LIBRO DUODECIMO

SOMSneralissimo dà una constituzione alla Cisalpina. Magnifica festa celebrata nel campo del Lazzaretto a Milano. Le potenze riconoscono la nuova repubblica. Omelìa del cardinal Chiaramonti, vescovo d'Imola, in lode della democrazìa. Visconti, ambasciatore della Cisalpina a Parigi, suo discorso al direttorio, risposta del presidente. Ultimo vale di Buonaparte alla Cisalpina. Cupezze di lui, e come inganna i potenti per arrivare alla somma dell'autorità in Francia. Trattato di Campoformio. Miserie d'Italia. Stato di Venezia democratica. Le truppe dell'imperatore occupano l'Istria, la Dalmazia, e l'Albania Veneta. Fraudi di Buonaparte per impadronirsi del navilio Veneziano, e dell'isole del mare Ionio. Spedizione dei Francesi in Levante. Espilazione, e spoglio dei paesi Veneti. Festa giojosa ad un tempo, e compassionevole in Venezia. Congresso in Bassano per la unione delle città Venete, inutile, e perchè. Brutta proposizione fatta da Buonaparte ai municipali di Venezia. Generosi sentimenti dei municipali, e di Villetard, segretario della legazione di Francia; sdegno barbaro di Buonaparte. Venezia consegnata dai repubblicani agl'imperiali.

Buonaparte vincitore dell'Italia e dell'Austria, desiderava, che un testimonio solenne si fondasse in Italia, il quale, oltre gli scritti, che morti sono, tramandasse ai posteri la memoria viva de' suoi illustri fatti, e del suo valore. Quest'era, come abbiam narrato, uno stato nuovo, che fosse a lui obbligato della sua origine, e della sua conservazione. Oltre a ciò, non essendo ancora le cose della pace del tutto ferme, poichè ad ogni momento si poteva prorompere nuovamente all'armi, voleva, che sorgesse in mezzo alle monarchìe d'Italia, e contro l'imperatore medesimo una repubblica, che fondata sui principj nuovi, desse loro cagione continua di spavento. Parevagli ancora, che la fondazione della nuova repubblica avesse, nella opinione dei popoli, a compensare la distruzione di una vecchia, e che la Cisalpina potesse cancellare il biasimo incorso per la Veneziana. Forse in tutto questo, oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel caso, in cui per opera o d'altrui, o sua, venisse a mutarsi la forma del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla monarchìa; poichè quel nuovo stato Italiano avrebbe potuto divenire per esso lui, o asilo, o ricompensa; conciossiachè il tornare al grado privato stimava contro la fama, ed era certamente contro la natura sua, checchè in contrario affermasse in certi momenti di dispetto, al direttorio. I Cincinnati, ed i Washington erano stimati da lui uomini di bassi pensieri, d'animo poco generoso, siccome quelli i quali collocavano la patria fuori di loro, ed in altrui, mentr'ei la collocava tutta in se.

Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben, e dato ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a Montebello, donde poteva e vegliar le pratiche della pace, e dar moto alle faccende Cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano, o palesi nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi Cisalpini di soldati Piemontesi, Austriaci, Polacchi, Papali, e Napolitani, che nelle legioni Lombarda e Polacca si descrivevano, o segrete per gli uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorte, in cui vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia, massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi per la natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose che si scrivevano a quei tempi in Milano contro i re e contro il papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Quel Salvadori, ed un Porro che fu poi ministro di polizia, e morì due anni dopo nella morìa di Nizza, erano i capi delle arti provocatrici, e stimolavano scrittori, che anche senza stimolo andavano volentieri a questo cammino. Fra i giornali Italiani il Termometro politico era il primo, e ciò, ch'ei scrisse sulla rivoluzione di Genova, e su i moti del Piemonte, è fuori d'ogni moderazione. Diede negli eccessi principalmente quando con infiammatissime parole esortava, che si gettassero al vento le ceneri dei reali di Savoja serrate nelle tombe di Superga, con surrogarvi quelle dei patriotti morti nell'Astigiana rivoluzione. Queste erano esorbitanze pazze e stravaganti; l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano, e risplendevano molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti, e leali operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei tempi. Piacemi in questo riferire un solo discorso, poichè l'andar particolarizzando sarebbe troppo lunga narrazione, e fia quello di un giovane dotto, ed amico sincero di libertà: aveva egli l'animo buono, e come buono, non sospettava in altrui quel male che non aveva in se. Esposti prima con molto acume, per cui massimamente valeva, i modi con cui gli uomini s'aggregano primitivamente in società, giva per tale forma nella sala della società della pubblica instruzione la domenica dei sette maggio favellando.

«Sì, popoli della nuova Gallia Cisalpina, voi segnate negli annali del mondo un'epoca singolare, un'epoca, per cui le città dell'Italia non avranno più ad invidiare a quelle della Grecia la sorte, che portò nel loro seno la libertà. Gli Eraclidi, que' barbari di Tessaglia, che si aprirono strada nel Peloponneso, non scesero già per liberare, ma per ispogliare ed opprimere i popoli Greci. Forzati questi ad armarsi per resistere al nemico esterno, poterono bensì rovesciare i troni dei loro re, ma ciò non seguì che a costo di lunghi e gravi patimenti. Non fu che per la morte di Xanto e di Codro, che Tebe ed Atene si resero libere. Non fu che per una serie di eccessivi malori, che tutte le città cospirarono alla rovina dei despoti, si unirono tutte per sostenersi a vicenda, e guarentirsi la libertà, e sorse il mal ragionato federalismo della repubblica Acaica; e non fu che dopo una fatale continuata esperienza, che le buone leggi comparvero in Sparta, ed Atene; poichè all'epoca della rivoluzione mancarono di Licurghi, e di Soloni quelle città.
«Ora confronta tu stesso, Insubre popolo, con quella di Grecia la tua rigenerazione. Quanto è più fortunata, e più lieta! le armate Francesi non sono già state le orde rapaci degli Eraclidi; non sono già elleno discese dall'Alpi per devastare le nostre terre, per abbattere le nostre mura, per distruggerci col ferro e col fuoco. Sono esse comparse nelle pianure ridenti d'Italia per fraternizzare coi popoli, per rovesciare i troni dei nostri tiranni, per allontanare da questi lidi i veri Eraclidi, i barbari del Nord, che non ebbero, e non potranno avere giammai, nè il diritto di farsi occupatori nostri, nè il merito di unirsi a noi. La naturale loro posizione, i costumi, le leggi, la lingua, gli stessi loro ceffi gli divideranno sempre da noi, e gli conserveranno eterno obietto dell'odio nostro. Noi non siamo stati sforzati ad armarci, ed a combattere nemmeno contro gli schiavi della tirannide; i valorosi repubblicani di Francia hanno combattuto, e vinto per noi. Sulle tracce della constituzione Francese, o per dir meglio, del codice di natura, noi sapremo meglio forse di Licurgo e di Solone donarci in breve le nostre leggi. Avremo in appresso noi pure i nostri Milziadi, i Leonida, i Temistocli, i Cimoni, la gloria dei quali è già stata oscurata dai capitani Francesi, e sapremo rinnovare noi pure le già tante volte dalle Franche falangi ripetute giornate di Maratona, delle Termopili, di Salamina. Più grande di Publicola il condottiere dell'armata d'Italia ha ben meritato di ottenere fra le tue mura l'onore del trionfo; ma le tue allegrezze non verran funestate dai funerali di Bruto; nè tarderanno a sorgere fra' tuoi soldati i Servilj, i Fabricj, i Papirj, i Scipioni: che più? Le Clelie animose, le ferme Virginie si moltiplicheranno pure nelle tue donzelle».

Poi questo buon Italiano, descritta la libertà Siciliana data da Timoleonte, ed esortati gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie, con queste voci la sua orazione terminava:

«Conosci, o popolo, la tua forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno, e contro il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a quella libertà, che, abbandonate le amene sponde del Cefiso e del Peneo, e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo essere stata sì lungamente ne' boschi e ne' deserti nascosta, comparve di nuovo per grandeggiar sulla Senna, e per brillar con successo intorno al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, che Apennin parte, e 'l mar circonda e l'Alpe».

A queste parole applaudivano romorosamente i buoni Milanesi, maravigliando, che fra loro avessero a nascere così presto i Temistocli, i Scipioni, e massimamente le Clelie e le Virginie. Quest'erano appunto le cose, che, come diceva Buonaparte, il quale aveva il cervello fermo, mentre girava agli altri, son buone a mettersi nei romanzi.

Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel Genovesato, già abbiam raccontato. Il ducato di Parma a grave stento si manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia non voleva pregiudicar. Continuava la Toscana nel suo tranquillo stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita per le contribuzioni, e le arti Cisalpine vi avessero prodotto qualche impressione. Lucca, corrotti con denari, e fattisi benevoli alcuni agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi, non senza grandissime querele dei patriotti Cisalpini, che quell'aristocrazìa ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma stessa, dove si scoversero congiure per cangiar lo stato, ed in cui si mescolarono francesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei. Condotti dall'occupamento del secolo avevano parlato molte cose, e nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione. Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva, e gli animi si sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto: oltreacciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere Romane: il governo macchinava ingrandimento; perciocchè vedendo, che si faceva vendita di stati, Napoli ne voleva per se, e domandava con molta instanza ai Francesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia, e Zante nella Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio e da Buonaparte, più inclinati a sovvertire gli stati deboli, che ad ingrandirgli. Da ciò si vede che la sete del prendersi quel d'altrui era venuta non solo alle repubbliche, ma ancora alle monarchìe. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano più che parole, o congiure o desiderj; i popoli vi tumultuavano a mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi qualche sangue: poi dai Grigioni, e dai Valtellini fu fatto compromesso nella repubblica Francese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni, che avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della Cisalpina. Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre principali di quella valle, con tutti i distretti, sottratte dalla divozione di gente Tedesca, si congiungevano con gente Italiana. Così dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi più recondite delle nazioni Elvetiche, grande ajuto ai disegni che si avevano.

Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerìe dei patriotti per sommuovere gli stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina con una constituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia col freno di un'amministrazione generale, potestà non solo serva del generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe troppo lunga bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano: il frenare i democrati era stimata taccia aristocratica, il non frenargli tornava in diminuzione della sua autorità, ed in fonte di licenza. Nelle diverse città i comandanti forestieri facevano a modo loro, e secondochè avevano natura più o meno quieta, od opinioni più o meno sregolate, in questo luogo tenevano, in quell'altro allargavano la briglia, e lo stato si reggeva più strettamente, o più largamente. Laonde quello non era governo nè civile, nè libero, nè comune, ma bensì un reggimento incomposto, difforme, ed a volontà di forestieri. Dal che ne conseguita, che poco più poteva l'amministrazione generale, che empir con le tasse ordinarie e straordinarie l'erario dell'esercito Buonapartiano, e dare caposoldi, e piatti costosi ai generali ed ai comandanti: perciò era veduta non senza disprezzo e indegnazione dai popoli.

Buonaparte, che era solito a gettar via gli stromenti, che per servir lui, erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Oltrechè gl'importava massimamente, a volere che la Cisalpina fosse uno stato da se, e conosciuto dagli altri stati d'Europa, che il reggimento temporaneo vi cessasse, e vi s'introducesse il durevole ed il constituito, per quanto a quei tempi conseguire si potesse. Per la qual cosa avendo dato vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il carico di formare il modello della constituzione Cisalpina. Notavansi fra gli eletti cinque Milanesi, un Cremonese, un Reggiano, un Modenese, un Bergamasco. Vi aggiungeva un Tirolese da lungo tempo professore in Pavia. Questi era il Padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità e la vastità della dottrina, e certamente fra i dotti dottissimo. Non amava egli travagliarsi dello stato, non avendo ambizione, ma Buonaparte lo cercava per vanagloria, e per un suo fine, volendo farsi scabello dei nomi più chiari per salire a quell'altezza che ambiva. Interveniva spesso alla congregazione. Pareva, che dovesse sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte, e da un Fontana. Ne usciva una copia della constituzione Francese con poche mutazioni, e di niun momento; opera degna di copisti, non di quegli uomini eletti. Per tale forma si consumava l'autorità dei nomi senza frutto, e gli stromenti dell'introdurre un vivere ben composto si corrompevano. Restava, che quello che si era fatto in nome, si recasse in atto. Eleggeva Buonaparte quattro Cisalpini al direttorio: furono quest'essi: Serbelloni, che fu duca, e che camminava con molto affetto in queste novità, Moscati, medico compitissimo, e non ostante tanto compito in ogni altro genere di filosofia, quanto in medicina, Paradisi, autore assai celebrato per bello scrivere, e malveduto dagli Austriaci per aver voce di essersi mescolato attivamente nei moti di Reggio; finalmente Alessandri, operatore principale delle mutazioni nelle terre Veneziane oltre Mincio. Siccome poi non si potevano così presto eleggere i rappresentanti, che nei due consigli legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni, l'una di constituzione con Fontana, Mascheroni, Longo, Oliva, Loschi, Goldaniga; l'altra di giurisprudenza con Bazetta, Negri, Taverna, Spannocchi, Villa, Perseguiti; la terza di finanze con Melzi, Vandelli, Formigini, Nicoli, Forni, Carissimi; la quarta di guerra con Visconti, Lahoz, Porta, Triulzi, Gazzari, Caleppi, uomini, se non tutti, certamente la maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato insino a che fossero creati, ed entrassero in ufficio i consigli legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici dello stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi, di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava segretario del direttorio Sommariva.

Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da servir per principio alla Cisalpina repubblica. La repubblica Cisalpina, andava ragionando, essere stata lunghi anni sotto l'imperio dell'Austria, averla contro l'Austria conquistata la repubblica Francese; eppure rinunziare lei la conquista, e volere, che la Cisalpina fosse libera, independente, riconosciuta dalla Francia e dall'Austria, riconosciuta da tutta l'Europa; nè contento il direttorio esecutivo della repubblica Francese allo aver usato l'autorità sua, e le vittorie dei soldati repubblicani, perchè sorgesse, e sicura vivesse, volere ancora per singolar tratto della sua amorevolezza, e per preservarla dalle rivoluzioni dare al popolo Cisalpino la propria constituzione, parto prediletto di una nazione illuminatissima; essere la libertà il maggior bene, le rivoluzioni il maggior male; dovere adunque il popolo Cisalpino far passo da un reggimento soldatesco ad un reggimento civile; perchè questo passo senza discordie fosse, e senza sedizioni, avere il direttorio esecutivo giudicato dovere per suo mezzo, e per questa volta nominarsi i magistrati supremi della repubblica nuova, insino a che, trascorso un anno, il popolo stesso secondo gli ordini della constituzione gli nominasse; già da secoli non essere più buone repubbliche in Italia, l'amore sacro della libertà esservi spento, la più bella parte dell'Europa vivere serva dei forestieri; esser debito della repubblica Cisalpina il dimostrare col senno, e col vigor suo, e coi buoni ordini de' suoi eserciti, non avere la moderna Italia degenerato dall'antica, e vivere ancora in lei spiriti degni della libertà, per questo avere lui nominato e le quattro congregazioni, e il direttorio, e i ministri.

Destinavansi il dì nove luglio, ed il campo del Lazzaretto fuori di porta Orientale, vasto e magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica. Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurj i deputati di tutti i municipj, di tutti i drappelli delle guardie nazionali, di tutti i reggimenti assoldati della repubblica. Era nei giorni, che precedevano la festa, in tutta la città una folla, ed un andar e venire di popoli contenti; pareva, che non solo la nobile Milano, ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle nove del destinato giorno il campo della Confederazione (che così dal fatto chiamarono il Lazzaretto) e vi accorrevano giulivamente, ed a pressa meglio di quattrocentomila cittadini. Suonavano le campane a gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite col turchino, o col verde sventolavansi all'aria, e le grida, e il tumulto, e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al colmo. I democrati non capivano in se dall'allegrezza, e dicevano le più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da quella vita morta dei Tedeschi a quella vita viva dei Francesi; la magnifica Milano, città di per se stessa e per naturale indole allegrissima, ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si commuoveva, e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito verde ricamato d'argento alla Cisalpina: il seguitavano i magistrati, e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve le artiglierìe, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano: celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre a quando a quando rimbombavano le artiglierìe. Dopo il santo sacrificio benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava un concerto strepitosissimo, e pure melodioso d'inni, di suoni, di “viva repubblicani”. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati iscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso, simboleggiatore dell'amore della patria, a' piedi urne con motti dimostrativi del desiderio e della gratitudine verso i soldati Francesi, e Cisalpini morti nelle battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano le Cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto in ispecial seggio alla festa, al quale, come a vincitore di tante guerre, ed a fondatore della repubblica, risguardavano principalmente i popoli circostanti. Nè piccola parte dell'onesto spettacolo erano gli uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa, ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel corso dei secoli, grande testimonianza d'amore, e di concordia Italiana.

Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra un più elevato seggio postosi, in cotal modo, fattosi silenzio in mezzo agli adunati popoli, a favellare incominciava:

«Noi fummo un tempo liberi, e queste medesime terre repubblicane furono: la diversità fatale delle troppo facili opinioni ci ridusse, e ci mantenne per molti secoli in estera e spesso variata servitù. Rammentiamoci, o cittadini, la lunga serie dei cessati infortunj, ed il passato ci sia d'utile esempio per l'avvenire. Sparisca, come lampo, ogni spirito di parte, che finora possa averci divisi, e perfino gli odiosi nomi, fonte inesausta di civili discordie, siano mandati in dimenticanza. Serbiamo con indelebile memoria pel ricevuto benefizio una gratitudine eterna verso la Francese repubblica, che col valore, e col sangue de' suoi soldati ci procurava la libertà, e gratitudine ancora eterna sia in noi verso l'immortale Buonaparte, che emolo dell'Africano Scipione, ci tolse con le sue vittorie a servitù, e diè forma con la vastità de' suoi lumi politici al nostro libero governo. Ciò crediamo, ciò inculchiamo nel più profondo degli animi nostri, che a voler mantenere, e conservare la prosperità di una repubblica democratica, ha ad essere fra di noi virtù nei padri, educazione nei figliuoli, costume e costanza d'animo nei cittadini, leggi ed interessi in tutto il territorio uniformi. Accendiamoci di un amor santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi, o di morire. Il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo, e ve ne dà l'esempio».

A questo passo il presidente, sguainata la spada, ed i suoi colleghi, levati i cappelli, ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati, giuravano i capi dei reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli, lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed allegro.

Ciò detto, continuava orando il presidente,

«manterrebbe col sangue, e con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la constituzione e le leggi. Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi, che questa terra che abitiamo, è la terra dei Curzj, degli Scevola, dei Catoni; imitiamo quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole, e lascino ogni speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme l'Europa s'accorga, che qui l'antica Roma rinasce».

Qui rincominciavano i plausi, ed i cannoni strepitavano. A questo modo s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che pareva eterno, ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno corse di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi la sera bellissime luminarie sì dentro, che fuori del teatro. Insomma fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella, e splendida Milano.

Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente dei posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel campo della Confederazione ad onore di ciascuna schiera dell'esercito Francese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del popolo Cisalpino verso la repubblica Francese, e l'esercito d'Italia; s'inscrivessero su due altri lati i nomi di quei forti uomini, che avevano dato la vita per la patria loro, e per la libertà Cisalpina nelle battaglie; che l'ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi, ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute, e libertà alla patria Cisalpina.

Contaminava l'allegrezza dei patriotti l'essersi fatta serrare dal direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto dell'essere contraria agli ordini della constituzione.

Continuava Buonaparte ad usare l'autorità suprema per ordinare la repubblica. Nominava i giudici, gli amministratori dei distretti o dei dipartimenti, e que' dei municipj. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due consigli, cioè del consiglio grande, o dei giovani, e del consiglio dei seniori, o degli anziani.

I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi deboli, o con governi temporanei e tumultuarj, veduto le forme più regolari e più promettenti della Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la memoria dell'antica superiorità. La giunta Bolognese titubava; ma tanti furono i maneggi dei patriotti più accesi, e l'intromettersi dei Cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anch'essa alla prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè era Bologna città grossa, e piena d'uomini forti e generosi. Unite le legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio, vi chiamava per quinto un Costabili Containi di Ferrara.

Principalmente accrebbe la grandezza Cisalpina l'unione della forte Brescia, membro tanto principale della terraferma Veneta. Fu tratto presidente del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente per la conservazione dello stato nuovo.

Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe, che pel trattato di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I Cisalpini poi, fatto di per se stessi impeto nell'oltre Po Piacentino, consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.

Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte la divideva in venti spartimenti, che chiamava dell'Olona con Milano, città capitale, del Ticino con Pavia, del Lario con Como, del Verbano con Varese, della Montagna con Lecco, del Serio con Bergamo, dell'Adda ed Oglio con Sondrio, del Mela con Brescia, del Benaco con Desenzano, del Mincio con Mantova, dell'Adda con Lodi, del Crostolo con Reggio, del Panaro con Modena, dell'Alpi Apuane con Massa, del Reno con Bologna, dell'Alta Padusa con Cento, del Basso Po con Ferrara, del Lamone con Faenza, del Rubicone con Rimini. Per tal modo in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa larghezza si distendeva la Cisalpina, che conteneva in se la Lombardia Austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara, Bergamo, Brescia, e Crema coi territorj loro, la Valtellina, e le tre legazioni di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese, e l'oltre Po Piacentino. Poco dopo Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si dava alla Cisalpina. Per questo fatto i Romani confini si restrignevano.

L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in se non poca malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni, che loro pareva che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa mala contentezza si era vieppiù dilatata, quando si domandarono i giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocrati, ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero, e di contribuire, con tutte le forze al sostegno della libertà ed uguaglianza, ed alla conservazione e prosperità della repubblica. Per mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo dediti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio settimo. Il suo testimonio, e le sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente anno un'omelìa, in cui parlava in questa guisa ai fedeli della sua diocesi:

«La libertà, cara a Dio ed agli uomini, è una facoltà che fu donata all'uomo, è un dominio di poter fare o non fare, ma sempre sotto la legge divina ed umana. Non esercita ragionevolmente la sua libertà chi si oppone alla legge baldanzoso e ribelle; non esercita ragionevolmente la sua libertà chi contraddice a Dio, ed alla temporale sovranità, chi vuol seguire il piacere e lasciare l'onestà, chi si attiene al vizio ed abbandona la virtù.... La forma di governo democratico adottata fra di noi, o dilettissimi fratelli, no, non è in opposizione colle massime fin qui esposte, nè ripugna al vangelo: esige anzi tutte quelle sublimi virtù, che non s'imparano che alla scuola di Gesù Cristo, e le quali, se saranno da voi religiosamente praticate, formeranno la vostra felicità, la gloria, e lo splendore della vostra repubblica».

Fatto poscia un vivo elogio delle virtù degli antichi Romani, il cardinale passa a dire:

«Se le morali virtù così resero cospicua la latina libertà, con quanta maggior ragione dobbiamo noi riputar necessaria la virtù nella presente democrazìa, noi, che non viviamo invescati dal lezzo, e dall'ambizione di sognar deità, noi che santificò il Verbo di Dio fatto uomo.... Le morali virtù, che non sono poi altro, che l'ordine dell'amore, ci faranno buoni democratici, ma di una democrazìa retta, e che altro non cura, che la comune felicità, lontana dagli odj, dall'infedeltà, dall'ambizione, dall'arrogarsi gli altrui diritti, e dal mancare ai propri doveri. Quindi ci conserveranno l'uguaglianza intesa nel suo retto significato, la quale dimostrando, che la legge si estende a tutti gl'individui della società e nel diriggergli, e nel proteggergli, e nel punirgli, ci dimostra ancora in faccia alla legge divina ed umana, quale proporzione debba tenere ogni individuo nella democrazìa tanto rapporto a Dio, quanto rapporto a se stesso ed ai suoi simili.
«Ma i perfetti doveri dell'uomo non si possono compire nella sola virtù morale, e l'uguaglianza, che fa l'armonia e il bene della società, desidera altre molle per la sua sussistenza, e per la sua perfezione. Il Vangelo di Gesù Cristo ci fu dato come un complesso di leggi, onde rendere gli uomini veramente perfetti anche in società, onde sistemare quell'uguaglianza che ci faccia felici nel presente giro dei giorni mortali, e più felici nell'aspettata eternità. La storia della filosofia ci dimostra la mancanza di tal progetto, la storia del Vangelo ce ne dimostra l'esecuzione e il compimento....
«Decidete quanto conferiscano i precetti del Vangelo, le tradizioni degli apostoli, e dei gran filosofi padri, e dottori cristiani a conservare la pace, a far risplendere la vera grandezza dello stato democratico, a fare di tanti uomini, dirò così, tanti eroi di umiltà, di prudenza nel governare, di carità nel fraternizzare fra loro stessi, e con Gesù Cristo.... Il luminoso oggetto della nostra democrazìa dev'essere di stabilire la massima possibile unione di sentimenti, di cuori, di forze fisiche e morali, onde ne derivi una soave fratellanza nella società....
«Eccovi, o dilettissimi fratelli, uno sparuto abbozzo degli evangelici dettami. Vedete ivi quale possanza, qual influsso risplenda per la massima virtù dell'uomo, per la civile uguaglianza, per la regolata libertà, per quell'unione insomma d'amore e di tranquillità, che fa la sussistenza, e l'onore della democrazìa. Forse per la durevole felicità degli altri governi basterà una virtù comune, ma nella democrazìa studiatevi di essere della massima possibile virtù, e sarete i veri democratici: studiate, ed eseguite il Vangelo, e sarete la gioja della repubblica;... la religione cattolica sia l'oggetto più prezioso del vostro cuore, della vostra divozione, e di ogni altro vostro sentimento. Non crediate, che ella si opponga alla forma del governo democratico. In questo stato vivendo uniti al vostro divin Salvatore, potete concepire una giusta fiducia dell'eterna salute, potete operare la felicità temporale di voi stessi, e dei vostri simili, e procurare la gloria della repubblica e delle autorità constituite.... Sì, miei cari fratelli, siate buoni cristiani, e sarete ottimi democratici».

Queste parole con tanta soavità dette da un uomo così eminente per dignità, e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli spiriti, raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo stato.

Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la riconoscessero in solenne modo, come potentato Europeo. Vi si adoperava Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero stato. In questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la chiamavano.

A questo fine mandava il direttorio Cisalpino per suo ambasciadore a Parigi un Visconti, che stato prima uno dell'amministrazione generale di Lombardia, ed amato da Buonaparte, ma stimato da lui troppo vivo nelle opinioni dei tempi, non era stato eletto fra i quinqueviri, nè fra i magistrati subalterni; pure pareva, che in grado privato più non potesse vivere.

Fu veduto a Parigi molto volentieri il Visconti, ed in pubblica udienza, presenti tutti i ministri di Francia, e gli ambasciadori delle potenze amiche, il dì venzette agosto, solennemente udito. Parlava magnificamente dei benefizj della repubblica Francese, della gratitudine della Cisalpina; esprimeva, unico, e primo desiderio dei Cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione Francese; di loro non potere aver ella amici nè più affezionati, nè più fedeli; comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune ancora dover avere la felicità, nè senza i Francesi volere, o poter essere i Cisalpini felici; le vittorie del trionfator Buonaparte già aver procurato pace, e quiete alla Cisalpina; desiderare, che la Francia ancor essa quella pace si godesse, e quella felicità gustasse, che le sue vittorie, e la sublime di lei constituzione le promettevano. Queste cose scritte in Francese, poi tradotte in pessimo Italiano nei giornali dei tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente, secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla repubblica Francese la creazione, e l'amicizia della Cisalpina; non dubitasse, che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di serpenti, che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima, poi deposte dai nemici delle due repubbliche. Sapere il direttorio, che quest'uomini velenosi, e perfidi volevano distruggere la libertà sulla terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più per una corona intorno di popoli liberi, e governati da leggi consimili. Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non di quelle degli animi vili, e timorosi, ma di quelle degli animi ben composti, e forti.

«No, prorompeva, immortali guerrieri, non fia, che l'opera vostra accompagnata da tanti miracoli, e da tanta gloria, non lasci un segno durevole in Italia nella conservazione di uno stato libero, e di un alleato fedele della vostra patria. No, popoli della Cisalpina, voi non avrete gustato i primi frutti della vostra indipendenza per tornar a vivere in servitù. Il destino vostro non girerà a modo di coloro, che con male parole, e con discorsi bugiardi insidiano alla libertà. Il serpe frodolento romperà i denti sulla lima, nè il pigmeo distruggerà l'opera del gigante. In Italia sono gli eserciti vincitori, sonvi i forti generali, evvi il trionfator Buonaparte. Il direttorio amico alla Cisalpina vuol fondare con ogni suo sforzo, a malgrado delle congiure e delle calunnie, la libertà di lei; stessero pur sicuri i Cisalpini, e confidassero nella grandezza e nella lealtà della nazione Francese, nel coraggio e nel valore dei suoi soldati, nella rettitudine e nella costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio avere il direttorio di questo, che i Cisalpini vivessero felici, e liberi».

Questi detti minacciosi toccavano l'Austria, che nei negoziati di pace, che allora pendevano, veduto che Buonaparte aveva ritratto l'esercito, ed avendo lei stessa con nuove leve ricomposto le sue genti, stava sul tirato, e metteva in mezzo condizioni, che parevano esorbitanti, massimamente quella di volersi ricuperar Mantova.

Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori, che, o già serve del tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire. Per la qual cosa non esitavano il re di Spagna, quei di Napoli e di Sardegna, il gran duca di Toscana, la repubblica Ligure, ed il duca di Parma a mandar ambasciatori, o ministri, o simili altri agenti a Milano, acciocchè tenessero bene edificato, e bene inclinato quel nuovo stato tanto prediletto di Buonaparte. In questo ancora ponevano l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosìe ed a tanti timori, quello, che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli stati d'Italia. Perciò i patriotti gridavano, che questi ministri erano spie per rapportare, stromenti per subornare. Gli laceravano con gli scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti gli maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti delle diverse parti d'Italia, raccolti in gran numero in Milano, non si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava, e dava loro spesso sulla voce, e talvolta sulle mani, ma essi ripullulavano, e straboccavano più molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.

Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole di pace e d'amicizia, a cui secondo il solito, ed anche meno del solito credeva nè chi le diceva nè chi le udiva: così con questi inorpellamenti s'ingannavano a vicenda, o piuttosto non s'ingannavano, perchè gli uni e gli altri ottimamente sapevano, che cosa ci fosse sotto.

Esitava il papa al mandare un ministro, perchè gli pareva, che i Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini, che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo, e minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose, e coi manifesti più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, riputando che fosse dignità l'indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore a Milano, pretendendo, ed allegando ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come già si trovava constituita legalmente in repubblica ordinata, non era stato franco, e indipendente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei Francesi, ed i comandanti Francesi pubblicavano di propria autorità in tutta la Cisalpina, e nella sede stessa di Milano ordini, e manifesti, ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano, se non dopo che fossero veduti ed appruovati dai comandanti Francesi.

Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio Cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze medesime, e coi medesimi fini di onorare con le parole, e di spiare coi fatti. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i legati Cisalpini. Bene pe' suoi fini aveva scelto gli uomini suoi la Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti vivi, ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti, almeno astuti, e senza intermissione operativi. L'aggiunta di tante nuove provincie al centro Cisalpino aveva dato nuova forza al disegno dell'unione Italica, ed i ministri Cisalpini fomentavano questo disegno medesimo con ogni arte negli stati Italiani, presso cui risiedevano. Solo Marescalchi, di famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore a Vienna, non faceva frutto, perchè nè l'imperatore l'aveva voluto riconoscere nella sua qualità pubblica, nè era d'animo volto al propagare; perchè gli piaceva una libertà placida e molle, non una libertà inquieta e sdegnosa, ed anche, quantunque fosse d'ingegno non molto acuto, sapeva misurare le cose, non con la immaginazione, ma con la ragione. Serviva piuttosto per evitar il non servire, che per servire, uomo da esser tirato, non da tirare altrui.

Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè non fosse il direttorio Francese amico, ma perchè l'inviato doveva arrivarvi con molta materia apprestata, come sarem per narrare in appresso.

Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli ordinamenti politici quell'opera, che con le armi aveva fondato, i legislatori Cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per quello degli anziani. Onorati nomi vi risplendevano per sapere, per antichità, per ricchezze, per amore di libertà. Eranvi un Quadrio, un Giovio, un Melzi, un Birago, un Cicognara, un Compagnoni, un Savoldi, un Cagnoli, un Monga, un Venturi, un Lamberti, un Polfranceschi, un Martinengo, un Fenaroli, un Lecchi, un Lattanzi, un Colonia Ebreo, un Arese, un Reina, un Beccaria, un Somaglia, un Bossi, un Castiglione, un Tassoni, un Cavedoni, un Aldini, un Guglielmini, un Aldrovandi, un Mascheroni, un Mangili, un Bellisomi, un Malaspina, un Alpruni, un Fontana, uno Scarpa, tutti tre professori molto celebrati di Pavia, un Castelbarco, un Pallavicini.

A tutti questi aggiungeva Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato, e cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina, considerato, quest'esse furono le parole della legge, che il cittadino Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti a celebrare il genio della libertà Italiana, ed encomiare l'invitta armata Francese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge la naturalità.

I consigli adunati ardentemente procedendo, si accostavano alle opinioni dei democrati più vivi, il che, dall'un de' lati dispiaceva a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere, dall'altro gli piaceva per dar timore all'Austria, che pareva allora voler prendere novelli spiriti.

Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli,

«Il dì ventuno novembre fia pienamente in atto la vostra constituzione; e saranno altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il tribunale di cassazione, e le altre amministrazioni subalterne. Voi siete fra tutti i popoli il primo, che senza fazioni, senza rivoluzioni, senza stragi libero divenga. Noi vi diemmo la libertà; voi sappiate conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa: secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione. Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini nodriti nei principj della repubblica, ed amatori della sua prosperità. Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra forza, e della dignità, che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia; proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran nazione; col nostro sarà lo stato vostro congiunto. Se il popolo Romano avesse usato la sua forza, come la sua il Francese, ancora sul Campidoglio si anniderebbero le Romane aquile, nè diciotto secoli di schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane generazioni. Per consolidare la libertà vostra, e mosso unicamente dal desiderio della vostra felicità, io feci quello, che altri han fatto per ambizione, e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione di tutti i magistrati, e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando un ordine del mio governo, od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma qualunque sia il luogo, a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti della mia patria, questo vi potete promettere di me, che sono, e sempre sarommi ardente amatore della felicità, e della gloria della vostra repubblica».

Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi. Parevano veramente altri tempi, parevano altri destini. Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre di uguale, anzi di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a quei tempi al mondo quattro cose, che a tutte le altre sovrastavano, la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore, che avevano i re, che quella repubblica Francese non gli conducesse tutti a ruina, la repubblica Francese stessa fondata in una nazione, che per la natura sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone, esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci, e più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse, ed il consueto reggimento, per quanto gl'interessi nuovi il permettessero, col mezzo dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili delle Vendea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione Francese, che forte ed animosa è, non aveva voluto lasciarsi sforzare, si pensava, che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele, e le adulazioni potessero avere maggior efficacia. A questo fine, e con questi mezzi si era operato che le nuove elezioni ai consigli legislativi cadessero in uomini, che amassero meglio la monarchìa dei Borboni, che la repubblica, ed in ciò si era fatto non poco effetto. Siccome poi a tutti i moti è necessario un capo di chiaro nome, così avevano al consiglio dei giovani eletto il generale Pichegru, capitano rinomato per le sue vittorie in Alemagna ed in Olanda. Con lui concorrevano molti altri personaggi famosi o per armi o per dottrina, o per segnalati fatti nelle rivoluzioni politiche di Francia. Nel direttorio stesso Barthelemi favoriva il disegno per natura e per opinione, ed i desiderj suoi fino ai Borboni si estendevano; che certamente aveva dato questi segni di se nella sua ambascerìa in Isvizzera. Il favoriva, siccome pare, anche Carnot, o che volesse la monarchìa dei Borboni, il che è incerto, o che solamente disegnasse, come uomo di acutissimo pensiero, ridurre, spenti gli uomini immoderati, quello stato di repubblica scorretta e tumultuaria a forma più stretta e più ordinata. Seppesi questo maneggio dai tre quinqueviri, che non vi erano mescolati, e si misero all'ordine per isturbarlo, perchè amavano la repubblica, e temevano la monarchìa. È quivi per altro debito nostro riferire, che a questo tempo alcune pratiche segrete si erano introdotte tra Barras, uno dei tre, ed alcuni agenti di Luigi decimottavo, per le quali il quinqueviro aveva dato speranza, e s'era anche obbligato a favorire la rinstaurazione dei Borboni sotto condizione di dimenticanza del passato, e promessa di premio in denaro; ma con la medesima sincerità procedendo, dobbiamo notare, che sebbene sia vero, che queste pratiche siano esistite, Barras sdegnosamente, e con termini molto espressivi negò d'aver voluto procurare la mutazione del governo allora sussistente, ed asseverò, avere prestato orecchio agli agenti dei Borboni col solo fine di conoscere, e sventar le loro trame: vogliono anzi alcuni, che gli volesse condurre in luogo dove potessero essere arrestati. Pubblicò di più, aver ciò fatto con saputa e consentimento espresso de' suoi colleghi del direttorio, ai quali a questo fine aveva comunicato il negozio. Dà verisimile colore a quest'ultima allegazione l'averla lui pubblicata quando gli sarebbe stato utile dire il contrario, se fosse stato vero, ed il citare, per pruova della verità del fatto, il testimonio dei ministri di quel tempo, de' suoi colleghi del direttorio, ed anzi i registri segreti di questo magistrato supremo della repubblica, in cui, siccome affermò, vi era un decreto che l'autorizzava a condurre queste pratiche. Comunque ciò sia, era allora l'esercito d'Italia in bocca di tutti, e quanto da lui veniva era ricevuto in Francia con grandissimo o amore o terrore, secondo le opinioni e le passioni, per la qual cosa coloro, che contrastavano a questo proposito, facevano avviso, che le mosse contrarie dovessero aver principio dall'esercito Italico. A questo dava favore Buonaparte per la sua emolazione verso Pichegru, prevedendo nell'esaltazione del vincitore dell'Olanda la depressione del vincitore dell'Italia. Per tutte queste ragioni uscivano dalle diverse schiere dell'Italico minacce fierissime contro i nemici della libertà, come gli chiamavano, contro gli amatori del nome reale, contro i minacciatori della constituzione. Parlavano del voler marciare in Francia con le armi vincitrici per castigare i ribelli, descrivevano con patetiche parole le orribili congiure ordite nella patria loro contro la libertà, mentre essi col sangue, e con disagi innumerevoli la libertà, e la patria difendevano. Non isperassero, minacciavano, che il sangue sparso, che le acquistate vittorie, che la conseguita gloria fossero indarno; quelle mani stesse, che avevano vinto l'Austria, vincerebbero facilmente, e farebbero tornar in nulla quei branchi di faziosi. Al solo mostrarsi degl'Italici soldati oltre l'Alpi, presi di spavento si disperderebbero quei vili sommovitori di congiure. Non dubitasse punto il governo, che l'esercito Italico tanto amasse la libertà, quanto la gloria, e che la prima con la medesima costanza, col medesimo valore difendesse, coi quali aveva acquistato la seconda: verrebbero, vedrebbero, ed anche senza battaglie vincerebbero.

Da questi conforti, e da questo appoggio fatto sicuro il direttorio, veniva a quelle risoluzioni, che resero tanto famoso il dì diciotto fruttidoro, anno quinto della repubblica, o il dì quattro settembre del novantasette: per esse si carceravano, ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru, e gli altri capi della congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono in forestiere terre scampo contro chi gli chiamava a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti, e coll'unione dei consenzienti, e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la somma delle cose, e pareva, che vieppiù avesse confermato la repubblica.

Tornato vano questo tentativo, i confederati, massimamente l'Austria, che si trovava più vicina all'incendio, e che, essendo alle strette con Buonaparte, aveva meglio conosciuto la sua natura, si gettarono ad un altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile repubblica. Si negoziava a questo tempo la pace coll'Austria; gli agenti Austriaci vennero dicendo a Buonaparte, guardasse le ruine d'Europa, e della sua patria stessa; una repubblica fondata solo con le mannaje, conservata solo con le bajonette, sopportatrice dei malvagi, perseguitatrice dei buoni; non isperasse di fuggir egli stesso la repubblicana invidia; più illustri erano i fatti suoi, più magnifici i benefizj verso la patria, e più inevitabile credesse l'atroce fine che l'aspettava. Considerasse, che sono inesorabili le repubblicane emolazioni, e che sempre la gratitudine delle repubbliche è l'ingratitudine. Se i più chiari cittadini erano stati all'estrema fine condotti in Francia, solo perchè chiari erano, che sarebbe del più chiaro fra tutti? Ricordassesi le recenti trame ordite contro di lui, le proprie querele, ed il livore del direttorio già vicino a prorompere, quand'era ancora l'opera sua necessaria in guerra: che sarebbe in pace? Forse era nato egli e fatto per essere stromento di faziosi, e mentecatti? Forse a servir ad avvocati, e notaruzzi ambiziosi? Con le grida, e coi patiboli s'hanno a governar gli stati? Guardassesi intorno, entrasse in se, si paragonasse ad altri, e vedrebbe, che siccome era unica la sua gloria al mondo, così unico doveva essere il fine, che a se doveva proporre, che già dalle volgari vie militari si era discostato nelle faccende di guerra, e che debito gli era di discostarsi dalle volgari vie anche nelle faccende civili: a ciò chiamarlo, lacera e rotta tutta l'Europa; a ciò medesimo chiamarlo la misera umanità ingannata dalle lusingherìe, straziata dai delitti: vedeva egli certamente, ed anche più volte aveva accennato, essere la repubblica un governo impossibile in Francia. A che dunque dubitare, a che indugiare? l'Europa infelice, la Francia infelicissima domandare da lui altre sorti, domandare da lui la rinstaurazione dell'antica monarchìa dei Borboni, domandare la rintegrazione dei diritti Europei: assai avere spaziato la forza, assai la usurpazione, assai l'anarchìa: domare questi mostri esser suo destino: al solo segnale dei Borboni, quando l'opportuno instante fosse venuto, seguiterebbonlo in Francia tutti i buoni, seguiterebbonlo tutti gli sdegnati, seguiterebbonlo tutti gl'infelici condotti all'ultimo caso dalla presente tirannide. Favorirebbelo l'Europa tutta, tirata da sì grande impresa, mossa da sì bella speranza dopo tanto conquasso. Seconderebbonlo i principi, l'Austria la prima, e la Russia tanto attiva fomentatrice dei Borboni. Parlare di ricompense a chi già aveva acquistato maggior gloria, che altr'uomo avesse acquistato mai, e che solo con un gran civile fatto poteva la propria gloria ampliare, essere superflua, e fors'anche offenditrice cosa: pure o che in grado privato la venerazione, o che in grado pubblico l'autorità desiderasse, ciò gli sarebbe, e più ampiamente, che non desiderasse, conceduto. Desse pertanto opera ad impadronirsi della somma delle cose in Francia; che a ciò l'ajuterebbero i potentati, solo che promettesse di fare la gran rimessa all'antico e legittimo signore. Muovessesi adunque Buonaparte unico ad opera unica; rispondesse col fatto al destinato dalla provvidenza, posciachè non senza intervento divino tante volte avevano suonato le armi sue vincitrici.

Queste esortazioni muovevano quell'animo ambizioso. Ma da Borboni a repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio, ed anche la felicità, o le disgrazie umane nol toccavano. Bensì, siccome quegli che sagacissimo era, e di prontissimo intelletto, avvisava in un subito, che quello, che gli si offeriva, poteva aprirgli la strada all'altissime sue cupidità. Si mostrava pertanto disposto a fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo, e questo fu il più solenne inganno, che mai sia stato fra gli uomini, di favorirsi del consentimento e cooperazione dei principi, per arrivare alla potestà suprema in Francia; non già per dispogliarsene in favor di chicchessia, ma per serbarla ed anzi vieppiù consolidarla in se medesimo, ed ampliarla.

Vogliono alcuni, che Barras quinqueviro avesse l'animo volto a favor dei Borboni già insin da quando aveva procurato la elezione di Buonaparte al governo supremo dell'esercito Italico, e che a questo fine appunto l'abbia procurata, argomentando, che il giovane di Corsica, in cui egli aveva scoperto mente atta a qualunque più ardua impresa, e natura nemica ai reggimenti popolari, il dovesse secondare nel mandar ad effetto il suo intendimento. Danno corpo a questa opinione le pubblicazioni fatte dagli agenti dei Borboni, la contraddicono quelle fatte da Barras: le une e le altre noi abbiamo rapportate, affinchè chi ci legge, possa dalle medesime prender conghiettura della verità in cose tanto avviluppate quanto importanti.

Dato in tal modo intenzione ai confederati, ed accordatosi con loro del ristaurare in Francia l'antico governo dei Borboni, non formidabile ai principi per essere conforme ai loro proprj, cominciava Buonaparte a fare qualche dimostrazione, che della sua sincerità potesse far testimonianza. Avea egli fatto arrestare contro ogni dritto delle genti in Trieste, e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano il conte d'Entraigues, agente molto fidato di Luigi decimottavo. Parlavano a quei tempi tutti i giornali della carcerazione del conte, e ne favellavano come di cosa, che sommamente importasse alla salute della repubblica. Gli trovavano, siccome fu pubblicato per opera di Buonaparte, scritti, che discoprivano le macchinazioni di Pichegru, e degli altri amatori del nome reale. Inoltre si facevano constare per un rigoroso esame dato al conte, sebbene egli il verbale costantemente sempre abbia negato, molto maggiori cose in pregiudizio della repubblica, ed in pro dei Borboni, che gli scritti non palesavano. Tal era il rigore di quell'età, che, se non ci fosse stato di mezzo qualche grave motivo, avrebbe tosto Buonaparte dato a giudicare ad un consiglio militare, o mandato il conte in Francia, dove sarebbe stato o sottoposto all'ultimo supplizio, o carcerato per sempre. Ma quando ognuno temeva di veder il conte giunto all'estrema fine, diede ammirazione agli uomini l'udire, che il generalissimo aveva comandato a Berthier, che il facesse comodamente alloggiare nel castello, e che la moglie il potesse visitare. Gli comandava ancora, che se non trovasse stanza comoda nel castello, il lasciasse sotto buona guardia in città, e gli rendesse tutti gli scritti, salvo quelli, che toccavano gli affari politici: questi erano le congiure di Pichegru. La maraviglia più si cambiava in istupore per coloro, che non conoscevano l'intrinseco del fatto, e le cagioni, quando si seppe, che il conte si era fuggito dal castello, e più ancora, quando portò la fama, ch'ei fosse già arrivato con felice viaggio nelle terre dell'imperatore Paolo di Russia, succeduto alla sua madre Caterina. La verità del fatto fu, che Buonaparte desideroso di far chiari gli alleati della sincerità sua col fidare le cose segrete trattate a Montebello ad uomo confidente della Russia, e di Luigi decimottavo, aveva procurato la libertà ad Entraigues, e mandatolo in Russia portatore delle sue promesse. Infatti a queste novelle si piegava Paolo con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi, per modo che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione; conciossiachè i principi credevano, facilitando il sentiero a Buonaparte per arrivare alla somma potenza in Francia, abilitarlo a mandar ad effetto le cose, che da lui si promettevano. Tutti questi disegni molto gli arridevano, e quantunque fosse uomo di natura molto coperta, e di pensieri cupissimi, tuttavìa si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi motti, che disvelavano la sua intenzione, e le fatte macchinazioni. Ed io ho udito parecchie volte raccontare a Villetard, giovane candidissimo, che trovandosi a passeggiare a Montebello con Buonaparte, e con Dupuis, che poi fu morto generale in Egitto nella sommossa del Cairo, sostando improvvisamente dal passeggiare, il generalissimo aveva loro detto: “che direste voi s'io diventassi re di Francia?” Al che, siccome a me raccontava il medesimo Villetard, rispondeva Dupuis, che professava un ardente desiderio dello stato repubblicano, che sarebbe il primo a piantargli un coltello nel petto; il quale tratto non fu udito senza riso da Buonaparte.

Nè questi erano i soli segni delle meditate cose. Sorgevano a Montebello i costumi, e le abitudini regie: ivi le udienze altiere da una parte, umili dall'altra; ivi le adulazioni smoderate, ed il silenzio rispettoso, non interrotto che dalle interrogazioni; ivi le sorelle del vincitore corteggiate a modo di corte, ivi i ministri dei principi esteri, e quei della Cisalpina accolti alla reale. Certamente null'altro mancava di re che il nome, e questo nome stesso veniva naturalmente sulle labbra dei cortigiani, ma vi periva per amore o per timore, ma piuttosto per timore, che per amore della repubblica. A chi era uso a scrutare le umane vicende, appariva manifestamente, essere in Buonaparte natura a volere, e ad usare l'imperio, nè ciò con leggi, ma sopra le leggi, non come cittadino, ma come padrone: il fato il fece per l'età, e l'età per lui.

Frattanto le promesse segrete, ch'egli aveva fatte, e la necessità, in cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione dei quattro settembre, operavano di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le durezze, si veniva il giorno diciassette ottobre alla conclusione nella villa di Campoformio, di un trattato di pace, in cui un governo nuovo distruggeva un governo antico, ed un governo antico consentiva, e s'arricchiva delle spoglie di un governo antico ed amico, disonoratosi l'uno per aver rapito, poco onoratosi l'altro per aver accettato le rapine, se però non iscusano quest'ultimo le affermazioni magnifiche del primo dell'averlo ridotto alla necessità di accettar la pace, qualunque ella fosse. Oltre a ciò lasciava l'Austria in libera preda della repubblica Francese, non dirò il Piemonte, perchè forse ella se ne teneva male soddisfatta per la stretta congiunzione di lui con la Francia dopo la tregua di Cherasco, e la pace di Parigi, ma bensì il papa, ed il re di Napoli, che in nessun modo l'avevano offesa, e che anzi si trovavano condotti in dure strette, ed in gravissimo pericolo per avere sino agli estremi seguitato la sua parte. Certamente nissuna sicurezza stipulava l'Austria nel trattato nè pel papa, nè per Napoli. Fu il trattato di Campoformio principio di quelle brutte e crudeli stipulazioni, che desolarono poi per circa vent'anni la miseranda Europa con l'esempio di sommuovere prima i popoli, poi di dargli in preda ad insolite signorìe.

Fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Francese si avesse i Paesi Bassi, che l'imperatore consentisse, che le isole Venete dell'Arcipelago, e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni della Veneta repubblica in Albanìa, cadessero in potestà della Francia; che la repubblica Francese consentisse, che l'imperatore possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole Venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, e tutti i paesi situati fra i suoi stati ereditarj, ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto-Legnago, e finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera, e tutta la parte degli stati Veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini sovra descritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente ricompenso al duca di Modena; che finalmente i plenipotenziarj di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'imperio d'Alemagna.

A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza, pei quali l'imperatore consentiva, che la Francia acquistasse certi territorj Germanici insino al Reno, e dalla parte sua prometteva la Francia di adoperarsi, acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominj una parte del circolo di Baviera; il che non si poteva effettuare se non con pregiudizio del duca.

Fu il trattato di Campoformio pieno di rapina, ma non fu meno pieno di scherno, ancor peggiore della rapina; conciossiachè di che sappiano quelle parole, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore possedesse Venezia, vedranlo non senza sdegno coloro, che considereranno, se sarebbe stato possibile ai Veneziani di non diventar imperiali, e se la Francia avrebbe permesso, che imperiali non diventassero, e se i generali, ed i soldati di Buonaparte abbiano, sì o no, consegnato eglino medesimi con le proprie mani la compassionevole Venezia nuda ed inerme, ai generali ed ai soldati dell'imperatore. Questo essere e non voler parere, parrà a tutti, come pare a me, un pudore molto ipocrito.

Pure questa è quella pace, di cui favellando Carlo Maurizio Talleyrand, tutto ammirativo sclamava: “questa è una pace da Buonaparte”; il che gli sarà da ognuno facilmente conceduto. Poi non potendo Talleyrand medesimo capire in se stesso per l'ammirazione, per l'amicizia, pel rispetto, per la riconoscenza, come diceva, verso Buonaparte, e se qualche altra più efficace cosa possono significare le più ammirative parole, scriveva: “forse avremo qualche improntitudine d'Italiani, ma è tuttuno”; brutto, incivile, e crudele scherno! Certamente coloro, cui Buonaparte tradiva, e Talleyrand scherniva, erano, i più, uomini ricchi di nome, di sostanze, e di virtù, i quali cedendo agli stimoli, e credendo alle promesse degli agenti di Francia, s'erano in tal condizione posti, che nella patria loro spenta non potevano più dimorare senza pericolo, e nel duro esilio trovavano gl'insulti di chi era cagione del loro infortunio. Parlare poi con tanta leggerezza di un caso di tanto momento, quale si era quello della distruzione di uno stato così antico, così principale, ed a cui l'Europa era obbligata di gran parte della sua civiltà, e della sua preservazione dalla barbarie Ottomana, qual era veramente quel di Venezia, dimostra una totale indifferenza verso il bello ed il brutto, il buono ed il cattivo, il decente e l'indecente.

Fatto il trattato di Campoformio, ed ordinata a suo modo la Cisalpina, se ne partiva Buonaparte dall'Italia per andare a Rastadt. Quale, e quanto da quella diversa la lasciasse, che nel suo primo ingresso l'aveva trovata, facilmente concepirà colui, che nella mente andrà riandando i compassionevoli casi nei precedenti libri da noi raccontati. Le difese dell'Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio, ora disfatto, ed in licenza convertito l'antichissimo governo, fatta provincia, e sensale di Francia; un duca di Parma ingannato dalle speranze di Spagna, e taglieggiato da agenti oscurissimi: un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa schernito, e spogliato; un regno di Napoli poco sicuro, e per poca sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo, e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultima fine, prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di governo forestiero, e là, dove una volta addottrinavano le genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria, ed i Verri, farla da maestri i Beauvinais, ed i Prelli. A questo le opere di Tiziano e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze deformi di soldati strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni volti all'adulazione, le ambizioni svegliate, le virtù schernite, i vizi lodati, e per arrota, il che fu il pessimo dei mali, uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage dei tempi. In tanto male nissun lume di bene; perchè nè quei governi potevano durare, nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici forestieri, e se fosse mancata o la mano Francese, o la mano Tedesca, nissuno poteva congetturare, che cosa fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva, se la independenza non fosse per diventare condizione peggiore della servitù. A tal era condotta l'Italia, che lo stare per se senza anarchìa, lo stare coi forestieri senza servitù non poteva. Così corrotte le speranze, e cambiati i tempi, erano succeduti ai benefizj di Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria, e di Filangieri una rapina incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo di vedere, forse per sempre, allontanato quel bene, che essi avevano tanto vicino, e tanto soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte, e sanguinose, le lacerava anche la fama. In somma la giustizia e l'innocenza non son più buone ad altro, in questo pazzo ed ingannatore mondo, che a farsi soperchiare dai più potenti, e chi non ha montagne di cannoni, di sciabole, e di soldati, s'aspetti ad essere oppresso, rubato, e calunniato. Con le sue belle parole sepolcro imbianchito è la vecchia Europa.

Restava, che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di raccontare la gran consegna fatta di quella nobil sede dai repubblicani di Francia ad un principe Alemanno, sarà bene andar rammemorando, quali accidenti, quali umori, quali disegni sorgessero nelle varie parti dell'antico stato Veneto, e nella metropoli stessa, innanzichè i patti di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al quale non so qual nome dare, se non quello di tirannico e di servo. Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti, chi seguitando i modi dei democrati Francesi più ardenti ai tempi della rivoluzione, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati. Capi ai primi erano Giuliani e Dandolo. Sovrastavano fra i secondi per ricchezze, e per carità patria Vidiman e Joblovitz: quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; i secondi presso alcuni avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri aristocrati. Giuliani e Dandolo, massimamente il primo, continuamente spingevano il magistrato a determinazioni rigorose contro i nobili. Giuliani più rottamente procedendo non risparmiava nemmeno i Francesi, verso i quali non mostrava mai adulazione di sorte alcuna, mentre Dandolo andava loro a versi, e gli accarezzava. Il buono e virtuoso Vidiman, lontano del pari dall'adulazione verso i forestieri, che dalla persecuzione contro i compatriotti, mirava solamente al giusto ed all'onesto. Seguitavano queste parti i Veneziani, pochi con Giuliani e Dandolo consentendo, molti, fra i quali i nobili, per lo minor male si accostavano a Vidiman ed a Joblovitz. Sedevano i municipali pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le discussioni, e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia anche posta al giogo forestiero parteggiava; tutti però in questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. A questo fine si rendeva necessario, che le provincie di terraferma, e quelle dell'oltremare non si separassero dall'antica madre; e perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati, e lettere a tutte le città del dominio Veneto, dando loro parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole ad accomunarsi, ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire, che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna, e dominatrice avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Pei maneggi loro le città protestavano, questa di voler andar unita alla Cisalpina, quella di voler restare da se. E stantechè Venezia aveva conservato, sebbene nel libro aperto dell'Evangelista avesse fatto scrivere i diritti dell'uomo, l'antico stemma del lione, gl'insulti, gli scherni, le esecrazioni della gente matta democratica della terraferma andavano all'infinito. Insomma una nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Godeva Buonaparte, godevanne i suoi agenti, perchè vedevano nella discordia altrui la più facile esecuzione dei pensieri loro contro quelle miserande reliquie della repubblica Veneziana; anzi quelle faville con ogni mezzo fomentavano. Perchè poi gli odj già tanto intensi vieppiù s'invelenissero, gli rinfiammavano non solo colle parole, ma ancora con gli scritti. Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova, esortava con lettere pubbliche, e con parole molto veementi i municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco, ed a diffidarsi dei municipali di Venezia, a cui attribuiva intenzioni molto sinistre, accusandogli di trame aristocratiche.

I democrati, massime un Savonarola, che procedeva con più calore degli altri, facevano quello, e più di quello, a che gli aveva esortati Victor, tutte le immagini di San Marco col leone, avessero o no fra le rampe i diritti dell'uomo, sdegnosamente mandando in pezzi, e con questo si andavano persuadendo di aver acquistato la libertà. Nè a frenare un furore tanto pazzo bastavano le risoluzioni dei municipali Veneziani, i quali decretavano, che si cambiasse del tutto l'antico stemma della repubblica, il leone si annullasse, e le insegne della moderna libertà in luogo suo vi campeggiassero. Avevano queste condiscendenze l'effetto solito di quelle, che sogliono farsi per forza, e negli estremi casi; che pruovando nel conceditore più debolezza che volontà, non sono mai prese a grado, e l'autorità di lui fanno andar in diminuzione. Ma appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette Cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorj, cosa, che solo contro ad un nemico, e forse nemmeno contro a chi fosse nemico in guerra, non si sarebbe usata.

Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani e del Dandolo, di riputazione; ma ancor più di potenza, essendole occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di amicizia i suoi dominj verso levante. Marciava l'Alemanno da Trieste per virtù dei patti segreti di Leoben, e degli accordi oramai fatti, e che in formale trattato si stipularono poscia in Campoformio, ad occupare le Venete province dell'Istria e della Dalmazia. Ordinava sul principiar di giugno il Terzi, generalissimo dell'Austria interiore, al generale Klenau, occupasse nell'Istria Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Ossero, e Rovigno; al colonnello Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di Trieste, presidiasse tutti i luoghi d'importanza del littorale Istriaco, e di più delle vicine isole di Veglia, Cherso, Arbo, e Pago s'impadronisse. Ad ambidue veniva di leggieri fatta l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non si erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome Veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza Austriaca, perchè l'imperio Francese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro, stimavano odioso. Parlarono con pubblici bandi i commissarj imperiali della bontà di Francesco imperatore, dell'obbligo suo di preservar i suoi stati da moti insoliti, del suo desiderio di allontanar dall'Istria l'inquieto vivere dell'anarchìa. Proteggerebbe i quieti, punirebbe gli scandalosi, manterrebbe a tutti le persone, e le proprietà sicure.

Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi per antica consuetudine al nome Francese, e dalle nuove opinioni per lontananza, e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni, e le ruine d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno recente. A questo si aggiungeva, che i soldati della loro nazione, che in Verona, ed in Venezia, ed in altre piazze Venete erano stati di presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che verso di loro avevano usato i repubblicani troppo intemperanti nella vittoria. Udite poi le Veneziane cose, e come e quanto i municipali di Venezia trascorressero nelle opinioni, e nei costumi nuovi, si erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente, che non avrebbero più comportato, che s'ingerissero nelle loro faccende. Già minacce annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi furono i villani, ed i montanari di Trauno e di Sebenico, i quali, scesi a furia, commettevano atti di un'estrema barbarie. Quei, che fungeva le veci di console di Francia, quantunque fosse Dalmata, era crudelmente ucciso, e con lui tutta la sua famiglia. Le case di un Calafatti e di un Gavagnini, deputati eletti dai municipali di Venezia ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, erano saccheggiate; i parenti dei delegati perseguitati, e parte uccisi. Nè più si guardava a nobili, o a preti, od a soldati, che ad altri, perchè solo che fossero in voce di essere aderenti ai Francesi, erano ammazzati. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni, e di sangue. Nè poteva frenare il corso di tanta barbarie Querini governatore, per l'antica Venezia, della provincia, quantunque molto vi fosse amato, perchè più poteva il furore, che le esortazioni, ed i suoi soldati, non che fossero stromenti del dominare, s'erano fatti compagni al popolo per conculcare. Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattromila soldati imperiali condotti da Roccavina, Lusignano e Casimiro. Trattenevano i venti per qualche tempo Roccavina, ma Casimiro con prospera navigazione arrivava a Zara sul finire di giugno, poi sul cominciar di luglio s'accostava a lui con le altre genti di Roccavina. Accettavano lietamente i Zaratini gli Austriaci, parte per opinione, parte per sicurtà contro l'anarchìa. S'impadronivano gl'imperiali dei forti, abbassavano le bandiere Venete, inalberavano le proprie. Prometteva l'imperatore con pubblico bando pace, e sicurtà a tutti, minacciava i turbolenti, affermava, venire per ispegnere l'anarchìa, e per mettere in sicuro gli antichi ed irrefragabili suoi diritti sopra la provincia. Giuravano fede all'imperatore tutti i magistrati, e circa due mila soldati Veneti, che si trovavano in quella fortezza per presidio. Quivi si vedeva uno spettacolo generoso e lagrimevole; poichè allorquando si venne all'atto del consegnarsi dai soldati il vessillo di San Marco in mano del generale Austriaco, prorompevano in dirotto pianto: a loro rispondevano con altrettante lagrime i circostanti. Alcuni furono visti in quell'estremo atto baciarlo, ed abbracciarlo sospirosamente più volte; i Panduri, fra gli altri, gente creduta barbara, davano tanti segni di dolore e di disperazione, come trovo scritto, che i capitani Austriaci concedevano loro di poter continuare nell'uso antico di portarsi i Veneziani vessilli. Per tal modo, mentre uomini civili ed ammaestrati con gentili dottrine, la patria loro non solo adducevano in forestiera servitù, ma ancora nell'estremo suo caso con improperj più che barbari schernivano, uomini idioti e da nissuna civile disciplina informati, la patria stessa infelice e spenta, con dolore e con lagrime proseguivano.

Spento a Zara il governo Veneto, restava, che nella rimanente provincia si annullasse. A questo fine partitosene per la via di terra Casimiro, occupava Spalatro, Clissa, e Singo. Roccavina per quella di mare entrava in Sebenico, dove era accolto con molta allegrezza, perchè la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva quindi dai monti con una mano di Ungari e di Transilvani il conte di Warstensleben, e si univa col Roccavina. Allora gl'imperiali, fatti più forti, e condotti da Roccavina medesimo si avviavano a farsi signori dei siti importantissimi delle Bocche di Cattaro, stati anche ceduti da Buonaparte a nome della Francia. S'accomodavano quietamente i Bocchesi, non però senza dimostrazioni di vivo desiderio dell'antico governo, alle nuove sorti. La Dalmazia tutta, e l'Albania Veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore, importante accessione a' suoi stati per l'opportunità dei porti, per l'abbondanza del commercio, per l'indole bellicosa degli abitatori, e finalmente per la perizia loro nelle faccende di mare. Solo Perasto, Risano, e Geganowich, comuni dei Bocchesi, facevano qualche resistenza, ma sopraffatti dalla superiorità Austriaca cedevano, e si sottomettevano. A questo modo si andava sfasciando appoco appoco, e con universale ruina, l'antichissimo imperio dei Veneziani.

A novità di tanto momento, quale si era la occupazione delle provincie del Levante, si risentivano i municipali di Venezia, e facevano instanze presso a Buonaparte, e al direttorio per sapere che cosa volesse significare, e domandando, che la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse; il che a chi fosse contar le sue ragioni, il lettore potrà da se stesso indovinare. Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi, che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato con la solita superiorità da Buonaparte ai municipali Veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse quale ministro loro. Della missione di questo nobile Veneziano al generalissimo ne facevano molti stridori i municipali Dandolo e Giuliani; ma il generale era più forte di loro, e voleva quel che voleva. Querelavasi anche gravemente della Dalmata rapina San Fermo mandato dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso il direttorio a Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati, che Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza, che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni. A comprendere quale nuova spezie di lealtà fosse questa, avrà bastato il raccontarla; conciossiachè a Montebello già si fosse convenuto il dì ventisei di maggio coi plenipotenziari imperiali Buonaparte di dar Venezia all'imperatore; al che aveva consentito il direttorio il dì tre di giugno. Intanto Battaglia e San Fermo scrivevano buone nuove, ed i municipali se le credevano, o facevano vista di crederle, e ne dimostravano grandi allegrezze.

Era necessario, a volere che si spianasse la strada alla esecuzione dei patti di Campoformio, già prima che fossero fermati in debita forma, che le isole del Levante Veneto venissero in potestà dei Francesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato, che con accordo dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri a Corfù, isola per la grandezza e per la fortezza molto principale in quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche perchè vi erano fornimenti di marinerìa di molta importanza, aveva, per mezzo del direttorio, dato ordine, che al tempo medesimo da Tolone l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata. Erano a quei tempi le isole del Levante Veneto rette con dolce e giusto freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, e come egli, di vera e più che ordinaria carità fornito verso la Veneziana patria: uomo certamente per virtù cittadina molto singolare; umano con gli avversi, dolce con gli amici, giusto con tutti, ritraeva il suo procedere più dell'antico, che del moderno, ed aveva con tanta efficacia, e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon naturale operato, che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili, malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia, fermamente si conservassero affezionate al nome Veneziano. Quando poi i tempi già tanto stretti andavano per Venezia a cagione della presenza dei repubblicani negli stati di terraferma, prima però che l'antico governo fosse annullato, penuriando l'erario di denaro, nè potendo supplire alle spese sì civili che militari delle isole, offeriva, e dava Vidiman del suo alla repubblica, oltre tutto il suo vasellame d'argento, otto mila ducati Veneti, del che gli rendeva il senato pubbliche e solenni grazie. Nè questi bastando al grosso dispendio soldava a benefizio del pubblico con privato obbligo altri quaranta mila ducati, e con questi si andava sostentando in quei tempi difficili lo stato delle isole. Quando poi incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica repubblica, nondimeno pensando, che se era perduto lo stato vecchio, gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese, al quale era suo debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti, per fargli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a cagione dell'amore, che generalmente gli era portato.

Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi distrutta l'aristocrazìa, ed allargato il governo alla democrazìa. Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti; ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli abitatori delle isole, e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli; manderebbero due commissari per metter all'ordine il nuovo stato; Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata, e con sei mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere Veneziani, o Francesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza sua gli animi; spiasse bene, e raffrenasse coloro che fossero di genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone prudenti e religiose di ogni rito; sopratutto impedisse, che gli uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto: in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali, ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa terra, adunava Vidiman i primari magistrati sì civili che militari, e leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono rassegnazione, ignari ancora a che cosa gli serbassero i fati.

Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchj necessari per la spedizione di Levante. Il fondamento era da parte del direttorio di spirar tanta confidenza ai municipali, che credessero, mandarsi le forze Francesi per mantener quelle possessioni nella divozione di Venezia, e per riacquistar anche, ove fosse venuto il tempo proprio, la Dalmazia: con queste coperte intendevano Buonaparte e il direttorio al far uscire da Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte dell'armata Veneziana, che sull'ancore se ne stava nel porto. Perlocchè si appresentava Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali Francesi da mare, che dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con parole meliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo, che tutte le forze Francesi si adoprerebbero, perchè ella fosse restituita all'antica sua grandezza. Qui lascio, che gli storici Buonapartiani lodino a posta loro, e saria bene, che ci spiegassero, quale offesa da questo momento in poi abbia fatto Venezia a Francia, perchè meditasse di essere spenta, e data in preda all'imperatore. Si destinava a governar le genti da terra il generale Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdè, uomo assai perito, e non di pensieri immoderati, e molto amato da Buonaparte. Consisteva l'armata in due navi di fila Venete, due fregate pure Venete, e due brigantini Francesi. Molte navi atte a trasportar soldati l'accompagnavano; furono empiute di Francesi, la maggior parte della settuagesima nona, soldati tanto valorosi, quanto bene disciplinati, e che modestamente portandosi in Corfù temperarono in favor del nome Francese l'acerbità del dominio forestiero. Volle Buonaparte, poichè si trattava di andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, il quale venuto in Italia per veder il paese, ed esaminare quelle rivoluzioni, dopo di essersi qualche tempo dimorato in Venezia, era divenuto vago di visitare la Grecia. In lui aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli. Ancora, se discoprisse qualche cosa di gentile e di vago, o quadro fosse, o statua, o manoscritto, sì l'indicasse acciò se lo potesse rapire.

Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con se denaro per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli amministratori, che mandavano nelle isole, seimila zecchini.

Appariva il dì ventotto giugno nel porto dei Corfiotti l'armata apportatrice dei soldati stranieri. Vidiman, e gl'Isolani molto si maravigliarono al vedere insegne ed uomini Francesi, in luogo d'insegne e d'uomini Veneziani: pareva loro, che altro suonassero le parole, ed altro i fatti, nè sapevano intendere un caso tanto strano. Gentili scriveva dalla nave capitana a Vidiman, essere venuto, a ciò richiesto dai municipali di Venezia, a rinforzar le guernigioni, ad assicurare Corfù e le altre isole del levante, a trattare con esso lui delle cose risguardanti la sicurezza e la quiete dello stato. Il ricercava intanto, preparasse in fortezza gli alloggiamenti pe' suoi soldati, quelle Greche isole per la prima volta venivano in possessione di Francia.

Suonavano a festa il dì ventinove di giugno gli stromenti da guerra; i nuovi repubblicani sbarcavano. Quegli uomini Greci si maravigliavano in veder quegli uomini nuovi, e tanto guerrieri. Venivano i magistrati a far riverenza agl'insoliti signori. Il vescovo Greco, (che la maggior parte di quegl'isolani sono di questo rito), in cotal guisa parlava a Gentili:

«Francesi, voi trovate in quest'isola un popolo ignorante delle scienze e delle arti, che illustrano le nazioni; ma non l'abbiate per questo a vile: egli può tornare qual fu un tempo; apprendete, e ciò dicendo sporgeva la Odissea, apprendete da questo libro, disse, in qual conto voi dobbiate tenerlo».

Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua volontà qualunque cosa ei volesse. Poi non da alleato, ma da padrone procedendo, s'impadroniva dei magazzini del pubblico, e di tutte le artiglierìe, che erano belle, ed in numero considerabile. Meglio di cinquecento cannoni, la maggior parte di bronzo, venti obici, petrai, e mortaj o di bronzo o di ferro centoventuno, cinquanta migliaja di polvere, venti casse di fucili, palle e bombe in proporzione, ricchissima preda.

A Gentili succedeva Bourdè, che poneva le mani addosso ai magazzini di mare, ed a sei navi di fila, e tre fregate Veneziane, due buone, il Volcano, e la Fama, le altre in cattivo arnese. Gentili intanto i seimila zecchini mandati da Venezia per soccorre alle cose Veneziane nelle isole, recava in suo potere per dar le paghe a' suoi soldati, ed agli amministratori venuti con lui.

Posto il piede, e confermato il dominio Francese nell'isola principale di Corfù, mandavano Gentili e Bourdè forze di terra e da mare, a prender possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo, che fu l'antica Citera, certo molto difforme dallo stato antico, perchè poco altro ella è ora, che uno scoglio arido e deserto. Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primari abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali per un'arte, che sa piuttosto di derisione, e già l'avevano usata col doge di Venezia, nominavano Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità. Così con disfare ogni vestigio di governo Veneto, con divertire ad uso dei soldati Francesi la pecunia pubblica, con torre a Venezia quanto aveva nelle isole di ricchezza e di forza, pretendevano gli agenti del direttorio e di Buonaparte di conservarle quelle possessioni. A questo modo ancora si eseguivano i comandamenti di Buonaparte, il quale scrivendo a Bourdè nel mese di giugno, gli ordinava, si appresentasse con Baraguey d'Hilliers, e col ministro di Francia ai municipali di Venezia, e loro dicesse, che la conformità dei principj che a quei dì reggevano la repubblica Francese e quella di Venezia, e la mano forte, che la prima dava alla seconda, richiedevano, che prontamente le forze marittime di Venezia si allestissero, perchè di concerto le due repubbliche si potessero mantener in possessione dell'Adriatico, e dell'isole del Levante, e tutelassero il loro comercio; e che già a questo fine egli aveva mandato genti per assicurare alla repubblica Veneziana la possessione di Corfù. Gli avvertisse finalmente, che quello era il tempo di mettere in pronto, e di armare virilmente il navilio Veneziano. Queste ed altre simili cose voleva Buonaparte, che Bourdè accompagnato da solenne apparato dicesse. Le quali chi mi leggerà, considerando, e così ancora le stipulazioni di Montebello del ventisei di maggio di sopra da noi accennate, verrà facilmente a conoscere qual fraude fosse questa di gettare in quel tempo parole di conservazione per Venezia. Ma la fraude era doppia, perchè al momento stesso comandava a Bourdè, che con questo pretesto, e con procurare tuttavia di vivere in buon accordo, s'impadronisse di ogni cosa, e tirasse ai servigi di Francia i marinari, e gl'impiegati della marinerìa Veneziana. Imponeva finalmente al medesimo Bourdè, che mettesse in pronto tutte le navi Veneziane sì grosse che sottili, e le incorporasse all'armata Francese, e mandasse a Tolone ogni qualunque provvisione Veneta. Così Venezia era rapita in Venezia medesima, in terraferma Italiana e Slava, e nelle isole sì dell'Adriatico, che dell'Ionio e dell'Egeo.

Stabilitasi nel modo raccontato la dominazione Francese in Corfù, vi nascevano più vive, che mai vi fossero state, le parti; perchè alcuni fomentavano lo stato nuovo, altri si conservavano addetti al vecchio. Capi dei primi erano i Teotochi, massimamente il vecchio, personaggio venerabile per l'età e per le virtù, e di molto seguito nell'isola; capo ai secondi si mostrava l'avvocato Scordilli, uomo ancor esso risplendente per virtù e per ingegno. E siccome gli odj nelle isole sono molto gravi, così gli aderenti di una parte non risparmiavano nissuna parola, che fosse ingiuriosa contro la parte avversaria. Sarebbero anche molto volentieri venuti ai fatti, se la forza Francese preponderante non gli avesse raffrenati.

Intanto Gentili, recatasi la somma delle cose in mano, continuava, quantunque fosse assai cagionevole della persona, a starsene a Corfù; Bourdè se ne tornava con le sue navi a Venezia. Arnauld, visto che non poteva eseguire il mandato di Buonaparte dell'indicar gli spogli delle chiese, dei musei e delle librerìe pubbliche, perchè statue, quadri, manoscritti preziosi non ve n'erano, visitati, come scriveva, i giardini di Alcinoo, e la pietra lavandaja di Nausicae, chiamati i Corfiotti superstiziosi, ignoranti e vili, ed i Greci ladri, perfidi ed inospitali, eccettuando solamente i Mainotti, forse perchè sapeva che Buonaparte gli accarezzava, scritto finalmente che la libertà aveva solo settatori fra il popolo tiranno, cioè fra i Turchi, se ne partiva per l'Italia per andarsene a visitare la tomba di Virgilio. Così Arnauld giudicò i Greci nè amatori, nè degni di libertà: solo aveva per la libertà qualche speranza nei Turchi.

Con magistrati temporanei si governavano le cose in Corfù fino alla pace di Campoformio. Poi vi fu mandato da Buonaparte un Corbigny, che ordinava le isole a modo di Francia, partendole in tre spartimenti, dei quali quello di Corfù chiamava di Corcira, quello di Cefalonia, d'Itaca, e quello di Zante, del mar Egeo. Alla presa del magistrato orava in piazza il Teotochi, presidente eletto del magistrato distrettuale, con qualche veemenza sulle cose nuove. L'emolo Scordilli lo chiamava vecchio pazzo.

La presenza dei Francesi in Corfù vi partoriva due effetti molto notabili. Il primo fu, che i Corfiotti non si ammazzavano più fra di loro, come eran soliti fare quasi ogni giorno innanzi che i Francesi vi arrivassero, il secondo, che i soldati Francesi, temperatamente portandosi, si accomunavano con gl'isolani, e cambiavano in affezione l'odio, che prima avevano contro il nome Francese. Imparavano i Corfiotti l'industria, e le singolari arti; si facevano maritaggi, mezzo sempre d'intimo congiungimento fra le nazioni; ed io ho veduto, ed udito un soldato Francese, già imparata la lingua del paese, orare, non senza facondia, in greco volgare in cospetto dei tribunali contro la sua moglie greca, donna bellissima, che si voleva separare da lui per divorzio: vinceva, e serbavasi con molta contentezza la donna. In tale mansueta forma si viveva in Corfù con utile degl'isolani, finchè vi venne Sordina, municipale di Venezia, a metter su i ritrovi politici, e ad orare, ed a far romore in tribuna; il che accrebbe i risentimenti, e rinvigoriva gli odj, perchè la gente savia vedeva in quei ritrovi le consuetudini tumultuarie e sanguinose di Francia, quantunque vi favellasse spesso, ed a buon fine, e con parole temperate un generale Francese per nome Villelongue, uomo tanto dotto ed eloquente, quanto gentile ed onesto.

Venezia già serva di Francia era destinata a divenir fra breve serva d'Austria. Ma prima che raccontiamo il compimento delle macchinazioni ordite, è per noi necessario narrare quanto antecedentemente in essa sia accaduto. Dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da se, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa Pisani con fasto grande, e con carico gravissimo di quella famiglia; i municipali non deliberavano, se non sentito lui; i posti principali erano custoditi dai Francesi; i municipali, chi per forza, chi per prudenza, chi per adulazione servivano a Baraguey. Villetard, siccome giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si vedeva. Ne sentiva egli dolore grandissimo, perchè ed amava la libertà, e camminava in quelle bisogne con animo sincero. S'incominciava a dar mano agli spogli delle opere gentili insino a tanto che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e di più prezioso avevano prodotto gli scarpelli, od i pennelli, o le penne greche, latine ed italiane, era rapito dagli strani amici. Le gallerìe, le librerìe, i tempj, i musei sì pubblici che privati diligentemente si scrutavano, e violentemente si sfioravano. A questo modo nove chiese in Venezia, una in Verona, parecchie in altri luoghi della terraferma restarono stampate dei vestigj della cupidità forestiera.

Il palazzo pubblico di Venezia, massimamente in quelle stanze stesse, dove con tanta prudenza, e per tanti secoli dei negozj attinenti alla patria avevano deliberato i padri, e dove allora i municipali vantavano la libertà di Venezia, e la generosità del vincitore, fu dei più preziosi ornamenti espilato. Con pari rabbia fu la gallerìa privata dei nobili Bevilacqua in Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini, di Mantegna tanto care ai Veneziani e per bellezza propria, e per essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne andavano ad ornare forestieri, e lontani lidi. Mani Italiane furono costrette dalla forza ad ajutare lo spoglio d'Italia. Molte statue e bassi rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio, e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla librerìa pubblica di Venezia, e della gallerìa Bevilacqua. Nè i camei, opere preziose, si risparmiavano; e fra di loro quello tanto famoso, che rappresentava Giove Egeo. Sessantanove medaglie greche o romane, parte in argento, parte in bronzo erano levate dai privati musei dei Muselli, e dei Verità di Verona. Dei manoscritti con grandissimo dolore degl'Italiani dalla sola libreria di Venezia più di duecento greci, o latini, o italiani, o arabi, o in carta pergamena, o in carta usuale, o in carta di seta saziavano le voglie dei repubblicani d'oltremonti. Pregiavano principalmente i Veneziani due manoscritti arabi in carta di seta, perchè dati in dono dal cardinal Bessarione alla repubblica, e questi ancora piansero e desiderarono, in forestiera terra trasportati. Sentivano la comune spogliagione le librerìe pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso, e di San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono settantasei testi a penna preziosissimi, fra i quali otto anteriori al secolo decimoterzo. Alle medesime espilazioni andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosìa si custodivano nelle librerìe di Venezia, Treviso, Padova, Verona e San Daniele. I carri e le barche Veneziane erano piene di Veneziane spoglie. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura dei tempj, dei musei, e delle librerìe. Restava il più bello e più glorioso segno della grandezza Veneziana, che sull'anteriore faccia del principal tempio di Venezia dimostrava, quale fosse stato anticamente il valore di quella generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re d'Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Francesi, che ebbero in sorte altre Costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal doge Pietro Zani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico della gente Veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld, che questi cavalli restassero a Venezia: spiacevagli altresì, che i leoni conquistati dal valore del Morosini nel Pireo, continuassero a starsene nella sede loro, segni della Veneziana gloria. Ne gli spiacque, e ne scrisse a Buonaparte. Cavalli, e leoni furono per suo comandamento condotti in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto dolore loro, che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite che dolorose. Come queste cose Arnauld, che faceva professione di amare la libertà e l'independenza della sua patria, suggerisse a Buonaparte, io non ne posso restar capace, perchè a me pare, che nissuno possa sinceramente amare la libertà e la indipendenza della propria patria, se non porta rispetto alla libertà ed all'independenza delle patrie altrui. So, che alcuni dicevano, e tuttavia dicono, che questi spogli si eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue peggiori condizioni contro Venezia, e di non osservar quelle che erano in suo favore, massimamente la sua conservazione, condizione che era pure la più principale, anzi la sostanziale del trattato, perciocchè non si possono stipular trattati con una potenza, che si crede nulla, nè accordare condizioni di futura esecuzione con una potenza, che si vuol distruggere.

Non solo gli ornamenti e le ricchezze Veneziane si trasportavano, ma quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano. Erasi il duca di Modena, come abbiamo detto, fuggendo la furia dei repubblicani, ricoverato in Venezia; poi già romoreggiando le armi loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, si era per sua sicurezza ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti tostamente si calavano, e circondato improvvisamente con soldatesche armate il palazzo in San Pantaleone, dove aveva abitato il duca, cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria. Perlochè, fatto armatamano improvviso insulto contro di essa, e ricercato in ogni canto, trovarono il denaro, e via se lo portavano: furono, come portò la fama, circa duecentomila zecchini. I Modenesi erano venuti a Venezia per averselo; ma e' furon novelle. Gli agenti gli serbarono, dissero, per la cassa militare.

Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande apparato di soldati, perchè sebbene fossero i piè dei Veneziani in ceppi, si temeva, che ad un bel levarsi, il popolo prorompesse, e rivendicasse alla patria con qualche solenne precipizio degl'involatori le gloriose spoglie. Accresceva il timore il pensare, che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli. Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro, che aveva in titolo i Romani in Grecia e che fu generalmente creduto opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei Romani in Grecia simboleggiando i Francesi in Italia, e così paragonando la tirannide di Flaminio a quella di Buonaparte, eccitava i popoli Italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione. Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava, e più era letto, e non pochi tra i Francesi, che avversavano Buonaparte, o per generosità naturale, o per odio, o per invidia, lodavano e promuovevano lo scritto. Villetard fra gli altri il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome Francese. Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e che stimolava i popoli a correre armati contro i Francesi, partoriva un effetto incredibile. Se ne querelava Villetard coi municipali; se la passarono con dire, che la stampa era libera, e, quanto alle ingiurie contro a loro, che le avevano in dispregio. Ma Buonaparte non l'intendeva a questo modo: voleva, che l'autore si rinvenisse. Si viveva pertanto fra la rabbia ed il timore, quando dimorandosi una sera Villetard in caffè sotto le quarantìe, se gli faceva avanti in un atto amico Barzoni. L'allontanava da se con aspre parole il Francese, dicendo, maravigliarsi, che colui, che chiamava a morte i Francesi, avesse fronte di accostarsi amichevolmente a chi gli rappresentava in Venezia. In questo Barzoni, trattosi di seno una pistola, e contro Villetard dirizzatola, lo voleva uccidere. Nasceva pel fatto in quel ritrovo un gridare, un fuggire, un accorrere incredibile. Si ritirava o intimorito, o sbalordito Barzoni, e vi fu calca: furono presto i soldati ad accorrere a quel romore inopinato. Per ammansare lo sdegno di Buonaparte, scriveva Villetard a Monge, scusasse il fatto col generalissimo, allegando, che il povero Barzoni, preso da un ardente ed infelice amore per una giovane gentildonna, era fuori di mente. Il pregava altresì, tanto era buono quel Villetard, operasse presso al generalissimo, onde si contentasse, ch'ei desse un passaporto a Barzoni, acciocchè se ne andasse a passare in paesi forestieri quella sua ira tanto gonfia contro i Francesi. Rescriveva furiosamente Buonaparte, essere un assassinamento; volere, che il reo si castigasse. Non ostante gli dava Villetard il passaporto: il giovane Barzoni fuggendo in paesi esteri la collera di chi tanto poteva, si riduceva per ultimo nell'isola di Malta, quando ella venne in potestà degl'Inglesi, e quivi si stette lungo tempo, scrivendo un giornale contro la tirannide Buonapartiana. Asperava questo fatto vieppiù gli animi da ambo le parti: insino ai municipali era venuto in odio quel forestiero dominio.

Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze tristi e funeste. Esita l'animo nostro a raccontare una festa solenne ordinata, e festeggiata da coloro, che sapevano qual fato sovrastasse a Venezia. Pure la racconterò per impietosire i posteri, se essi saranno migliori di noi; conciossiachè niuna cosa più muova a compassione che un'allegrezza procurata a chi è destinato a morte. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di San Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero della libertà. Mani Veneziane avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta a San Marco un'ampia loggia, a cui si saliva per due scale laterali ornate di vaghi fiori, e di arbusti odoriferi. Era la facciata della loggia un magnifico colonnato d'ordine Toscano con doppie cornici, e belle statue corredato. Da ambi i lati della loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella ducale, dismessi dal celebrare le antiche glorie della repubblica libera, chiamati ora a celebrare i vergognosi principj della repubblica serva. Due altre logge adorne, e belle si vedevano in mezzo alla piazza, e davanti alle procuratìe, con orchestre pure a lato; i fregi, gli arazzi, le divise, gli emblemi, conformi ai tempi. Gli archi delle procuratìe, e così ancora la chiesa di San Marco comparivano alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati. In vedere un tanto apparato non pochi erano i motti di quegli ameni e spiritosi Veneziani, dimentichi, fra mezzo a quelle illusioni festevoli, dei tanti infortunj loro. Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto dell'albero, che non so come, nè perchè col nome della libertà si chiamava. Ed ecco alle diciassette Italiane comparire con solenne comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano i municipali in abito, coi cappelli, con le sciabole di moda. Quinci poscia essendosi congiunti col corteggio del generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnivano, gli strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano: che cosa si pensasse Baraguey d'Hilliers, che sapeva l'avvenire, io non lo so. Intanto giva la processione; soldati Italiani precedevano, seguitavano due fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una giovane, che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso, e i consoli delle nazioni, e i magistrati sì civili che militari, e i capi delle arti coi simboli delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da musica militare i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto, ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato nelle sue radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due vecchi i rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla punta dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Io vidi, trovandomi allora a sedere nella destra loggia, Baraguey, ed il presidente dei municipali gettare terra, e versar acqua sulle radici dell'innalzato albero, ed a quell'atto, tanto il cielo mi fu amico, che non proruppi, benchè ne avessi voglia, perchè mi erano in abbominazione i tradimenti. Le orchestre suonavano, le musiche militari rispondevano, le campane rimbombavano, i cannoni tuonavano, le tricolorite bandiere si sventolavano. Fatto silenzio, orava l'arciprete Valier municipale, con magnifiche parole commendando la generosità Francese, e la rigenerazione Veneziana. Poscia entrati in San Marco, cantavano l'inno delle grazie, e facevano il maritaggio del giovane e della giovane. Restava, che ad onore dello stato nuovo si vilipendesse il vecchio. Per la qual cosa, uscito il corteggio da San Marco ed in piazza tornatosi, dove promiscuamente e Francesi, e Veneziani intorno all'albero già ballavano, ardevano il libro d'oro, e le altre insegne ducali: in quel mentre orava enfaticamente l'abbate Collalto: l'albero della libertà al salutifero legno della croce paragonando. Continuossi a ballare il giorno, ballossi ancora la notte; si recitava in musica una bella, e magnifica opera nel bellissimo teatro della Fenice. Il cuore umano non ha affetto, nè l'immaginazione figura, nè la lingua espressione per rappresentare degnamente quello, che si dovrebbe rappresentare pensando, quale materia covasse sotto tali rallegramenti. Certo, feste e rallegramenti più crudeli di questi non furono al mondo mai. Ricordomi, e fia l'ultima volta che in queste lagrimevoli storie io favelli di me, che trovandomi in palco di una nobile donna Contarini, se la memoria non falla, sposata ad un Correr di Santa Fosca, che fu almirante delle navi, ed a casa il quale io mi godeva a quei giorni una dolce e cordiale ospitalità, in vedere quelle apparenze ed in pensare al fatto, sentiimi come quasi dividere, a lacerare in due dentro me stesso, e paragonaimi a quell'orrendo accoppiamento di corpi vivi e di cadaveri, che per supplizio di rei e di innocenti faceva, a guisa di diporto, quel tiranno dell'antichità. Pure m'infinsi, perchè il discoprirmi sarebbe stato pericoloso; e forse da coloro, con cui mi conversava, non creduto.

Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers. Al tempo stesso Bernadotte, che conosceva a che fosse serbata Venezia, proibiva con animo sincero, che in Udine si piantasse. Guyeux al contrario metteva una taglia di centomila lire sur un piccolo comune del Padovano, sotto pretesto, che l'albero vi fosse stato tagliato; doloroso avviluppamento d'accidenti strani per l'infelice Venezia, a cui in proposito di un medesimo fusto figurativo la sincerità dell'uno non giovava, l'improntitudine degli altri pregiudicava.

Continuava Buonaparte nelle sue arti di mostrarsi propenso ai Veneziani, e di dar loro speranza della conservazione del dominio. Nè contento alle chimere, con cui andava pascendo il legato Battaglia, e Dandolo, e Zorzi, e gli altri municipali, che andavano e venivano da lui, volle fare una dimostrazione tanto più brutta, quanto ella era di civiltà, e di cortesìa. Dimostrava non potere, per le molte e gravi faccende che il travagliavano, visitare, come desiderava, per se stesso Venezia, ma mandarvi la donna sua, perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto si spiegava, quanta fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie in Venezia: le adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì Veneziani, che Francesi, furono oltre misura. Traevano per comandamento del generalissimo i cannoni a festa, e ad onore di privata donna, e queste cose non solamente si comportavano, ma ancora si lodavano; potevano i prudenti uomini augurar dell'avvenire. Accolta nella sala dei municipali era segno d'applausi infiniti: deputavano due dei loro ad intrattenerla, ed a farle onoranza. Furonvi festini, balli, canti, allegrezze di ogni sorte: alla Giudecca una gran cena, al canal grande una luminaria, nè mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani. Credevano i municipali di aver vinto la pruova, perchè la donna dava parole dolci, e pareva loro Buonaparte non avrebbe mandato una persona gradita in una città tradita. Ma s'ingannavano, perchè nol conoscevano, o nol volevano conoscere. Dandolo, e gli altri municipali trionfavano, e sempre stavano accanto alla donna, e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani repubblicano se ne stava bieco, ed alla traversa. Infine, dimoratasi quattro giorni, il quinto se ne partiva con assai ricchi presenti. Io non affermerò, perchè non lo so di certo, che le sia stata data una collana ricchissima di grosse perle, tratta espressamente dal tesoro di San Marco, in cui era custodita ad uso sacro. Nondimeno l'ho dovuto avvertire, perchè lo trovo scritto negli annali dei tempi. Certamente se non questo, ebbesi ed accettò la donna di molti altri presenti. Fu brutto il dare, fu ancor più brutto l'accettare, non dico dal canto di lei, perchè forse ignorava le insidie del marito contro Venezia, ma dal canto di lui che le sapeva, e che ordiva.

Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, non vivevano coloro, che avevano in mano la somma delle cose in Venezia, senza qualche sospetto, però oltre i maneggi ed i denari, trattavano di unirsi strettamente alle città di terraferma, che, come abbiam narrato, molto ripugnavano al dominio Veneziano. Laonde operavano, che le principali mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi mandava Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natìo di Desenzano, si sperava, che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti. Non arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte, per umanità e sincerità, impediva che deputasse. Vi mandava Buonaparte, che in sembianza favoriva il disegno, Berthier, affinchè e presiedesse il congresso, e con arte distornasse il progetto d'unione. Vi furono molte parole e contenzioni. Verona voleva esser capo della terraferma, Padova andava alla medesima volta, i Bassanesi piuttosto ai Padovani aderivano che ai Veronesi, i Vicentini piuttosto ai Veronesi che ai Padovani, Treviso stava in favor dei Veneziani, i deputati d'Oltremincio propendevano verso la Cisalpina. Non ostante si vedeva tra mezzo a questi dispareri, che per la necessità del caso, i deputati sarebbero finalmente restati d'accordi sull'unione. Però Berthier, che non aveva potuto turbare il disegno con le arti, il rompeva con l'autorità, disciogliendo il congresso, e pubblicando, che circa l'unione i deputati non si erano potuti accordare; il che era vero, ma era colpa di lui, non di loro.

Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare il direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne facevano anche inchiesta formale al direttorio Cisalpino. Davano i primi buone parole; Battaglia e San Fermo le scrivevano ai municipali, confortando per tal modo i Veneziani con la speranza di aversene almeno a restar Italiani. Rispondeva il direttorio Cisalpino con ambagi e con superbia; barbaro, e stolido insulto alla compassionevole Venezia.

In questo mentre si era concluso il trattato di Campoformio; Buonaparte se ne tornava a Milano. Il suo parlar diverso, e le voci che già si levavano, atterrivano i popoli. Interrogato a Vicenza, qual fosse il destino dei Veneti, rispondeva, nè la Francia nè lui avere alcun diritto sopra di loro. Qui soggiungeva un Tiene Vicentino, che sarebbero pronti a spendere ogni più preziosa cosa per conservar l'indipendenza. Replicava, nulla ancora essere deciso; nè la Francia, nè egli non sarebbero mai per operare cosa alcuna contro di loro, nè per disporre di un popolo, sopra del quale non avevano nissun diritto. Ma giunto a Verona, già più vicino al suo sicuro nido di Milano, e perchè si credeva che la parte Austriaca vi fosse potente, interrogato delle Veneziane sorti da un De Angeli, presidente del governo, faceva sentire questo suono, che Verona era ceduta all'Austria. Dissegli allora il presidente, “perchè non lasciarci piuttosto sotto i Veneziani? Perchè dopo tante promesse di libertà venderci all'Austria?” A questo tratto rispondeva il capitano atroce a uomini, ai quali egli aveva tolte le armi: “ebbene, difendetevi”. Riprendeva il presidente le parole, e magnanimamente rispondendo, tuonava a questo modo: “Vattene, traditore, e sgombra da queste terre: rendici le armi che ci hai tolte, e ci difenderemo”. Taceva il barbaro a tale rincalzata attonito, e si ritirava non vergognoso, ma avvilito, in altra camera. Spargevasi intanto il grido; la città piena di dolore, di trepidazione e di spavento. Udiva le grida disperate dei cittadini dolenti il venditore; se ne partiva frettoloso per Milano.

L'ora estrema di Venezia era giunta. Scriveva da Milano Buonaparte a Villetard: pel trattato di pace essere i Francesi obbligati a vuotare la città di Venezia, e perciò potersene l'imperatore impadronire; ma non doverla vuotare che venti, o trenta giorni dopo le ratificazioni; potere tutti i patriotti, che volessero, spatriarsi, ricoverarsi nella repubblica Cisalpina, in cui godrebbero dei diritti di cittadinatico; avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro; essere indispensabile, che si creasse un fondo, il quale potesse alimentare quelli fra i patriotti, che si risolvessero a lasciar il paese loro, e non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica Francese parata a soccorrergli, se ne avessero bisogno, con la vendita dei beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia molte munizioni navali, o di guerra, o di commercio, che appartenevano al governo Veneziano; essere indispensabile, che la congregazione di salute pubblica, (quest'era una congregazione di municipali), le trasportasse, più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù, e se ne facesse stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un Roubault, e con un Forfait, e con la congregazione di salute pubblica per vedere a qual pro si potessero condurre una nave, ed una fregata recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da inalberare, le piatte, il Bucintoro, e le barche dorate, i barconi, i palischermi grossi, e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini, sei cannoniere, e tre galere sui cavalletti.

Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima, lasciar nulla, che potesse servire all'imperatore per creare un navilio; la seconda, trasportar in Francia quanto fosse utile alla nazione; la terza, usare quanto si vendesse, nel miglior modo possibile, perchè più fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse, che il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurar le sorti dei Veneziani, che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute pubblica, e coi deputati delle città di terraferma, alla salute dei fuorusciti loro.

Avuto Villetard questo mandalo, duro per lui per essere stato autore della rivoluzione Veneziana, duro pei Veneziani per la perduta patria, nella sala delle adunanze recatosi, e ragionato prima delle condizioni dell'Europa, che, secondo lui, rendevano pericolosa alla Francia una nuova guerra sul continente, in cotale guisa ai municipali favellava:

«Cittadini, voi già anteponeste all'interesse vostro l'interesse della patria: un altro maggiore sforzo, un altro più nobile sacrifizio vi resta a fare, e quest'è il dare l'interesse della vostra patria stessa all'interesse di tutta l'Europa. Già udiste le funeste voci sollecitamente sparse dai nemici vostri: esse risparmiano almeno ai vostri amici, che questo infausto mandato ricevuto hanno, il dolore di adempirlo con altro, che con lagrime. Ma, cittadini, i nemici vostri sono anche nemici nostri; essi calunniato hanno la Francia, come se ella trafficasse di carne umana, affinchè voi contro la libertà, e contro i difenditori suoi parte di quell'odio voltaste, che alla tirannide, ed a' suoi sostenitori portate. No, per Dio, no; che la Francese repubblica questa vendita infame lascia ai re: ella perseguita i re, ella protegge gli uomini liberi, ovunque gli trovi. Ma la sua protezione, e la sua vendetta là debbono terminarsi, dove nascerebbe la offesa dei suoi propri concittadini. I soldati della repubblica ora troppo sparsi, meglio fomenteranno ristretti nella Cisalpina, la novella libertà. I territorj Veneti, forse la città stessa di Venezia resteranno aperti alle imperiali genti, fors'elleno gli occuperanno. Alcuni fra di voi, come gli Ottomani fanno, sono pronti a piegar il collo al fato inesorabile. Altri, come i Veneti, gloriosi avoli loro, sonsi risoluti a lasciar le insensate mura per trasportar sulle navi la patria, ed ogni uomo libero con lei. Evvi finalmente chi elegge il morire sotto le mura diroccate piuttosto che lasciarle in mano degli strani. Non io presumerò di giudicare qual fia il meglio fra una rassegnanza stoica, fra una ritirata onorevole, fra un sacrificio generoso. Bene ho a dirvi, dopo di aver purgato la mia patria dal veleno della calunnia, ch'ella offre ricovero, ed asilo a coloro, che perduta l'antica Venezia vorranno fondarne una nuova su lidi inaccessi alla tirannide. La Cisalpina repubblica per intercessione della Francia, e per amore della libertà vi apre il grembo; ivi il titolo di cittadini avrete, ivi una sede alla novella Venezia, o che vi piaccia presso alle terre forti, o nelle popolose città, o sotto gli umili tuguri, dove abitano gli uomini virtuosi e liberi, fondarla: potrete i Veneziani beni con voi Veneziani trasportare, che così a favor vostro stipulava la potentissima repubblica. Per tale guisa la generosa Francia, non potendo in tanta lontananza assicurare il libero stato ai Veneziani in Venezia, assicurava almeno il viver libero a coloro, che preferiscono la libertà alle lagune!»

Dette queste parole il giovane Villetard, pallido, tremante e lagrimoso si tacque. Poi gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e salva al nuovo dominio. La rabbia, l'indegnazione, il furore agitavano il consenso. Ora era il silenzio, ora mormori di maledizione. Il buon Vidiman, che già il cuore funesto aveva per la morte del fratello, antico governatore delle isole, che non aveva potuto sopravvivere alle rapine Corciresi, visto accostarsi la morte della patria a quella del fratello, se ne stava un pezzo attonito e sbattuto. Poi ritrovando in se quella forza d'animo, che più gli uomini temperati hanno, che gli sfrenati, faceva risoluzione di andarsene all'esilio, non già per adular Buonaparte, o per correr dietro a nuove ambizioni, ma per viversene umile ed ignoto, là dove ancora virtù si pregiasse. Fortunato Veneziano, anche nelle disgrazie, poichè la virtù non solo consola, ma a gran misura felicità, da te impareranno i posteri, se avranno vita queste carte ch'io vergo, e divozione verso la patria, ed integrità di costume, ed amore della libertà, e costanza nell'esilio; e forse tempo verrà, che essi anteporranno l'esule ed umile Vidiman al glorioso Buonaparte, distruttore di patrie innocenti.

Riprendeva le parole Villetard, ed offeriva in nome del generalissimo, ed a scampo della loro vita nel vicino esilio, le Veneziane spoglie. A questa offerta veramente Buonapartiana la natura Italiana si scosse, e mostrossi intiera. Ritenessesi, rispondevano concordi, gl'infami doni; non essi aver consentito a governare un dì la patria loro in tempi infelicissimi per dividersene le spoglie; sapere, come si preferisca la povertà all'infamia, gli esempi che correvano, non avere fin là contaminato le anime Veneziane: poter esser traditi, perchè per tradire basta la potenza, ma non avviliti, perchè per non essere avvilito basta la virtù, intrinseco e durevol pregio, non esteriore e caduco, come la potenza; prendessesi pure la Francia le Veneziane spoglie, ma non cercasse di chiamar a parte del furto i Veneziani; aver essi perduto la patria, non voler anco perdere l'onore; se si pascevano i potenti delle rubate ricchezze, volere gli esuli pascersi della buona coscienza, nè non esser mai per consentire, che quelle mura e quelle acque, tante volte testimonj di virtuosi fatti, gli vedessero far fardelli di Veneziane ricchezze; sapere, per aver voluto servire alla Francia ed alla patria, aver incorso l'odio di molti compatriotti, ma sperare, che quest'ultimo atto della vita pubblica loro, gli purgherebbe, ed a tutti dimostrerebbe, che se furono troppo confidenti, non furono almeno colpevoli. Ciò detto, se ne stavano fremendo con segni di grandissima indegnazione.

Di questo sdegno, e di questo rifiuto scriveva Villetard a Buonaparte con la seguente lettera, la quale io sono, come un'altra scritta dal medesimo Villetard, obbligato di riferire alla distesa, perchè un recente autore di una storia di Venezia, badando piuttosto a scusare Buonaparte del fatto di Venezia, che a rendere a ciascuno il suo debito secondo il vizio o la virtù, le passò sotto silenzio, contentandosi di rapportare la lettera del generalissimo, la quale anche qui sotto si troverà trascritta. Della quale omissione io non posso restar capace, perchè, se desiderio dello storico era il non lodar Italiani di un fatto che dinotava magnanimità, mi pare, che almeno avrebbe dovuto lodare il Francese Villetard di un procedere, che se stesso e la Francia sua patria in sì brutto accidente onorava.

«E' bisogna, scriveva Villetard al generalissimo, ch'io avessi tanta fermezza stoica, quanto amor patrio, perchè io il doloroso carico, che mi deste, accettassi. Era presto, per quanto in me fosse, di adempirlo; ma bene io meco stesso mi rallegro almeno, di aver trovato nei municipali di Venezia animi troppo alti per voler cooperare a quello, che per mezzo mio loro avete proposto. Cercheranno eglino altrove una libera terra, ma preferiranno, se necessario fia, la povertà all'infamia. Non consentiranno, che altri possa dir di loro, che abbiano durante alcuni giorni, usurpato la sovranità della nazione loro per metterla in preda. Per un tal procedere pruoveranno almeno, che non meritano i ceppi che si stan loro preparando. Gemono, è vero, su cotesti ceppi, bestemmiano, è vero, la nazion Francese: un rifiuto unanime di volere nella ruina della loro patria mescolar le mani, seguitava i vostri comandamenti. Gemono, perchè otto anni di rivoluzione non ancora gli hanno assuefatti alle disgrazie, bestemmiano, perchè ancora non hanno imparato le dottrine Machiavelliche; non s'ardiscono, perchè ancora non sono tanto corrotti che non abbominino la sfrontatezza politica. Pure ed il titolo di cittadini della Cisalpina, ed i benefizj della nazione Francese recheransi ad onore; se non fia lor d'uopo comperargli per quello che a lor pare un delitto, e voi siete troppo grande per non fare giusta stima di questa loro scrupolosità. Non resta adunque, o generale, altro modo di giovar loro che di ordinare in Venezia il governo meramente militare, pel quale voi a nome della Francia richiederete quello, ch'eglino a nome della sovranità del popolo, che in loro aveva la sua fede posta, ricusano di fare».

Buonaparte, il quale tanto meno comportava di esser biasimato del male, quanto più amava di farlo, e parendogli, che fosse piuttosto pazzìa che altro il non voler rubare la propria patria, nè consegnarla in mano dei forestieri, rescriveva a Villetard queste rabbiose e barbare parole.

«Ebbi, cittadino, la vostra lettera dei tre annebbiatore; nulla compresi al suo contenuto. Forse non bene i miei concetti vi spiegai. Non ha la repubblica Francese vincolo alcuno di trattato, che ci obblighi di anteporre ai nostri interessi, ed ai nostri vantaggi quei della congregazione di salute pubblica, o di verun altro uomo di Venezia. Non mai la repubblica Francese fece la risoluzione di far la guerra per gli altri popoli. Vorrei sapere, qual sia il precetto o di filosofia, o di morale, che comandi, che si sacrifichino quarantamila Francesi contro il desiderio espresso della nazione, e l'interesse vero della repubblica Francese. So, e sento, che nulla costa ad un branco di ciarloni, che meglio contrassegnerei chiamandogli pazzi, di volere la repubblica universale. Vorrei, che questi signori facessero con me una guerra d'inverno. Inoltre la nazione Veneziana più non è. Divisi in tanti interessi, effeminati e corrotti, tanto codardi quanto ipocriti, i popoli d'Italia, e spezialmente il Veneziano, poco son fatti per la libertà. Se il Veneziano è in grado di pregiarla, la occasione gli è aperta per pruovarlo: ch'ei la difenda. Non ebbe nemmeno il coraggio di conquistarla contro alcuni vili oligarchi; non seppe per qualche tempo difenderla nella città di Zara, e forse, se in Alemagna fosse entrato l'esercito, noi avressimo veduto, se non rinnovellarsi le tragedie di Verona, almeno moltiplicarsi gli assassinj che sull'esercito i medesimi effetti partoriscono. Del rimanente la repubblica Francese non può dare, come par che si creda, gli stati Veneziani; non è già punto perchè questi stati per dritto di conquista non appartengono in realtà alla Francia, ma perchè non è massima del governo Francese di dare alcun popolo. Adunque allora quando l'esercito Francese sgombrerà il paese, potranno i diversi suoi governi fare quelle risoluzioni, che più crederanno utili alla patria loro. Vi diedi carico di conferire con la congregazione di salute pubblica intorno alla evacuazione, che è possibile, che l'esercito faccia, acciocchè potessero appigliarsi ai partiti più utili e pel paese, e per gl'individui che eleggessero ritirarsi nei paesi uniti alla repubblica Cisalpina, e riconosciuti, e guarentiti dalla Francese. Voi parimente avete lor fatto a sapere, che coloro, i quali amassero seguitare l'esercito Francese, avrebbero tutto il tempo necessario, perchè possano vendere i loro beni, qualunque abbia ad essere il destino del loro paese, e di più, ch'io sapeva, che era intento della repubblica Cisalpina di conferir loro il titolo di cittadini. Il mandato vostro là debbe terminarsi. Del resto, ei faranno a posta loro quanto vorran fare. Voi avete loro abbastanza detto, perchè sentano che tutto ancora non è perduto, che quanto accadeva era l'effetto di un gran disegno: che se gli eserciti Francesi continuassero a far la guerra prosperamente contro una potenza, che è stata il nervo ed il cofano di tutta la lega, forse Venezia col tempo potrebbe divenire unita alla Cisalpina. Ma veggo che son codardi, e che non san far altro che fuggire: ebbene, che e' fuggano; non ho bisogno di loro».

A questo modo parlava Buonaparte di coloro, che per cagione di lui perdevano un'antica e nobil patria, che per cagione di lui andavano raminghi ed esuli, che per cagione di lui avevano in tempi tanto sinistri accettato il doloroso carico di servire al paese loro ed alla Francia. A questo modo parlava di loro, solo perchè avevano rifiutato le offerte sue infami, ed abborrito dal contaminarsi le mani nella dazione, e nell'ultimo ladroneccio della infelice patria loro. Da tutto questo anche si vede, con quale sincerità abbia narrato questo accidente l'autore della recente storia Veneziana, poichè non al rifiuto di appropriarsi le spoglie della patria, e di consegnarla essi stessi in poter dell'imperatore, come avrebbe dovuto dichiarare apertamente, ma non so quale altra protestazione dei Veneziani, senza spiegare qual ella fosse, egli attribuisce la collera di Buonaparte. Quando non si adorano le opere generose, e non si ha un orror santo per le vili, non so perchè si scrivano storie.

Rispondeva il generoso Villetard alla lettera del furibondo Buonaparte queste nobili parole:

«Non loquaci, non pazzi, non vili, o codardi uomini sono coloro, dei quali nell'ultima mia vi favellava; nè voglion essi che col sangue Francese si faccia loro una repubblica universale. Conosco, come voi, le frasi, conosco la politica, conosco il coraggio di questi sognatori di universali repubbliche: ma parecchi padri di famiglia sono, ma vecchi uomini sono, ma negozianti sono, che atterriti dalla novella della evacuazione del paese loro, e dell'invasione dei soldati dell'imperatore, che ne debbe seguitare, creduto hanno di non aver più diritto di governare quando governare più non potevano che a loro proprio profitto, e che di un'autorità temporanea, non confermata ancora dalla nazione, investiti solamente si conoscevano. Abbiate del resto per certo, che da radice di probità e di altezza d'animo, pur troppo a' nostri giorni rare, procede il rifiuto di espilare a profitto della parte democratica la Veneziana nazione».

Ma per toccare il fondo della risposta di Buonaparte, se non aveva la Francia nissun obbligo di trattato verso Venezia, non si vede perchè il generalissimo invocasse un trattato quando si trattava di rubarla; perchè, se non più onorevole, almeno più sincero sarebbe stato il chiamar rubare il rubare, e non chiamarlo pigliarsi le cose promesse dai trattati. Da un altro canto s'intende benissimo, che Buonaparte non era obbligato a far ammazzare quarantamila Francesi per conservar Venezia libera; ma s'intende anche benissimo, che non era colpa dei Veneziani, se la Francia voleva serbar per se i Paesi Bassi, e la sponda sinistra del Reno, e Magonza, e la Lombardìa Austriaca, e Mantova, e Corfù. Che Venezia pagasse per altri si vede, perchè pagò; ma che vi fosse obbligata, è argomento nuovo, e degno dei tempi. Taccio gl'incentivi dati ai Veneziani verso la libertà dal direttorio, da Buonaparte, e dai suoi generali, ed agenti, perchè sono vituperj a chi voleva dar Venezia in preda all'imperatore. Rivoltare per tradire era certamente opera nefanda.

In tanto precipizio dell'antica patria, pensarono i municipali, poichè la forza dominava, che la volontà almeno si esprimesse. Adunarono i popolari comizj, affinchè deliberassero, se i Veneziani volevano conservar la libertà. Nissun oratore parlò in cospetto del popolo; i soli desiderj spontanei operavano, soli sacerdoti raccolsero i voti: fu il voto per la libertà. I municipali deputavano Sordina, Carminati, Dandolo e Giuliani, acciocchè andassero a Parigi, portassero al direttorio il voto, e lo pregassero, che permettesse, che i Veneziani s'armassero per difendere la libertà. Coi medesimi fini mandavano un'altra deputazione a Buonaparte a Milano; ma ei fece arrestar in viaggio i deputati, orribile comandamento. Così, se i Veneziani non s'armavano, gli chiamava vili, se volevano armarsi, gli trattava da rei, e si vede di che fosse pregno quel capitolo inserito nel trattato di Campoformio, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore d'Alemagna possedesse Venezia. Il dir consentire, quando si sforza, mi pare un'astuzia piuttosto ridicola e stomacosa, che altro.

Serrurier, non temendo di maculare lo splendore de' suoi fatti, accettata da Buonaparte la suprema autorità in Venezia, ed il mandato di fare la gran consegna, svaligiati prima, secondo i comandamenti avuti, i fondachi pubblici del sale, e del biscotto, spogliato avarissimamente l'arsenale, rotte o mutilate le statue bellissime, che in lui si miravano, fatto salpare le grosse navi, affondate le minori, rotte a suon di scuri le incominciate, arso in San Giorgio, a fine di cavarne le dorature, il Bucentoro, reliquia veneranda per la memoria dell'antiche cose, e per le opere eccellenti di scoltura che l'adornavano, rovinata e deserta ogni cosa che allo stato appartenesse, consegnava agli Alemanni, lietissimi di tanto maravigliosa conquista, la città di Venezia. Faceva il popolazzo qualche allegrezza, onde si accresceva il dolore universale; i democrati, o fuggiti, o nascosti; dei patrizi, i più piangevano, alcuni andavano alle ambizioni nuove. Francesco Pesaro, mi vergogno, e mi sento addolorare in dirlo per la contaminata fama di lui, riceveva, come commissario imperiale, i giuramenti.

Così perì Venezia. Ora, quando si dirà Venezia, s'intenderà di Venezia serva: e tempo verrà, e forse non è lontano, in cui, quando si dirà Venezia, s'intenderà di rottami e d'alghe marine, là dove sorgeva una città magnifica, maraviglia del mondo. Tali sono le opere Buonapartiane.

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