del passo dell'Adige, ed è a chi scende dall'Alpi Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto di una piazza tanto principale non poteva farsi dai Francesi senza un grande sollevamento d'animi in quelle provincie.
Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indirizzò, dopo la vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, Buonaparte i suoi pensieri: e però, siccome quegli che era maestro perfetto d'inganni, incominciò a levare un romore grandissimo, e ad imperversare sclamando, che Venezia per aver dato ricovero ne' suoi stati al conte di Lilla, si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo Veneto verso di loro. E così tempestando, e moltiplicando ogni ora più nello sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in tratto prorompeva anzi con dire, che non sapeva quello che il tenesse, che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto temeraria, che si era creduta capitale dell'impero Francese. In questo alludeva al soggiorno fattovi dal conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia. La quale intemperanza ed assurdità di Buonaparte, sebbene sia raccontata come se fosse un giojello da alcuni scrittori di storie dei nostri tempi, ai quali più piacciono le giattanze di lui che la verità e la ragione, non so se sia o più indegna del grado del capo di un esercito grande, o più ridicola in se stessa; perchè, la Dio mercè, non fu mai nessuno in Verona, nemmeno credo, i matti, se qualcuno ve n'era, che abbia creduto che la città loro fosse diventata capitale dell'impero Francese. Solo credettero aver fatto un'opera pietosa, coll'aver dato ricovero dentro le loro mura ad un principe perseguitato ed infelice.
Quanto al fatto di Peschiera, da quello che abbiam narrato di sopra si può giudicare, se posciachè i Veneziani, per non dar sospetto ai due nemici, massime ai Francesi, non avevano voluto munire quella fortezza, fosse la medesima difendevole, e se potessero impedire in un caso tanto improvviso, che i Tedeschi vi entrassero; e poichè Buonaparte si lamentava di questo fatto, saria bene a sapersi, se Peschiera in quello stato in cui era, quando i Tedeschi l'occuparono, più fosse fortezza, che Crema, o Brescia, quando furono occupate dal capitano di Francia. Bene sapeva egli che cosa vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio il dì sette giugno, che la verità dell'affare di Peschiera era, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i Veneziani, avendo loro solamente domandato il passo per cinquanta soldati, e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma il vero od il falso non arrestavano Buonaparte, e queste querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il consenso dei Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia, conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto questa rottura, perchè se volessero cavar cinque o sei milioni da Venezia, sì il potessero fare. Così ad una brutta sete dell'oro soggettava il capitano repubblicano la verità, il giusto e l'onesto.
Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo terrore. E però per dare al generale repubblicano le convenienti giustificazioni, che dalla sua bocca propria, e non da quella d'altrui voleva udire, si mise in viaggio col segretario San Fermo per andarlo a visitare in Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e ristrettosi con esso lui e con Berthier, che è da lodarsi per la umanità mostrata in tutte queste occorrenze, se però non era un concerto alla soldatesca tra lui e Buonaparte, protestava ed asseverava, avere sempre la repubblica Veneziana, ed in ogni accidente seguitato i principj della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente Buonaparte, che non voleva esser convinto, ma bensì intimorire, che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i Veneziani lasciato occupar dai Tedeschi Peschiera; il che era stato cagione ch'egli avesse perduto mila e cinquecento soldati, il cui sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il passo pel mare e pei fiumi; che insomma erano i Veneziani amici stretti degli Austriaci. Quindi trascorrendo dalle minacce alla barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato asilo negli stati loro ai fuorusciti francesi, ed al conte di Lilla, nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente dalla crudeltà alle menzogne, sclamava, che prima del suo partire aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai Massena, che già forse le artiglierìe di Francia la fulminavano, e che già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque, aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto, acciocchè il senato ne ragguagliasse. Così Buonaparte, che sapeva di certo, e lo scrisse al direttorio, che per fraude, e contro la volontà dei Veneziani erano gli Austriaci entrati in possessione di Peschiera, questo fatto attribuiva a tradimento dei Veneziani.
Spaventato in tale modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un poco sopra di se; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse, che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il seguente s'appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati, manterrebbe salva la città, ed avrebbero i Veneti la custodia delle porte, i magistrati il governo dello stato; ma che se gli fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e distrutta.
Queste arti usava Buonaparte il dì trentuno maggio per ottenere pacificamente il possesso di Verona. Dal che si vede qual fede prestar si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì ventinove del mese medesimo, e quale fosse la sincerità delle sue promesse. Così quella repubblica di Venezia, che due giorni prima era stata chiamata amica della Francese, e dichiarata aver sempre camminato nelle vie dell'onore, era il dì trentuno del mese medesimo divenuta, e già da lungo tempo, non solo infedele, ma perfida e nemica alla Francia, ed il direttorio aveva comandato a Buonaparte, che ostilmente contro una delle città più eminenti del suo dominio e di tutta Italia corresse. Certamente non era questo un procedere degno di un generale di una nazione civile, e che ha nel nemico in odio più la perfidia che la guerra. Tale sarà il giudizio che ne faranno le generazioni sì presenti che future, in cui la virtù sarà sempre più potente che il vizio.
Da questa insidia, e da queste minacce si rendeva chiaro, quali dovessero essere le deliberazioni del provveditor Veneto; posciachè, prescindendo anche dagl'indegni oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto una città nobilissima del territorio Veneto, quell'affermare che fra sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma ancora necessaria una subita presa di armi dal canto dei Veneziani. Quello era il momento fatale della Veneziana repubblica, quello il momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento, non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente sparse per fondare il dispotismo di un capitano barbaro. Che se Foscarini non aveva questo mandato dal senato, l'aveva dal cielo, favoreggiatore delle cause pie, e nemico dei tiranni, l'aveva dalla sua nobil patria, l'aveva dal consentimento di tutti i buoni gonfi di sdegno all'aspetto di sì inudita empietà. Non con le umili protestazioni, non col privar Verona delle sue difese doveva Foscarini rispondere a Buonaparte, ma con un suonar di campana a martello continuo, con un predicar alto di preti contro i conculcatori della sua innocente patria, con un dar armi in mano a uomini, a donne, a fanciulli, con un fracasso di cannoni incessabile dalle lagune all'Adige, dalle bocche del Timavo all'emissario di Lecco. Certamente in un moto tanto universale molte vite sarebbero mancate, molte città distrutte, Verona forse data alle fiamme, ma la repubblica fora stata salva. Forse alcuni sentiranno raccapriccio all'udir rammentare di queste battaglie di popoli. Pure le usarono contro i Francesi gli Austriaci, sebbene non prosperamente, nell'ottocentonove, e furono lodati: le usarono contro i Francesi medesimi prosperamente gli Spagnuoli nell'ottocentodieci, i Prussiani nell'ottocentotredici, e furono lodati; le vollero usare i Francesi contro gli Europei nell'ottocentoquindici, e se non furono lodati, non furono neanco biasimati. Ora non si vede perchè non sarebbe stato lodevole ai Veneziani di usarle: che se gli Austriaci, gli Spagnuoli, i Prussiani, ed i Francesi hanno qualche privilegio, quando ne va la indipendenza, anzi l'essere, od il non essere dello stato, di difendersi a stormo, sarìa bene che il mostrassero, affinchè gl'Italiani si acquetino a tanto diseredamento.
So che alcuni diranno, che il governo di Venezia era cattivo; ma si risponderà dagli uomini savj, che non tocca ai forestieri il giudicare della natura del governo, e meno ancora il correggerla; nè so se muova più a sdegno che a compassione il pensare, che queste querele dottoresche sulla mala natura del governo Veneto vengono principalmente da quelli, che hanno trovato ottimo il governo del direttorio, che voleva far tagliar la testa ai naufragati, e quello di Buonaparte, che teneva prigioni per corso d'anni, ed anche in vita senza forma di processo gl'innocenti. Fatto sta, che poichè si voleva rendere i popoli Veneziani servi dei forestieri, e' bisognava con risoluzione magnanima fare, che i popoli Veneziani si salvassero da se; ma Niccolò Foscarini, in vece di gridar campane, come Piero Capponi, corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei quali consisteva la principale difesa, l'abbandonassero, e che così i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di Buonaparte. Il non aver usato il rimedio dei popoli non solo fu fatale per l'effetto, ma fu anche inutile per la fama; imperciocchè ed i partigiani e gli storici pubblicarono a quei tempi, e tuttavìa pubblicano, sebbene bugiardamente, ma per giustificare la sceleraggine commessa contro Venezia, che se Venezia non fece, volle fare lo stormo contro i Francesi, già prima che succedesse la sollevazione di Verona del novantasette, che racconteremo a suo luogo. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto veramente è falsa, non si sa che si volesse significare il manifesto di Brescia. So che dagli adulatori di Buonaparte viene, sebbene con la solita falsità, accagionato di aver macchinato questo stormo Alessandro Ottolini, podestà di Bergamo a quei tempi, uomo meritevole di ogni lode per la fedeltà e la sincerità sua verso la patria; ma egli solamente s'ingegnava di mantenere le popolazioni Bergamasche affezionate al nome Veneziano; e se quando s'impadronirono i Francesi di Verona, divenne Ottolini più vigilante e più attivo, e fece opera che le popolazioni si ordinassero, il fece perchè le minacce ed i fatti di guerra del capitano del direttorio a ciò lo sforzarono. Quell'ordinarsi accennava, non un voler nuocere altrui, ma un impedire che altri nuocesse a lui, e se Ottolini si armava, avrebbe fatto meglio l'armarsi molto più. Certamente avrebbe egli mancato del suo dovere verso la patria, se in tanto romore di guerra, non solo imminente, ma presente negli stati di Venezia, non avesse procurato di serbarsi padrone di se medesimo, e capace di mantenere con buoni ordinamenti salva la provincia commessa alla sua fede rispetto ai due nemici, che venivano a rapire le sostanze Veneziane, e ad ammazzarsi tra di loro sulle terre della repubblica. Ma nei tempi scorretti che abbiamo veduto, fu costume il chiamar traditori, ed il perseguitare con ogni sorte di pubblico improperio coloro, che più sono stati fedeli alle loro patrie, come se fosse stato debito loro il servire piuttosto a Buonaparte nemico, che ai principi proprj ed alla patria, ed a quanto ha la patria in se di caro e di giocondo. Così fu infamata la virtù di Alessandro Ottolini e di Francesco Pesaro in Italia, di Stadion in Austria, di Stein in Prussia: così anche furono condotti a morte Palmer di Baviera, Hofer di Tirolo: così finalmente i magnanimi Spagnuoli furono chiamati col nome di briganti. Queste cose chi generoso scrittore fosse, dovrebbe con disdegnosa e riprenditrice penna altamente dannare, non cercar di scusare, ora con le parole ed ora col silenzio, l'inganno, l'ingiustizia, e la tirannide.
Come prima si sparse in Verona, per la venuta del Foscarini, che i Francesi vi sarebbero entrati per alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno spavento tale, che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani gli perseguitavano. Il popolo raccolto in gran moltitudine sulle piazze e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore accusava la debolezza di Foscarini, e le perdute sorti della repubblica. Lo stare pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la strada da Verona a Venezia impedita da un lungo ingombro di carrozze, di carri e di carrette, che le atterrite famiglie trasportavano con quelle suppellettili, che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto raccorre. Facevano miserabile spettacolo le donne coi fanciulli loro in braccio od a mano, che piangendo abbandonavano una sede gradita per amenità di sito, graditissima per una lunga stanza. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarj dei poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più bassi, od oltre le acque del mare terre non ancora percosse dalla furia della guerra.
Entrarono il dì primo giugno i Francesi in Verona. Quivi Buonaparte lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose piazze, i tempj, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto, per indurre opinione ch'egli elevasse l'animo alla grandezza Romana, l'Arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Così si verificava, secondo il solito, la promessa di Buonaparte del voler solo occupare i ponti. Al medesimo modo, pure secondo il solito, mantenne le promissioni da lui fatte nel manifesto di Brescia del voler pagare in contanti tutto ch'ei richiedesse in servigio dei soldati; imperciocchè essendosi sparsi nelle campagne testè felici del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, vi facevano tolte incredibili, che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza medesima, con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto alla umana generazione è necessario, così grave e così stolto, come in questa terribil guerra si fece. I popoli intanto vessati in molte forme, e cadendo da una lunga agiatezza in improvvisa miseria, entravano in grandissimo sdegno, e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor più gravi.
A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì ventinove giugno, salve le robe, e le persone, eccettuati solo i fuorusciti Francesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Trovarono dentro la fortezza cencinquanta cannoni grossi, sei mila fucili, polvere e palle in proporzione, con molto bestiame vivo. Fu questo acquisto di grande importanza ai Francesi, perchè era il castello come un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle dei repubblicani. Per solennizzare questa vittoria, si fecero molte feste, balli e conviti, dai repubblicani Francesi meritamente, dai repubblicani Italiani per imitazione.
La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia; perchè trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto, e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro; quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano oltre a ciò a domarsi il papa, ed il re di Napoli, e ad espilare il porto di Livorno. Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città, forse più di ogni altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che conoscendo bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio forestiero.
Aveva il senato di Bologna anticonosciuto, che per la vittoria di Lodi diveniva il generale Francese signore di tutta la Lombardìa, quanto ella si distende dall'Alpi agli Apennini. Però desiderando di preservare il Bolognese, e massimamente la capitale, dalle calamità che accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creato un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò veduto il generalissimo, il pregassero di aver per raccomandata la patria loro. Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle cose, siccome quegli, che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva non solo la ruina del suo stato temporale, ma ancora novità perniciose alla religione, specialmente se come nemici allo stato pontificio si accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse a Milano, e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che dal pontefice gli era stato raccomandato. Furono dal generale umanamente uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloquj secreti di molti gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà statuita già fin dai tempi della lega Lombarda, e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai popoli di quel territorio: Buonaparte che sel sapeva, promise ogni cosa, e più di quanto i deputati avevano domandato: partironsi molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto le sue genti marciavano. Comparivano il diciotto giugno in bella mostra, e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e schieratasi avanti al palazzo pubblico faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo dei Francesi, e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che attendessero quietamente ai negozj; comandava che rispettassero i soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi o con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno la retroguardia: arrivavano la notte Saliceti, e Buonaparte.
Era costume di Buonaparte, per fare che i popoli si muovessero più facilmente contro i governi loro, e sentissero meno acerbamente il suo dominio, di dare loro speranza di liberargli, e spesso anche gli liberava da quanto essi governi avevano o di più odioso o di più gravoso; perchè in tutti i reggimenti sono sempre di questi tasti, che fanno mal suono ai popoli. Aveva Bologna perduto la sua libertà, od almeno quello che stimava libertà, dappoichè la somma delle faccende dello stato era venuta in mano della chiesa; la qual cosa i Bolognesi sopportavano molto di mala voglia. Oltre a questo era Bologna stata spogliata dai pontefici del dominio di Castel Bolognese, terra grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia. Nè ripugnavano a questa ricongiunzione i castellani medesimi, ricordevoli tuttavìa del dolce freno col quale erano stati retti. Buonaparte, informato dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva il possesso di Castel Bolognese, ed aboliva ogni autorità del papa, reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed independente. Nè mettendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti legato, se ne partisse immantinente da Bologna. Indi chiamato a se il senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che essendo informato delle antiche prerogative e privilegi della città e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità sovrana al senato intiera e piena ritornasse: darebbe poi a Bologna, dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al popolo piacesse, e più all'antica si assomigliasse: prestasse intanto il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo giuramento in cospetto del senato giurassero.
Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur un particolare seggio riceveva Buonaparte il giuramento dei senatori in questa forma: «A laude dell'onnipotente Iddio, della Beata Vergine, e di tutti i Santi, ad onore eziandìo, e riverenza della invitta repubblica di Francia, noi gonfaloniere e senatori del comune e popolo di Bologna giuriamo al signor generale Buonaparte, comandante generalissimo dell'esercito Francese in Italia, che non faremo mai cosa contraria agl'interessi della stessa invitta repubblica, ed eserciremo l'ufficio nostro, come buoni cittadini, rimosso ogni qualunque odio o favore, e tanto giuriamo nella forma patria, toccando gli Evangeli».
Prestatosi dal senato il giuramento, si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici; il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova, e con qualche speranza grata al senato, perchè da servo si persuadeva di esser divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.
Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro. Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i popoli, parendo loro che le contribuzioni fossero opera piuttosto da nemico, che da alleato; conciossiachè con questo nome aveva il generalissimo chiamato la repubblica di Bologna. Pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene, che i soldati vivano del paese che hanno. Solo si sdegnavano dello scialacquo, perchè conformandosi quietamente al fornire le cose necessarie, non potevano tollerare di dar materia ai depredatori, che i soldati, e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto, che Saliceti e Buonaparte, ai quali il direttorio aveva dato in preda l'Italia, portavano alle proprietà ed alla religione. Imperciocchè, poste violentemente le mani nel monte di pietà, lo espilarono per far provvisioni, come affermavano, all'esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di lire ducento, come se fosse lecito rapire o non rapire, secondo le maggiori o minori facoltà dei rapiti. Ma temendo gli autori di tanto scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero le armi ai cittadini.
I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni, il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio, finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli, ambasciadore di Bologna. Creato dai vincitori a Ferrara un municipio d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di scudi romani in contanti, e di trecento mila in generi. Queste angherìe sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si sollevarono, gridando guerra contro i Francesi. Pretendevano alle parole loro, e ne fecero anche fede con un manifesto, perchè si accorgevano che soli, e senza un moto generale, non potevano sperare di far effetto d'importanza, la religione, la salvezza delle persone e delle proprietà, la libertà e l'indipendenza d'Italia. Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto concitata, e risoluta al combattere. I preti gli secondavano, dando a questa moltitudine il nome di oste cattolica e papale. Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di fanti e di cavalli, alla quale era preposto il colonnello Pourailler. Comandava intanto pubblicamente, avessero i Lughesi a deporre le armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse, fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposto la sua mediazione, perchè da una parte i Francesi perdonassero, dall'altra i Lughesi, deposte le armi, si quietassero. Ma fu l'intercessione sdegnosamente rifiutata da quei popoli, più confidenti di quanto fosse il dovere, in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire, per la ostinazione loro, al cimento dell'armi, i Francesi si avvicinavano a Lugo, partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in una imboscata, in cui restarono morti alcuni soldati. Non ostante, volendo il capitano Francese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narrasi anzi da Buonaparte, che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione dei messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Francesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto valore. Finalmente i Lughesi rotti e dispersi furono tagliati a pezzi con morte di un migliajo di loro, avendo anche perduto la vita in questa fazione ducento Francesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato; rimasero per lungo tempo visibili i vestigi della rabbia con cui si combattè, e della vendetta che seguitò. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono. Comandava Augereau, che tutti i comuni si disarmassero, che le armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore, fosse ucciso; ogni città, o villaggio, dove restasse ucciso un Francese, fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Francese, fosse ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse adunanze di gente armata, o disarmata, fosse ucciso. Tali furono gli estremi della guerra Italica, giusti per la conservazione dell'esercito di Francia, ingiusti per le cagioni ch'egli stesso aveva indotte; perchè il volere che i popoli ingiuriati non si risentano, è voler cosa contraria alla natura dell'uomo.
Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto nei feudi imperiali prossimi al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Francesi. Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale Lannes con un buon nervo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce, e pel terrore dei supplizj.
Le vittorie dei repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia, l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo spavento Roma. Ognuno vedeva che il resistere era impossibile, e l'accordare pareva contrario non solo allo stato, ma ancora alla religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni, che un vincitore acerbo per se, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe dal pontefice richiesto. Nè meglio si poteva antivedere, se avrebbe portato rispetto alla città stessa di Roma, parendo, che siccome sarebbe stato un gran fatto l'occupazione di lei, così Buonaparte cupidissimo di gloria l'avrebbe mandata ad effetto. E quale disordine, quale conculcazione delle cose sacre e profane prodotto avrebbe la presenza d'uomini poco continenti dalle cose altrui, e poco aderenti alla religione, di cui era Roma seggio principale? Per la qual cosa, come in tanto pericolo i privati uomini non avevano più consiglio, così poco ancora ne aveva il governo, perchè le armi temporali mancavano, le spirituali non valevano, il nome di Roma era più sprone che freno, e la dignità papale, che pure aveva frenato ai tempi antichi un capitano barbaro, era venuta in derisione. I ricchi pensavano alla fuga, come se il nemico già fosse alle porte. Gran tumulto, gran folla e gran concorso erano, principalmente a porta Celimontana di gente di ogni sesso, di ogni grado e di ogni condizione, che fuggendo dal minacciato Campidoglio, s'incamminava spaventata verso Napoli. Temevasi la cupidigia del nemico, temevasi la temerità dei cittadini.
Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore dei suoi consiglieri e del popolo, serbava tuttavìa la solita costanza, aveva commesso al cavaliere Azara ed al marchese Gnudi, andassero a rappresentarsi a Buonaparte, e procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte, in nome per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà, perchè non gli era nascosto che l'imperatore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi stati in Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto delle sue armi contro lo stato pontificio. Laonde concludeva, il dì ventitrè giugno, una tregua coi due plenipotenziarj del papa, in cui fu stipulato, che il generalissimo di Francia, e i due commissarj del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo Francese aveva verso Sua Maestà il re di Spagna, concedevano una tregua a Sua Santità, la quale tregua avesse a durare insino a cinque giorni dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi fra i due stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse a nome del pontefice gli oltraggi e i danni fatti a' Francesi negli stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si chiudessero, ai Francesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierìe, munizioni e vettovaglie si consegnasse ai Francesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue ad elezione dei commissarj, che sarebbero mandati a Roma; specialmente, poichè i repubblicanuzzi di quel tempo la volevano far da Bruti, i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre a questo cinquecento manoscritti ad elezione pure dei commissarj medesimi cedessero in potestà della repubblica; pagasse il papa ventun milioni di lire tornesi, dei quali quindici milioni e cinquecento mila in oro, od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinquecentomila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre legazioni; il papa desse il passo ai Francesi ogni qualvolta che ne fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.
Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto gravi, parve nondimeno un gran fatto, che si fosse potuto distornar da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la conservata città. Intanto non lieve difficoltà s'incontrava per mandar ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già tanto consumato dalla guerra sopperire, faceva il papa richiesta degli ori e degli argenti, sì delle chiese come dei particolari, e quanto si potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo, che insino dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Sant'Angelo, fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi stati, aveva ritirato settemila scudi di camera, che erano depositati nel tesoro pontificio, come rappresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta della pecunia coniata produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e dei privati, il quale fu, che le cedole, che già molto scapitavano, perdettero viemaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo romore di guerra, e sul bel principio di una speranza di pace, le cose pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si pruovavano gli estremi di una guerra lunga e disastrosa.
Tutto questo risguardava alle facoltà sì pubbliche che private, ma il governo di Francia, spaventando il papa, non solamente aveva in animo di cavar denaro pei soldati, ma ancora di tirare il pontefice a far qualche dimostrazione, acciocchè i cattolici di Francia accettassero volentieri le cose fatte, e con la opinione favorevole della maggior parte dei popoli il nuovo stato si confermasse. Era questo motivo di grande importanza in tutta la Francia, ma molto più sulle rive della Loira, dove coloro che avevano l'armi in mano contro il reggimento nuovo, pretendevano alla impresa loro parole di religione. Conseguì Buonaparte questo fine. Il pontefice mandava fuori il cinque luglio un breve indiritto ai fedeli di Francia, col quale paternamente, ma fortemente gli esortava a sottomettersi, e ad obbedire ai magistrati, che il paese loro governavano; affermava essere principio della religione cattolica, che le potestà temporali siano opere della Sapienza divina, che le prepose ai popoli, affinchè le faccende umane non fossero governate dalla temeraria fortuna, o dalla volontà del caso, e le nazioni agitate da onde contrarie; avere perciò Paolo apostolo, non particolarmente di uno special principe, ma generalmente di questa materia parlando, statuito, che ogni potestà da Dio procede, e che chi alle potestà resiste, alla volontà di Dio resiste. Badassero dunque bene, sclamava il pontefice, a non lasciarsi traviare, ed a non dare, sotto nome di pietà, occasione agli autori di novità, di calunniare la religione cattolica, il che sarebbe peccato, che non solo gli uomini, ma Dio stesso con pene severissime punirebbe; poichè sono, continuava, dannati coloro che alla potestà resistono.
«Vi esorto adunque, terminava il pontefice, figliuoli carissimi, e vi prego per Gesù Cristo nostro Signore, ad essere obbedienti, ed a servire con ogni affezione, con ogni ardore e con ogni sforzo a coloro che vi reggono, perchè a loro obbedendo, renderete a Dio medesimo quell'obbedienza, di cui gli siete obbligati; ed essi vedendo vieppiù, che la religione ortodossa non è sovvertitrice delle leggi civili, le presteran favore e la difenderanno, in adempimento dei precetti divini, ed in confermazione dell'ecclesiastica disciplina: infine desiderio nostro è che sappiate, figliuoli carissimi, che voi non abbiate nissuna fede in coloro che vanno pubblicando, come se dalla santa sede emanassero, dottrine contrarie a questa».
Queste esortazioni del pontefice non partorirono effetto alcuno in Francia, perchè da una parte non rimise punto il direttorio del suo rigore contro i preti cattolici, che non avevano voluto giurare la constituzione del clero, dall'altra i Vendeesi, e coloro che in compagnìa loro combattevano nelle province occidentali della Francia, od in altri luoghi impugnavano o palesemente o segretamente il governo di Parigi, non davano luogo ad alcuna inclinazione alla pace. Nè alcun frutto buono sorse da quest'atto di Pio. Gli uni dicevano che l'aveva fatto per forza, gli altri per debolezza, e nissuno obbediva. Allegavano poi la fermezza dei principj non poter essere scossa, nemmeno dall'autorità del papa. Così gli uomini obbediscono all'autorità delle sentenze, quando è favorevole alle loro opinioni od interessi, non obbediscono quando è contraria. Quindi nasce che il genere umano è più ancor pieno di contraddizioni, che di enormità.
La presenza dei Francesi negli stati pontificj aveva bensì atterrito i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa esortato dal generale repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava con pubblico manifesto, e comandava ai sudditi, trattassero con tutta benignità i Francesi, come richiedevano i precetti della religione, le leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli, e la volontà espressa del sovrano.
Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello stato. Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione di risorgere, s'inviava dal pontefice a Parigi l'abbate Pieracchi con mandato di negoziare, e di stipulare la pace. Tanta variazione avevano fatto in pochi giorni le sorti di Roma, che quel pontefice, il quale poco innanzi esortava con tutta l'autorità del suo grado i principi ed i popoli a correre contro i Francesi partigiani del nuovo governo, come gente nemica agli uomini, nemica a Dio, ora caduto in dimessa fortuna comandava con parole contrarie alle precedenti ai fedeli di Francia ed ai sudditi proprj, che obbedissero, ed ogni più cortese modo usassero ai Francesi ed al governo loro. Il che non fu senza notabile diminuzione dell'autorità del Romano seggio.
Nè minore variazione fecero le cose di Napoli, come se fosse destinato dai cieli, che le più forti protestazioni, ed i più validi apprestamenti di difesa, in tempesta tanto improvvisa, altro effetto non dovessero partorire che una più grave diminuzione di riputazione e di potenza. Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie dei repubblicani sul Po e sull'Adda; ma all'ansietà succedeva il terrore, quando vi s'intese la rotta totale dei Tedeschi, e la loro ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave, quando i soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè nulla più ostando che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto all'invasione. Laonde il re volendo provvedere con estremi sforzi ad estremi pericoli, perchè o fosse solo, o dovesse secondare le armi imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che trentamila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo stato ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tante genti con altre squadre d'uomini armati, comandava, che si tenessero pronte a marciare, e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si ordinassero tutte le persone abili all'armi; la quale massa avrebbe aggiunto quarantamila combattenti. Perchè poi si usassero coloro, che consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno, dava loro privilegi e speranza di ricompense onorevoli. Volendo poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali, le forze temporali, scriveva ai vescovi ed ai prelati del regno lettere circolari, con cui gli ammoniva, e con parole patetiche gli esortava dicendo, che la guerra che già da tanto tempo desolava l'Europa, e nella quale già tanto sangue e tante lacrime si erano sparse, era non solamente guerra di stato ma di religione; che i nemici di Napoli erano nemici del Cristianesimo; che volevano abolire il principato, come avevano abolito la religione; per questo turbare le nazioni, per questo sollevare i popoli; per questo ridurgli all'anarchìa con le massime, alla miseria con le rapine: saperlo il Belgio, saperlo la Olanda, saperlo tanti paesi e città illustri di Germania e d'Italia, confuse, desolate, spogliate, ed arse dalla rabbia e dall'avarizia loro: invano gemere, invano querelarsi i popoli conculcati; sotto la crudele tirannide non trovar luogo il diritto, non trovar luogo l'umanità; ma la santa religione essere principalmente segno alle lor barbare voglie, perchè tolto di mezzo il suo potente freno si possano violare senza ribrezzo, ed a sangue freddo tutte le leggi sì divine che umane; ma inspirare la religione il coraggio, come insegnar il dovere; amare il cristiano la patria per gratitudine, amarla per precetto. Esortassero adunque i popoli ad impugnar le armi contro un nemico, a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita rispettata, niuna religione santa, contro un nemico che dovunque arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i templi, atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di più sacro e di più reverendo ha ne' suoi dogmi, nei suoi precetti, e ne' suoi sacramenti divini lasciato alla chiesa sua Cristo Salvatore: non abborrire il re, per amore verso i sudditi, gli accordi, ma volergli giusti ed onorevoli, nè tali potergli conseguire, che con la potenza dell'armi. Combatterebbe egli il primo a guida de' suoi soldati: sperare, che il Re dei re, il Signor dei signori, che ha in sua mano il cuore dei principi, e non cessa d'inspirargli con retti consigli, quando sinceramente invocano il suo santo nome, gli avrebbe dato favore in così santa, in così generosa impresa.
Così parlava il re ai vescovi, ed ai prelati del regno. Rivolgendosi poscia ai sudditi, con espressioni molto instanti gli ammoniva dicendo sarebbero vincitori di questa guerra, se a loro stesse a cuore difendere se stessi, il re, i tempj, i ministri del Signore, le mogli, i figliuoli, le sostanze. Dio è con voi, sclamava, Dio vi proteggerà contro le armi barbare.
Ma perchè in tempi di tanta costernazione vieppiù per l'amore della religione s'infiammassero i popoli alla difesa, in un giorno prestabilito si conduceva il re, accompagnandolo una gran moltitudine di popolo, alla Basilica, dove, toccando gli altari, e stando tutti, tra la riverenza e lo spavento, intentissimi ad ascoltarlo, disse queste parole:
«Grande Iddio, ecco alla vostra presenza colui, che avete constituito al governo di questi miei fedelissimi sudditi. Se vi piacesse mai di levarmi da un tal ministero, alla vostra santissima volontà di buona voglia mi sottometto; ed affinchè si vegga e si sappia, che questa protesta sia stata fatta da me con tutta contentezza d'animo, ecco che mi tolgo dalle spalle la clamide, dalla mano lo scettro, dal capo la corona, e tutte queste reali divise ripongo sulla mensa del vostro altare, vicine appunto al Tabernacolo, dove voi risiedete come in Paradiso. A voi dunque le lascio, a voi le dedico, acciocchè ne abbiate ad essere il custode».
Queste dimostrazioni producevano effetti incredibili in un popolo dominato da fantasìa potente. Certamente, se le mani fossero state tanto pronte all'operare, quanto erano le menti ad immaginare, si sarebbero veduti da Napoli effetti notabilissimi a salute di tutta Italia.
Partiva Ferdinando da Napoli, indirizzando il viaggio agli alloggiamenti di Castel di Sangro, di San Germano, di Sora, e di Gaeta; fuvvi accolto con segni di grandissima allegrezza dai soldati. Intanto il romore delle occupate legazioni, e le ultime strette in cui era caduto il pontefice, avevano indotto nei consiglieri del re la credenza, che l'accordare fosse più sicuro del combattere. Perlochè non aspettando pure che il papa patteggiasse in definitiva pace, nè consentendo a trattar degli accordi coi repubblicani di concerto con lui, mandavano al campo di Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli, affinchè negoziasse una sospensione di offese, proponendosi d'inviarlo poscia a Parigi a concludere la pace col direttorio. Buonaparte, considerato che Mantova si teneva ancora per gli Austriaci, nè che così presto l'avrebbe potuta piegare a sua divozione per la fortezza dei luoghi, pel numero e pel valore dei difensori, e molto più per la stagione calda e molto pregiudiziale alla salute degli oppugnatori, che oggimai si avvicinava, considerato altresì che del tutto non era ancor prostrata la potenza dell'imperatore, udiva con benigne orecchie le proposte del principe. Si concluse tra il generale e lui il cinque di giugno un trattato di tregua, con cui si stipulava, che cessassero le ostilità tra la repubblica, e il re delle Due Sicilie; le truppe Napolitane che si trovavano unite a quelle dell'imperatore, se ne separassero, e gissero alle stanze nei territorj di Brescia, Crema e Bergamo; si sospendessero le offese anche per mare, ed i vascelli del re al più presto dalle armate Inglesi si segregassero; si desse libero passo ai corrieri rispettivi tanto per le terre proprie o conquistate dalla repubblica, quanto su quelle di Napoli. Fatto l'accordo, andarono i Napolitani, lasciati gl'imperiali, alle destinate stanze. Così il papa fu solo lasciato nel pericolo dal governo di Napoli, che pure testè aveva mostrato tanto ardore per la difesa della religione, convenendo, senza che prima la necessità ultima fosse addotta, con coloro che poco innanzi aveva chiamati nemici degli uomini e di Dio. Per questo le sue parole scemarono di fede, non solamente appresso al pontefice romano, ma eziandìo presso i popoli d'Italia. Affermavano che se non si voleva combattere per la religione, e' non bisognava invocarla, e se si voleva combattere per lei, era mestiero di non concludere così presto. Il toccar gli altari il re, ed il toccar la mano di Buonaparte il principe di Belmonte, furono atti troppo l'uno all'altro vicini, da non esservi stato di mezzo piuttosto inconstanza che prudenza. Quei giuramenti tanto solenni, o non bisognava fargli, e richiedevano che si perdesse almeno una provincia prima di stipulare.
In questo mezzo tempo si spogliavano dall'acerbo vincitore, di statue, di quadri, di manoscritti preziosi, di oggetti appartenenti a storia naturale Parma, Pavia, Milano, Bologna, e Roma. A questo fine aveva mandato il direttorio in Italia per commissarj Tinette, Barthelemi, Moitte, Thouin, Monge e Berthollet, acciocchè procedessero alla stima ed allo spoglio; dal quale ufficio così poco onorevole per la patria loro, non so come non rifuggisse l'animo loro, massimamente quelle dei tre ultimi, uomini gravissimi, ed in cui certamente assai potevano la umanità e la gentilezza dei costumi. La castità della storia però da noi richiede, che diamo pubblica testimonianza dello aver loro temperato con molta moderazione quanto aveva in se di brutto e di odioso il carico, che era stato loro imposto dalla repubblica.
Si avvicinavano intanto i tempi de' rei disegni del direttorio e di Buonaparte contro l'innocente Toscana. Intendevano col comparire armati in questa provincia, spaventare maggiormente il pontefice ed il re di Napoli. Ma i principali fini loro in ciò consistevano, che si cacciassero gl'Inglesi da Livorno, vi si rapissero le sostanze dei neutri, vi si ponessero il segno ed il modo di far muovere la vicina Corsica contro gl'Inglesi che la possedevano: s'ingegnarono di onestare con loro ragioni questo fatto; che gli Inglesi, allegavano, tanto potessero in Livorno che il gran Duca non avesse più forza bastante per frenargli, che il commercio Francese vi fosse angariato, l'Inglese con ogni latitudine protetto, che ogni giorno vi s'insultasse la bandiera della repubblica, che quel Britannico nido fosse fomento ai principi Italiani di far pensieri contrarj agl'interessi ed alla sicurtà di Francia; dovere pertanto la repubblica andare con le sue forze a Livorno per restituire all'independenza propria il duca Ferdinando, e per liberarlo dalla tirannide degl'Inglesi.
Il gran duca negò costantemente qualunque parzialità; e che ciò fosse verità, nissuno meglio il sapeva, che i suoi accusatori medesimi. Di ciò fanno fede le parole scritte da Buonaparte stesso al direttorio, che sono quest'esse, che la politica della repubblica verso la Toscana era stata detestabile. Per purgarla andava il generalissimo ad espilar Livorno. Per la qual cosa, come prima ebbe posto piede in Bologna, e confermatovi il suo dominio, metteva ad effetto la risoluzione di correre contro la Toscana per andarsene ad occupar Livorno. Era suo intento di fare la strada di Firenze per mettere maggiore spavento nel papa; del che avendo avuto avviso il gran duca, mandava a Bologna il marchese Manfredini, ed il principe Tommaso Corsini, perchè s'ingegnassero di dissuaderlo dall'impresa, od almeno da lui questo impetrassero, che piuttosto per la via di Pisa e di Pistoja, che per quella di Firenze si conducesse. Negava il generale repubblicano la prima richiesta, consentiva alla seconda. Perlochè, non indugiandosi punto, e con la solita celerità procedendo, perchè il sorprendere improvvisamente Livorno era l'importanza del fatto, già era arrivato con parte dell'esercito in Pistoja. Da questo suo alloggiamento manifestava il vigesimosesto giorno di giugno le querele della repubblica contro il gran duca, e la sua risoluzione di correre contro Livorno.
Rispondeva gravemente il principe, non soccorrergli alla mente offesa alcuna contro la repubblica di Francia, o contro i Francesi: l'amicizia sua essere stata sincera, maravigliarsi del partito preso dal direttorio, non opporrebbe la forza, ma sperare che, avute più vere informazioni, sarebbe per rivocare questa sua risoluzione, avere dato facoltà al governatore di Livorno per accordare le condizioni dell'ingresso.
Marciavano intanto i Francesi celeremente verso Livorno condotti dal generale Murat, e comparivano, passato l'Arno presso a Fucecchio, con una banda di cavalli alla port'a Pisa. Come prima gl'Inglesi ebbero avviso del fatto, massimamente i più ricchi, lasciato con prestezza Livorno, trasportavano sulle navi, che a cotal fine erano state trattenute nel porto, tutte le proprietà loro: poi quando i repubblicani arrivavano sotto le mura di Livorno, una numerosa conserva di sessanta bastimenti tra piccoli e grossi, e sotto scorta di alcune fregate, salpava da Livorno, verso la Corsica indirizzandosi. Entravano col solito brio ed aspetto militare i Francesi. Poco dopo entrava Buonaparte medesimo, contento allo avere scacciato da quel porto tanto opportuno gli odiati Inglesi, e confidente che fra breve gli scaccerebbe eziandio dalla Corsica, sua patria. Furonvi teatri, applausi, luminarie, non per voglia, ma per ordine e per paura. Il chiamavano Scipione, ed era per continenza delle donne, non per continenza delle ricchezze, per arte di guerra, non per rispetto alla libertà della patria, degno rampollo in tutto di un secolo grande per armi, piccolo per virtù.
Incominciavano le opere incomportabili. Si staggivano le Napolitane sostanze, si confiscavano le Inglesi, le Austriache, le Russe; s'investigavano i Livornesi conti per iscovrirle: si disarmavano i popoli, si occupavano le fortezze, e per far colme le insolenze, si arrestava Spannocchi, governatore pel gran duca. Si scuotevano al tempo stesso fortemente i negozianti, affinchè svelassero le proprietà dei nemici, ed eglino per lo men reo partito offerirono cinque milioni di riscatto. Le conquistate merci si vendevano con molte fraudi da coloro che stavano sopra alla vendita, con grave discapito della repubblica conquistatrice, che vinceva i soldati altrui, e non poteva vincere i ladri proprj. Del che si muovevano a grave sdegno, e facevano grandi querele Belleville, console Francese in Livorno, per onestà di natura, Buonaparte per vedere che quel che si succiavano i predatori, era tolto ai soldati. Se ne vergognava anche Vaubois generale, che da Buonaparte era stato preposto al governo di Livorno, e se ne lavava le mani, come di cosa infame. Insomma fu rea nel principio la occupazione di Livorno, ma non fu migliore negli effetti: solo risplendè più chiaramente la virtù di Vaubois e di Belleville.
Questi furono i rubamenti di Livorno; accidenti più gravi sovrastavano al gran duca. Era intenzione di Buonaparte, siccome scrisse al direttorio, di torgli lo stato, a cagione ch'egli era principe di casa Austriaca. A questo modo si voleva trattare un principe amico ed alleato della Francia dal generalissimo, e da certi agenti della repubblica, che in Italia non cessavano di accusare la perfidia Italiana e la malvagità di Machiavelli. E perchè questo tradimento di Buonaparte verso il gran duca avesse in se tutte le parti di un atto vituperoso, mandava al direttorio, che conveniva starsene quietamente, nè dir parola che potesse dar sospetto della cosa insino a che il momento fosse giunto di cacciar Ferdinando. Pure Buonaparte scriveva, due giorni dopo, al direttorio, niun governo più traditore, niun più vile essere al mondo del governo Veneziano, come se Venezia avesse in alcun tempo macchinato un'opera tanto vile, quanto quella ch'egli medesimo macchinava contro il principe di Toscana.
Nè alle raccontate enormità si rimase la violata neutralità. Eransi alcuni patriotti Sardi, tra i quali il cavaliere Angioi, fuggendo lo sdegno del re, ricoverati a Milano. Comandava Buonaparte, a requisizione del cavalier Borghese, agente del re a Milano, che fossero dati. Il che avrebbe avuto il suo effetto; se Saliceti ed il comandante di Milano non avessero portato più rispetto alla sventura, che agli ordini del loro generale. Questi medesimi Sardi, essendosi poscia ritirati a Livorno, il re ne faceva novella inchiesta a Buonaparte, ed egli già aveva ordinato che se gli consegnassero. Ma dimostratasi da Belleville e Vaubois la medesima generosità d'animo di Saliceti, e del comandante di Milano, furono salvi. Posto che importasse alla sicurezza dei Francesi in Italia l'occupazione di Livorno, che importava alla sicurezza medesima, che fossero dell'ultimo supplizio affetti tre o quattro Sardi? Atto veramente per ogni parte inescusabile fu questo, perchè violava il diritto delle genti, la sovranità del gran duca, le leggi dell'umanità, ed il rispetto che l'uom porta naturalmente a chi è misero. Che se Buonaparte temeva che questi fuorusciti di Sardegna tentassero da Livorno novità in quell'isola a pregiudizio del governo reale, e voleva in questo gratificare al re, perchè non contentarsi di allontanargli da quella sede? Perchè volere mandargli a morte? perchè volere che mani Francesi consegnassero coloro, che non erano diventati rei che per suggestioni Francesi? Mentre in tal modo si espilavano dai repubblicani le proprietà dei nemici loro in Livorno, gl'Inglesi, signori del mare, serravano il porto, ed impedivano il libero commercio. Livorno fiorente e ricco, divenne in poco tempo povero e servo.
Nè a questo si rimasero i repubblicani: perchè usando la opportunità, invasero i ducati di Massa e Carrara, ed occuparono tutta la Lunigiana, chiamando i popoli a libertà, e sforzandogli a grosse contribuzioni di denaro. Erano questi paesi caduti per eredità dalla casa Cibo, che gli possedeva anticamente, nella figliuola del duca di Modena, sposata all'arciduca Ferdinando, governatore di Milano. Non si era dal conte di San Romano quando concluse la tregua per Modena, patteggiato per Massa e Carrara. Per questo il generale della repubblica gli trattò da nemico. Questo piccolo dominio, che dopo spenta la repubblica di Firenze dalla potenza di Carlo quinto, non aveva più sentito impressione di guerra, non andò ora esente dalle comuni calamità.
Il terrore delle armi repubblicane aveva spaventato tutta Italia; ma parendo a chi le reggeva, che ciò non bastasse a perfetto servaggio, stavano attenti i ministri del direttorio presso i diversi potentati Italiani nello spiare, e nel rapportare il vero ed il falso a Buonaparte, continuamente rappresentandogli i principi della penisola non solamente come avversi alla Francia, ma ancora come macchinatori indefessi di cose nuove contro i Francesi. Avevano in tutto questo per ajutatori, non che i pessimi fra gl'Italiani, anche personaggi di nome, e fra gli altri molto operoso si dimostrava il cavaliere Azara, buona e dolce persona, ma, come buona, assai corriva al lasciarsi prendere all'esca dei lusinghieri discorsi. La gloria guerriera di Buonaparte, unica veramente al mondo, gli aveva talmente occupato l'animo, che non distinguendo più nel capitano di Francia nè vizio nè virtù, il lodava, non che del lodevole, anco del biasimevole.
Intanto agli occhi degli agenti di Francia le chimere diventavano corpi, le visite congiure, i gemiti stimoli a ribellione, i desiderj delitti, ed era l'Italiano ridotto a tale, che se non amava il suo male, era riputato nemico. Il papa, secondochè scrivevano questi spaventati o spaventatori, Venezia, il re di Sardegna, il gran duca di Toscana, la repubblica di Genova, tutti conspiravano contro la Francia, tutti s'intendevano con l'Austria, tutti prezzolavano gli assassini per uccidere i Francesi. Certamente lo stipendiar gli assassini sarebbe stata opera nefanda, ma era tanto falsa, quanto l'imputarla era sfrenata. Rispetto al rimanente, erano piuttosto desiderj che macchinazioni, perchè il terrore era tale che non che i desiderj, i pensieri non si manifestavano. Buonaparte, che non era uomo da lasciarsi spaventare da questi rapporti fatti o per adulazione o per paura, era uomo da valersene, come di pretesto, per peggiorar le condizioni dei principi vinti, e per giustificare contro di loro i suoi disegni di distruzione. Gl'Italiani intanto in preda a mali presenti, e segno a calunnie facili, perchè venivan da chi più poteva, non avevano più speranza.
Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano, e la condizione dei repubblicani in Italia diveniva di nuovo pericolosa. Aveva l'imperatore ardente disposizione di ricuperare le belle e ricche sue province, non potendo tollerare che fossero scorporate da' suoi dominj, e che l'autorità che si era confermata da sì lungo tempo in quella parte tanto principale d'Europa, gli sfuggisse di mano per passare in balìa dei Francesi. Aveva egli adunque applicato l'animo, tostochè si erano udite a Vienna le ultime rotte di Beaulieu, a voler ricuperar il Milanese; al che gli davano speranza la mala contentezza dei popoli, la fortezza di Mantova, e il numero dei soldati che ancora era in grado di mandare in Italia. Nè indugiandosi punto, affinchè l'imperio de' suoi nemici non si solidasse, la rea stagione non sopravvenisse, Mantova non cedesse, aveva voltato con grande celerità al Tirolo tutte le genti che stanziavano nella Carintia e nella Stiria. I Tirolesi medesimi, gente armigera, e divota al nome Austriaco, fatta una subita presa di armi, si ordinavano in reggimenti armati alla leggiera; nè questo bastando alla difficile impresa, si ricorreva ad un più forte sussidio; conciossiachè l'imperatore, anteponendo la conquista d'Italia alla sicurezza dell'Alemagna, ordinava che trentamila soldati, gente eletta e veterana, che militavano in Alemagna, se ne marciassero velocemente verso il Tirolo per quivi congiungersi con le reliquie delle genti d'Italia, con quelle venute dalla Stiria, dalla Carniola e dalla Carintia, e con le masse Tirolesi: erano circa cinquantamila. Perchè poi ad un'oste tanto grossa e destinata a compire una sì alta impresa, non mancasse un capitano valoroso, pratico e di gran nome, mandava a governarla il maresciallo Wurmser, guerriero di pruovato valore nelle guerre Germaniche. Stavano gli uomini in grande aspettazione di quello che fosse per avvenire, essendo vicini a cimentarsi due capitani di guerra, dei quali uno era forte, astuto ed attivo, l'altro forte, astuto e prudente. Nè gli eserciti rispettivi discordavano; perchè nè la costanza Tedesca era scemata per le sconfitte, nè il coraggio Francese aveva fatto variazione pel tempo. Oltre a questo, se erano ingrossati gl'imperiali, anche i repubblicani avevano avuto rinforzi notabili dall'Alpi.
Era il maresciallo Wurmser giunto, sul finire di luglio, in Tirolo, e tosto dava opera al compire l'impresa, che alla virtù sua era stata commessa. La strada più agevole per venire dal Tirolo in Italia è quella, che da Bolzano per Trento e Roveredo porta a Verona, e questa è stata sempre frequentata dai Tedeschi nelle loro calate in Italia. Questa medesima aveva in animo di fare il capitano Austriaco; ma il principal suo fine era di liberar Mantova dall'assedio, donde, fatto un capo grosso all'ombra di quel sicuro propugnacolo, potesse, secondo le opportunità di guerra, o starsene aspettando, o correre subitamente contro il Milanese. E sapendo che i Francesi erano segregati in diversi corpi, gli uni lontani dagli altri per molto spazio, per modo che in breve tempo non avrebbero potuto rannodarsi, si deliberava a spartire i suoi in tre schiere: la prima sotto guida del generale Quosnadowich, doveva, marciando sulla destra sponda del lago di Garda, assaltare Riva e Salò, dove stava a guardia il generale Sauret coi generali Rusca e Guyeux, ma che però non aveva forze sufficienti per resistere. Era pensiero di Wurmser, che questa, occupato Salò, si divallasse, parte per la strada del monte Gavardo a Brescia, parte si conducesse a Desenzano ed a Lonato per congiungersi con la mezza, che veniva scendendo tra la destra dell'Adige e la sinistra del lago. La quale ultima mossa verso Lonato era certamente molto opportuna; ma non appare perchè l'altra dovesse indirizzarsi a Brescia, stantechè così facendo si allontanava dalla mezza e dal Mincio, dove necessariamente erano per seguire le battaglie più forti. Forse Wurmser argomentò, che già fosse venuto in odio ai popoli l'imperio dei Francesi, e perciò, sperando che fossero per tumultuare, volle ajutare la loro volontà col favore di queste genti. Forse ancora, prevalendo di numero, si era persuaso di poter opprimere con la sua forza principale il grosso dei repubblicani, e tagliar loro il ritorno alle spalle. La mezza schiera, o la battaglia condotta dal maresciallo, s'incamminava alla volta di Montebaldo per potere, scendendo vieppiù, assaltare il nervo dei repubblicani tra Peschiera e Mantova. La sinistra confidata al generale Davidowich, insistendo a mano manca dell'Adige, scendeva per Ala e Peri a Dolce, dove, fatto un ponte, varcava il fiume con intento di concorrere più da vicino all'opera della schiera Wurmseriana. Ma una parte di quest'ala sinistra, guidata dal generale Mezaros, continuando a scendere per la sinistra sponda del fiume, s'indirizzava verso Verona, donde potea, secondo le occorrenze, o condursi per Villafranca a Mantova, o non discostandosi dall'Adige, marciare a Portolegnago. Di tutte le parti dell'esercito Francese quella di Massena, che aveva i suoi alloggiamenti a Verona, a Castelnuovo e luoghi circostanti, si trovava in maggior pericolo, perchè là appunto si dovevano accozzare tutte le forze Austriache sulla sinistra del lago.
Era giunto al suo fine il mese di luglio, quando in tale modo ordinati marciavano gl'imperiali all'impresa loro. Già erano vicini alle prime scolte dei Francesi, che questi, dispersi tuttavìa nei diversi campi loro, principalmente in quello che cingeva Mantova, non avevano ancora fatto moto alcuno per mettersi all'ordine di resistere a quella nuova inondazione del nemico. Il che dimostra in Buonaparte od una presunzione non ragionevole, o imperfette informazioni de' suoi esploratori. Per verità egli si riscosse poco poscia con mirabile maestrìa dal pericolo in cui si trovava, ma sarebbe stato anche migliore consiglio l'averlo preveduto e prevenuto. Assaltavano gli Austriaci ferocemente l'antiguardo di Massena, governato dal generoso e buono Joubert, che era ai passi di Brentino e della Corona. Fu fortissima e lunga la difesa contro un nemico, che molto superava di numero. Finalmente furono quei forti passi sforzati dagli Austriaci, che, ritirantisi Joubert e Massena velocemente verso Castelnuovo, marciavano contro la Chiusa e Verona. Bene fu fortunato Massena, che gli Austriaci nol seguitassero con quella celerità medesima con la quale ei dava indietro; perchè se il contrario avessero fatto, avrebbero potuto facilmente impadronirsi, prima che vi passasse, delle strette di Osterìa, e tutta la sua schiera sarebbe stata da forze preponderanti o tagliata a pezzi o fatta prigioniera. La qual cosa dimostra viemaggiormente l'improvvidenza di Buonaparte; perchè Massena, lasciato solo in quei luoghi contro al maggior nervo dei Tedeschi, fu obbligato della sua salute ad un fallo certamente non probabile del nemico. Da un'altra parte Quosnadowich, urtato Sauret, che custodiva Salò, l'aveva vinto, non però senza una valorosa resistenza, quantunque i Francesi in questo luogo fossero deboli, e non pari a tanto peso. S'impadronivano gli Austriaci di Salò dopo la fazione, e quivi risplendeva chiaramente la virtù di Guyeux, il quale circondato da ogni banda dal nemico, elesse, piuttosto che arrendersi, di gittarsi dentro una casa, dove sebbene già gli mancassero le munizioni sì da guerra, che da bocca, si difendè con incredibile fortezza due giorni. Occupato Salò, correvano i Tedeschi a Brescia, e se ne impadronivano. Perdettero i Francesi nei fatti di Salò e di Brescia circa due mila soldati tra morti, feriti e prigionieri. I residui dei vinti si ritiravano a Lonato e a Desenzano. Avanzavasi intanto minacciosamente Wurmser medesimo, e già si avvicinava alle cercate rive del Mincio. Così avevano le cose Francesi fatto una grandissima variazione, ed erano cadute in grave pericolo prima che Buonaparte avesse mosso un soldato per opporsi a tanta ruina. Gli giunsero al tempo medesimo le novelle della rotta di Sauret, e della ritirata di Massena. Ordinava incontanente ad Augereau, che già marciava verso Verona per frenar l'impeto, se ancora fosse in tempo, di Mezaros, tornasse indietro prestamente, venisse a Roverbella, rompesse i ponti di Portolegnago, ardesse i carretti dei cannoni più grossi, trasportasse dai magazzini quanto in sì subito tumulto potesse. Arrivava Augereau a Roverbella; scoverse in tutti una grande confusione mista ad un gran terrore. Vi giungeva ancora Buonaparte, al quale Augereau, vedendolo smarrito dalla gravità del caso, rivoltosi, con parole animosissime il confortava. A queste esortazioni tornato Buonaparte quel che era, con un'arte e con un vigore degni di eterna commendazione ordinava quanto alla difficoltà del tempo si convenisse. Avvisandosi che non poteva combattere con vantaggio, se non unito, e che anche unito non era abbastanza forte per cimentarsi con l'esercito Tedesco intero, se gli desse tempo di rannodarsi, come evidentemente Wurmser aveva in pensiero di fare, si risolveva a raccorre le sue genti in uno per correre così grosso contro una parte sola del nemico, innanzi che questa avesse potuto congiungersi con le compagne, perchè la speranza, che non aveva di vincerle unite, l'aveva di vincerle separate.
Favoriva questo pensiero l'essere la mezzana e la destra degl'imperiali separate di largo spazio per mezzo del lago, del quale elleno non avevano la signorìa sicura, stantechè i repubblicani lo correvano con barche armate e leggiere. Nè poteva stare lungamente in dubbio, quale delle due parti dei Tedeschi ei dovesse assaltare; perciocchè intenzione primaria di Wurmser fosse di far allargare l'assedio di Mantova, nel qual fine insistendo, non sarebbe così facilmente corso in ajuto di un'altra parte de' suoi che pericolasse. Importava anche assai l'assalire la parte meno grossa, e nel tempo medesimo quella, che in un caso sinistro gli avrebbe potuto troncar la strada verso Milano. Fatte tutte queste considerazioni, si risolveva Buonaparte a far impeto col grosso de' suoi contro di Quosnadowich, che vincitore di Salò e di Brescia turbava ogni cosa a Desenzano, a Lonato, a Ponte-San-Marco, a Montechiaro, e già si accostava per congiungersi con Wurmser; il che, se gli fosse venuto fatto, sarebbe stato la ruina dei repubblicani. Perlochè chiamava a se tutte le sue genti, anche quelle che stavano a campo sotto Mantova, anteponendo con mirabile consiglio il perdere le artiglierìe, che servivano alla oppugnazione della piazza, al perdere l'esercito. Ordinate ed eseguite in men che non si potrebbe credere per la incredibile celerità dei soldati, tutte queste mosse, mandava a corsa considerabili rinforzi a Sauret, perchè ricuperasse Salò, e liberasse Guyeux che tuttavìa si difendeva valorosamente. Comandava a Dallemagne, assaltasse il nemico a Lonato e cacciasselo; imponeva ad Augereau lo rompesse a Ponte-San-Marco ed a Brescia, e verso Salò voltandosi, ajutasse Sauret, e facesse opera di tagliare il ritorno a Quosnadowich. Faceva anche attaccare con una grossa banda un corpo forte di Austriaci, che custodiva Desenzano a riva il lago. Ebbero tutti questi assalti, ancorachè fossero molto sanguinosi, massimamente quello di Desenzano, dove il reggimento di Klebeck, che sostenne con grandissimo valore quasi tutto il peso della giornata, perdè più di mille soldati, quel fine che Buonaparte si era proposto: entrarono vincitori, Sauret in Salò, Dallemagne in Lonato ed in Desenzano, Augereau in Montechiaro ed in Brescia. Quosnadowich, veduto che era alle mani con la maggior parte degli avversarj, che non aveva nuove che Wurmser accorresse in suo ajuto, e che temeva che il nemico, correndo a Riva, gli tagliasse il ritorno verso il Tirolo, si ritirava con passi frettolosi a Gavardo. Per tal modo Buonaparte co' suoi movimenti celeri ed ottimamente ordinati, sbaragliava in poco tempo un'ala intiera di Wurmser, che gli aveva già fatto molto male, ed avrebbe potuto fargliene un maggiore, se si fosse allargata, come aveva intenzione, nelle pianure verso il Milanese. Intanto per assicurare i luoghi abbandonati da Augereau, vi surrogava Massena con tutto il suo corpo di truppe.
Mentre tutte queste cose si preparavano e si facevano sulla destra loro, gli Austriaci s'impossessavano di Verona, e Wurmser, difilandosi per la sinistra del Mincio, entrava con un grosso corpo, ed in sembianza di vincitore in Mantova. Il presidio a gran festa guastava le trincee fatte dai Francesi, e tirava dentro le mura meglio di centoquaranta pezzi di grosse artiglierìe, che, trovati nella cittadella di Ancona, nel forte Urbano e nel castello di Ferrara, o presi per forza, o dati loro in mano dal papa in virtù della tregua, vi avevano condotto per battere la piazza. Wurmser, avuta questa vittoria, sapendo i primi prosperi successi di Quosnadowich, ed ignorando i sinistri, dava opera securamente a raccorre vettovaglie e bestiami per provvedere del fodero necessario quella importante fortezza. Ma gli fu breve la sicurezza; conciossiachè gli sopravvennero bentosto le novelle dei disastri accaduti a Quosnadowich; il che lo fece accorgere, che la fortuna Francese era ancora in istato, e tuttavìa più dubbio ciò, ch'ei credeva già sicuro. Considerato adunque che quello non era tempo da starsene, ed avendo ancora forze sufficienti per affrontarsi, con isperanza di vittoria, col nemico, usciva da Mantova, e se ne giva alle stanze di Goito, correndo la campagna co' suoi corridori fino a Castiglione. Era stato preposto alla guardia di questa terra da Buonaparte il generale Valette, che, veduto comparire il nemico, sbigottitosi con pochezza d'animo inescusabile, abbandonava il posto, ed andava con la sua squadra fuggiasca a seminar paura fra i repubblicani, che erano in possesso di Montechiaro. Questo accidente improvviso fece cader l'animo a Buonaparte, che, deponendo il pensiero di più volere assaltar il nemico, voleva ritirarsi sul Po, deliberazione veramente perniciosissima, e che sarebbe stata la rovina di tutta la guerra Italica: l'avrebbe anche mandata ad effetto, se Augereau più animoso di lui non l'avesse impedita confortandolo a rientrare nella sua solita magnanimità, ed a mostrare il viso alla fortuna. Debbe perciò la Francia restar obbligata della gloria acquistata nei campi di Castiglione più che a Buonaparte, ai consiglj di Augereau avanti il fatto, ed al suo valore nel fatto. Ma Buonaparte non ancora ripreso l'animo, e la mente ancor piena del grave pericolo in cui si trovava, stava tuttavìa dubbio e spaventoso, nè sapeva risolversi nè al combattere, nè al ritirarsi. Augereau, che il conosceva, lo esortava ad appresentarsi ad una mostra di soldati. Quando eglino videro il capitano loro, con atti di vivezza, di giubilo, e di estro Francese, con lietissime grida il confortavano a star di buon animo, a non aver timore, a fidarsi in loro: gli conducesse pure alla battaglia; e sclamando, viva Buonaparte, viva la repubblica, facevano echeggiare i colli di Castiglione di quel romore festivo. Or bene sia, disse Buonaparte, accetto il felice augurio, domani vedrete in viso il nemico.
In questo mezzo Quosnadowich, che era capitano ardito e pratico, ricevuti alcuni rinforzi alle sue stanze di Gavardo, ed avute le novelle dello avanzarsi di Wurmser verso Castiglione, conoscendo di quanta importanza fosse il fare ogni sforzo per congiungersi con esso lui ad un impeto comune, od almeno il consuonarvi per una diversione, usciva di nuovo in campagna, e prostrato Sauret, che gli stava a fronte, e fattosi signore di Salò, velocemente scendeva con forze poderose verso Lonato. L'antiguardo di Quosnadowich condotto dal generale Ocskay già si era impossessato di Lonato; le cose divenivano pericolosissime pei repubblicani. In questo forte punto Massena arrivava col suo antiguardo vicino a Lonato, e volendo ricuperare quel sito, in cui consisteva la somma della fortuna, perchè se gli Alemanni vi si mantenevano, si difficoltava molto l'impedire la unione di Quosnadowich con Wurmser, mandava il generale Pigeon, ma non con gente a sufficienza, ad assaltare Ocskay. Fu durissimo l'incontro. Pigeon non solamente fu rotto e vinto, ma perdè tre pezzi d'artiglierìe leggieri, e venne prigioniero in mano del nemico. Udito il caso, accorrevano Massena e Buonaparte per rimediare alla fortuna vacillante. Ordinava il generalissimo un grosso squadrone assai fitto, e lo mandava a serrarsi addosso al centro del nemico, il quale insuperbito per la prima vittoria, e credendo, non solo di vincere, ma ancora di prendere tutto il corpo repubblicano, distendeva le sue ali con pensiero di cingere i soldati di Buonaparte. Questa mossa, debilitando il mezzo della fronte, diè del tutto la vittoria ai Francesi; imperciocchè mentre Massena raffrenava l'impeto dell'ali estreme degl'Imperiali con mandar loro incontro quanti feritori alla leggiera potè raccorre, Buonaparte con quel fitto squadrone dava dentro alla mezza schiera. Faceva ella una viril difesa, non senza grave uccisione dei repubblicani; ma finalmente non potendo più reggere a sì impetuoso assalto, sbaragliata cedeva il campo, ritirandosi verso il lago, principalmente a Desenzano. Fu liberato Pigeon; si racquistarono le perdute artiglierìe. I Francesi seguitavano gli Austriaci a Desenzano, e gli avrebbero condotti all'ultima fine, se non era che, sopravvenendo con ajuti mandati da Quosnadowich il principe di Reuss, gli metteva in salvo col condurgli a luoghi sicuri verso Salò. In tutte queste zuffe tanto miste ebbe più parte la fortuna che l'arte, e sebbene i disegni dei generali Tedesco e Francese fossero certi, del primo di calare, del secondo d'impedire che calasse, pare a noi, che Quosnadowich abbia meglio eseguito il suo intento, che Buonaparte, perchè quegli calò quando volle, e questi non l'impedì quando volle; ed anche si può argomentare da tutti i fatti successi sulla destra del lago, che il generale repubblicano abbia più operato a caso, o per necessità, che con proposito deliberato, dominato piuttosto, che dominatore della fortuna.
Mentre queste fazioni succedevano sulla sinistra dei Francesi, Augereau, che non voleva che Castiglione fosse perduto, perchè quel sito era il principale impedimento alla unione delle diverse parti dell'esercito Tedesco, indirizzava le sue genti al riacquistarlo; ma già i Tedeschi l'avevano munito con un forte presidio, conoscendo l'importanza della terra, con farvi alloggiare una forte banda di soldati, che era l'antiguardo di Wurmser governato dal generale Liptay. Il castello, i colli vicini, ed il ponte erano guerniti di molti e buoni soldati, tanto più confidenti in se medesimi, quanto Wurmser, spuntando da Guidizzolo, si avvicinava con tutte le sue genti. Ordinava Augereau per modo i suoi, che il generale Beyrand assalisse il corno sinistro degli Austriaci, e per assicurare vieppiù questa parte, comandava al generale Robert, facesse un'imboscata per riuscire alle spalle degli Alemanni. Verdier con un grosso nervo di granatieri era per assaltare nel mezzo il castello medesimo di Castiglione, e nella parte superiore il generale Pelletier si apparecchiava ad urtare la destra del nemico. Ma per provveder meglio ad ogni caso fortuito, ordinava Buonaparte, che la schiera di ultima salute condotta dal generale Kilmaine andasse ad unirsi ad Augereau, perchè fosse più fortemente sostenuta la battaglia. S'incominciava a menar le mani molto virilmente da ambe le parti, era il dì tre d'agosto; animava gli uni la memoria delle vittorie fresche, e la presenza dei loro generali Buonaparte ed Augereau, gli altri il vicino soccorso del maresciallo. Dopo una ostinatissima difesa Liptay, non potendo più reggere, si ritirava: anzi scrivono alcuni, che disperando affatto della giornata, già si fosse risoluto di arrendersi. Ma o che in questo punto si fosse accorto, che i repubblicani non erano tanto numerosi quanto a prima giunta si era persuaso, come si narra da qualche storico, o che, come altri credono, avesse veduto un grosso di cavallerìa Tedesca, che accorreva galoppando in suo ajuto, ripreso animo, ritornava alla battaglia più animoso di prima. Già con incredibile valore combattendo, rendeva dubbia la vittoria, quando Robert, uscendo fuori dall'imboscata, a gran furia lo assaliva. Questo urto improvviso disordinò tanto gli Alemanni, che si ritiravano, lasciando la terra di Castiglione in potestà dei Francesi. Ebbe in questo punto Liptay qualche rinforzo delle prime truppe di Wurmser che arrivavano. Per la qual cosa si fece forte al ponte, che non aveva ancor perduto, e continuava a tempestare con costanza veramente Austriaca. Il contrasto diveniva più sanguinoso di prima, si combatteva fortemente su tutta la fronte. Finalmente i Francesi, spintisi avanti con la solita concitazione, e non essendo ritardati nè dagli urti che ricevevano sul ponte, nè dalla fama che già tutta l'oste Tedesca fosse arrivata, conquistarono il ponte: il che sforzò gl'imperiali a ritirarsi. Ma già i Francesi seguitando il favor della fortuna, rompevano, tanta era la pressa che quivi facevano Beyrand e Robert, l'ala sinistra degli Austriaci, e l'avrebbero anche conculcata del tutto, se una batterìa posta opportunamente sopra di un poggio vicino non avesse raffrenato l'impeto loro. Ciò fu cagione, che tenendo ancora gli Austriaci la posizione loro dietro Castiglione, impedirono ai Francesi l'inoltrarsi nella pianura, che separava l'ala destra dalla sinistra degl'imperiali, e si crearono abilità di sostenere nel medesimo luogo, due giorni dopo, un'altra ostinata battaglia. In questa fazione combattuta con grandissimo valore da ambe le parti, perdettero gli Austriaci fra morti, feriti, e prigionieri quattro mila soldati con venti bocche da fuoco. Nè fu lieta la vittoria ai Francesi; perchè mancarono di loro più di mila soldati eletti, fra i quali a molto onore si nominano Beyrand, Pourailler, Bourgon, e Marmet.
Nondimeno le sorti d'Italia stavano ancora in pendente: Wurmser, nel quale si possono lodare una attività ed un vigor d'animo superiori all'età, aveva raccolto tutte le sue genti, e si apparecchiava ad ingaggiare una nuova battaglia, che doveva por fine a quell'acerbissima contesa, ed a quelle pugne sparse, che da più giorni duravano, più sanguinose che terminative. Aveva un novero di venticinque mila soldati di pruovato valore; gli schierava per forma che la sinistra si appoggiasse all'eminenza di Medolano, che si erge fra Guidizzolo e Castiglione, la destra si distendesse fino a Solfarino. Buonaparte ancor egli aveva fatto opera, che tutti i suoi venissero a congiungersi insieme per sostenere un cimento tanto pericoloso. Già la più gran parte era raccolta fra la terra di Castiglione, e la fronte dei Tedeschi, e per tal modo l'ordinava, che l'ala sinistra guidata da Massena potesse assaltare la destra del nemico, Augereau con la mezzana desse dentro al mezzo, e finalmente Verdier con le fanterìe, e Beaumont coi cavalli urtassero la sinistra. Ma il generale della repubblica, che non aveva usato nel raccorre i suoi la medesima celerità che l'emolo suo, quantunque vecchio, usato aveva; e volendo in giornata di tanta importanza rendere per lui sicuro per tutti i mezzi l'esito del conflitto, aveva comandato alla schiera di Serrurier, che era sotto la cura di Fiorella, e stava alle stanze sulle rive del Po a Bozzolo ed a Marcarìa, camminasse celeremente verso Castiglione, e ferisse di fianco la punta sinistra degl'imperiali. Il quale consiglio fu molto a proposito, come si vedrà dal progresso dei fatti che seguirono. Nè parendo per la sagacità sua a Buonaparte, che questi preparamenti bastassero, s'indirizzava a Lonato per vedere, se fosse possibile di far venire altre genti da quella terra al tempo principale. Quivi successe un caso molto mirabile, secondochè narrò Buonaparte, e ripeterono tutti gli storici di quei tempi e dei tempi posteriori, e questo fu, che il generale di Francia, andando a Lonato con persuasione di trovarvi i suoi, ed avendo con esso lui solamente una squadra di dodici centinaja di soldati, vi trovasse in vece un corpo Tedesco grosso di quattromila combattenti tra fanti e cavalli con non pochi pezzi di artiglierìa. Era Buonaparte in gravissimo pericolo, e già il comandante Alemanno gl'intimava, si arrendesse. Ma egli, accorgendosi che in accidente tanto improvviso, dove non valeva la forza, l'audacia doveva supplire, al Tedesco con sicuro volto rivoltosi, gli disse, maravigliarsi bene ch'ei tanto presumesse di se medesimo, che si ardisse chiamar a resa Buonaparte vittorioso nel suo principal campo stesso, e cinto da tutto il suo esercito: andasse, e da parte sua al suo generale recasse, che se subito non s'arrendesse, ed in poter suo disarmato non si desse, pagherebbe colla morte il fio di tanta temerità. Erasi, come narrano gli storici, accorto Buonaparte, raccogliendo nella sua mente tutti i fatti di quei giorni, che quella squadra fosse la gente fuggiasca di Desenzano, che, avendo trovato i passi di Salò chiusi da Guyeux, o andasse errando a casa, o si sforzasse di raggiungere il corpo principale di Wurmser. Vogliono che i Tedeschi intimoriti, deposte le armi, si arrendessero a discrezione.
Questo fatto abbellito da graziose parole si rende credibile, se si considera l'audacia Francese, soprattutto quella di Buonaparte, capace di questo, ed anche di molto più; ma si stimerà incredibile, se si pon mente, che qualunque si voglia supporre la bonarietà Tedesca, non può ella però esser tale che scenda all'estremo della semplicità, quale la dimostrerebbe la narrazione di Buonaparte. Pure esso è affermato da tanti storici degni di fede, che noi saremmo disposti a prestarvi credenza, se nell'animo nostro nol rendesse dubbio il considerare, che niuna fama primitiva del medesimo ne suonò a Lonato, che mai non si disse, nè si seppe chi fosse il generale Tedesco che governava la squadra fatta captiva, e il nominarlo avrebbe tolto ogni dubbio; che gli Austriaci in tutte le mosse ed in tutti i combattimenti di quei giorni, non che abbiano mostrato o semplicità, o viltà, diedero segni di somma avvedutezza e di sommo valore; che la colonna ritiratasi a Desenzano dopo l'aspra battaglia di Lonato obbediva ad Ocskai ed al principe di Reuss, l'uno e l'altro soldati da non lasciarsi ingannare nè intimorire così alla prima, e uomini di tal nome, che portava pure il pregio che si nominassero, se in quell'accidente maraviglioso avessero ornato disarmati e vinti il trionfo di Buonaparte; che un grosso di quattromila Austriaci congiunto a quel corpo, che già signore di Ponte-San-Marco, e della strada per a Brescia, non erano tali che non potessero sforzare il passo di Salò, e che avessero paura della piccola quadriglia di Guyeux, che occupava questa terra, considerato massimamente che una non debole mano di Tedeschi alloggiava ancora a Gavardo; che finalmente quel correre liberamente la strada da Brescia a Lonato, quell'occupare fortemente quest'ultima terra e quell'intimare così fiero e così replicato a Buonaparte, che si arrendesse, non dimostrano uomini fuggiaschi e timorosi. Certamente o è falsa la dedizione dei Tedeschi, o sono false le circostanze narrate dagli storici. Ma se il fatto è vero, non so come si possa scusare un generalissimo, che dà dentro alla cieca in una schiera nemica tanto grossa, che l'uscirle di mano fu piuttosto cosa miracolosa che maravigliosa. Adunque Buonaparte non aveva spie? adunque non correva la campagna con gli esploratori? adunque viaggiava così alla sicura in un paese, dove le truppe ed Austriache e Francesi, e le zuffe loro erano tanto miste, e verso quella parte, donde sapeva che Quosnadowich voleva sboccare per unirsi con Wurmser? Certamente una tale sicurezza era molto impertinente al tempo presente, e Buonaparte non era uomo da commettere questi errori; perciò si rende molto dubbio il fatto. Che se poi ad ogni modo è vero, dovrassi il capitano di Francia tanto biasimare dell'imprudenza che lo condusse in poter del nemico, quanto lodare dell'audacia con la quale se ne liberò.
Tutte queste fazioni, quantunque di gran momento fossero. non avevano ancora intieramente giudicato la fortuna delle armi fra i due potenti emoli, e restava ancora a determinarsi in una battaglia campale, se le speranze dall'imperatore d'Alemagna poste nella virtù di Wurmser, e tutto quello sforzo per la ricuperazione d'Italia avessero a riuscire o fruttuosi, o vani. Erasi, come abbiam narrato, il maresciallo Austriaco accampato tra Medolano e Castel Venzago a fronte di Castiglione, tra la quale terra e le sue genti se ne stavano schierati i Francesi. Erano i soldati delle due parti stanchi dai lunghi viaggi e dalle frequenti battaglie, e però, sebbene a fronte gli uni degli altri già si trovassero il giorno quattro agosto, nissun motivo fecero per affrontarsi. Piaceva l'indugio a Buonaparte, perchè attendeva alcune genti fresche, e perchè principalmente sperava che Fiorella, in cui era posta la più forte speranza della vittoria, arrivasse in luogo, donde potesse partecipare al combattimento. La mattina del giorno seguente, appena aggiornava, essendo giunto il tempo, che Buonaparte si era prefisso come conveniente alla sua impresa, e non movendosi gl'imperiali, disposti piuttosto ad aspettare che a dar la carica, comandava ad Augereau, ed a Massena, che assaltassero il nemico; ma essendo suo intento che solo s'ingaggiasse la battaglia, ma non si tentasse perancora di sforzar l'inimico, ordinava loro, che, dato il primo urto, e tosto che gli Austriaci uscissero dal campo per seguitargli, si ritirassero. La cosa successe come il capitano Francese l'aveva ordinata; perchè, non così tosto si era incominciato a menar le mani, gli Alemanni, che si sentivano forti, saltando fuori degli alloggiamenti, urtavano gagliardamente i Francesi, che, fatto un po' di resistenza, per ubbidire ai comandamenti del capitano generale, si tiravano indietro. Dalla quale mossa molto a proposito fatta prendendo animo Wurmser, andava distendendo l'ala sua destra verso Castel Venzago con intenzione di circuire la sinistra dei Francesi retta da Massena, e di dar la mano a Quosnadowich, di cui non sapeva le rotte. Quest'era appunto il desiderio di Buonaparte, conciossiachè suo pensiero fosse di urtare piuttosto e sbaragliare la sinistra di Wurmser, perchè conosceva i sinistri casi di Quosnadowich; la fortezza di Peschiera, che era in suo potere, l'assicurava sul suo fianco sinistro, e Fiorella stava in procinto di arrivare sul campo di battaglia contro la punta sinistra dei Tedeschi. A questo fine, mentre Massena ed Augereau sostenevano l'urto degli Austriaci a stanca ed in mezzo, mandava Buonaparte Verdier con un forte polso di granatieri, e con un reggimento di cavallerìa ad assaltare le trincee erette sul colle di Medolano. Ma perchè questo assalto riuscisse meno sanguinoso nel fatto, e più felice nel fine, ordinava che il colonnello Marmont, soldato molto pratico a governar le artiglierìe, posti venti pezzi grossi nella pianura di Medole, fulminasse quel ridotto nemico. Rispondevano furiosamente dal colle di Medolano le artiglierìe Austriache, e ne seguitava un sanguinoso combattimento. In mezzo a tanto rimbombo si faceva avanti con singolar valore Verdier, a cui era compagno Beaumont. Perveniva Verdier al ridotto, e dopo un'asprissima contesa e molto sangue, se ne impadroniva. Al tempo medesimo Beaumont, precipitandosi a corsa verso il villaggio di San Canziano dietro la estremità sinistra degl'imperiali, che già vacillava trovandosi spogliata di quel principale fondamento del ridotto, accresceva terrore ai fuggiaschi, e lo dava ai contrastanti. Nè questo bastando a dare l'ultima stretta, arrivava, tanto bene aveva Buonaparte disposte le cose, in questo punto stesso Fiorella coi soldati di Serrurier, che dando dentro incontanente ai nemici, che non se l'aspettavano, gli sforzava a rotta manifesta.
Wurmser per ristorare la battaglia, che era in questo luogo in tanta declinazione, vi mandava in fretta la cavallerìa, che urtando Beaumont e Fiorella, frenava per qualche tempo l'impeto loro. Ma Buonaparte, veduto che era giunto il momento di vincere, fe' caricare con tutto lo sforzo di Massena e di Augereau l'ala destra e la mezzana dei Tedeschi. Spediva altresì in fretta alcuni rinforzi a Fiorella, il quale anche acquistava nuove forze per l'accostamento successivo delle sue genti, che, rimaste indietro, ora a grado a grado arrivavano. Diventava allora la battaglia generale su tutta la fronte, e se il capitano Francese aveva mostrato, sì prima che nel mentre del fatto, maggior perizia dell'antico capitano dell'Austria, i soldati Austriaci si dimostrarono pari pel valore ai soldati Francesi. Fuvvi che fare assai per questi alla torre di Solfarino, che virilmente assalita, fu anche virilmente difesa. Prevalse infine del tutto la fortuna repubblicana, perchè Massena pressava con vantaggio dal canto suo il nemico, Augereau lo vinceva a Solfarino, Verdier, Marmont, Beaumont e Fiorella lo perseguitavano rotto e disordinato a Cavriana. Così tutto l'esercito Alemanno, parte rotto, parte intiero si ritirava al Mincio; il qual fiume prestamente varcato a Valeggio, e la stanchezza dei perseguitatori il preservarono da maggior danno. Questa fu la battaglia di Castiglione combattuta con arte mirabile da Buonaparte, e con gran valore da Augereau. Da questa medesima acquistò poscia quest'ultimo il nome di duca da Buonaparte creatosi imperatore. Scemarono gli Austriaci in questo fatto di meglio di tre mila soldati o morti, o feriti, o prigionieri, di trenta cannoni, di centoventi cassoni, e di munizioni da guerra in proporzione. Non arrivò a mille la perdita dei Francesi; fra loro di soldati di nome mancò il solo generale Frontin. In tutte queste zuffe intricate, miste e sanguinose, che in pochi giorni si attaccarono fra Wurmser, e Buonaparte, piansero i Tedeschi più di ventimila soldati, e circa quattrocento ufficiali. Fecero anche conspicua la vittoria dei repubblicani settanta cannoni presi. Poco meno esiziali furono le armi imperiali ai Francesi, poichè mancarono dalle insegne di Francia meglio di diecimila soldati o morti, o feriti, o caduti in mano degl'Imperiali.
La vittoria di Castiglione, che tanto affliggeva la potenza dell'Austria, poneva di nuovo l'Italia in potestà di Buonaparte: perchè Wurmser, quantunque non fosse scoraggiato dalla fortuna contraria, ridotto a poche genti, non poteva più contendere col fortunato suo emolo dell'imperio di quella contrada, destinata oramai ad essere preda dei combattenti, o serva dei vincitori.
Buonaparte, conseguita con tant'arte e con tanta fortuna sì gloriosa vittoria, si risolveva a perseguitar celeremente le reliquie del suo avversario, sì perchè non voleva dargli tempo di rifarsi, e sì perchè in aura sì favorevole gli tornavano in mente i vasti pensieri, già molto tempo da lui spiegati al direttorio, di volere andar ad assaltare, valicando i monti del Tirolo, il cuore della Germania, per conculcarvi del tutto, congiunto che fosse con Moreau e Jourdan, che guerreggiavano sul Reno, la potenza dell'Austria. Le fresche vittorie, ed il terrore concetto per loro dai popoli e dai soldati nemici, era occasione favorevole a così gran disegno. Perlochè si accingeva a voler tosto passare il Mincio, per vedere quello che preparasse la fortuna sulla sinistra sponda contro il capitano dell'Austria. A questo fine faceva trarre furiosamente da Augereau con le artiglierìe contro Valeggio per dare in questo luogo riguardo al nemico, mentre Massena sospintosi avanti per Peschiera tenuta tuttavìa da' suoi, sbaragliava, secondandolo virilmente Victor, Liptay, che fu costretto di ritirarsi a Rivoli. Wurmser, veduto da questo fatto che non era più tempo da aspettare a ritirarsi in Tirolo, rinfrescata di nuove genti Mantova, si metteva in viaggio per salire per la valle dell'Adige. Il seguitavano Massena, Augereau e Fiorella. Si appresentava quest'ultimo alle porte di Verona con animo di entrarvi per perseguitare gli Austriaci, che dentro, sebbene in picciol numero, si trovavano, ed in fretta si apprestavano a partire per le rive superiori dell'Adige. Chiedeva Fiorella le si aprissero. Il provveditore Veneto, che temeva che se due nemici tanto sdegnati l'uno contro l'altro, e nel bollor del sangue dei fatti recenti si azzuffassero dentro le mura, ne sarebbe sorto qualche grande sterminio, rispondeva che le aprirebbe, passate due ore. L'intento suo era di dar tempo agli Austriaci di sgombrare, acciocchè Verona non diventasse campo di battaglia. Buonaparte sopraggiunto fulminava le porte coi cannoni, ed entrava vincitore. Successero alcune sparse zuffe coi Tedeschi, non senza terrore dei Veronesi, e se gli Austriaci fossero stati o più numerosi o più animosi seguiva qualche funesto accidente. Ma i repubblicani, mostrando moderazione, eccettuate alcune ingiurie fatte nell'oscurità della notte, conservarono la terra intatta.
Entrato per tal modo in Verona il generalissimo di Francia, ed animati di nuovo i suoi con un manifesto, in cui gli paragonava, certo con ragione pel coraggio, ai soldati di Maratona e di Platea, gli conduceva alle fazioni del Tirolo. Saliva col grosso per le rive dell'Adige, contro Wurmser; Sauret in questo mentre, per ordine suo, camminando all'insù della sponda occidentale del lago, andava a ferire Quosnadowich e il principe di Reuss. Dovevano entrambi raccozzarsi in su quel di Roveredo per andarsene poscia ad occupar Trento, metropoli del Tirolo Italiano. Furono da Sauret cacciati gli Austriaci da tutti i posti sul lago per modo che, abbandonata Rocca d'Anfo e Lodrone, si ritirarono ai luoghi superiori di Arco. Dal canto suo Buonaparte, per opera di Massena e di Augereau, superati, non senza sangue, i siti forti di Corona e di Preabocco, e più su di Ala, di Serravalle e di Mori, mentre Vaubois si alloggiava in Torbole, compariva con mostra vittoriosa in cospetto di Roveredo. I Tedeschi già rotti a Mori, e spaventati da un furioso assalto di Rampon in Roveredo, abbandonarono frettolosamente la terra con andare a posarsi nel sito fortissimo, che chiamano il Castello della Pietra, o di Calliano. Solo passo a questa terra a chi viene di sotto, è una stretta forra, che è serrata a destra da monti inaccessibili, a sinistra dall'Adige. La terra medesima poi distendendosi anch'essa dal monte al fiume, serra il passo, ed appresenta verso la profonda forra un grosso muro merlato, che rende assai facile la difesa. Per questa strettura dovevano passare, e questa muraglia, munita dai Tedeschi di grosse artiglierìe, espugnare i Francesi per andare all'acquisto di Trento. Speravano gl'imperiali, se non di arrestare l'impeto del nemico in questo luogo, almeno di starvi forti tanto, che ogni cosa potessero mettere in sicuro alle spalle. Ma quei presti repubblicani, capaci a sostenere le battaglie giuste nei luoghi piani, e molto più capaci ancora a far le guerre spedite e spartite dei monti, ebbero assai presto superati tutti gli ostacoli, che e la natura del sito, e l'arte del nemico aveva loro opposto. Imperciocchè il generale Dammartin, allogate, con incredibile fatica, alcune artiglierìe in un luogo creduto per lo innanzi inaccessibile, donde feriva di fianco la stretta, ed i feritori alla leggiera, destrissimi ed animosissimi, come sono ordinariamente i Francesi, arrampicatisi per luoghi dirupati e precipitosi, togliendo sicurezza a quel forte passo, tempestavano contro i difensori molto furiosamente. Vedutosi da Buonaparte il successo di queste cose, comandava a tre battaglioni di disperato valore, dessero dentro alla forra a precipizio senza trarre, ed assaltassero il castello, che in fine di quella torreggiava. Nè fu meno pronta la esecuzione di quanto fosse risoluto il comandamento; perchè messisi i battaglioni a quello sbaraglio, in meno tempo che uomo non concitato a presti passi farebbe, passarono la forra, menando grande strage degli Alemanni. Spaventati e rotti i Wurmseriani abbandonarono all'audacissimo nemico non solo la strada, ma anche la forte muraglia, ritirandosi a gran fretta a Trento. Nè credendovisi sicuri, e lasciandolo in balìa di se medesimo, e certa preda ai repubblicani, si ritirarono sulla destra del Lavisio sulla strada per a Bolzano. Tale fu l'esito della battaglia di Roveredo, combattuta il dì quattro settembre, nella quale risplende vieppiù chiaramente il valor dei Francesi, già tanto chiaro per le precedenti fazioni. Perdettero gli Austriaci, con venticinque cannoni, tre in quattro mila soldati morti, feriti, o prigionieri. Dei Francesi pochi mancarono, per la speditezza del fatto.
Perduto il forte sito di Calliano, restava Trento senza difesa. Infatti il cinque settembre, ritiratosene il giorno precedente il vescovo, principe dell'impero germanico, vi entravano i Francesi vittoriosi, prima Massena, poi Vaubois, il quale, non potendo tollerare sotto gli occhi suoi propri i ladronecci di Toscana, e preferendo i pericoli di morte al veder l'infamia, aveva instantemente chiesto di esser mandato al campo. Divenuto Buonaparte signore di Trento, veniva tosto in sulle lusinghevoli parole, dichiarando, volere, che la città e principato di Trento fossero per sempre liberati dalla superiorità Tedesca, e posti in libertà. Laonde, cacciati tutti coloro che per parte dell'impero germanico vi tenevano i magistrati, vi surrogava i nativi, con eleggergli tra quelli che erano più avversi al dominio Tedesco, o più amatori del nome Francese, o più zelanti di novità. Del rimanente poco importava al generale della repubblica lo stato dei popoli Trentini: bensì gli premeva di sollevare con dolci discorsi i popoli della vicina Germania, affinchè tumultuando contro i principi loro, gli rendessero facile l'impresa di congiungersi coi soldati di Ferino mandati avanti da Moreau con questo intento. Certo era, che chiamata a sedizione la Baviera, l'imperatore d'Alemagna sarebbe stato ridotto in estremo pericolo, o costretto ad accettare patti disonorevoli. Questi erano i pensieri ai quali era venuto Buonaparte, per la vastità della sua mente e per lo stimolo delle vittorie.
Gli rompeva questi disegni l'antico Wurmser. Aveva il capitano Austriaco considerato, che Buonaparte si era recato nell'animo, ch'ei fosse per difendere per quei luoghi alpestri con le reliquie de' suoi i passi della Germania. Credeva anzi, che il generale di Francia fosse confidente di venire a capo di questo suo intento; perciocchè si vedeva probabile, che coloro i quali avevano vinto con tanto impeto le strette di Calliano, potrebbero anche facilmente superare gli altri passi del Tirolo. Ma il pratico e tenace Alemanno fece avviso, che quello che combattendo di fronte non avrebbe potuto conseguire, il potrebbe per modo di diversione. Deliberossi adunque con animoso e ben ponderato consiglio di voltarsi di nuovo all'Italia, sperando che per la sua presenza inopinata in questa provincia, aggiuntovi qualche rinforzo che testè gli era giunto dal Norico, avrebbe potuto farvi qualche variazione, od almeno ritirarsi al sicuro nido di Mantova. Qualunque avesse ad essere o prospero od avverso l'esito di questa fazione, bene era certo l'effetto di tirare nuovamente Buonaparte in Italia, e di stornare per questo mezzo quella terribile tempesta dalla nativa Germania. Nasce la Brenta poco lontano da Trento, e correndo nel fondo di una valle profonda tra monti aspri e discoscesi, arriva a Bassano, luogo dove incominciano ad aprirsi le dilettevoli pianure del Padovano e del Vicentino. Questa è la strada che conduce da Venezia a Trento per la più diritta, senza passar per Verona. Adunque il maresciallo, già fin quando si combatteva a Roveredo ed a Calliano, s'incamminava, scendendo a gran passi, per la valle Brentana, intento suo essendo di congiungersi in Bassano con gli ajuti, che venuti dal Norico sotto la condotta dei generali Mitruski e Hohenzollern si erano ridotti ad aspettarlo in quella città. Si era persuaso che il suo avversario, udita la strada presa da lui, non solamente deporrebbe il pensiero di assaltar la Germania, ma ancora scenderebbe a gran passi a seconda dell'Adige per andar a far argine a quel nuovo impeto nelle vicinanze di Verona. Della prima opinione non s'ingannava Wurmser, perchè effettivamente Buonaparte, abbandonata l'impresa di Germania, si rivoltava verso l'Italia; ma bene non prese la via dell'Adige, anzi, sprolungata la destra de' suoi per la valle medesima della Brenta, seguitava frettolosamente, divallandosi ancor esso, le genti Alemanne. Erano guidatori principali di questi presti soldati, secondo il solito, quei due folgori di guerra Massena e Augereau. Questa deliberazione fece Buonaparte per interrompere a Wurmser ogni comunicazione coi corpi che lasciava ai luoghi più alti del Tirolo, e perchè non altra speranza di salute restasse al capitano dell'imperatore, se non quella o di ritirarsi più che di passo alle montagne donde sorge la Piave, o di far opera di condursi a Mantova. Marciarono tanto speditamente i repubblicani, che giunsero gl'imperiali a Primolano, e gli vinsero con presa di molti soldati, non però di quattromila, come fu scritto, che è un'amplificazione di parole molto evidente. Si combattè poscia a Cismone, si combattè a Selagno, e sempre felicemente pei Francesi. Già quel nembo era vicino a scoccare contro Bassano, dov'era il corpo principale di Wurmser. L'assaltarono correndo Augereau a sinistra, Massena a destra, e tosto il ruppero, avendo fatto, in ciò dissimile da se medesimo, invalida difesa, con grande ammirazione e sconforto di Wurmser, che si era confidato nella fortezza di quel passo posto alla sboccatura della valle della Brenta. Ora nissun altro partito restava al maresciallo d'Austria, poichè sì presti l'avevano sopraggiunto i Francesi, se non quello di ritirarsi per far pruova di guadagnare le sicure muraglie di Mantova. Adunque, velocemente marciando, e velocemente ancora seguitato dai repubblicani, passava l'Adige a Porto Legnago, batteva Massena a Cerea, Buonaparte a Sanguineto, ed entrava coi soldati tutti sanguinosi, ma con aver fatta sanguinosa la vittoria anche al nemico, dentro i ripari della forte Mantova.
Questo fu il fine dell'impresa di Wurmser in Italia, e del poderoso esercito che vi condusse. Ne fu afflitta la Germania, ne fu lieta la Francia, ne pendè di nuovo incerta l'Italia del destino che l'aspettasse; perchè nè Mantova era piazza che si potesse facilmente espugnare, nè l'imperator d'Alemagna era tale, che non fosse per fare un nuovo sforzo per riconquistar le rive tanto infelicemente feconde dell'Adda, del Ticino e del Po.
Siede Mantova, città antica e nobile, in mezzo ad un lago che il fiume Mincio, calandosi da Goito in una gran fondura, forma, ed in tre parti si divide, separate una dall'altra da due ponti, dei quali il superiore, da presso a porta Molina dipartendosi, dove sono i molini dei dodici apostoli, dà l'adito dalla città alla cittadella posta a tramontana; l'inferiore apre il varco dalla porta di San Giorgio al sobborgo di questo nome situato a levante. La prima parte del lago tra la bocca del fiume, dove entra nel lago medesimo, ed il superior ponte frapposta, chiamasi col nome di lago superiore; la seconda rinchiusa fra i due ponti, con quello di lago di mezzo; e finalmente quella parte che dal ponte inferiore partendo, insino all'emissario si distende, col nome di lago inferiore si appella. Nè tutta la città è circondata da acque libere e correnti; conciossiachè il Mincio, a stanca verso la cittadella precipitandosi, lascia i terreni a dritta o del tutto scoperti, o di poche acque velati, ma limacciosi tutti, ed ingombri di erbe e di canne palustri. Questa è la palude, che si dilata, e circuisce le mura, cominciando da porta Pradella, per cui si ha la via a Bozzolo ed a Cremona, insino a porta Ceresa, per cui si va alla strada di Modena. Così girando da porta Pradella per tramontana e levante fino a porta Ceresa, è Mantova bagnata dalle acque dei tre laghi; e dando la volta dalla medesima porta Pradella per Ponente ed Ostro fino a porta Ceresa, è circondata da un profondo ed instabile marese, eccettuata una parte di terreno più sodo situata a guisa di penisola da porta Postierla a porta Ceresa. Quivi sorge il castello del T, così chiamato, perchè per singolar guisa d'architettura ha forma di questa lettera dell'alfabeto. Si ammirano in lui quelle belle pitture a fresco, che rappresentano la battaglia di Giove e dei Titani, opera tanto celebrata di Giulio Romeno, nativo di Mantova. Questa penisola si congiunge al corpo della città per parecchi ponti: ma i principali aditi alla campagna si aprono pei due suddetti ponti della cittadella, e di San Giorgio, e per mezzo degli argini, che partendo dalle porte Pradella e Ceresa, ed attraversando la palude, menano i viandanti all'aperto. Oltre le anzidette porte sonvene alcune altre minori, o piuttosto uscite che porte, le quali danno sul lago, e sono quelle della Catena, della Pomponassa, di San Niccolò, degli Ebrei, d'Ozzolo, di San Giovanni e del Filatojo. Ma siccome la palude a nissun modo varcabile è difesa più forte del lago, che con le barche si può passare, così per assicurare la piazza là dove guarda il lago, fu eretta a tramontana la cittadella, che chiude il passo a chi venisse da Verona, ed il forte San Giorgio a levante contro chi volesse andar contro alla terra, procedendo da Portolegnago e da Castellara. Non ostante, parti pericolose erano le due estremità della palude, perchè là sono gli argini che accennano alle due porte principali per la via di terra, cioè Pradella e Ceresa. Per questa cagione furono affortificate con bastioni, e con altre opere di difesa. Nè fu lasciata senza munizioni la porta Postierla, la quale, avvegnachè si apra quasi nel mezzo di una cortina, ha per difesa a destra il forte bastione di Sant'Alessi, a sinistra un'alta di muro chiamata la torre di Sant'Anna. Per dare poi maggiore forza a questa parte, principalmente a porta Ceresa, e per impedire soprattutto che il nemico non possa fare un alloggiamento nella penisola del T, furono ordinate alcune trincee con terrati e terrapieni sull'orlo di lei, e nel luogo che chiamano il Migliaretto. Così, oltre le acque e la palude, le principali difese di Mantova consistono nella cittadella, nel forte San Giorgio, nei bastioni di porta Pradella e di porta Ceresa, ed in altri propugnacoli, che da luogo a luogo sorgono tutt'all'intorno nel recinto delle mura, e finalmente nelle trincee del T e del Migliaretto.
Tutte queste difese fanno la fortezza di Mantova, ma più ancora l'aria pestilente, che massimamente ai tempi caldi rende quei luoghi insani per le febbri e per le molte morti, e fa le stanze pericolosissime, principalmente ai forestieri, non assuefatti alla natura di quel cielo. Non è però che nel complesso delle raccontate fortificazioni non vi sia una parte di debolezza, perchè nè la cittadella nè il forte San Giorgio sono tali, che possano resistere lungo tempo ad un nemico, che validamente e con le debite arti gli oppugnasse; e chi fosse padrone di questi due forti, potrebbe con evidente vantaggio battere il corpo della piazza, più debole assai da questo lato che da quello della palude. Male altresì la cittadella si chiama con questo nome, poichè non è tale nè per la grandezza nè per la fortezza, che il presidio di Mantova vi si possa ricoverare, nel caso in cui non fosse più abile a tenere la città. La parte poi di porta Pradella, che è pure il lato più forte, e con più diligenza munito, una sola difesa esteriore l'assicura; e quest'è un'opera a corno dominata dall'eminenza di Belfiore. Le sole difese del corpo della piazza in questa parte sono il bastione di Sant'Alessi, stimato da tutti fortissimo, e pure troppo più piccolo, che non bisognerebbe per poter essere guernito del numero di difensori e di artiglierìe necessario, e la mezza luna di Pradella. L'uno e l'altra poi non sono coperti, e le loro scarpe s'innalzano tutte sopra l'orizzonte. Oltre a ciò sono congiunti fra di loro per una cortina lunghissima, e perciò male atta ad essere difesa dai fianchi di quei due bastioni. Vero è che per rimediare a questa debolezza, sono state sospinte oltre il pelo della cortina, a guisa di due frecce, i due ridotti di terra Nuovo e del Chiostro; ma questi due ridotti sono e di sito troppo più ristretto e troppo, meno che si converrebbe, sporgenti, e male anco volti rispetto alla cortina da potere e pel numero dei difensori, e per quello delle artiglierìe, e per la direzione dei tiri acconciamente servirle di difesa.
Nè maggior fortezza appare nelle mura di Mantova a mano manca di porta Ceresa, andando verso il lago inferiore, perchè quivi, eccettuato un debole torrione a guisa d'orecchione congiunto alla cortina, e tre piccole e basse punte di bastioni, niuna difesa si ritrova. Sapevanselo i Francesi, che prima dell'arrivo di Wurmser, avevano assaltato questa parte, e già tanto si erano condotti avanti, che, aperta la breccia, stavano in punto di entrarvi. A tutto questo pensando Buonaparte, era venuto in questa opinione, che in venti giorni di trincea aperta si potesse prender Mantova, ed a questa piazza anteponeva, per la fortezza, quella di Pizzighettone. Aveva anche fatto disegno d'impadronirsene per un assalto notturno ed inopinato con attraversare il lago sopra barche, che a tal uopo aveva fatto apprestare. Avvertiva però, che la riuscita di queste fazioni notturne dipende da un gridare o di cani o di oche. Seguita da tutto ciò, che l'oppugnazione da questa parte non è tanto malagevole, quanto porta la fama.
A questo si aggiunge, che quello che a prima vista pare constituire il principale fondamento della difesa, ne fa appunto la debilitazione, e questa cagione sono gli stretti argini per cui il nemico debbe necessariamente passare per arrivare alla città; imperciocchè siccome i più efficaci mezzi per ritardar le oppugnazioni e per prolungar la difesa delle piazze sono le sortite forti degli assediati, che rovinano le opere degli assedianti, così questi argini, rendendo le sortite più difficili, nuocono alla difesa; perchè dovendo gli assediati uscire, e passare per un luogo certo, stretto e lungo, facile cosa è agli assedianti di scoprirgli, e di combattergli quando escono, ed innanzi che sopraggiungano loro addosso. La quale facilità è anche più grande a Mantova che in altre piazze, a cagione che per le acque del lago possono agevolmente pervenire al campo degli assediatori i rapportatori e le novelle. Questa natura dei luoghi è cagione, che con poche genti si può fare, se non la oppugnazione, almeno l'assedio di Mantova, perchè il nemico, senza che sia in necessità di circuire tutta la piazza, ponendosi solamente, e facendosi forte alle punte dei ponti e degli argini, verrà facilmente a capo di ridurre il presidio alla necessità di capitolare per mancanza di vitto. Quindi è vero quello ch'era solito dire Buonaparte, il quale se n'intendeva, che con settemila soldati se ne possono bloccar dentro Mantova ventimila. Per la qual cosa si vede, che se nuoce agli assaltatori l'aria infetta di miasmi pestiferi, nuoce ai difensori la fame facilmente indotta. Tutti questi accidenti e di sito e di natura e di arte, operarono a vicenda ed efficacemente o negli assedj, o nelle oppugnazioni di Mantova, come si renderà manifesto dal progresso di queste storie.
Era giunto, come abbiam narrato, il maresciallo Wurmser in Mantova con un grosso corpo di genti avanzate alle stragi di Castiglione e di Bassano. Questo sussidio, mentre dava maggior forza alla guernigione già stanca da molte battaglie, e da troppo frequenti vigilie, induceva nondimeno una più grande necessità di vettovaglia. Difettava particolarmente di erba e di strame per pascere i cavalli, che erano, rispetto ai fanti, in numero assai considerabile. Adunque il capitano Austriaco, vedendosi potente per la moltitudine dei soldati, massime di cavallerìa, sortiva spesso, per allungare i pericoli, con grosse cavalcate a foraggiare alla campagna. Il che tanto più facilmente poteva fare, quanto più, essendo tuttavìa padrone della cittadella e di San Giorgio, aveva le uscite spedite, senza essere obbligato di restringere le genti in lunghe file per passare i ponti o gli argini. Queste cose infinitamente cuocevano a Buonaparte, il quale sapendo, che l'Austria, malgrado delle rotte avute, non avrebbe omesso di mandare nuovi soldati in Italia, desiderava di venirne presto alle strette per aver Mantova in mano sua, innanzichè gli ajuti arrivassero. A questo fine, essendo giunto alla metà del suo corso il mese di settembre, comandava a' suoi, andassero all'assalto di San Giorgio, perchè quello era il principale sbocco degli Austriaci alla campagna. Nel tempo medesimo il generale Sahuguet dava l'assalto alla Favorita, sito fortificato dagli Austriaci, e posto a tramontana tra San Giorgio e la cittadella. Attraversò questi disegni il vivido e sagace Wurmser; perchè cacciatosi di mezzo con la cavallerìa, e represso l'impeto dei repubblicani, gli sbaragliava, e se non era la trigesimaseconda, valorosissima fra le brigate Francesi, che sostenne l'urto del nemico, sarebbe seguìto qualche grave danno a Buonaparte. Rimasero i Tedeschi in possessione della Favorita e di San Giorgio; Sahuguet fu costretto a tirarsi indietro malconcio, e con le genti sceme pei morti e pei feriti. Ma l'audace Buonaparte non era uomo da interrompere i suoi pensieri per un piccolo tratto di fortuna contraria. E però avvisandosi che il suo avversario, fatto confidente dalla prosperità della fazione, cercherebbe ad allargarsi viemaggiormente nella campagna, volendo nutrire in lui questa baldanza nuova, ritirava i suoi più lontano dalla piazza. Era il suo fine di tirar Wurmser tanto discosto dal suo sicuro nido, che a lui nascesse la occasione d'impadronirsi improvvisamente di San Giorgio, per vietare all'avversario ogni comodità del paese. Eransi gli Austriaci ingrossati, coll'intenzione di conservarsi libera la campagna, a San Giorgio ed alla Favorita: avevano anzi spinto molto avanti le loro guardie fuori di questi alloggiamenti. Per meglio mandar ad effetto il suo pensiero, aveva Buonaparte comandato ad Augereau, che stanziava a Governolo, salisse per la riva del fiume, ed improvvisamente urtasse il fianco destro dell'inimico. Sahuguet occupava i passi tra la Favorita e San Giorgio; ma non avendo forze bastanti per resistere al nemico potentissimo di cavalli, ordinava a Buonaparte, che a questa schiera si accostasse quella di Pigeon, che veniva da Villanova, perchè dal tagliar la strada fra San Giorgio e la Favorita dipendeva in gran parte l'esito della fazione. Ma perchè Wurmser, avendo che fare sulla sua fronte, non potesse correre contro le ali dei repubblicani che si avanzavano, imponeva a quel pronto e valoroso Massena, urtasse francamente nel mezzo il sobborgo di San Giorgio. Fu l'industria e la virtù del generale di Francia ajutata dal benefizio della fortuna; perchè Wurmser essendosi di soverchio allargato nella campagna, non fu difficile a Pigeon di congiungersi con Sahuguet ad interrompere le strade fra i due nominati luoghi, ed Augereau arrivava tempestando a rompere l'ala dritta degl'imperiali. Il maggior danno fu quello recato da Massena; poichè fu tanto forte l'impeto suo, che prostrando ogni difesa, entrava per viva forza in San Giorgio, e se ne faceva padrone. Nè in alcun modo soprastando, per non corrompere con la tardanza il corso della fortuna favorevole, metteva anche in suo potere il capo del ponte, che dal sobborgo porta alla città. A questo modo gli Austriaci rotti e dispersi, parte furono presi o morti in numero di circa tremila, e parte si ritirarono fuggendo alla cittadella: perdettero venti bocche da fuoco. Questa fazione, avendo posto in poter dei Francesi i luoghi più opportuni all'ossidione, e fiaccando l'ardire degli Austriaci, restrinse molto la piazza; e sebbene di quando in quando il generale dell'imperio, condotto dal proprio coraggio, e tirato anche dalla necessità, per fuggire le molestie della fame, facesse, per andar a saccomanno, sue sortite, non si affidava però più di correre così liberamente la campagna, il che rendè in breve tempo le sue condizioni peggiori; perciocchè cominciava a patire maravigliosamente di vettovaglie. Già sorgevano segni di mala contentezza, che obbligavano Wurmser a star vigilante così dentro, come fuori. Munivano i Francesi con fossi e con trincee il conquistato San Giorgio, e dimostravano grandissima confidenza d'entrar presto in Mantova.
Era Buonaparte d'ingegno vastissimo, e di attività tale, che occupato in imprese di grandissimo momento, non ometteva di condurne al tempo medesimo altre di minore importanza. Perlochè, mentre dall'una parte pensava a tener lontani dall'Italia gli Alemanni, ed a conquistar Mantova, dall'altra non trascurava le cose del Mediterraneo, e principalmente quelle della Corsica. Eransi in quest'isola maravigliosamente sollevati gli animi a cagione delle vittorie dei Francesi in Italia; il quale moto tanto si mostrava più grande, quanto più alla contentezza dei prosperi successi delle armi si aggiungeva quella, che principalissimo operatore fosse quel Buonaparte, che quantunque mandato in tenera età a crearsi in Francia, era peraltro nato e cresciuto fra di loro. Per la qual cosa si vedeva, che se le vittorie di Francia in paesi tanto vicini alla Corsica davano in lei nuovo animo alla parte Francese, l'essere acquistate da Buonaparte le dava un capo e un guidatore valoroso. Questi umori erano anche ingrossati dalle insolenze degl'Inglesi, e dalle taglie che avevano poste. Quest'erano le cagioni, per cui la parte Francese in Corsica andava ogni dì acquistando nuove forze e nuovo ardire, mentre la Inglese perdeva continuamente di forza e di riputazione; già il dominio d'Inghilterra vi titubava. Accadevano non di rado nelle più interne regioni dell'isola ingiurie e violenze contro il nome e gli uomini Inglesi, e contro coloro che a loro aderivano. Era l'autorità del vicerè ridotta alle terre forti e murate, poste nei luoghi dove poteva avere accesso il forte navilio d'Inghilterra. Queste cose si sapevano da Buonaparte; e siccome quegli che era sempre pronto ad usare le occasioni, aveva posto piede in Livorno, non solamente col fine di serrare questo porto agl'Inglesi, ma ancora per movere la Corsica a danno loro. Laonde indotto in isperanza di poter tosto farvi rivoltar lo stato a favore della Francia, aveva mandato a Livorno, aspettando tempo d'insorgere più vivamente, un colonnello Bonelli Corso, con alcuni altri soldati del medesimo paese, e provvedutolo di denari, d'armi e di munizioni, gli comandava andasse in Corsica, e con la presenza e con le esortazioni desse speranza di maggiori sussidj. Era il passaggio di mare assai pericoloso, per le navi Inglesi che continuamente il correvano; ma Buonaparte, confidando nell'opera di Sapey, un Delfinate molto sagace ed attivo, che aveva il carico di quel passo, gliene commetteva l'impresa. A questi primi principj crescendo vieppiù le speranze del felice fine, mandava a Livorno, perchè fossero pronti a salpare, i generali Gentili, Casalta e Cervoni, nativi dell'isola, e che potevano pel credito e dipendenza loro ajutare l'impresa. Preponeva ad essa, come capo, Gentili, uomo d'intera fama, e savio per natura e per età. I Corsi fuorusciti per intenzione di Buonaparte concorrevano a Livorno, e si ordinavano in compagnìe. Una compagnìa di ducento più attivi e più animosi degli altri, doveva essere il principal nervo dei conquistatori di Corsica. S'aggiungevano alcuni pezzi d'artiglierìe di montagna, e cannonieri pratichi per governarle. Erano vicine a mutarsi in pro della Francia le sorti della patria di Buonaparte.
Avevano molto per tempo gl'Inglesi avuto avviso di tutti questi preparamenti, e stavano vigilanti nell'impedire il passo del mare. Nè parendo loro che ciò bastasse alla sicurezza dell'isola dopo il perduto Livorno, applicarono l'animo al farsi signori di Porto-Ferrajo, terra forte, e principale dell'isola d'Elba. Pervenuto sentore di questo tentativo a Miot, ministro di Francia a Firenze, richiedeva con viva instanza dal gran duca, desse lo scambio al governatore di Porto-Ferrajo, sospetto, secondo l'opinione sua, di essere aderente agl'Inglesi. Il ricercava altresì, mettesse in quel forte un presidio sufficiente ad assicurarlo. Voleva finalmente che si aggiungessero duecento soldati Francesi. Soddisfece alla prima domanda il principe, scambiando il governatore, ma fondandosi sulla neutralità, legge fondamentale della Toscana, accettata dalla repubblica di Francia, e confermata da tutte le potenze amiche e nemiche, non consentì a mandar nuove genti, e molto meno soldati Francesi a Porto-Ferrajo. Si scusò eziandìo allegando, che gl'Inglesi proibivano l'uso del mare, e che perciò non era in sua facoltà, ancorchè volesse, di mandar nuovo presidio in quell'isola. Certamente non si può biasimare Miot dello aver domandato al gran duca quello, che credeva essere sicurtà del suo governo; ma bene gli si può dar carico dello aver usato parole intemperanti parlando della nazione Italiana, quando scrisse, di questo fatto gravemente lamentandosi, a Buonaparte, badasse bene a schivare le minacce vane, principalmente in Italia, dove i popoli accrescevano i mali con la fantasìa, ma tosto trapassavano dal terrore all'insolenza, quando non pruovavano tutto quello che temevano; perchè stava, continuava dicendo Miot, nella natura vendicativa degl'Italiani di veder sempre nei nemici loro la impotenza, non mai la generosità. Quale generosità poi fosse in coloro, che sotto specie di belle parole erano andati ad ingannare ed a spogliare l'Italia, toccherà a Miot lo spiegarlo. Intanto sapranno i posteri come egli parlasse di una nazione illustre, in quel momento stesso in cui ella era miserabil preda di Francesi e di Tedeschi, ridotta per cagione degli uni e degli altri in durissimo servaggio, spogliata de' suoi più preziosi ornamenti, rotta tutta e sanguinosa nelle parti più nobili e più vitali del corpo suo.
Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferrajo, che i Francesi a Livorno portato avessero. In tal modo fu trattato Ferdinando di Toscana dai capi di due potenti nazioni; infelice condizione di un principe, che, non avendo armi, volle fondare la propria sicurezza sulla integrità della vita, in tempi in cui il più potere era stimato ragione. S'appresentavano il dì nove luglio gl'Inglesi in cospetto di Porto-Ferrajo, con diciassette bastimenti, che portavano duemila soldati; richiesero la piazza. Scriveva il vicerè di Corsica al governatore, volere occupar Porto-Ferrajo, perchè i Francesi avevano occupato Livorno, e macchinavano di occupar anche Porto-Ferrajo; ma non volere, negando con le parole quello che faceva coi fatti, solito costume di quella perversa età, offendere la neutralità. I capi della flotta poi minacciavano, se non fossero lasciati entrar di queto, entrerebbero per forza.
Avute il gran duca queste moleste novelle, comandava al governatore, protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse alla forza. Ma già gl'Inglesi procedendo dalle minaccie ai fatti, erano sbarcati sulle spiagge di Acquaviva, luogo di confine fra lo stato di Toscana e quello di Piombino, e marciando per sentieri montuosi, erano giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte di Porto-Ferrajo; quivi piantarono una batterìa di cannoni e di obici con le bocche volte contro la città. I soldati scendendo da quei siti erti e scoscesi nella strada che dà l'adito alla terra, stavano pronti ad osservare quello che vi nascesse dentro, per le intimazioni e presenza loro. Mandava Orazio Nelson da parte del vicerè di Corsica intimando al governatore, volere gl'Inglesi Porto-Ferrajo e i forti per preservargli dai Francesi; porterebbero rispetto alle persone, alle proprietà, alla religione; se n'anderebbero, fatta la pace, o cessato il pericolo dell'invasione; se il governatore consentisse, entrerebbero pacificamente, se negasse, per forza. Adunava il governatore gli ufficiali, i magistrati, i consoli delle potenze, i capi di casa più principali, acciocchè quello che far si dovesse, deliberassero. Risolvettero di consentimento concorde, che si desse luogo alla forza, che si ricevessero gl'Inglesi, ma che si protestasse delle seguenti condizioni: non potessero a modo niuno i Toscani essere sforzati a combattere, se qualche forza nemica si accostasse all'isola, provvedessero gl'Inglesi alla vettovaglia; i soldati nelle case particolari non alloggiassero. Accettate le condizioni, entrarono nella Toscana isola gl'Inglesi. Poco dopo s'impadronirono anche dell'isola Capraja, di stato Genovese, meno per sicurezza loro, che per dispetto del senato, contro il quale avevano risentimento, per essersi, come credevano, accostato recentemente alla parte Francese. Acquistate Elba e Capraja, correvano più molesti che prima contro i bastimenti Genovesi, e gli mettevano in preda.
In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica perturbata da gravissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte. Bonelli condottosi nell'isola, e spargendo voci di prossimi ajuti, e detestando la superiorità Inglese, e spargendo ogni dove faville d'incendio, e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui monti vicini a Bastìa ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente, che apertamente resisteva al dominio del vicerè. A Bastìa, sendovi ancora presenti gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, come gli chiamavano, o piuttosto di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi al nome di Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già avesse Bastìa in luogo di città Francese. Vedutosi da Saliceti e da Gentili, che quello era il tempo propizio per restituire la patria loro alla Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda di fuorusciti Corsi affinchè, arrivando a Bastìa, ajutasse quel moto, cagione probabile di cambiamento. Fu opportuno il disegno, non fu infelice il successo; perchè giungeva sul finire di ottobre Casalta, tanta fu la destrezza di Sapey nel procurare il tragitto malgrado del tempo burrascoso e delle navi Inglesi, in vicinanza del porto; e sbarcava le sue genti, alle quali vennero a congiungersi i partigiani in grosso numero. I soldati di Casalta, divenuti forti, occuparono i poggi che dominano Bastìa. Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si arrendessero; quando no, gli fulminerebbe. Sopravvennero intanto le novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome Britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonar quello, che più non potevano conservare; e precipitando gl'indugi dal forte di Bastìa, perchè avevano paura che i Corsi di Casalta, calando dai monti, impedissero loro il ritorno, lo spacciarono prestamente, e si ricondussero alle navi. Nè fu senza danno la ritirata, o piuttosto fuga loro; perchè soppraggiunti per viaggio dai Corsi, meglio di cinquecento restarono cattivi. Perdettero anche i magazzini; dei cannoni alcuni trasportarono, altri chiodarono. A tale fatto i tumulti crescevano, gli alberi di libertà si piantavano: San Bonifacio, Ajaccio, Calvi chiamavano il nome di Francia. Restava pei patriotti, che si cacciassero gl'Inglesi da San Fiorenzo, dove avevano adunato le maggiori forze, ed anche la fortezza della piazza gli assicurava. Ma il precipizio era tale, che si resisteva senza frutto. Guadagnava Casalta, non però senza difficoltà, le fauci di San Germano, per cui si apre la strada da Bastìa a San Fiorenzo, ed arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo cacciandosi avanti gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente opera a vuotare la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile allegrezza i Corsi repubblicani. Conquistarono sei pezzi di artiglierìa buona e due mortai, che in tanta fretta i vinti non avevano avuto tempo di trasportare: i soldati sezzai vennero in poter del vincitore. Tuttavia l'armata Inglese stava sorta sull'ancore poco distante da San Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano fatto un forte alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima, non che volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica, ma solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati sì magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore Corso che gli cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con se nuove armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti di Corsica. Arrivato a Bastìa, dato riposo alla truppa, squadronati nuovi Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo, con animo di cacciar gl'Inglesi da quel loro ultimo nido di Mortella. Urtava l'oste Britannica, ne seguitava una mischia mortalissima: fuggirono finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e si ridussero, prestamente camminando, e tutti sanguinosi alle navi. Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde speculando vedeva l'armata Inglese, che continuava a starsene con l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batterìa per fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando tutta l'isola in potestà di coloro, che la vollero restituire all'antica madre di Francia. Si ricoverava Elliot vicerè a Porto-Ferrajo, dolente che quella preda si trasferisse di nuovo nella potenza emola all'Inghilterra. Per cotal modo furono spenti in un giro di pochi mesi un parlamento, un reggimento ordinato, un'autorità di un re della Gran Brettagna. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè conquistate isole d'Elba e Capraja, brevissimo frutto di violata neutralità.
Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà di perdonare. Veniva annunziando, che la generosa Francia perdonava; che mandato per lei espressamente recava a' suoi compatriotti constituzione e libertà; una insolenza insopportabile, proscrizioni, esigli, carceri essere stati i doni dell'Inghilterra; avere l'Inghilterra ingannato i Corsi con pretesti di religione, come se la Francia fosse nemica alla religione. A questo eravam serbati, sclamava fortemente Saliceti, di vedere gl'Inglesi divenuti amici, e protettori del papa; non essere la Francia nemica alla religione; solo volere la libertà di ogni culto; vedete, gridava, come i traditori, che all'Inghilterra, quale vil gregge, vi venderono, fuggono; vedete come non osano combattere; vedete come prestamente hanno sgombrato da queste terre, che con la presenza e coi delitti loro han voluto rendere disonorate ed infami; or sen vadano essi pure vagando per istrani lidi con la vergogna, e coi rimorsi compagni, e se qualche traditor resta, punirallo la repubblica: questi svelate, questi punite; con ogni altro vivete come con fratelli: unitevi, affratellatevi; giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei compagni morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio eterno alla monarchìa. Queste incitate parole, che producevano frutti conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle esagerazioni, che della temperanza.