LIBRO DECIMOTERZO

SOMMARIO

La tempesta si volge contro il papa: macchinazioni in Roma per farvi una rivoluzione. Caso funestissimo dell'uccisione del generale Duphot. La Francia dichiara la guerra al pontefice. Berthier marcia contro Roma, e se ne impadronisce. Atto rogato dal popolo Romano in Campo Vaccino per vendicarsi in libertà. Pio Sesto esposto a indegni scherni. I repubblicani lo sforzano a lasciar Roma, e lo conducono in Toscana. Espilazioni, e spogli di Roma. Risentimenti armati, che ne fanno i Romani. Risentimenti e querele, che ne fanno gli ufficiali Francesi gelosi dell'onore dell'esercito. Si bandisce la repubblica Romana, e le si dà una costituzione. Provvisioni di Pio Sesto circa i giuramenti.

Gli eccidj si moltiplicavano; continuavasi a spogliar Roma in virtù del trattato di Tolentino; nella quale bisogna con molta efficacia si travagliavano i commissarj del direttorio. E perchè non mancasse in mezzo agli spogli l'adulazione, essendo venuto a notizia loro, che la moglie di Buonaparte desiderava per se alcune belle statue di bronzo, le comperarono, e con le involate a grado di lei le incassarono. Succedeva ad una adulazione di cortesia un'adulazione lagrimevole; perchè, saputisi dal papa il desiderio, e la compera, ne pagava tosto il prezzo, che furono tremila e settecento scudi Romani, perchè la donna se le avesse senza costo. Oltre a ciò il misero papa, oramai vicino alla sua ora estrema, credendo, certamente con molta semplicità, di aver a fare con uomini esorabili, apparecchiava una collana di preziosi camei, perchè fosse offerta da sua parte in dono alla signora. Parvero queste cortesie, e questi omaggi fatti in un momento, in cui ogni cosa era a un di presso giunta al suo fine in Roma, nobili al Cacault, ministro del direttorio. Forse era nobile l'offerirgli, ma se fosse nobile l'accettargli in quel momento, lascio giudicar a coloro, che conoscono la civiltà e l'onestà del procedere. Le casse intanto piene delle Romane spoglie poste sui carri, partivano dalla desolata Roma. Se le vedeva il popolo Romano, e le rimirava con grandissima indegnazione.

Il romano erario era casso pel pagamento delle contribuzioni stipulate nel trattato di Tolentino; le romane cedole scapitavano dei due terzi per centinaio, e non v'era fine al disavanzo che ogni dì cresceva: ogni cosa in iscompiglio, si avvicinava la dissoluzione. Sapevaselo Cacault e per questo non voleva che si facesse una rivoluzione violenta per ispegnere il governo papale, ma bensì, che si lasciasse andare di per se stesso alla distruzione. Solo gli doleva il pensare, che nella borsa segreta e particolare del papa, e del suo nipote, vi fossero ancor denari; e però s'ingegnava a fare, che il pontefice comperasse per tre milioni la terra della Mesola, sperando, come scriveva a Buonaparte, che il trarre quel denaro dallo stato ecclesiastico avesse ad esser cagione, che il fallimento totale delle cedole, che ne seguirebbe, partorirebbe una gran ruina, e necessariamente opererebbe una rivoluzione. I democrati non incitava Cacault, nè aveva partecipazione nelle loro macchinazioni, perchè gli stimava gente dappoco, e credeva che il popolo non gli volesse. Bensì ricercava il papa della libertà dei carcerati; il che veniva in grande diminuzione della riputazione del governo pontificio, condizione funestissima, perchè il tollerargli era pericoloso per l'esempio, il carcerargli pericoloso per la necessità del liberargli. Crescevano la penuria, ed il caro delle vettovaglie; i popoli male si soddisfacevano. A questo contribuivano non poco le tratte dei grani, che il papa era sforzato, perchè richiesto con imperio, a concedere ad alcuni fra gli agenti sì militari che civili della repubblica. Erano queste tratte cose molto pregne, perchè portavano con se assai guadagno. Il papa, oltre la sua età cadente, si trovava infermo di paralisia. S'aggiungevano spaventi, come se il cielo fosse sdegnato contro Roma. La polveriera del castel Sant'Angelo s'accendeva la vigilia di San Pietro con orribile fracasso; furonvi molte morti, e parecchi edifizj rovinati, il Vaticano sì fortemente scosso, che la volta della cappella Sistina fe' di molti peli, e parte diroccava con danno considerabile del famoso Giudizio di Michelagnolo.

S'incominciavano i cavilli, annunziatori di distruzione. Aveva il pontefice fatto disegno di condurre a' suoi soldi il generale Provera. A ciò fecero tosto un gran tempestare gli agenti del direttorio, richiedendo con supremo comandamento, e pena la guerra, dal pontefice, che licenziasse incontanente, e fuori de' suoi stati mandasse il generale Austriaco. Tal era il rispetto, che il direttorio vincitore portava all'independenza di uno stato sovrano, e col quale aveva congiunzione d'amicizia pel trattato di Tolentino.

Alle cagioni politiche, le quali operavano contro il papa, se ne aggiungeva una di una natura molto singolare, e quest'era il pensiero nato in Francia, del voler fondare la religione naturale, che col nome di teofilantropìa chiamavano. Fu a quei tempi questo pensiero attribuito specialmente al quinqueviro Lareveliere Lepeaux; ma sebbene ei l'appruovasse, come mezzo conducente a risvegliare nel cuore degli uomini gli affetti dolci e sociabili, non ne fu però il principale autore. I fautori di questo novello rito miravano ad allontanare la necessità della religione rivelata, e principalmente della cattolica; il perchè si mostravano avversi al papa, come capo e direttor supremo di quanto a quest'ultima religione s'appartiene, e con tutti gli sforzi loro la di lui rovina procuravano.

Era a Cacault succeduto nell'ufficio di ministro di Francia a Roma, Giuseppe Buonaparte, fratello maggiore del generale, uomo di natura assai rimessa, ma siccome indolente e debole, così facile a lasciarsi aggirare da chi voleva piuttosto fare, che aspettare la rivoluzione. Inoltre sapeva qual fosse il desiderio del suo governo, ed anche ebbene mandato espresso, di mutar lo stato in Roma, con questo però, ch'ei facesse le viste di non parervi mescolato. Per la qual cosa era la sua casa piena continuamente di novatori, ai quali dava segrete speranze. Ma siccome nè era soldato, nè d'indole risoluta, mandarono, per dargli spirito, ed ajutarlo a perturbar Roma, i generali Duphot e Sherlock, il primo dei quali si era mostrato assai vivo in quelle faccende dei sovvertimenti Genovesi. Aveva il governo papale avviso delle trame che si macchinavano; e però faceva correre, principalmente di nottetempo, le contrade di Roma da spesse pattuglie, e teneva diligentissime guardie. Ma era fatale, che i tempi soverchiassero la prudenza, e dacchè i ministri di potenze estere, il cui nome suona pace ed amicizia, divenivano seminatori di ribellione, non si potevano più pareggiare le partite. S'avvicinava l'anno milasettecentonovantasette al suo fine, quando nasceva in Roma un caso funestissimo, dal quale scorsero improvvisamente con precipitosa piena quelle acque, che già tanto soprabbondando minacciavano di allagare. La notte dei venzette decembre i soldati urbani givano diligentemente osservando, che cosa accadesse o non accadesse. Trovavano qua e là raccolti in cerchiellini uomini appostati, che portavano nappe alla Francese, la maggior parte sudditi del papa; pure Francesi ancora vi si trovavano, ma in picciol numero. I soldati prudentemente usando, intimavano loro di sgombrare: erano obbediti. Parve il caso d'importanza al governator di Roma. Ordinava più diligenti e più grosse guardie; comandava a tutti i corpi, vegliassero. A notte più buja incontravano le guardie un'altra affollata di genti armate; erano i democrati. Dissero loro, si separassero. Qui nascevano dalla parte degli affollati minacce e derisioni. Seguitava una mischia confusa; un democrato fu morto, due urbani feriti. Il sangue chiama sangue, il terrore già dominava la città. Faceva motto di cotesto il segretario di stato all'ambasciadore Giuseppe, che in quel mentre si divertiva ad una festa di ballo. Rispondeva, farebbe, che i suoi non si mescolassero in quei tumulti, ma non giovava; perchè, o il volesse egli, o nol volesse, si adunavano il dì ventotto nella villa Medici circa trecento democrati, cui ancora non avevano fatti accorti nè la vendita Veneziana, nè la servitù Cisalpina. Era Duphot fra di loro, e con la voce, e coi gesti, e coll'alzar il cappello gli animava a novità: inalberavano l'insegna tricolorita, e facevano un gridare, ed un tramestìo incredibile. Sapeva il governo l'accidente, e per rimedio mandava bande di fanti e di cavalli, che tanto più facilmente disperdevano quegli uomini riscaldati dalle opinioni e dal vino, poichè avevano desinato in copia, quanto altri democrati, che con esso loro dovevano congiungersi, trattenuti da un ordine contrario di Sherlock, non potevano arrivare. Correvano i dispersi, come a luogo sicuro, e come a fonte d'allettamenti al palazzo Corsini, dove aveva le sue stanze l'ambasciatore di Francia. In esso, e nei luoghi vicini si ricoveravano, donde fatti più baldanzosi chiamavano ad alta voce la libertà, e gridavano di volerne piantar le insegne sul Campidoglio.

Roma tutta si spaventava. Mandava il papa contro quella gente fanatica i suoi soldati, i quali, prese le strade per al palazzo Corsini, rincacciavano verso di lui a luogo a luogo i resistenti novatori. Fra quella mischia i pontificj traendo d'archibuso, ferivano alcuni democrati. Il terrore gli occupava: cercavano rifugio nel palazzo dell'ambasciatore, ne empievano il cortile, gli atrj, le scale. Si formavano, così comandati essendo, i soldati del pontefice per rispetto a quell'asilo fatto sicuro dal diritto delle genti. Ma i capi mandavano pregando l'ambasciadore, che sulle somme scale era comparso, frenasse omai quei ribelli, e gli esortasse a partirsene. Qui, o che l'ambasciatore non potesse, o che non volesse fare più efficace dimostrazione, si conteneva dicendo: a lui sarebbero tenuti di quanto occorresse, ma non gli confortava a partire. I democrati intanto, prevalendosi della sicurezza del luogo, con parole e con gesti agl'irati soldati insultavano. Pure non ancora questi prorompevano. Arrivava un reggimento di dragoni mandato dal pontefice per sussidio a tanto tumulto. Questa nuova gente, non potendo più tollerare le ingiurie, fatto impeto, entrava a precipizio nel cortile del palazzo, minacciando con le armi impugnate morte a chiunque incontanente non isloggiasse. Nasceva una mischia, un gridare, un fremere misto, che meglio si può immaginare che descrivere. A sì feroce strepito l'ambasciatore, cui accompagnavano Duphot e Sherlock, mostratosi, s'ingegnava di calmare con le parole, e coi gesti il tumulto: chiamava a parlamento i capi dei soldati. Ma nè i democrati cessavano dagli oltraggi, nè i dragoni pontificj, siccome quelli che si erano infieriti, potevano pazientemente udire cosa alcuna: rispondevano, non volere altro accordo, se non quello, che i ribelli incontanente sgombrassero dal palazzo. Preso allora Duphot da empito sconsigliato, siccome quegli che giovane subito ed animoso era, sguainata la spada, si precipitava dalle scale, e messosi coi democrati gli animava a volere scacciar i soldati pontificj dal cortile. In tale forte punto (a questo serbavano i cieli l'infelice Roma, che un fortuito e provocato accidente ponesse cagione della sua distruzione), i dragoni viemmaggiormente inferociti, traevano. Morivano parecchi furiosi, ne riportava Duphot una ferita mortale, per cui dopo morì. Dei democrati, udito il suono delle armi, e veduto il sangue sparso, i più si salvavano fuggendo pel giardino del palazzo; i più audaci restavano. Era il cortile squallido, e funesto per la presenza dei feriti e degli uccisi. Caso veramente fatale fu questo; perchè rei certamente verso il governo papale erano coloro, che avevano permesso, e forse macchinato espressamente, che la sede dell'ambasciata di Francia diventasse un fomite di ribellione contro di lui, ma del pari inescusabili sono i dragoni pontificj dello avervi fatto impeto dentro, e se il papa avesse subito fatto arrestare i capi di questo reggimento, per me non so di che l'ambasciatore si avrebbe potuto dolere. Bene dovevano i soldati circondare il palazzo, ma non entrarvi armatamente, e farvi sangue; perciocchè, se chi v'era dentro mancava di fede, e violava la santità del luogo, non era per questo autorizzato il governo pontificio a violarla: bene soltanto ci si doveva assicurare con farvi stanziare tante truppe all'intorno, che bastassero, e negoziare al tempo stesso con l'ambasciatore per allontanare i ribelli.

Scriveva risolutamente l'ambasciatore al cardinale segretario di stato, comandasse ai soldati, che si ritirassero dai contorni del palazzo. Rispondeva rappresentando, quanto fosse difficile la condizione, in cui versava il governo del papa, poichè il ritirare, ed il non ritirare i soldati era ugualmente pericoloso, quello pei ribelli, che nelle stanze del palazzo di Francia se ne stavano tuttavia minacciando, questo per l'intimata nimicizia di Francia: l'ambasciador solo poter cambiar le sorti; sperarlo il cardinale, perchè generosa era la nazione, cui l'ambasciadore con tanta dignità rappresentava; avere il cardinale medesimo per ben dodici anni in mezzo a lei vissuto, e nissuno meglio di lui averla e conosciuta, ed apprezzata. Fuvvi chi tentando di mitigare l'animo dell'ambasciatore, il voleva indurre a far uscire dalla sua sede i nemici del governo, alla quale richiesta non solamente non volle acconsentire, cagionando, che essi l'avevano preservato contro una nuova tragedia Basviliana, ma ancora, più sdegnato che mai, rescriveva, doversi alfin sapere, se coloro, che indirizzavano segretamente i Romani consigli, avessero ancora a macchinar tradimenti sotto l'ombra della pace contro la repubblica; a loro non importare, perchè avevano saputo evitargli, tanti infortunj del popolo Romano generati dalla guerra fatta contro Francia; spirare ancora, e nelle pontificali truppe aver grado gli assassini di Basville; punisse il Romano governo gli autori dei Romani disastri, punisse gli assassini di Basville; a questi soli segni potere Francia conoscere la Romana fede; per questi soli potersi tra Francia e Roma conservare l'amicizia: badasse il cardinale segretario all'acclusa lista; leggerebbevi i nomi degli assassini di Basville, un abate Beltrami, autor principale della Basviliana tragedia, un Pulcini caporale, che lo feriva di bajonetta, un barbiere che lo feriva di stilo; abitare in Roma tuttavia, comparire alla luce impunemente quest'insanguinati sicarj.

Il governo di Roma, oramai ridotto ad un passo, in cui era del pari pericoloso il ricusare con giustizia, od il consentire con ingiustizia, si atteneva alla parte migliore, rispondendo, che Roma non aveva mai seguitato i consigli dei nemici della Francia; che il primo suo pensiero, il più efficace suo desiderio era di vivere con lei in termini d'amicizia; che quanto agli uccisori di Basville, se n'era a tempo debito fatto processo; che coloro, che erano stati per giudizio convinti rei del fatto, avevano pagato col debito supplizio le pene, e che finalmente coloro, che l'ambasciatore notava nella sua lista, o in Roma non dimoravano, o erano stati per esami giuridici, e per sentenze solenni conosciuti innocenti.

Si turbava fortemente a queste parole l'ambasciatore, e, chiesti i passaporti, protestava di volersene partire; il che era segno di guerra. Offeriva in sì estremo frangente il governo pontificio con sommesse parole di satisfare per l'accidente occorso (protestando però di nuovo, e risolutamente affermando, non avervi colpa), alla repubblica Francese, in quel modo ch'ella stessa avrebbe potuto e chiedere e desiderare. Aggiungeva il cardinale segretario, pregare l'ambasciadore a considerare, che in mano sua era posta la conservazione di quanto il generalissimo suo fratello aveva generosamente conceduto alla Romana corte. Ma l'ambasciadore, non avuto risguardo alle offerte di satisfazione, nè alle preghiere del papa, nè deponendo il pensiero di fare una dimostrazione ostile, tutto sdegnato, o che il fosse, o che il facesse, se ne partiva pei cavalli delle poste in tutta fretta verso Toscana. Sclamava, viaggio facendo, in ogni luogo contro i tradimenti Romani, come gli chiamava, parlava di vendette terribili, incitava i popoli a ribellione. Come poi giungeva a Parigi, rapportato il fatto nel modo più conforme al suo intento, ed a quello del direttorio, stimolava la Francia alla guerra contro Roma. Ordinava il pontefice rimedi spirituali di preghiere, di digiuni, di penitenze per ovviare alla ruina imminente: apprestava il direttorio le armi. Già un nido di ribellione contro il pontefice era formato per opera dei repubblicani in Ancona, cosa, che da per se sola avrebbe potuto rendere il pontefice giustificato, se avesse, già molto prima, significato la guerra alle due repubbliche, Francese e Cisalpina, perciocchè in quell'alzata delle Anconitane bandiere contro il papa avevano posto le mani sì i presidj Francesi, che i Cisalpini. Già Pesaro si ribellava, già Sinigaglia, ed altre terre vicine tumultuavano, e già il grido della repubblica Anconitana, infelice cagione di sommosse, di ribellioni, di repubblichette loquaci e serve, spesseggiava sui fianchi dell'orientale Apennino. Se n'era il pontefice doluto col direttorio; ma le sue querele furono passate di leggieri da coloro, che perseverando nella loro pessima intenzione, volevano, non la conservazione, ma la distruzione sua. Parigi intanto veniva fulminando: il sangue di Basville e di Duphot chiamar vendetta; doversi disfare quel nido di assassini; l'ultima ora esser giunta della Romana tirannide; a quest'opera d'umanità esser serbata la Francia; vedrebbe il mondo, quanto avesse la repubblica a cura i suoi cittadini, che vivi gli proteggeva, uccisi gli vendicava. Tali erano le amplificazioni dei tempi, e le turbe seguitavano. Ma a chi vorrà bene considerare la cosa, parrà certamente, che pur troppo atroce fatto fu l'uccisione di Duphot, e da essere pianto eternamente; ma gli parrà ugualmente, che l'accagionarne il governo del papa, e farne pretesto di sua distruzione, fosse nè ragionevole nè giusto, perchè io non ho mai, nè credo che altr'uomo che sia stato o sia al mondo, abbia udito dire, che Pio Sesto, ed il cardinale Doria Pamfili, suo segretario di stato, fossero assassini, e l'accusargli di assassinio era cosa non solamente enorme, ma iniqua. Il direttorio, imputando a disegno espresso del pontefice ciò, che era l'effetto fortuito di provocazioni straordinarie, mandava comandando a Berthier, marciasse incontanente con tutto l'esercito a passi presti contro Roma.

Avutisi da Berthier questi comandamenti, quantunque se ne vivesse molto di mala voglia per essergli venute a noja le rivoluzioni, si metteva in assetto per mandargli ad esecuzione. Commesso l'antiguardo a Cervoni, che, come di nazione Corso, sapeva la lingua del paese, gli comandava che si alloggiasse in Macerata: dava il governo della battaglia a Dalemagne per modo che d'un solo alloggiamento si tenesse discosto dall'antiguardo. Alloggiava il retroguardo a Tolentino con Rey, con mandato di osservare le bocche d'Ascoli, per le quali si va nel regno di Napoli, e di fare sicure le strade degli Apennini fra Tolentino e Foligno. Lasciava finalmente con grosso presidio in Ancona Dessolles con avvertimento di sopravvedere con bande sparse il paese, e tenerlo purgato dai contadini Urbinati, che portando grande affezione alla sedia apostolica, erano sempre inclinati a far moto in suo favore. Metteva alle stanze di Rimini quattromila Polacchi sotto la condotta di Dombrowski, e con questi anche le legioni Cisalpine, le quali nessuna cosa santa ed inviolata avendo, commisero atti, di cui quei popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte all'ultima uccisione, se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di Francia. Così il sacco, e la rapina erano usati in Italia non solamente dai forestieri, ma ancora dagl'Italiani.

Incamminandosi alla distruzione del governo pontificio, mandava fuori Berthier da Ancona il dì ventinove gennajo un manifesto con queste parole: che già le rive del Tevere si godevano le dolcezze di una pace, che aveva concluso una crudele guerra, ma che l'implacabile ed ingannevole governo di Roma cospirava cercando di turbare la quiete delle nazioni, e per arra dei futuri mali commetteva un vilissimo delitto; che egli insultava alla moderazione ed alla generosità mostrata dalla repubblica nel trattato di Tolentino; ch'ei doveva pertanto con atto uguale alla sua perfidia satisfare alla repubblica; che un esercito Francese si muoveva ora contro Roma, ma che solo si muoveva per punire gli assassini del prode Duphot, che solo si muoveva per punire quegli assassini medesimi ancor rossi del sangue dell'infelice Basville; che solo si muoveva per castigar coloro, che si erano arditi disprezzare il carattere e la persona dell'ambasciadore di Francia; che la Francia sapeva, essere il popolo Romano innocente di tanta immanità e perfidia; che l'esercito di Francia il terrebbe indenne, e sicuro da ogni oltraggio.

Poscia Berthier, rivoltosi al soldati, solennemente gli ammoniva, che solo marciavano per vendicare i delitti commessi contro la repubblica, per punire il governo di Roma, ed i suoi vili assassini; considerassero, che come giusta, così immaculata doveva essere la vendetta; avvertissero, che il popolo Romano non si era mescolato nelle sceleraggini di chi il reggeva; l'amassero pertanto, il proteggessero; sapessero, che la repubblica comandava loro, che rispettassero le persone, le proprietà, i riti, ed i tempj di Roma; darebbersi pene asprissime a chi si desse al sacco; degni di Francia, degni di repubblica, degni di loro medesimi si dimostrassero.

Ciò detto, muoveva le schiere al destino loro. Per tal modo la potentissima repubblica si scagliava contro la religiosa Roma, e contro un papa già quasi disarmato, e cui faceva sicuro piuttosto la venerazione che la forza. Le genti repubblicane, preso Loreto, con aver fatto prigioniero il presidio pontificio, e commessovi qualche sacco, posto a taglia Osimo, che si era levato a favor del papa, varcati prestamente gli Apennini, all'appetita Roma si approssimavano. Era in questo estremo punto l'aspetto della città vario, e per ogni parte pericoloso: alcune condizioni risguardavano le passate cose, alcune le presenti; generavansi sette ed umori molto diversi. Il trattato di Tolentino con avere spogliato il papa della miglior parte de' suoi stati, e con averlo sforzato a consentire a certe moderazioni nelle discipline ecclesiastiche, gli aveva tolto gran parte della riputazione e della riverenza, che prima gli portavano, considerato massimamente che tali concessioni aveva fatte ad un governo, che con tanto ardore e pertinacia aveva perseguitato con l'armi sì spirituali che temporali. Il vedere poi la magnifica Roma spogliata, per soddisfare al vincitore, de' suoi ornamenti più preziosi, partoriva sdegno ne' suoi popoli, non solamente contro gli spogliatori, ma ancora contro il pontefice, giudicando essi sempre dagli effetti, non dalle cagioni, siccome quello, che pareva loro, che avesse o con imprudenza provocato, o non con prudenza contentato un nemico irresistibile. Oltre a tutto questo si trovava il pontefice ridotto alla necessità, per le stipulazioni del trattato, ad aggravare con nuove tasse i sudditi a fine di poter bastare alle somme esorbitanti che era tenuto di sborsare alla repubblica. Quindi ne era nato, che speso tutto il tesoro di San Pietro, si era dovuto por mano negli ori ed argenti dei privati, gittar nuove cedole con maggiore scapito così delle vecchie come delle nuove, ed ordinare una tassa del cinque per centinajo su tutti i beni. Cagione principalissima poi di mal umore, anche negli aderenti del pontefice e delle Romane opinioni fu questa, che si venne alla vendita del quinto dei beni ecclesiastici, il che parve gran attentato contro le immunità ecclesiastiche. Si lamentavano i cherici, che il pontefice avesse commesso ne' suoi stati quel medesimo, che con sì solenni parole aveva condannato, ed in Francia, ed in Cisalpina, ed in altri paesi, in cui si era posta la falce in questa messe. Fu questa risoluzione molto dannosa al pontefice, perchè gli tolse il favor di coloro, sui quali principalmente si fondava la sua potenza. La casse piene di gentilezze antiche, quelle, che contenevano i denari estorti con tanta difficoltà dal pubblico e dal privato, da Roma continuamente partendo, e la sembianza, e il fatto di uno spoglio indefesso ai Romani rappresentando, accrescevano la mala contentezza, e rendevano il papa spregiato ed odioso. Nè era nascosto, che le gioje stesse per la valuta di parecchi milioni, perchè con la pecunia numerata non si era potuto soddisfare ai patti di Tolentino, erano state poste in balìa del vincitore. Procedeva dalle angustie dell'erario, che il papa aveva molto rimesso da quelle pompe, e da quella magnificenza, con le quali era stato solito vivere, e che gli avevano conciliato l'affezione ed il rispetto delle popolazioni. Mancato questo splendore, da cui piuttosto, e molto più che dalla virtù e santità della vita misurano i Romani la eccellenza del principe, si cambiava l'affetto in disprezzo.

Meritava egli certamente il pontefice più compassione che odio; ma sogliono i popoli solamente compassionare i principi nelle estreme miserie di cacciamenti o di prigionìe, e quando la compassione è divenuta inutile: finchè regnano, quand'anche infelicemente regnano, il disprezzo o l'odio, piuttostochè la pietà pubblica, gli persegue; perciocchè il disprezzare o l'odiare i principi è stimato dai popoli compenso dell'obbedire. In tanta mutazione d'animi le antiche querele si rinnovavano. Del duca Braschi, nipote del pontefice, si motivava, arricchito oltre modo con monipolj contro il pubblico, con ispogliamenti contro i privati: memoravasi la parsimonia di Ganganelli verso i suoi nipoti, e con la prodigalità di Braschi verso i propri paragonavasi, e quello a questo di gran lunga anteponevano. Meglio fora stato, esclamavano, contenersi nella temperanza Ganganelliana, che vivere, prima profusa vita per elezione, poi misera per necessità. I servitori soprattutto, di cui tanto abbonda Roma, diminuiti i salarj, si lamentavano: e siccome quelli, che, secondo il solito, senza freno sono, facevano un parlare perniziosissimo. Tanto più essi erano di perduta speranza, quanto più le magnificenze Braschesche, le quali si erano dilatate in tutta la corte, ne avevano oltre modo accresciuto il numero, e più erano sprofondati nell'ozio, più si trovavano lontani dal far la risoluzione di guadagnarsi con onorate fatiche un'onorata vita. Si arrogavano i discorsi dei politici, e degli amatori dell'antica disciplina della chiesa. Argomentavano i primi dalla necessità di avere in tempi difficili e pericolosi un governo d'uomini prudenti, e conoscitori delle umane cose, non di preti soliti a giudicarne con le preoccupazioni, e con le astrazioni religiose. Affermavano, poichè si era giunto a tale che le armi spirituali, perduta l'efficacia loro, più non giovavano, doversi lo stato commettere al freno di coloro, che attamente delle passioni umane giudicando, sapevano per uso adoperare prudentemente i rimedj politici e temporali degli stati infermi: se Roma spirituale periva, vociferavano, doversi almeno salvare Roma temporale. I secondi dimostravano a che aveva condotto lo stato Romano la potenza spirituale eccessiva, e temerariamente usurpata, ed ambiziosamente usata dai pontefici, e l'esser loro stati esaltati alla potenza terrena. Andavano dicendo, essere tempo di usare il tempo per ridurre i costumi trascorsi della chiesa alla semplicità antica, e la potenza dei papi ai limiti primitivi, per reintegrare i vescovi in quella pienezza di potestà, che viene loro dal fondatore stesso della religione, per restituire ai principi l'independenza, che a loro s'appartiene di diritto, e che tanto è necessaria pel buon governo degli stati; questo benefizio aver a nascere da tanti sovvertimenti, nè senza un pietoso fine avere l'infinita sapienza aggravato la mano sui popoli della terra. Le dottrine Pistojesi, mostrandosi più apertamente, acquistavano maggior credito, ed i fautori loro nutrivano speranza, che lo stato della chiesa si avesse a ridurre in similitudine ai tempi che furono prossimi a quei degli Apostoli. Ma i democrati, che non amavano meglio una religione riformata, che uno stato regolato, confortati da apparenze tanto nemiche al papa, ed avendo ardente desiderio della vittoria dei Francesi, pigliavano novelli spiriti, e più vivamente operando, minacciavano prossima ruina al reggimento antico. Sentivano, e vedevano i reggitori della turbata Roma queste cose, ma meglio desideravano, che potessero porvi rimedio. Pure mandavano fuori provvisioni contro lo sparlare, ma il tempo era più forte di loro, e la proibizione accresceva la licenza. Aveva lungo tempo in Roma la maldicenza tenuto luogo di libertà, ed i Romani cuori umilmente obbedivano, purchè le Romane lingue si potesser sfogare: sicchè gridavano, esser tolta loro quella libertà, di cui avevano goduto sino ai tempi, e sin dai tempi strettissimi di Alessandro e di Sisto, crescere la tirannide con la miseria, pagare i popoli con la servitù gli errori del governo, diventata essere la condizione Romana insopportabile. A queste voci i fedeli s'intimorivano, gli avversi s'incoraggivano, gli odj s'inviperivano. Così lo stringere, e rallentare il freno era parimente esiziale al papa, crollavasi lo stato già prima che Francia gli desse l'ultima pinta. Il misero pontefice abbandonato su quei primi romori da quasi tutti i cardinali, trovava un debole conforto di parole nel cardinale Lorenzana, protettore del reame di Spagna, nel principe Belmonte Pignatelli mandato a lui dal re di Napoli, e finalmente nel cavaliere Azara, ministro di Spagna, solito a creare con efficacia nei governi di quei tempi inclinazioni verso la repubblica di Francia, poi ad intromettersi senza frutto, quando il momento era giunto della distruzione loro. Vedutasi dal papa la ruina inevitabile, ordinava ai capi de' suoi soldati, facessero nissun moto di resistenza, e si ritirassero con quel passo, con cui i Francesi si avvicinavano; pensava intanto alla quiete di Roma, ingrossando il presidio, perchè non voleva, che l'anarchìa precedesse la conquista.

Il dì dieci febbrajo molto per tempo si mostravano i repubblicani sui Romani colli: ammiravano una tanta città. Tagliavano trincee, piantavano cannoni. Per accordo stipulato per parte del papa da Azara, e da alcuni cardinali, entravano nella magnifica Roma il giorno medesimo, e fatto sloggiare, il che fu uno spettacolo miserando, dal castel Sant'Angelo il presidio pontificio, l'occupavano. Prendevano anche, condotti da Cervoni, i principali posti della città. Poi, accompagnato da' suoi primi uffiziali, e scortato da grosse squadre di cavallerìa, entrava il dì undici trionfando Berthier. Al tempo medesimo i manifesti promettitori di rispetto alle persone, alle sostanze, ai riti, alla religione si affiggevano su per le mura; dei quali, se più speranza o timore concepissero i Romani, è dubbio. Alloggiava Berthier nel Quirinale, mandava Cervoni al Vaticano per far riverenza al pontefice, assicurandolo della persona e dell'antica sovranità. Scriveva il dì medesimo del suo ingresso a Buonaparte, che un terrore profondissimo occupava Roma, e che lume nissuno di libertà appariva da nissun canto; che un solo democrata era venuto a trovarlo, offerendogli di dar libertà a due mila galeotti. Dava speranze, e faceva promesse d'ajuto ai novatori, piuttosto per ordine che per voglia. Queste promesse, e questi incitamenti sortivano l'effetto; il giorno quindici di febbrajo, correndo l'anniversario dell'incoronazione del pontefice, che a quel dì medesimo compiva ventitrè anni di regno, si levava subitamente per tutta Roma un moto grandissimo di gente, che chiamava la libertà, e mossa fin su quel primo principio da servile imitazione, traendo seco non so qual fusto di pino, s'incamminava a calca verso Campo Vaccino. La folla, le grida, la veemenza crescevano ad ogni passo. Molti correvano per vedere, alcuni per aiutare, nissuno per contrastare; perchè le pattuglie repubblicane che giravano, impedivano ogni moto contrario. Giunta che fu quella immensa tratta dirimpetto al Campidoglio, crescendo vieppiù le grida e lo schiamazzo, a fronte del famoso colle rizzava l'albero con una berretta in cima, e viemaggiormente infiammandosi a tale vista, gridava “libertà, libertà”! Nè contenti a questo, i capi givano ad alta voce interrogando gli astanti, se volessero viver liberi: risuonava tutto Campo Vaccino del sì. Seguitavano i capi a domandare, “è volontà questa del popolo Romano”? Di nuovo risuonava Campo Vaccino del sì. Cinque notai richiesti rogavano l'atto, siccome il popolo Romano sovrano e libero aveva rivendicato i suoi diritti, che libero e franco si dichiarava, che al governo del papa rinunziava, che in repubblica voleva libero vivere, e libero morire. Qui le grida, gli strepiti, il gittar dei cappelli, l'abbracciarsi, il confortarsi, il pianger dalla gioia, il ridere per pazzia, che sorsero, non son cose che da umana penna si possano agevolmente descrivere. Poi i motti contro i preti, contro il papa, e contro i cardinali, e le ipotiposi sui vizi, parte veri, parte anco esagerati della corte Romana, andavano all'eccesso. Gli atti e gli scherzi che si fecero, non son da raccontarsi. Solo dirò, che un padre di due bellissime fanciulle, venuto con loro sulla piazza pubblica, si toglieva primieramente, romoreggiando dalla gioia il popolo all'intorno, il proprio nome, con quello di Tesifonte chiamandosi; poscia le proprie figliuole sbattezzava. Ambiva quindi, e voleva essere chiamato “cittadino Tesifonte”; disordinati segni di più disordinato avvenire.

Rogato l'atto, scritto in ischifosa e servil lingua Italiana, tradotta dal Francese, si eleggevano dal popolo convocato uomini a posta, perchè l'atto medesimo portassero a Berthier, e gli raccomandassero la novella repubblica. Eravi solennità: entrava a guisa di trionfatore per la porta del Popolo il generale di Francia, con magnifico corteggio dietro ed intorno di splendidi ufficiali, e di cento cavalli eletti da ciascun reggimento. Suonavano con grandissimo strepito gli stromenti della musica militare; l'affollato popolo applaudiva. Non così tosto compariva alla porta del Popolo, che era presentato di una corona dai capi in nome del popolo Romano. L'accettava, protestando ch'ella di ragione apparteneva a Buonaparte, le cui magnanime imprese avevano preparato la libertà Romana; che per lui la riceveva, che per lui la serberebbe, e che a lui in nome del popolo Romano la manderebbe. Salito in Campidoglio bandiva la repubblica Romana solennemente, la riconosceva in nome della Francia, lodava la libertà, chiamava i Romani figliuoli di Bruto e di Scipione. Queste cose si facevano, veggendo ed udendo dalle stanze del deserto Vaticano il canuto ed infermo pontefice. Erano tutto il restante giorno, e la seguente notte canti, balli, e rallegramenti di ogni forma.

La Cisalpina repubblica a questi sovvertimenti si rallegrava. Scriveva il direttorio nella solita lingua servile per mezzo del presidente, ai legislatori Cisalpini, che la patria di Bruto era libera, che i suoi discendenti avevano solennemente proclamati i diritti dell'uomo, che il sacro albero rigeneratore dei popoli aveva messo le sue radici sul Campidoglio, che la ragione era stata vendicata de' suoi oltraggi, che Roma finalmente non aveva più tiranni; che vi si era creato un governo provvisorio composto di bravi, ed illuminati repubblicani; che il vescovo di Roma era guardato dalle truppe Francesi, e che il popolo quanto inebbriato del sentimento della sua libertà, altrettanto si manteneva dignitoso, saggio e tranquillo. Quest'erano le poesie, o per parlare con Buonaparte, i romanzi dei tempi.

Fra mezzo a tanta mina continuava a starsene nelle sue stanze del Vaticano papa Pio Sesto con qualche apparato di sovranità, tuttochè già servo fosse; conciossiachè ed usava la sua spirituale potestà, ed i ministri celebravano gli uffici divini, e gli ufficiali di casa il servivano, e le guardie Svizzere il custodivano. Ma in quella stato di Roma non poteva più un papa sussistere, nè per lui per le dignità, nè pei repubblicani per la sicurezza. Inoltre l'opera del direttorio doveva consumarsi intiera. S'incominciavano a mandar carcerati in Castel Sant'Angelo, o confinati nelle proprie case alcuni cardinali, ed altri personaggi di nome e d'autorità. Toglievasi quindi dal Vaticano la guardia Svizzera con dolore vivissimo del pontefice, che non se ne poteva dar pace; vi surrogavano la guardia Francese. Qui io vorrei tacermi: ma l'amore della verità mi sforza a dire, che il venerando Pio, ridotto in caso di sì estremo abbassamento, non andava esente, da parte di alcuni repubblicani di Francia, da scherni tali, che l'ammazzarlo sarebbe stato poco maggior mancamento. Agli scherni succedeva l'esilio: Cervoni, avutone comandamento da Berthier, introdottosi nelle stanze del pontefice, in nome della repubblica Francese gl'intimava, che si dispogliasse della sovranità temporale, si contentasse della spirituale. Rispondeva Pio, avere la sua temporale sovranità ricevuto da Dio, e per libera elezione degli uomini, non potere, nè volere rinunziarvi; alla età sua di ottant'anni potersi bene fare mali grossi, ma non lunghi; essere parato a qualunque strazio; essere stato creato papa con piena potestà; volere per quanto in lui fosse, papa morire con piena potestà; usassero la forza, poichè in mano l'avevano, ma avvertissero che se avevano in poter loro il corpo, non avevano parimente l'animo, il quale in più libera regione spaziando, di accidenti umani non temeva; esservi un'altra vita per lui oggimai vicina; in lei nulla gli empi, nulla i prepotenti potrebbero.

Restava, poichè l'animo non avevan potuto vincere, che vincessero il corpo. Il pubblicano dell'esercito, che al suono delle Romane finanze era prestamente accorso, appresentatosi al pontefice, gl'intimava, tempo due giorni, da Roma si partisse. Rispondeva Pio, non potere resistere alla forza; ma volere, che il mondo sapesse, che sforzato il proprio gregge abbandonava. Strane venture di tempi, che i repubblicani andassero a Roma predicando di voler punire gli assassini di Basville e di Duphot, e conservare il papa, e che gli assassini non punissero, ed il papa non conservassero; conciossiachè del castigo degli uccisori di Basville e di Duphot, occupata Roma, non si fece più parola.

Il dì venti febbrajo sforzavano i repubblicani il papa a partire. Lasciava Pio l'antica sede, cui non era per rivedere più mai. L'accompagnavano solamente, miserande reliquie di corte tanto sontuosa, oltre alcuni addetti ai servigi domestici, monsignor Inico Caracciolo di Martina, suo maestro di camera, e l'abbate Marotti, professor di rettorica nel collegio Romano, suo segretario eletto. Uscito da porta Angelica s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano diligentemente soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi vicini e dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice captivo: muovevangli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la malattia, la sventura. Per tal modo vecchio, infermo e prigioniero lasciava Pio Roma, caso non più veduto, dappoichè Borbone ne cacciava Clemente; lasciava Roma, cui aveva abbellito con opere magnifiche, e che doveva fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti Tolentiniani vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già padrona per opinione del mondo, ora serva per opinione, e per bajonette di nuove repubbliche. Singolare città, che, o padrona o serva, o magnifica o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due estremi, in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice ricovero, contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento degli Agostiniani di Siena, e conforto negli ossequj del gran duca, e nelle lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Si dimostrarono in questo pietoso ufficio singolari i vescovi fuorusciti di Francia, massimamente quelli che dimoravano in Inghilterra. Il tentavano spesso i repubblicani, perchè rinunziasse alla potestà temporale; il che egli constantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione si ordinava, che più strettamente si custodisse, e se gli ristringeva la facoltà di veder gente: rigore tanto più da condannarsi, quanto più era di nissun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza. Succedeva poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il convento, come se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del desolato pontefice; piombavano a croscio le volte, le mura si sfasciavano, distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare: raccolto prima nel palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si riduceva finalmente ad abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua presenza sul continente, particolarmente in paese sì vicino a Roma, dava sospetto ai repubblicani. Perlochè ordinavano, che si trasferisse in Cagliari di Sardegna. Rappresentavano le benigne persone che continuavano ad avergli affezione, che nè la sua età, nè le infermità permettevano, che a quel viaggio marittimo si accomodasse. Anche il re di Sardegna che abborriva dal divenir custode di un papa, custodia ed odiosa in se, e pericolosa per l'amicizia che aveva allora con Francia, faceva opera di esimersi. Infine era Pio lasciato stare nella Certosa insinocchè, venuti in Italia tempi pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia.

Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento parte frodolento, le sostanze e gli ornamenti più preziosi del suo stato. Nè in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre che alle profane cose, alle private che alle pubbliche, perchè le une e le altre involavano con uguale cupidigia, nè le rapine duravano solamente, come le antiche, tre o quattro giorni, che anzi non si terminarono se non con le stanze dei repubblicani; o per meglio dire neanco allora, perchè venute dopo di loro le truppe regie di Napoli, rinnovarono con brutta imitazione le rapine ed il sacco. Ma per favellar dei repubblicani, che a questo tempo erano signori di Roma, cominciava lo spoglio da alcuni capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio nei soldati. Solo incorrotti si mantennero la maggior parte degli ufficiali di mezzo, i quali, come si dirà, a conservazione dell'onore offeso, ne fecero un solenne risentimento. Giravano all'arrivo dei Francesi nello stato Romano ventisette milioni di cedole, peso incomodissimo, e vera peste sì del privato, che del pubblico avere. Fu ridotto al quarto il valore loro, dolorosa, ma salutifera ferita a chi le aveva in sua possessione. Sarebbe stata questa una legge da lodarsi per ogni parte, se subito dopo non fosse stata promulgata, che gli agenti del direttorio avevano speso per le loro provvisioni sì pubbliche che private, quella copia di cedole, che avevano trovato nelle casse papali, e che non era di poco momento. Aggiungesi da alcuni, e se vero fu, come pare, sarebbe il caso molto più enorme, che poco innanzi alla promulgazione della legge, e quando già si era fatto risoluzione di promulgarla, furono stampate a fretta cedole per un valsente di sei milioni, e tostamente, per compre fatte, gittate nel pubblico. Che maneggi fossero questi, il lettore lo penserà da se. Si levava un grido universale contro gli autori di sì vituperoso inganno; ma le armi erano più forti dei gridi, e chi più poteva, tutto ardiva.

Oltre le cedole, le Romane finanze consistevano in una quantità di beni assai considerabile, che appartenevano allo stato, e questi in nome della repubblica Francese occupavano i suoi agenti, non che quelli, che per essere di privato patrimonio di papa Pio, potevano, se non con ragione, almeno con pretesto cadere in potestà di Francia; conciossiachè il direttorio si protestava solamente nemico del papa, non dello stato Romano, al quale anzi professava amicizia. Ponevansi al fisco della repubblica, deliberazione certamente enorme, i beni del collegio della Propaganda, quelli del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le Paludi Pontine, le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i mobili non si risparmiavano: qui fuvvi, non che confiscazione, sacco. Quanto di più nobile e di più prezioso adornava i palazzi del Vaticano, e del Quirinale, fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio veramente barbara. Dal Vaticano, edifizio magnifico per undicimila camere, furono tolti, non solamente tutto il mobile a servigio di persone, ricca e preziosa suppellettile, non solamente gli arredi mirabili di busti, di quadri, di statue, di camei, di marmi, di colonne, ma perfino i serrami ed i chiodi, per forma che l'Instituto nazionale di Roma, che per non so qual derisione fu poco poscia creato, volendo sedervi dentro, ebbe a pensare a far rimettere e porte, e toppe, e chiodi dove un appetito insaziabile gli aveva tolti. Così quella sede nobilissima di Romani pontefici, quella veneranda depositerìa delle opere di Raffaello e di Michelagnolo, quell'ornatissimo ricovero di quanto Grecia ed Italia avevano prodotto di più prezioso, di più gentile, di più grazioso, si appresentava agli occhi dei risguardanti atterriti quale deserto e saccheggiato abituro. E queste cose faceva, non la guerra ma la pace, non la nimicizia ma l'amicizia, non la barbarie ma una vantata civiltà. Seguitava sempre i passi dell'esercito una compagnìa di sensali, che s'intendeva coi rapaci pubblicani, ed era pronta a pagare a loro per vile prezzo le ricchezze acquistate, sicchè le nazioni vinte s'impoverivano, la Francia vincitrice non s'arricchiva, i soldati non avevano le paghe, e ad ogni tratto sdegnosi minacciavano di ammutinarsi. Ma i rapitori chiamavano in aiuto la militar disciplina, come se più i soldati fossero obbligati all'obbedire, che i pubblicani all'onestà. Le masserizie più vili, alle quali i capi non abbadavano, si vendevano agii ebrei non per pattuito, ma per imposto prezzo.

Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati, nè più risparmiati i sacri che i profani arredi, perchè i vasi sacri della cappella Sistina, e delle altre cappelle pontificie ebbero a pruovare i toccamenti dei profani involatori; gli abiti sacerdotali stessi si diedero alle fiamme per cavarne i metalli preziosi, coi quali erano tessuti. Passava il sacco dai palazzi dello stato e del papa a quei de' suoi parenti, ed anzi a quelli di coloro, o principi Romani o cardinali che si fossero, che più si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine, che avevano servito di mossa, e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione. Il palazzo di città, quei del principe, e del cardinale Braschi, quello del cardinale York furono con uguale avarizia depredati. Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa Albani, di cui era signore il cardinale, e principe di questo nome. Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia o per lavoro, fu tocco e rapito dalle avare mani dei forestieri: contro Albani si scagliavano particolarmente, perchè l'avevano conosciuto affezionato al pontefice, e mantenitore della opinione, che più nell'Austria che nella Francia, che più nell'imperatore Francesco, che nel direttorio, il papa avesse a fidarsi, come se nelle faccende di uno stato indipendente non avessero ad esser libere le opinioni di chi consiglia, se però non si voglia dire, che si amano meglio i traditori che i fedeli, meglio chi consiglia con perfidia che chi con sincerità. Il giardino stesso dell'Albani fu guasto e deserto; gli aranci, e le altre piante odorifere o rare vendute a vile prezzo. Quest'era più furto che conquista; perchè Albani era persona privata, e non certamente nè papa, nè stato, e con qual diritto avesse ad essere svaligiato, sarebbe bene, che gli addottrinanti di quel secolo ce l'insegnassero. Non posso io già, nè voglio passar sotto silenzio una rapina, che gli avari pubblicani preposti dal direttorio alle finanze d'Italia volevano ad ogni modo fare di un ricchissimo ostensorio, tutto tempestato di diamanti, che di proprietà privata essendo di casa Doria, in Sant'Agnese, chiesa di giuspatronato della medesima famiglia, ogni anno all'adorazione dei fedeli si esponeva; lo stimavano ottantamila scudi. E perchè il generale Saint-Cyr, che aveva l'animo tanto ornato di temperanza, quanto alcuni altri l'avevano contaminato di avarizia, si era opposto, ne ebbe le male parole, e fu anche richiamato dal direttorio. La rapacità che si usava in Roma e nei contorni, si dilatava in tutto lo stato Romano, ed ogni sostanza sì pubblica che privata vi era posta a mercato. Sorse fra gli altri un caso miserando, che facendosi il giorno ventitre febbraio le esequie solenni dell'ucciso Duphot per tutta la città, alcune pattuglie repubblicane, dico alcune, perchè le più si serbarono continenti, rotto ogni freno di onestà e di disciplina, e non considerato, che l'ufficio a loro imposto era di conservar intatti il buon ordine e le sostanze, entrarono nelle chiese, e da loro involarono i vasi e gli arredi destinati alla celebrazione degli uffizi divini. Nè dal sacco andarono esenti le chiese appartenenti alle nazioni Spagnuola ed Austriaca, sebbene l'una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Perchè poi nissuna spezie di miseria e di compassione mancasse a Roma in questo giorno, vi fu la sera gran luminaria alla cupola e nella piazza del Vaticano; ballossi allegramente al Quirinale. Uditosi nelle province della Romana dizione il sacco delle chiese di Roma, alcune delle provinciali chiese furono ancor esse al modo medesimo poste in preda. Al sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modo di riscatto nascosto, e qualche volta a bella posta si mettevano, perchè i modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più di ducentomila scudi; l'incisore Volpato di più di dodicimila, e fra dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri, o statue, od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani.

Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose, che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla volta di Francia, o segretamente, od anche apertamente, perchè a tale di sfrontatezza si era venuto, i soldati non avevano le paghe corse da molti mesi, e laceri, e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano l'ingordigia di coloro, che preposti al vitto, ed al vestimento loro, credevano, dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei paesi conquistati con le fatiche, e col sangue loro. Gli ufficiali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini, accordatisi fra di loro ed in gran numero nella chiesa della Rotonda adunatisi, facevano un forte scritto, e l'indirizzarono a Massena, surrogato a Berthier. Addomandavano i soldi corsi dei soldati, chiamavano vendetta contro i depredatori, per l'onore dell'esercito offeso. Lo sdegno loro principalmente mirava contro Massena per le estorsioni da lui fatte, come dicevano, in tutti i paesi Italiani venuti sotto il di lui governo, massimamente nel Padovano. Nè minor avversione mostravano contro Haller, cui principalmente accusavano dell'Italiane espilazioni, e della Francese miseria. Fecero anche risoluzione di arrestarlo, e di porre a sigillo le sue carte. Massena, siccome quegli che non soleva portare pazientemente, non che le accuse, i contrasti, facendosi scudo della disciplina, intimava agli ufficiali adunati che incontanente si segregassero: quando no, gli costringerebbe con la forza. Rispondevano, preferir la morte all'infamia, prender Dio in testimonio della purità delle intenzioni loro. Mandavano nuovi deputati a Massena. Non fecero frutto, perchè il generale più aspramente che prima rimproverandogli dell'aver rotto l'obbedienza, gli minacciava di forza e di castigo. I pubblicani, vedendo quel nembo, o fuggivano, o si nascondevano, e per ogni forma si consigliavano di salvar il bottino. Gli ufficiali, ai quali questa volta si erano accostati alcuni generali dei primi, gelosi parimente dell'onore dell'esercito, di nuovo si adunavano il dì sette marzo nella chiesa medesima della Rotonda, e con più forti parole dimostravano al generale, doversi giustificar l'esercito dei ladronecci commessi, e dar le paghe ai soldati.

Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un presidio di tremila soldati in Castel Sant'Angelo, ed in altri luoghi forti, che tutto l'esercito il seguitasse. Sperava partendo, e distribuendo in diverse stanze i soldati alla campagna, di poter far risolvere l'intelligenza degli uffiziali. Obbedivano, ma ciascun corpo creava uffiziali eletti, con mandato di vegliare, acciocchè gl'interessi loro non ricevessero danno. Gli uffiziali eletti, raccoltisi in Campidoglio, scrivevano lettere a Berthier, pregandolo di ripigliare il freno delle genti, e protestavano a Massena di non volergli più obbedire. Fece ogni opera, ma invano, per riguadagnarsi l'affezione loro. Laonde, vedendosi in voce di tutti, nè più potendo comandare a coloro che il chiamiavano coi più odiosi nomi, pensò al ritirarsi, e se ne andava, lasciato il governo a Saint-Cyr, e a Dallemagne, in Ancona, donde tutto dolente, e sconfortato scriveva a Buonaparte, pregandolo a dargli favore presso il direttorio, affinchè lo mandasse ambasciatore a qualche potenza.

I Romani, osservato lo scompiglio delle genti Francesi, ed essendo sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì dura servitù, perchè ora mai un popolo di quasi due milioni di anime era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che considerato. I primi a romoreggiare furono i Transteverini, gridando “viva Maria”. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano una guardia Francese, s'impadronivano di Ponte Sisto, e delle strade, che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano; Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa era grave. Già i Francesi erano uccisi alla spicciolata, e già le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de' lati le dissensioni loro, muovendogli il pericolo comune, si ordinavano tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da furore, che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente tumultuaria in Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in queste battaglie molto sangue, perchè i Francesi coi loro squadroni agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e da zelo religioso, menavano ancor essi la mani aspramente. Infine prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierìe bene governate dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarj, e si nascondevano chi per le case, e chi per le campagne. Fecero i contadini ritiratisi ai monti una testa grossa; ma Murat, penetrando coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli sperperava. Di cencinquanta prigioni, parte furono mandati al remo, parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma piena di terrore, d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di questo moto, o fosse verità o pretesto, i cardinali, ed altri prelati sospetti d'affezione verso il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia, o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Roverella, la Somaglia, Carandini, Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della repubblica Romana. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a Civita vecchia, ed imbarcati su navi sdrucite, furono mandati a cercar ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal di morte, fu lasciato stare: Albani, che più d'ogni altro desideravano di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo quanto aveva la chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per dottrina, era disperso e calpestato. Non solo enormi, ma pazze cose erano queste, perchè il torre rispetto a uomini rispettati portava con se, quando che fosse, il vilipendio di coloro che non gli rispettavano, perchè la licenza è male contagioso, e si appicca facilmente dagli uni agli altri.

Gli accidenti Romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di confusione, siccome quelli, che sulle prime succedevano alla militare conquista. Restava, che la oppressione e la servitù si ordinassero sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento dei conquistatori di fare scherno alla libertà, e di metterla in odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio mandato a Roma quattro suoi commissarj, che furono Faipoult, Florent, Daunou, e Monge, uomini, che facevano professione di amare la libertà. Deliberarono fra di loro di dar una constituzione alla repubblica Romana. Pareva un gran caso quel delle leggi, che avessero da uscire da una Francia per una Roma per mezzo di uomini rinomati e mandati a bella posta da Parigi, massime da Daunou e da Monge, ambidue venerandi per ingegno, per dottrina e per virtù. Ed ecco pubblicarsi un corpo di constituzione, il quale altro non era, che sotto nomi Romani la constituzione Francese; imperciocchè sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di alta pretura a di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione, e commissarj dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidj servili delle amministrazioni centrali per ciascuno spartimento della repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si noverarono otto spartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto. Avevano per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia, Perugia, e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi, come quella di Francia. Nel che, oltre il copiar servile, gli uomini prudenti osserveranno, quanto inetto fosse il dare nomi medesimi a cose diverse, e quanto dannoso alla libertà il servirsi di nomi antichi, che suonavano potenza e libertà, in uno stato di oppressione, e di servitù. Ne fu tolta autorità a parole venerate. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè i magistrati furono ordinati vestirsi alla francese, mutato solo pei consoli, senatori, e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia.

Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci da Roma, Ennio Quirino Visconte da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi d'Ancona, Reppi d'Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del generale, o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare la rivoluzione di Venezia, se n'era ora venuto a fomentar quella di Roma. Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariotti, un Bremond Francese.

Come se gli spogli, le tasse violente, i comandamenti non solo imperiosi, ma ancora capricciosi abbastanza non avvertissero i Romani della servitù, inserirono i quattro commissarj nella constituzione Romana questo capitolo, che fu il trecentesimo sessagesimonono, che si avesse a fare, al più presto, un trattato d'alleanza tra la repubblica Romana e la Francese; che insino a che questo trattato fosse ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi Romani non potessero essere nè pubblicate, nè eseguite senza l'approvazione del generale Francese che stava al governo di Roma; che il generale medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi, che a lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni del direttorio.

La constituzione Romana aveva posto a difficile partito coloro, che occupavano le cariche ancora sussistenti del governo precedente, e generalmente tutti coloro, che, sentendo tuttavìa a norma delle antiche massime, erano pure obbligati, per le necessità loro, a servire allo stato nuovo. Era nella constituzione un capitolo, che ordinava di giurar odio alla monarchìa, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva udito dal suo secesso della Certosa di Firenze, che il governo della repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero, e dai parochi di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia, e parendogli, che non si convenisse ai ministri della religione il giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor Passeri, vice gerente di Roma, ammonendolo non esser lecito prestar puramente, e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli di notificare agi'intimati questa sua decisione pontificia e di avvertire, che l'eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere, interessava anche moltissimo, che la repubblica fosse persuasa della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente al repubblicano governo conformi in tutto agl'insegnamenti della cattolica religione, così statuiva, che ciascuno potesse con sicura coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica, che attualmente comandava, essendo stato unanime insegnamento de' Santi Padri, e della chiesa, che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo le varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi attualmente comanda. Definì inoltre, che ciascuno potesse giurare di non prender parte in qualsivoglia congiura, trama, o sedizione pel ristabilimento della monarchìa, e contro la repubblica; e potesse altresì giurare odio all'anarchìa, essendo questa uno stato di disordine. Finalmente deliberò, che si potesse giurare fedeltà ed attaccamento alla constituzione, salva peraltro la cattolica religione. Pensava papa Pio, che i magistrati della repubblica non avrebbero rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si esprimeva, all'atto del popolo sovrano dei quindici febbrajo del 1798, con cui il popolo riunito innanzi a Dio, ed al mondo tutto, con un sol animo, ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la religione, quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri, e succedutogli nella carica di vice gerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di propria autorità, e contro le intenzioni del papa, diede una seconda instruzione, per cui i professori del collegio Romano e della sapienza si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento tale qual era prescrito dalla constituzione, solo facendo verbalmente qualche protestazione. Udì gravemente il papa quest'accidente, e rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni, gli comandò, richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò, che per lei, e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse, che Roma già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie, prudenti, e conducevoli alla quiete dello stato erano queste sentenze di Pio. Da loro si può dedurre un utile ammaestramento, e quest'è, che la religione è, e debb'essere tutta spirituale, e che non le è lecito l'ingerirsi nella forma del governo politico delle nazioni. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto gelosa, si rammorbidì facilmente sì per la prudenza del papa, come per la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si temeva, o movimenti, o persecuzioni d'importanza.

Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era stata mai altro, che un appicco contro il papa, l suoi territorj, salvo San Leo, s'incorporarono alla Romana.

Il dì venti marzo si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano, la confederazione della repubblica Romana a guisa di quella, che fu da noi descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonìe, illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo, e molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento la Romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli sulla piazza del Vaticano; bandiva la constituzione, dichiarava Roma libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava poscia, pure Romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai, e con questi motti: “Berthier restitutor urbis”, e “Gallici salus generis humani”.

Fine del Tomo III

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