LIBRO UNDECIMO

SOMMARIO

Insidie contro Genova. Grave sedizione in questa città per opera dei novatori. I carbonari, ed altra parte del popolo insorgono contro i novatori, e gli vincono. Sdegno, e risposte funeste di Buonaparte: manda generali, e soldati per intimorir il governo col fine di obbligarlo a cambiare l'antica forma dello stato. Si fa la mutazione: legati Genovesi vanno a trovar Buonaparte per accordare con lui il modo del nuovo reggimento. Si crea un governo temporaneo. Umori, e sette in Genova. Constituzione foggiata a modo di quella di Francia. Mala contentezza dei popoli: terribile sommossa nel Bisagno, e nella Polcevera. Condizioni del Piemonte. Il re fa nuove dimostrazioni d'amicizia verso la Francia. Astute insinuazioni, e progetti d'ordinazione politica dell'Italia fatti dall'ambasciador Piemontese a Parigi. Trattato di alleanza tra il re, e la repubblica Francese. Moti sediziosi, e supplizi in Piemonte: morte lagrimevole di Carlo Tenivelli, storico insigne: sue lodi.

La forza aveva insidiato Venezia; le chimere di una libertà fallace le diedero il tracollo. La medesima forza, e le chimere medesime usando Buonaparte contro Genova, la tirava ancor essa all'ultimo eccidio. Vedevano, e sentivano il governo, ed il generale di Francia, che a voler diminuire l'autorità dell'Austria in Italia, era necessario il cambiare i governi antichi in nuovi; perchè giudicavano, che i primi avrebbero consuonato con Austria, i secondi con Francia. Tale necessità diveniva agli occhi loro tanto maggiore, quanto più, fatta l'Austria padrona dello stato Veneto, aveva modo d'ingerirsi, e di travagliare più efficacemente l'Italia. Poi a qualunque modo era sorto l'uso di sovvertir gli stati parte per capriccio, parte per ischerno, e parte anche, credo, per modo di trattenimento. Per tutte queste ragioni, non ancora terminata, ma già prossima a terminarsi la tragedia di Venezia, scriveva Buonaparte a Faipoult, ministro di Francia a Genova, ed operatore attivo dei disegni del generale, che la rovina di Venezia doveva partorire necessariamente la rovina dell'aristocrazìa di Genova; ma che ancora non era tempo di scoprirsi, usando in questo, secondo il suo solito, la natura della volpe prima di quella del lione. Sapeva, che il governo Genovese non avrebbe gagliardamente contrastato, quantunque in lui fosse più vigore, che in quello di Venezia, sì perchè alcuni fra i senatori erano abbacinati dai fantasmi dei tempi, e sì perchè nel ceto medio era molta opinione contraria, credendo molti, che la democrazìa fosse da anteporsi all'aristocrazìa, come se i modi di reggimento politico indotti in Italia a quei tempi fossero democratici. Aggiungevansi i capitali Genovesi investiti in gran parte in Francia, ed i traffichi tra Francia e Genova frequentissimi, cose molto tenere, e capaci a far calare i Genovesi ad un primo romore d'armi. Infine pei passi frequenti delle genti di Francia sulle riviere, erano sorte in esse le opinioni nuove. Savona titubava e per questo, e per le antiche emolazioni. Alcune fortezze, e molti siti del Genovesato erano in mano dei Buonapartiani. Nè a questo contenti il direttorio, e Buonaparte, avevano operato, che Rusca e Serrurier appoco appoco, e sotto altri colori le schiere loro accostassero a Genova, e che l'ammiraglio Brueys comparisse con navi grosse e sottili nelle acque delle riviere.

Genova pericolava; ma molte erano le insidie interne. Spargevansi artifiziosamente voci, che la Francia voleva dare la riviera di ponente al re di Sardegna, e si affermava, che una tale calamità solo si poteva allontanare con ridurre il governo a forma più consimile a quella di Francia. Queste voci Faipoult, magnificando la fede della sua repubblica, e quasi sdegnandosi, asseverava essere false e calunniose. Buonaparte ed egli richiedevano nuovi presti di parecchi milioni alla signorìa, consumata ed odiosa ai popoli, se gli concedesse, accusata d'inimicizia verso Francia, se gli negasse. Il farla vile fu anche parte dell'insidia; perchè un consiglio militare Francese adunatosi nella sede stessa della repubblica processava, e condannava al bando da tutti i territorj di Genova il marchese Agostino Spinola, come reo delle turbazioni sorte contro i Francesi nei feudi imperiali. Non era più sovranità dove un tribunale forestiero dannava un cittadino: mancava col buon concetto la forza dello stato. Nè l'opera dei novatori di dentro si trascurava. A questi erano capi alcuni Genovesi, alcuni forestieri. Fra i primi osservabile era massimamente lo speziale Morando, uomo precipitoso, e di estremi pensieri, e che credeva che ogni cosa fosse lecita per arrivare a quella libertà ch'ei si figurava in mente. Fra i secondi più vivo e più operativo si mostrava un Vitaliani da Napoli, il quale, sebbene non tanto veemente fosse, quanto Morando, era non pertanto assai più di lui pericoloso, perchè aveva facile favella alla Napolitana, efficacia a persuadere maravigliosa, bel porgere, e bella persona, ed era entrante molto e manieroso. Forestiero si mescolava nelle cose Genovesi a dissoluzione della repubblica, e con patente d'impiegato dell'ambascerìa di Francia tendeva agguati ad una potenza, a cui la Francia protestava amicizia. Erano costoro favoriti da Faipoult più nascostamente per la sua qualità pubblica, da Saliceti a questi fini venuto a Genova, più apertamente. Vociferava Saliceti, doversi, poichè l'aristocrazia di Venezia si era spenta, spegnere anche quella di Genova. I novatori sicuri omai dell'esito, s'adunavano, s'indettavano, s'accordavano, s'apprestavano; più il termine s'avvicinava, e più palesemente operavano. Incitamenti continui andavano dall'ambasciata di Francia a Morando, e solo si aspettava che Venezia fosse perita del tutto per far perir Genova. Avvertito il governo, creava inquisitori di stato con ampia facoltà, e per opera loro carcerava Vitaliani. Se ne risentiva gravemente Faipoult, richiedeva la sua indennità, come di Francese. Per tal modo non solamente si voleva che si macchinasse, ma ancora, che si macchinasse impunemente. La signorìa essendo sforzata, rimetteva il Napolitano in libertà. Vitaliani e Morando con somma attività si adoperavano. A loro si faceva compagno un Filippo Doria o per ambizione, o per opinione. Tutto era contaminato, l'esca apprestata, le occasioni si aspettavano. I giornali di Milano, comandando ciò, o permettendo Buonaparte, continuamente straziavano l'aristocrazìa Genovese, e con infiammate parole provocavano i popoli contro di lei. Di tanta mole era per chi tanto poteva, il distruggere la piccola repubblica di Genova. Si pruovava nell'estremo caso ad insorgere, gl'inquisitori di stato facevano carcerare due dei più audaci e temerari novatori, sperando, che il timore potesse frenare quella gente incitatrice. Fu indarno, poichè tanto favore l'ajutava dentro e fuori. Questa fu scintilla a suscitare ad incendio il fuoco che covava. Non così tosto giungeva ai congiurati la novella della carcerazione dei compagni, che furiosamente dato all'armi o proprie, od a questo fine apprestate in casa Morando ed avendo Morando medesimo con Vitaliani e con Filippo Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno ventuno di maggio, un tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult, che la rivoluzione nascesse in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella rivoluzione ei voleva ben essere, ma non parere. Essere, scriveva a Buonaparte, creato un filo a poter muovere facilmente i collegi, i consigli, e ad operare la riforma inevitabile di Genova più o meno prestamente, secondochè meglio o come a Buonaparte si convenisse, o per modo che il mondo vedesse, che la Francia, non ingerentesi nella constituzione politica di un popolo amico ed independente, non vi aveva posto mano che come protettrice della quiete di questo popolo stesso, e per allontanare da lui tutte le disgrazie di una rivoluzione. Venuti da Faipoult due legati del senato, Gian Luca Durazzo, e Francesco Cataneo, il pregavano, che facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed operasse, che la frenesìa dei giornali Milanesi contro Genova cessasse. Dava loro la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda. Si metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo stato, ed a biasimargli dei tridui e delle novene, come di dimostrazioni dirette ad odio dei Francesi: cercava infine di temporeggiare, perchè gli accidenti di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili, e con grida spaventose, cantando a tratto tratto la marsigliese (fu questa una canzone con musica molto espressiva, che incitò potentemente in quell'età gli spiriti ad opere straordinarie) s'incamminavano al palazzo ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire, nuovi congiurati, e fra il popolo i più tristi, e chi più ambiva il sangue o il sacco. A tanto romore si adunava una calca incredibile fra quelle strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i buoni fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa giunta al palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida addomandava i carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a buona ragione sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero al popolo l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il palazzo; il vietavano le guardie; si rimanevano, perchè in quel primo impeto non avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che bastasse. Traevano alle case del ministro di Francia, sperando che gli ajuterebbe. Gli confortava dicendo, s'interporrebbe, e le dimande loro al senato esporrebbe. Fatti più sicuri cambiavano il furore in allegrezza, e sparsi per le piazze, e nei ritrovi sì pubblici che privati, facevano grandi festeggiamenti. La sera, sforzato il teatro, vi commettevano remore, anche con oltraggi dei pacifici cittadini. Riscaldati dal vino e dalle cose fatte, passavano la notte, che era una delle estreme della loro antica e veneranda patria, fra l'allegrezza dei piaceri presenti, e la cupidigia dei tumulti avvenire.

Sorgeva ai ventidue l'alba, che doveva addurre a Genova un giorno funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e ad ogni momento, e ad ogni passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi compagni, facevano una turba assai numerosa. S'aggiungevano ai Genovesi non pochi Lombardi, venuti ancor essi all'alito delle rivoluzioni; nè mancavano Francesi, ancorchè fossero in minor numero. Inalberavano, perchè non mancasse ai fatti anche il segno della ribellione, sui cappelli chi la nappa Lombarda, e chi la Francese, ambedue tricolorite, questa col turchino, quella col verde. Gridavano, viva il popolo, viva la libertà. S'avviavano al palazzo di Faipoult, dove ammassati diventavano più terribili per impeto, e per numero. Il senato senza difesa pel caso improvviso, si era perduto d'animo, ed aspettava, invece di operare.

Il popolo fedele al principe non si muoveva, perchè sorpreso a quell'accidente insolito non aveva ancor ripreso gli spiriti, e forse non credeva, che i sollevati volessero trascorrere agli estremi. Andando loro il moto a seconda, ardivano cose maggiori, ed orrende. Traevano alle prigioni della mal paga, sentina infame d'indebitati e di falliti, e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati ed armati i prigionieri, se gli facevano compagni ai disegni loro. Cresceva il furore: quel che dava la massima dell'esser lecito tutto per acquistar la libertà, secondava la natura sempre precipitosa del male al peggio. Impadronitisi della darsena, davano la libertà ai condannati, e poste loro le armi in mano correvano con l'infame satellizio di ladri, e d'assassini a disfare uno dei più illustri governi del mondo: tempi atroci, in cui la misera Genova era insidiata occultamente dai potenti dominatori d'Italia, ed impugnata apertamente dai suoi cittadini misti ai mancatori di fede, ed ai galeotti! esempio da piangersi eternamente che si sia cercata la libertà non solo coi rei propositi, ma ancora con operatori scelerati.

Tornando alle opere Morandiane, fatto i sollevati concorso sulla piazza, e preso maggior animo da quei primi successi, bandivano con allegria, e romore incredibile, essere spenta l'aristocrazìa, Genova libera, i poveri esenti dai tributi, cassi gli antichi magistrati, creati i nuovi. Ma ancora temevano le porte in mano del governo, ed i popoli del Bisagno e della Polcevera deditissimi al nome del principe ed all'antica repubblica. Però credendo non esser compiuta l'opera, se allo aver acquistato l'interno non aggiungevano l'assicurarsi delle porte delle mura, spedivano, a ciò consigliati da Morando e da Doria, i più audaci ed i meglio armati, ad occupar l'arsenale, il ponte reale, la lanterna, le porte di San Tommaso e di San Benigno. Il che veniva loro agevolmente fatto, sorpresi essendo e pochi i difensori.

Intanto s'era il senato raccolto timoroso, e non pari a tanto estremo. Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati a Faipoult, perchè lo pregassero, s'interponesse a concordia, ed offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al Francese, per essergli aperta l'occasione, e condottosi al senato, con efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo, s'accomodassero al secolo, riformassero lo stato, verso gli ordini democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare. Stanziavano, poichè oggimai era tolto ogni modo di deliberare sanamente, si traessero quattro patrizi, i quali convenendo con quattro deputati del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la forma antica dovesse scendere alla democrazìa. S'eleggevano i patrizi, gli eletti del popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La massa dei novatori infuriata correva al ducale palazzo, e contro di lui piantava un cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben custodito. Risuonavano intanto le grida, viva la libertà, morte agli aristocrati; pareva ormai spenta l'antica repubblica. Trionfavano Vitaliani, Morando, Doria, nè pareva che vi fosse più rimedio per reprimere la ribellione.

Ma ciò, che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il faceva il popolo, parte per odio contro i novatori, parte per amore verso l'antico stato, parte per riverenza alla religione, perchè temevano lei aversi ad oltraggiare in Genova, come credevano esser stata oltraggiata in Francia. Si adunava, correndo da ogni lato, principalmente dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari e facchini massimamente, ed opponendo all'improvviso grida a grida, nappe a nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria, che già pareva certa. Facevano risuonare per tutta la città voci festose ad un tempo, e minacciose, gridando viva Maria, viva il principe, viva la religione, morte ai giacobini, che con questo nome chiamavano i novatori: rizzavano intanto sui cappelli per nappa una piccola immagine di Maria: per questo chiamava Buonaparte i preti genovesi vile e scelerata gente. Solo lodava l'arcivescovo. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che avevano a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierìe a cagione della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi dell'armerìa, nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno le armi, con ardore inestimabile si mettevano a correre contro la parte contraria. A loro si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla repubblica, e fra questi alcuni, che sapevano maneggiar le artiglierìe. Infelice città, che vedeva rinnovarsi nel suo grembo, le spente da lungo tempo, e sempre feroci fazioni. Si attaccava una battaglia asprissima, dove i padri combattevano contro i figliuoli, i fratelli contro i fratelli; ed il suono delle armi civili, già da lungo tempo insolito, si udiva da lungi nei più secreti recessi dei liguri Apennini. Traevano le artiglierìe furiosamente, si mescolava l'archibuserìa; da vicino si ammazzavano coi ferri, e quando non avevano ferro, con le mani. Maggiore era la pressa nei luoghi occupati dai libertini, perchè gli avversari, essendo nella possessione di essi posta tutta l'importanza del fatto, gli volevano a tutta forza sloggiare, massime alle porte, all'arsenale, ed al ponte reale, dove Filippo Doria combatteva valorosissimamente. Durava la battaglia parecchie ore: prevaleva finalmente la parte del senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue, dagli uomini fedeli a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi dai Morandiani, era cagione che precipitosamente abbandonassero l'impresa. La maggior parte fuggirono, o nelle private case si nascosero: i più animosi ristrettisi insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte reale, che si teneva ancora per loro mediante il valore di Filippo Doria. Gli seguitavano i vincitori, e s'accendeva a questo ponte una battaglia ostinatissima, combattendo dall'un de' lati la disperazione, dall'altro il furore, ed il numero ognor crescente delle genti. Erano finalmente oppressi i Morandiani con ferite, e morte di molti: morì Doria medesimo. Usavano i vincitori molta crudeltà, come nelle guerre civili. Il cadavere del Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini infieriti. Nacquero fra questo sanguinoso scompiglio fatti parte tremendi, parte ridicoli. Uno schiavo turco, che i novatori avevano liberato, quando si erano impadroniti della darsena, e condotto con loro, ed ammaestrato a gridar “viva il popolo”, incontratosi in una folla di carbonari, e non sapendo più oltre, diede tal grido, e ne fu malconcio orribilmente. Gli dissero, che bisognava gridar “viva Maria”, ed ei si mise a gridare, “viva Maria”; ma trovatosi di nuovo fra quel garbuglio in mezzo ad una truppa di novatori, questi, sentito il “viva Maria”, il maltrattarono per forma che per poco non l'amazzarono. Il pover uomo tutto pesto, nè sapendo connettere accidenti tanto strani, andava gridando, che i cristiani erano diventati matti, ed avea ragione. Perirono in mezzo a quella furia parecchi Francesi, parte mescolati coi sollevati, parte non mescolati, perchè avendo i Morandiani inalberato chi la nappa Francese, chi la Lombarda, di lontano simile alla Francese, erano tenuti complici, ed ammazzati dagli avversari tutti coloro che portavano le nappe tricolorite. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte ne prese occasione per disfar il governo. Del resto i Morandiani fecero da se, e messi su dai forestieri; i carbonari da se, e solo spinti da odio e da fedeltà: ma più da odio che da fedeltà: nè nel fatto loro il senato ebbe ingerenza alcuna, salvato piuttosto dal popolo, che da se. Si vegliava la notte fra il dolore dei morti, il terrore dei vivi: s'accendevano i lumi alle case da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari minacciavano. Il senato vincitore per opera altrui, di nuovo s'adunava per consultare sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al popolo, da cui era veduto, e salutato con grandissimi segni di allegrezza. Faipoult, veduto che la forza dei novatori era stata indarno, tornava sull'esortare, e più accesamente di prima insisteva sulla necessità delle riforme.

Si stava intanto per la signorìa in grandissima apprensione del come l'avrebbe sentita Buonaparte; perciocchè presso a lui stando il dominio di tutta Italia, a volontà sua vivevano, o morivano gli stati. Gli scriveva il doge in nome del senato lettere molto sommesse di rammarico, e di scusa pei Francesi uccisi. Arrivavano, portate da Lavallette, aiutante del generalissimo, risposte funestissime: Buonaparte non era uomo da non usar bene la occasione; non potere, scriveva, la repubblica Francese tollerare gli assassinj, e le vie di fatto di ogni sorte commesse contro i Francesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato da coloro, che avevano fatto ardere la Modesta, e maltrattare i cittadini Francesi; se fra ventiquattr'ore i carcerati non si liberassero, se coloro, che il popolo contro di loro avevano provocato, non si carcerassero, se la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver vissuto la Genovese aristocrazìa, e partirsi da Genova il ministro della repubblica: stare la vita dei senatori per quella dei Francesi in Genova, tutto lo stato per le proprietà loro. Con queste parole superbe ed oltraggiose parlava Buonaparte ad un governo venerabile per l'antichità, e capo di un popolo ingegnoso e forte. Ma i carbonari non avrebbero uccisi i Francesi, se i Morandiani, il capo dei quali era stato munito di patente Francese dal ministro di Francia, non avessero essi primieramente incominciato la ribellione e la uccisione degli uomini fedeli all'antico stato. Quel ritoccar poi della Modesta in questo fatto, era cosa del tutto insopportabile. Del resto, tale fu la forza della verità, che Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte, che il governo Genovese aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si era potuto, per evitar i disordini; che in facoltà sua non era di comandare a coloro, che, non che gli obbedissero, gli comandavano e li difendevano: che delle uccisioni dei Francesi i patriotti erano stati cagione per aver inalberato i tre colori; che senza questa insolenza democratica niun Francese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli avevano messo in pericolo i Francesi; ch'essi avevano fatto oltraggio alla repubblica Francese per aver usurpato i suoi colori nazionali; ch'essi finalmente avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato, infamemente per l'apertura delle carceri e delle galere. Da tutto questo si vede, che Genova era del tutto innocente del sangue Francese, e che la collera di Buonaparte, vera o finta che si fosse, per la morte dei Francesi, non contro di lei, ma contro quelli che avevano voluto fare la rivoluzione, avrebbe dovuto sfogarsi.

Quest'era la condizione di Genova. Il senato sbigottito, e servo della moltitudine, e diviso per le opinioni, perchè la parte Francese, che desiderava le riforme, aveva acquistato maggior favore per gli accidenti presenti. Inoltre ei si trovava tra il non poter inveire contro il popolo, perchè lo avea salvato, ed il dover inveire, perchè gli agenti del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la buona opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere ree, oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli aveva per sospetti. Taccio, che la casa di Morando spogliarono da capo in fondo; ma già incominciavano a spogliar le case, non solo degl'innocenti, ma ancora dei benemeriti; ogni cosa piena di terrore. Insisteva più acerbo che mai Faipoult, perchè si scarcerassero i Francesi, si arrestassero gli uccisori, si dichiarasse, non aver i Francesi avuto parte nella ribellione. Temendo poi che solo si punissero gl'infimi assenti, e si salvassero i capi presenti, richiedeva con imperio insolente dal senato, forse non ricordandosi, o fors'anche ricordandosi di avere scritto a Buonaparte, che era innocente, carcerasse, e ad arbitrio di Buonaparte serbasse Francesco Maria Spinola, Francesco Grimaldi, inquisitori di stato, e Niccolò Cataneo patrizio, per avere provocato, secondo le allegazioni di Lavallette, in ogni possibil modo gli atroci fatti contro i Francesi, e per essere stati autori principali delle risoluzioni prese negli ultimi tempi; sconce ambagi, che coloro, cui Faipoult aveva dichiarato un giorno prima innocenti, fossero dichiarati un giorno dopo rei. Certamente erano Spinola, Grimaldi e Cataneo rei, non d'alcuna morte di Francesi, ma bene dell'amare la patria loro, e del volerla preservare dalla tirannide forestiera. Infuriava Lavallette, e secondava Faipoult. Affermava, che i carbonari erano stati pagati, perchè uccidessero i Francesi, e che i Francesi per ordine espresso erano stati assassinati. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto è falsa, pruoverebbe, che gl'inquisitori di Genova fossero piuttosto pazzi, che feroci; perchè in tanta potenza della Francia in tutta Europa, principalmente in Italia, non si vede che cosa importasse la morte di cinque o sei Francesi isolati ed inermi, se non a far sobbissar Genova. Il versar sangue poi solo pel piacere di versarlo, s'imparava solamente alla scuola di Buonaparte. Orrore, dolore, terrore prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in prima, poi spinti dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei della parte Francese, a loro malgrado consentirono.

Dell'altra richiesta dei prigioni fu soddisfatto senza molto contrasto a Buonaparte; liberavansi i Francesi. Ma più cedeva Genova, e più Faipoult moltiplicava le domande: ottenuta la libertà dei compatriotti, addomandava quella dei Lombardi, non per altro venuti, che per sovvertire lo stato, e presi con le armi in mano mescolati coi ribelli. Consentiva per forza il senato: portarongli i compagni a trionfo per quella città, che testè avevano bruttato di sangue. Del disarmamento, faccenda tanto necessaria, quanto difficile, consentiva facilmente, e dava anche un premio di due lire a chi portasse le armi all'armerìa del pubblico. Restava, che a petizione di Faipoult pubblicamente dichiarasse, non essere stati i Francesi mescolati nella ribellione; al che non si lasciava piegare. Bene mandava fuori un manifesto esortatorio ai popoli, acciocchè avessero i Francesi in grado di amici, affermando, che la salute di Genova dall'amicizia di Francia si poteva solo, ed unicamente aspettare. La quale esortazione dispiacque oltre modo al popolo, che soltanto vedeva le trame, e non conosceva il modo di passarle per la politica.

Il fine principale a cui miravano tante arti, spaventi e minacce, non era punto nè la liberazione di pochi carcerati, nè l'incarcerazione di pochi magistrati, cose tutte nè stimate da Buonaparte d'importanza, nè usate se non per mezzi. Bensì ei voleva la mutazione, affinchè dalla nuova forma fossero esclusi gli amatori dell'indipendenza, e gli aderenti dell'Austria, ed inclusi i partigiani di Francia. Perlochè, vintesi dagli agenti del generalissimo le prime domande, insorgevano con maggior calore, richiedendo il senato, riducesse lo stato a forma più democratica, e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava. Rappresentavano, non altro modo esservi di quietare gli spiriti, se non quello di chiamare anche i popolari al dominio; considerassero, con quanta fatica e quanto sangue s'era poc'anzi l'antica forma potuta conservare, solo perchè non era più consentanea alle opinioni dei più; doversi dare sfogo a questi nuovi umori, se non si voleva che inondassero con rovina della repubblica; per questo solo atto acquisterebbe il senato nella liberata Italia somma autorità, e loderebbe Milano Genova, quel Milano, che allora la scherniva; con questo solo atto si renderebbe sicura la integrità della repubblica, che allora era dubbia; ciò desiderare la repubblica Francese, ciò volere Buonaparte; ciò fatto, sperimenterebbegli Genova così facili ed amichevoli, come allora gli trovava ritrosi ed avversi; divenuti essere odiosi i privilegi; il rinunziarvi, e l'accomunarsi esser da savio, perciocchè altro non era che perdere una chimera con acquistare una realtà; parecchie volte aver Genova mutato modo nel corso dei secoli, ora allargandolo al popolare, ora restrignendolo all'aristocratico secondo i tempi; che ora tornasse al popolare, essere non solo necessario, ma ancora non insolito: cedessero adunque, ed in quella sola risoluzione vedessero la salute della repubblica.

Queste esortazioni fortissime in se stesse, operavano gagliardamente. Pure trovavano non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano in quei reggimenti democratici non amore, nè gratitudine per la rinunziazione dei privilegi, ma scherni e persecuzione, nè cambiando era andare dall'aristocrazìa alla democrazìa, ma bensì dal dominio consueto al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio di Venezia, che già si vedeva passare, pel cambiamento fatto, non alla libertà ed alla concordia, ma prima alla servitù di una parte, poi alla servitù forestiera. Così si stava in pendente, e, come accade nei casi dubbj e pericolosi, si amava lo stare, solo perchè lo stare era consueto.

Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in quella occorrenza di suprema, anzi di unica importanza per la patria, comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per la Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si udiva eziandìo, che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che da Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a Serrurier, ove da per se non bastassero. Erasi appresentata alcuni giorni innanzi alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la istanza del senato, e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe lasciata entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio se ne tornasse verso Tolone; del che, qual debole e timoroso, fu poscia aspramente biasimato da Buonaparte. Sebbene però l'armata Francese si fosse ritirata, si sapeva, che andava volteggiandosi ora a vista, ed ora poco lontana dalla riviera di ponente, e poteva dar animo, e fare spalla facilmente ai novatori della riviera, ed a quei della metropoli. Nè fu l'esito diverso dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella Polcevera, alcune squadre di soldati Francesi sparsi nella riviera, e la prossimità di Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue; gli abitatori delle ville e delle montagne combattevano acremente i novatori. Ciò non ostante questi ultimi erano rimasti superiori in Savona, città principale in quelle piagge, e già in ella, e nel Finale, e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero, che chiamavano della libertà. Il senato minacciato da una setta potente nella sua sede medesima, attorniato da soldati forestieri, lacerato dalla guerra civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che sempre parlavano dello sdegno del direttorio, e di Buonaparte, non aveva più libertà di deliberare.

Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si riformerebbe lo stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legali a Buonaparte, con facoltà di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili Michel Agnolo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra, i due primi amatori di un governo popolare più largo, l'ultimo di uno più stretto, ma uomini tutti di singolare ingegno, ed anche di natura buona e forte, se fati migliori avessero conceduto, che la bontà e la fortezza potessero giovare alla patria. Partivano i deputati per Montebello, alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche, conseguito l'intento, alla volta medesima Faipoult e Lavallette, per informar il generale dell'adempimento delle commissioni loro, e per consigliarlo intorno alle persone, che per gl'interessi di Francia si convenisse introdurre nel nuovo reggimento.

Il doge, i governatori, ed i procuratori della repubblica avvertivano il pubblico, mandarsi legati a Buonaparte, perchè ai pericoli esterni, ed alle turbazioni interne di Genova provvedesse. Lodavano la lealtà di Faipoult, conforme, dicevano, a quella della gran nazione; sperare, con l'ajuto della divina provvidenza, poter facilmente compire un'opera conducente a conservazione della repubblica, ed a contentamento di tutti, e sulla quale a tempo debito si sarebbe chiamata a consiglio tutta la nazione: se ne vivessero intanto quieti, esortavano, e non corrompessero con moti inopportuni una occasione, dalla quale dipendevano il riposo, e la felicità di tutti.

Spedivano al tempo stesso il nobile Stefano Rivarola a Parigi, comandandogli, in una faccenda di tanto momento per la repubblica, s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare, che la forma antica, il meno che fate si potesse, si alterasse, e la integrità dei territorj in sicuro si ponesse.

Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo, che padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si doveva definire il destino di Genova. Combattevano a questo tempo in Buonaparte due diversi pensieri, la necessità delle cose, e la volontà di secondare, pe'suoi fini particolari, i desiderj dei principi. Il primo lo sforzava a far le rivoluzioni, perchè l'operare senza posa era per lui mezzo di non lasciar illanguidire la fama, che si era acquistata; il secondo lo spingeva a far sicure le monarchie, a rivoltar solo le repubbliche, e queste o spegnere, o lasciarle dare nella democrazìa meno che potesse. Questi consigli operando in lui efficacemente, erano cagione, che, cambiando gli antichi ordinamenti di Genova, non gli lasciasse scendere sino alla pura ed inquieta democrazìa, e che la somma delle cose confidasse, non a gente fanatica e spaventevole ai re, ma bensì a uomini temperati e savi, che o per necessità consentivano al cambiamento, o volevano la democrazìa mista e con leggi, non pura e senza leggi. Questi pensieri consuonavano con quelli dei legati, ed anche la volontà del vincitor Buonaparte non era contrastabile. Per la qual cosa non fu lungo il negoziare, e addì cinque giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra la repubblica di Francia, e quella di Genova, pei principali capitoli del quale si statuiva, che il governo rimettesse alla nazione, così richiedendo la felicità della medesima, il deposito della sovranità, che gli aveva confidato; ch'ei riconoscesse, la sovranità stare nell'universalità dei cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a due consigli rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta consiglieri; che la potestà esecutiva fosse investita in un senato di dodici, e a cui presiedesse un doge; il doge, ed i senatori dai consigli si eleggessero; ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali municipali, ogni distretto da ufficiali distrettuali; le potestà giudiziali e militari, e così pure le divisioni dei territorj secondo il modello da farsi da una congregazione a posta si ordinassero, con ciò però, che la religione cattolica salva ed intera si serbasse; i debiti del pubblico si guarentissero; il porto franco, ed il banco di San Giorgio si conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil fosse, si provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che intanto si creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il doge presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il dì quattordici di giugno. Statuisse delle indennità dei Francesi offesi nei giorni ventidue e ventitrè maggio; finalmente la repubblica Francese perdonasse a tutti, che l'avessero offesa nei giorni suddetti, e mantenesse l'integrità dei territorj della repubblica Genovese.

Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici di dolci parole, mostrando molta affezione verso la repubblica, e consigliando, fossero savj, fossero uniti, e non dubitassero della protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporaneo Giacomo Brignole, doge, Carlo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gian Carlo Serra, Francesco Cataneo, Giuseppe Assereto da Rapallo, Stefano Carega, Luca Gentile, Agostino Pareto, Luigi Corvetto, Francesco Maria Ruzza, Emanuele Balbi, Gian Battista Durand del porto Maurizio, capitano Ruffino di Ovada, Agostino Maglione, Gian Antonio Mongiardini, Francesco Pezzi, Bertuccioni, Gian Battista Rossi, Luigi Lupi, Gian Maria de Alberti, Bacigalupi, Marco Federici della Spezia.

Quando il generalissimo di Francia creava questa nuova signorìa, aveva in pensiero, non solamente di dare autorità a uomini prudenti, e lontani da voglie estreme, ma ancora mescolando uomini di diverse condizioni, di mostrare che la sovranità non cadeva più in pochi, ma bensì in tutti, cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molti umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili, e come se le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente dalla moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato aristocrazìa: gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima, perchè pretendeva parole di amore di patria.

Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza, e dal desiderio di far certe dimostrazioni, che credevano libertà, ed erano vanità in se, scherno ad una parte dei loro concittadini, imitazione servile dei forestieri, segni di tirannide, semi di future discordie. Il popolo stesso, solito a seguitare così il bene come il male ad un posto segnale, se prima traeva per curiosità, dopo, e visto il giubbilar dei libertini, incominciava a trarre per allegrezza, ed era uno spettacolo mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia, che ancora non faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. “Viva la libertà, muoja l'aristocrazìa, viva Francia, viva Buonaparte”, gridavano le Genovesi voci: gli alberi della libertà non solo sulle piazze e principali contrade, ma ancora sulle piazzuole e nei vicoli a tutta fretta si piantavano; i balli, canti, ed i discorsi che si facevano loro intorno, erano eccessivi. A questo, alcune donne, e non delle infime, certi berrettini di libertà, che così gli chiamavano, che avevano tessuti nascostamente, di tre colori nei giorni precedenti, distribuivano in pubblico, ed i libertini con molto romore se gli appiccavano sul petto. Le quali cose se abbiano mosso a riso Buonaparte tanto astuto conoscitore e tanto cupo sprezzatore dell'umana natura, non è da domandare: godeva in se del compito inganno. Morando era fuori di se dalla contentezza, sebbene non del tutto si soddisfacesse dei membri del governo temporaneo, parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani predicava, e per gridar forte che facesse il popolo, non gli pareva mai, che gridasse abbastanza. I nobili o si nascondevano nelle più segrete case, o fuggivano dalla città, e ne avevano ben anche il perchè; che ad un primo trarre, il popolo mosso, e stimolato dai novatori più vivi, gli avrebbe manomessi. In mezzo a tanto fracasso poteva nascer bene, come male, ma più facilmente male che bene. I patriotti scrivevano nel gergo gonfio, servile, e schifoso di quei tempi, che «superbo dei riacquistati diritti scorreva per le vie il genio della Liguria, e scrivea sulla fronte ai liberi cittadini la bella immagine di un fortunato avvenire». Ed ancora: «Oh, sublime maestoso spettacolo d'un popolo intero, che dopo aver trascorso dei secoli di servitù, curvo, ed umiliato sotto un giogo di ferro, si leva subitamente ritto sui piedi, e scosso l'infame peso delle irrugginite catene ne getta i rotti avanzi in faccia ai detronizzati tiranni!» Così parlavano: Buonaparte ne faceva le risa a Montebello, e gli chiamava pazzi da legare. Gian Carlo Serra, e suo fratello Gerolamo, che non erano uomini da riscaldarsi troppo, ed avevano l'animo piuttosto da storico che da poeta, s'erano lasciati ancor essi trasportare all'entusiasmo, e scrivevano cose di fuoco a Buonaparte.

La servile imitazione verso le tragicomedie della rivoluzione Francese dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale palazzo, i patriotti la guidavano, con animo di levarne il libro d'oro, infame catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica aristocrazìa. Si custodiva il libro assai gelosamente in un luogo appartato del palazzo d'onde non si estraeva se non quando il nome di qualche nuova famiglia, chiamata a nobiltà, vi si scriveva. La plebe, rotte a forza le porte dell'archivio, se lo portava con incredibili scede e giullerìe sulla piazza dell'acquaverde, e quivi acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida, e le risa, e gli scherni furono molti. Non pochi, perchè non mancassero neanche le puerilità, ferivano a punta di bajonetta o di sciabola l'odiato libro, e con questo si credevano di aver morto l'aristocrazìa: i circostanti applaudivano. Insomma il popolo mosso, se non fa tragedie, vuol comedie. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del doge, e l'urna, dove s'imborsavano i nomi dei senatori per gli squittinj. Vi si arrosero altri stemmi gentilizj raccolti a furia di popolo da diversi luoghi; cose tutte, che si facevano piuttosto per ingiuria di persone, che per amore di libertà: poi piantavano sulle ceneri delle reliquie aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi, e le musiche, e i discorsi andavano al colmo.

Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, anche i carbonari vi si mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere, ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle sue virtù, e de' suoi meriti verso la patria i Genovesi antichi avevano eretta nella corte del palazzo ducale; e se chi stava dentro a guardia fosse stato men pronto a serrare le porte contro l'invasata moltitudine, avrebbe rotto anche le altre statue del Doria, che si vedevano nella sala del gran consiglio. Che cosa poi pretendessero le ingiurie fatte ai morti illustri, ed il disprezzo di servigi eminenti fatti alla patria, ciascuno potrà da per se stesso giudicare, ed erano novatori noti solamente per parole ed incapricciti di certi governi geometrici non ancora pruovati, o pruovati soltanto per esilj, per persecuzioni, e per morti crudeli, che un Andrea Doria oltraggiavano.

Dalle ingiurie si trapassava ad insolenze criminose; perchè sospettando, che fossero ancora sostenuti nelle carceri alcuni fra coloro, che erano stati arrestati nei giorni ventidue e ventitrè maggio, vi correvano a folla, ed avendole sforzate, davano comodità di fuggirsi a parecchi malfattori, contaminando in questo modo il nuovo governo con lo stesso fatto, col quale avevano già assaltato l'antico; tristi principj di libertà, e di stato civile.

Tal era la condizione di Genova, che il governo, composto la maggior parte di uomini buoni e savj, dipendeva da Buonaparte, anche serviva alle opinioni dei tempi; dal che nasceva, che voleva ordinare, non la libertà che si convenisse a Genova, ma quella che era foggiata a modo di Francia, come se nissun'altra forma buona di vivere libero potesse essere, se non quella dei forestieri. Era oltre a questo, una parte assai viva, che chiamavano dei patriotti, la quale non contenta ad un vivere moderato, avrebbe voluto, piuttosto, credo per imitazione servile, che per malvagità di natura, ma certamente per pensieri immoderati, non la forma ordinata in Francia col direttorio, ma la precedente. Erano costoro intoppo insuperabile ad ogni forma buona, siccome quelli, che ogni reggimento regolare libero o non libero, ma più se libero, laceravano con gl'improperj insidiavano con le congiure, assaltavano con le sollevazioni. Mescolavasi finalmente a questi umori la parte aristocratica vinta, la quale, impotente a far moto d'importanza a cagione della forza Francese presente, e del nome di Buonaparte, teneva non pertanto con le molte sue dipendenze gli animi di non pochi sospesi, ed avversi allo stato nuovo. Si accostavano a questa parte i più fra le genti di chiesa, che argomentando, da quello che si era fatto in Francia, a quello che si farebbe in Genova, o della religione, o dell'autorità, o dei beni loro temevano.

Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori un manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata verso la repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei privilegi, commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a stabilimento della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi, e ad affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e concordi; allegavano, sperare, potere con l'ajuto divino rendere più felici le condizioni del popolo, e perchè il popolo potesse giudicare per se del buon animo loro, promettevano di palesare al pubblico le laboriose loro occupazioni. Venivano a congratularsi, ed a parlare encomj dell'acquistata libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza si diffondeva; la fratellanza e la concordia fra le varie parti della dizione Genovese parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il sentire, che i feudi imperiali avevano fatto dedizione di se medesimi a Genova, e mandato deputati. Poi per esser odioso quel nome di feudi, gli chiamarono Monti Liguri. Erano volentieri accettati nella società Genovese, lodati, e ringraziati i deputati.

Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto geloso, perchè i municipj delle metropoli, ad esempio di quello di Parigi, volevano far a gara, e contrastare di potenza coi governi. I capi dell'esercito repubblicano, talvolta per capriccio, talvolta per altri fini più reconditi, soffiavano su di queste faville: semi tutti di discordia, e di anarchìa. Prendevano i municipali il magistrato il dì primo di luglio con non mediocre apparato, e non mancavano i soliti discorsi. Un prete Cuneo, che procedeva con molto calore in queste faccende, ed era stato mescolato nei moti precedenti, diceva loro: «Oh, Bruto, mio caro Bruto, prestami, io te ne prego, prestami per un momento il tuo pugnale grondante ancora del sangue del tiranno, onde scriver possa sulle pareti di questa sala, sotto gli occhi del governo provvisorio, i nomi santi di libertà, e d'uguaglianza». Poscia il prete lodava i municipali. E' bisognerà bene che i leggitori d'oggidì mi comportino la libertà di dire tutto quello, che si disse, perchè l'intento mio è di scrivere storie, non tacere, nè parlare per adulazione.

L'affare più importante, che si esaminava nelle consulte Genovesi, era quello di formar il modello della nuova constituzione. Perlocchè, conformandosi ai patti di Montebello, creava il governo la congregazione, che questo modello dovesse ordinare. A questo fine si chiamavano e dalla città, e dalla riviera, e d'oltremonti uomini di riputato valore. Gottardo Solari, Benedetto Solari vescovo di Noli, Gian Carlo Serra, Tommaso Langlade, Giuseppe Cavagnaro, Sebastiano Biaggini, abbate Niccolò Mangini, Leonardo Benza, abbate Giuseppe Levreri, Gian Battista Rebecco, Filippo Busseti. S'adunavano bene spesso, ma servilmente procedendo modellavano alla Francese, e secondo i comandamenti di Buonaparte. Serra s'intendeva col generalissimo, ed aveva più dominio degli altri. N'era imputato dai patriotti, che incominciavano a mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo aristocrata. Pure la sentiva bene e saviamente. Voleva, che non si offendesse la religione, che si allargasse il senato, come troppo poco numeroso, che si restringessero i consigli, come troppo numerosi; che non si perseguitasse nissuno nè in fatti, nè in parole per opinioni antiche, che gli esagerati si frenassero; che nissun ritrovo pubblico e politico si tollerasse, salvo il caso, in cui si volesse scuoter gli animi a congiungere in un sol corpo tutte le parti d'Italia; al quale fatto come cosa degna del suo gran nome esortava il generalissimo. Ma non se ne soddisfaceva Buonaparte, nemico, come il direttorio, dell'unione Italica. Gli piacevano gli altri pensieri di Serra, e come se fossero suoi, ne scriveva lettere al governo Genovese. Della qual cosa molto il lodava Serra stesso, desiderosissimo di scrivere la storia di Buonaparte; alla quale opera non gli mancava già l'ingegno, che anzi l'aveva molto capace, ma bene la libertà dell'animo; imperciocchè quella gloria Buonapartiana gliel'aveva offuscato.

Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva principio dalla religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche, ma soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una cosa coll'altra, i cherici non che gli disingannassero, gli mantenevano nel falso concetto. Prevalevano i desiderj delle riforme Leopoldine, a ciò stimolando il Solari, vescovo di Noli, personaggio d'autorità pel grado, per la dottrina, pei costumi, e molto ardente nelle sentenze Pistojesi. Comandava il governo, che non fosse lecito ai vescovi di promuovere, senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che già suddiaconi, o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato, od il pretato, e parimente senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache; ordinamenti certamente molto prudenti, ma presi in mala parte dai più, perchè la setta contraria al nuovo stato se ne prevaleva. Poi decretava, che ogni cherico o regolare, o secolare che si fosse, se forestiero, dovesse fra certo termine, e con certe condizioni uscire dai territorj. Parevano questi stanziamenti molto insoliti in tanto e sì lungo dominio delle potestà ecclesiastiche; ma bene più insolito e più strano appariva quell'altro precetto, che fu pensiero di Serra, col quale si ordinava, che uomini deputati dal governo a tempo, e dopo i divini ufficj, predicassero la democrazia alle genti. Fu questo un gran tentativo; non succedeva bene, perchè in molti luoghi i deputati non fecero frutto, in altri furono scherniti, in alcuni scacciati. Si sollevarono universalmente gli animi religiosi contro questa novità; i nemici dello stato crescevano: novello argomento, che nelle umane faccende chi vuol far troppo, fa poco.

Questo quanto alla religione: si moltiplicavano per altre ragioni gli sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si lasciavano mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse a Parigi, come ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e si richiamasse Stefano Rivarola, si richiamasse ancora Cristoforo Spinola, ministro a Londra: se non obbedissero, i beni loro fossero posti al fisco; intanto si sequestrassero. Il motivo fu, che Rivarola e Spinola, in ciò gittando grida incredibili i patriotti, erano stimati agenti, e spie della spenta aristocrazìa; e di più si opponeva loro lo aver fatto stampare per mezzo di Lacretelle in un giornale di Parigi acerbe invettive contro i fatti accaduti in Genova nel giorno ventidue di maggio. L'atto rigoroso offendeva i nobili, vieppiù gli animi s'innasprivano. Questo era riprensibile, ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui si ordinava, che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da Vincenzo Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare quattro milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a restituire la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero i beni loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le principali famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i Fieschi, i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i Catanei, personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima. Decreto fu questo veramente incomportabile, perchè chi aveva fatto, ed appruovato quella convenzione (perciocchè anche il minor consiglio l'aveva ratificata) aveva facoltà di farla, e quel far guardar la legge indietro è cosa contro ogni giustizia, e di pessimo esempio. Tant'è, che sebbene il decreto sia stato preso tardi, si vociferava nel pubblico, che si volesse prendere, e gli scapestrati democrati menavano un romore senza fine, perchè si prendesse. Ciò faceva maggiormente inviperire gli animi degli scontenti, i quali vedendo di non trovare dopo la mutazione alcun riposo nè per le sostanze, nè per le persone, pensavano a vendicarsi, non che si consigliassero di far congiure, e moti popolari, perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò tentare, ma spargevano ad arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano le prime occasioni per insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero era, che Buonaparte aveva domandato parecchi milioni pel vivere delle sue genti: questo anzi era stato uno dei principali motivi della mutazione. Il governo poi, trovandosi ancor debole in quei principj, e non avendo altre radici che i discorsi vani dei democrati, ed il patrocinio forestiero, andava lento alle tasse, e perciò aveva trovato il rimedio di quell'iniquo balzello. Genova per tal modo aveva pagato per comperar quiete quattro milioni, ed aveva trovato sovvertimento: poi si era fatto restituire da uomini privati i quattro milioni per comperar di nuovo quiete, poichè i primi a nulla erano valsi. Qual quiete poi si sia comperata questa seconda volta, diranlo a suo luogo le presenti storie.

A tutto questo si aggiungevano le rapine dei Barbareschi tanto più moleste, quanto più si aveva avuto la speranza data espressamente, che cambiato il reggimento, la Francia avrebbe tutelato dagli assalti dei Barbari le navigazioni dei Genovesi. A questo modo, sclamavano, la nuova repubblica vive? A questo modo preservano i Francesi Genova? Gonfie parole, ed esili fatti son dunque tutto, che si è acquistato? Francesi dentro, Algerini fuori! a che pro servire a Faipoult, a che pro servire a Buonaparte, se l'Africano ci assassina? Questi discorsi, che toccavano l'intimo delle sostanze Genovesi a cagione dell'interruzione del commercio, accrescevano ogni ora più la mala contentezza, e già, come suol avvenire, tornando indietro col pensiero, desideravano l'antico stato.

Motivo potente di mal umore era altresì quello, che due generali Francesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere, e ad ordinare i soldati, segno certo, essere perita la independenza. Ciò significava inoltre, che Buonaparte o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava inabili alle cose militari; dal che nasceva, che chi pensava altamente, si teneva mal soddisfatto. I nemici degli ordini presenti se ne prevalevano, mostrando la patria perduta, e serva. Dava maggior forza alle insinuazioni loro l'essersi udito, che si voleva, si smantellassero le fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'independenza verso Francia. Vedevano anche levarsi i cannoni dalle porte della metropoli, il che interpretavano come di voglia di aprir l'adito più facile, e più sicuro ai forestieri per invadere il cuore stesso della repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi dei forestieri. I nobili, i preti, e gli aderenti loro, che non erano pochi, fomentavano questi mali umori. Nel che tanto più alla sicura si adoperavano, quanto più si erano dati a credere, avere appoggio nel grembo stesso dell'autorità suprema; la qual opinione dall'un de' lati dava loro maggior ardire, dall'altro aumentava la debolezza di chi reggeva. Erano allora i reggitori divisi in due sette, dell'una delle quali compariva capo Serra, dell'altra Corvetto, Ruzza, e Carbonara. Amava Serra un reggimento più stretto, e pendente all'aristocrazìa, voleva, che meglio si rispettassero i preti, faceva professione di amatore ardente dell'indipendenza del paese, forse, come affermava la setta contraria, per ambizione, si mostrava avverso ai patriotti invasati di pensieri estremi, Faipoult nè corteggiava, nè amava, nè lodava, voleva tirar a se tutte le affezioni aristocratiche, ed aggiungervi quelle di una moderata libertà, sopra tutto amava Genova più che la Francia. Gli avversarj s'intendevano meglio con Faipoult, alcuni per ambizione, preferendo il dominare con l'appoggio dei forestieri alla libertà della patria, altri a buon fine credendo, che, poichè i cieli avevano destinato che i Francesi divenissero padroni di Genova, miglior partito era per arrivar a bene il vezzeggiargli, che l'aspreggiarli, perchè, volere o non volere, i Francesi dominavano. Ma la maggior dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva odiosa, dall'altro la rendeva dipendente più che non sarebbe stato necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi il chiamavano tiranno, e nuovo duca d'Orleans. Questi semi pestiferi erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione, e si apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli di Bisagno, e di Polcevera. Era la cagione, od il pretesto la nuova constituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come si era data intenzione, si doveva accettare il dì quattordici settembre. Per far posar gli animi, annunziavano, essere prorogata l'accettazione, e si torrebbe quanto potesse offender la coscienza dei fedeli.

In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte per consultar con lui degli articoli, che avevano fatto adombrare i popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono, che s'arrestano. Dava loro l'ultima pinta l'essersi fatti arrestare tanto in città, quanto nel contado alcuni nobili, che si credevano pericolosi, cinque Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini per nome e per ricchezze di molta dipendenza. Incominciavano il dì quattro settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane a martello, i curati esortavano, e guidavano i sollevati, si facevano adunanze nelle ville dei nobili; poi crescendo il numero ed il furore, armati di armi diverse, ma con animi concordi fatta una gran massa, s'incamminavano infuriati verso la capitale. L'accidente portava con se molto pericolo, perchè si temeva, che avesse corrispondenza viva dentro le mura; non era tempo da starsi. Duphot con una squadra di Francesi e di democrati andava loro all'incontro: il principal nervo consisteva nelle artiglierìe, di cui i sollevati mancavano, ed esse compensavano il minor numero. Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Vi si perdevano di molte vite da ambe le parti, ma più da quella dei villici, perchè in loro era minore l'arte delle battaglie, e la scaglia gli straziava. Pure resistevano lungo tempo con molta rabbia; un frate Pezzuolo, ed un Marcantonio da Sori, giovane animosissimo, gli guidavano, ed incoraggivano. Quest'era guerra civile, e della peggiore spezie, perchè i forestieri vi si mescolavano. Prevalevano finalmente l'arte e la disciplina contro il numero ed il furore: andavano in fuga i sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori, sanguinosi, e non senza preda.

Non era ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, che un nuovo romore di guerra già si faceva sentire dalla Polcevera. Gli abitatori di questa valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani, e dalle instigazioni di alcuni ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero, e correvano contro la capitale. Poi a loro si accostavano non pochi fra coloro, che avanzati alle stragi di Bisagno, passando per luoghi montuosi, si erano condotti in Polcevera per ajutare quel secondo moto, che credevano aver a riuscire a miglior fine che il loro. Il pericolo appariva grave. Già la moltitudine armata, assai più numerosa di quella dei Bisagnani, accostatasi, s'impadroniva per una battaglia di mano del forte della Sperona, che posto in sito eminente signoreggia Genova, ed è come un freno parato contro di lei. Poi più avanti procedendo, occupava tutto il secondo cinto delle mura, restando solo esente la batterìa di San Benigno. Una prima squadra di soldati Liguri e Francesi mandata in quel primo tumulto contro di loro, vedutogli bene armati, e bene fortificati, se ne rimaneva, e tornavasene. Il timore assaliva chi reggeva, pareva vicina la dedizione; perchè anche dentro, essendovi poco presidio, principiavano a scoprirsi i segni della sedizione. Mandava il governo quattro legati ad intendere che cosa volessero, ed a trattar con loro di un accordo. Vi si arrogevano Gerolamo Durazzo, e Luigi Corvetto, personaggi di grande autorità presso i Polceveresi. L'arcivescovo eziandio ad esortazione dei capi dello stato, pubblicava una lettera pastorale, con la quale spiegava ai popoli, che a niun modo si aveva intenzione di offendere la religione o di pregiudicare ai preti. Furono i legati coi deputati eletti dai sollevati, e concludevano un accordo in tre capitoli, per cui si statuiva, che sarebbe la religione cattolica, apostolica e romana conservata, che si serberebbero intatti i beni della chiesa, che si perdonerebbe ogni offesa ai sollevati, che si rimetterebbero in libertà i carcerati: con questo promettevano i Polceverini di tornarsene quietamente alle case loro. Presa questa speranza, cessava il governo ogni apparato di guerra. Ma ecco che dai più ardenti Polceverini si spargeva, che i giacobini erano gente infida, e che solo avevano promesso il perdono per meglio far le vendette. Novellamente s'inferocivano e prese impetuosamente le armi, assaltavano il posto principalissimo di San Benigno. In questo punto Duphot, vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato, aveva avuto tempo di raccorre, e di ordinare tutti i suoi, ajutato fortemente dal colonnello Seras, soldato molto animoso, traversava la città, e correva contro la turba degl'insorti. Seguitava una feroce mischia, come di guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e Seras, vecchi soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani, nuovi soldati; durava quattr'ore la battaglia; furono non pochi i morti, non pochi i feriti: superava infine la veterana disciplina: i paesani cacciati dai posti, voltavano le spalle, e seguitati con molta pressa dai repubblicani perdevano gran gente. Cinquecento, essendo presi, empievano le carceri di Genova.

La fama della doppia vittoria di Albaro, e di San Benigno, e le forze mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari, ed in altre terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali, o Monti Liguri, che gli vogliam nominare. Ogni cosa si ricomponeva in quiete, ma per terrore, non per amore; ma truce e minacciosa, non lieta e consenziente.

Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a giudicare i ribelli. Sette od otto, ma di oscuro nome, dannati a morte, tignevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non pochi erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad altri: Faipoult avvertiva Buonaparte, che si dannavano soltanto gl'ignobili; osservava specialmente, che per decreto dei reggitori era stato sospeso avanti il tribunale militare il processo di un Brignole, figliuolo dell'ultimo doge, sospetto di qualche accordo coi sollevati. Qualificava Serra per sospetto di mali pensieri, e di patrocinio verso i rei di non riconoscere i meriti di Duphot, e d'impedire i fornimenti dei soldati. Accennava in somma, ch'ei fosse avverso in ogni cosa ai Francesi, e persuasore, che si andasse grettamente nel pagar le liste di Duphot, e de' suoi ufficiali per la spedizione contro i ribelli. Chiamavalo uomo pericoloso, dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in pericolo, finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo col fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi fatti protettori di una parte turbatrice, e pervertitrice di ogni buon ordine politico, e d'impedire che la quiete tornasse alla travagliata Genova. Già le mannaje dei sicarj, dicevano, stare sul collo degli uomini dabbene; già volere Faipoult vietare, che il consiglio militare termini al più presto i giudizj, acciocchè quell'apparato di terrore lungo tempo ancora sovrasti così ai buoni, come ai cattivi, e niuno possa vivere sicuro dopo le calamità recenti; volere Faipoult, che si tenessero i nobili in carcere, anche innocenti; niun altro mezzo di salute e di riposo esservi, che quello di mandar via Duphot, e di contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza ciò nascerebbero necessariamente la debolezza dello stato, l'anarchia, i disordini, il sangue. Per tale guisa gli animi s'invelenivano; ed era vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo, che annullasse il decreto, pel quale aveva ordinato, che la commissione militare terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel castello di Milano. Il qual ultimo desiderio a me pare, che sappia molto della natura degl'inquisitori tanto lacerati di Venezia; ma il biasimare gli altri dei propri difetti fu vizio dell'età.

In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte, a cui le turbazioni Genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il quale non curandosi nè di governo, nè di Faipoult, nè di preti, nè di frati, nè di nobili, nè di plebei, nè di patriotti, nè di aristocrati, e solo alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città, e se ne faceva padrone.

Intanto i legati accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti della constituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento, e lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani, uno degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in quindici spartimenti, che chiamavano del Centro, di Bisagno, del Golfo Tigulio, della Cerusa, del Lemmo, dei Monti Liguri orientali, dei Monti Liguri occidentali, delle Palme, dell'Entella, della Vara, del Letimbro, della Maremola, della Spezia, del Capo Verde, e della Polcevera; dei magistrati giudiziali, distrettuali, e municipali si statuisse a modo di Francia. Era questo un modello tutto Francese. Nè occorreva, stantechè solo il copiare era permesso, che il signor di Talleyrand, ministro degli affari esteri in Francia, prendesse cura, come ne aveva il pensiero di mandare ad insegnar in Italia l'arte dello stato, uomini politici di grido, e fra gli altri un Beniamino Constant, giovine per verità di molto ingegno, ma che credeva, la libertà non poter consistere, che nelle forme di quei tempi. A tanto di umiltà era condotta l'Italia dal superbo vincitore, che voleva mandare ad ammaestrarla giovani scrittori, che privi d'esperienza, volevano applicare certi modelli astratti di fogge politiche ad ogni sorte di nazioni, non considerando le diversità che sorgono dalla diversità dell'indole, degli usi, dei costumi, delle opinioni, e delle abitudini. In somma la Genovese constituzione fu data, non presa. Pure fra le armi serrate, ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizj popolari. L'appruovavano centomila voti favorevoli, diciassettemila contrarj. Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrìe assai. Nominavansi i due consigli, e dai consigli il direttorio. Eleggevansi a questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò Littardi, Ambrogio Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente. Era Corvetto, siccome Italiano, ingegnoso, e giusto estimatore delle cose del mondo; il che constituisce la prudenza, fra tutte le virtù più necessaria in chi è chiamato a governar gli uomini. Era in lui la natura dolcissima, ma che però non ricusava quanto la sicurezza dello stato richiedesse. Continente di quel del pubblico, benefico del suo verso gli amici, era Corvetto uomo piuttosto da essere ricerco nei tempi buoni, che degno di servire nei tempi tristi. Sul principiare dell'anno seguente prendevano il magistrato tutti i nuovi ordini, e s'instituiva la constituzione. Poi partitosi Faipoult, gli veniva sostituito un Sottin. A questo modo periva l'antica repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa, ed impaziente, non molle, non umile, non lacrimosa, come la Veneziana. Era certamente il fato ineluttabile; ma bene è eternamente da piangersi, che la perdita dell'indipendenza Italiana sia stata aiutata dalle mani d'uomini Italiani. So, che alcuni dicono, che coloro i quali in queste faccende si mescolarono, non solo in Genova, ma ancora in tutte le altre parti d'Italia, rattemperavano con le speranze di un felice avvenire la tristizia dei fatti presenti; il che è vero, nè io sarò per dannargli mai; anzi molti fra di loro, i quali puri furono ed innocenti, pregio e lodo sommamente, e predico, come uomini virtuosissimi e coraggiosissimi, per non aver disperato della patria in casi tanto luttuosi, e per aver dato alla salute di lei, per quanta salute potesse essere in sì lontane e deboli speranze, il riposo loro, le fatiche dei migliori anni, e quel che più importa, perfino l'illibata fama, corrotta in mezzo a tanto avviluppamento da schifose calunnie; ma so ancora che non pochi camminavano con troppo affetto verso i forestieri, e che invece di obbedir loro con sopportevole dignità, gli ajutavano con eccessiva condiscendenza.

Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca, e con pochi soldati; si conservava il Piemonte, perchè povero, e con soldati. Essendo ancora le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia l'avere in suo favore i soldati del re, se di nuovo si dovesse tornare sull' armi. Poi, quantunque il direttorio molto l'avesse in odio, Buonaparte se ne compiaceva, invaghito per indole propria dei governi assoluti, ed allettato dalle adulazioni dei nobili Piemontesi, i quali avevano bene penetrato la sua natura, e sapevano in qual modo si potesse, non che mansuefare, inlacciare quel soldato indomito. Pure non era possibile, che le massime che correvano, i rivoltamenti della vicina Genova, i giornali, le predicazioni, le trame di Milano non partorissero in Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello stato.

Quando prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il Piemonte, i ministri del re, ed il re medesimo, anteponendo la salute dello stato all'inclinazione propria posero ogni cura nel nodrire l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzarono tutti i loro pensieri. Per questo il duca d'Aosta tratteneva con lettere amichevoli Buonaparte: per questo si mandavano San Marsano, e Bossi per tenerlo bene edificato a Milano. Per questo medesimo nell'atto stesso della tregua di Cherasco, e per averla sborsava il re più di trecento mila lire. Nè furono vane le pratiche, poichè sussisteva il re, mentre i vicini rovinavano. La principale difficoltà a superarsi in questa bisogna, perchè quel, che si era conseguito per un tempo, divenisse durabile, in questo consisteva, che si persuadesse al direttorio, che il re per interesse proprio doveva star aderente alla Francia, e che la Francia anche per interesse proprio doveva avere per aderente il re.

A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva, come già abbiam narrato, Carlo Emanuele mandato suo ambasciadore a Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente entrar di sotto aveva fra le mani molto denaro, o mandato a Parigi dalla zecca, o voltato a quella città dai banchieri più ricchi di Torino. Delle quali cose molto sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura. Poi facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti delle cose Italiane, insisteva e dimostrava che, a volere che la potenza e l'autorità dell'Austria fossero per sempre allontanate dall'Italia, desiderio principale della Francia, era necessario contentare il re di Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia e Nizza, farlo insomma potente e grande; ma perchè non fosse scemata autorità alle sue parole, come d'uomo che parlasse per se, aveva operato, che Francesi dei primi coi quali si era accordato, queste medesime cose per bocca, e come per motivo proprio rappresentassero. Per tal modo si proponeva al direttorio, fra gli altri, per mossa del Balbo, ma per mezzo di Francesi che avevano parte nello stato, un ordinamento per l'Italia superiore, pel quale l'Austria sarebbe stata o esclusa perpetuamente dall'Italia, o frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace. Cedessero Vintimiglia, la Bordighera, e San Remo col marchesato di Dolceacqua in potestà della Francia; si avesse il re Finale, Savona, Parma, e Piacenza; acquistasse la repubblica Ligure Carosio, i feudi imperiali, Pontremoli e Fivizzano, Pietrasanta, Fordinovo, Massa e Carrara; dessesi alla repubblica Cisalpina il ducato di Guastalla, al duca di Parma la Toscana; finalmente il gran duca di Toscana si compensasse con un elettorato ecclesiastico in Germania. A questo modo, si discorreva, il dipartimento dell'Alpi Marittime acquisterebbe grandezza, e popolazione proporzionate a quelle degli altri dipartimenti, e limiti più naturali, e frontiera assai più facile ad essere difesa: Savona essere il porto naturale del Piemonte; male aver pensato, e contro natura i Genovesi nell'avere colmato questo porto; con ciò aver essi fatto pregiudizio al commercio di tutte le nazioni, massimamente a quel della Francia: se quel porto si concedesse al Piemonte, potrebbero facilmente il riso, le canape, e principalmente le sete Piemontesi arrivar per mare a Marsiglia, e quinci pel Rodano con pochissima spesa a Lione, e si schiverebbero in tal modo i trasporti sempre costosi, spesso pericolosi per le Alpi: che se ai casi di guerra si pensasse, potere facilmente Savona se fosse in mano di uno stato tanto debole, quanto Genova era veramente, divenir preda dell'Austria ad un primo suo impeto nella Cisalpina; che se pel contrario al re fosse data, si potrebbe da lui difendere, e perciò diventerebbe l'antemurale dell'Alpi Marittime con compire la frontiera militare di Cuneo. Mondovì e Ceva, che nulla poteva contro la Francia per essere quelle fortezze, una volta inespugnabili, ora smantellate, ma molto potrebbe per la Francia contro l'Austria, se questa un dì ritornasse tanto potente in Italia, che facesse suo servo il re di Sardegna, caso, che la Francia con tutti i suoi pensieri, e con tutte le sue forze doveva impedire. In questa guisa, compensato il re delle perdite fatte, quieterebbe l'animo, e tornato potente come prima, avrebbe un esercito in pace di quarantamila soldati, in guerra di sessantamila, con questa differenza, che se innanzi dipendeva dall'Austria, dopo dipenderebbe dalla Francia, e suo necessario naturale alleato sarebbe, per essere i suoi stati tutti aperti, ed indifesi verso di lei. Da un altro lato essere la repubblica Cisalpina un composto di elementi eterogenei, e divisa in parti: la parte Austriaca esservi più numerosa, e più forte di quella dei patriotti; avere la Cisalpina al suo governo uomini nuovi e senza energia; senz'armi buone, senza spirito militare, senza concordia, troppo più debole impedimento, che si converrebbe, essere contro i pensieri ambiziosi dell'Austria; pentirebbesi la Francia dello aver indebolito il Piemonte, vera e naturale difesa, vero cinto esteriore della Francia contro la potenza dell'Austria. Di ciò far fede Buonaparte medesimo, continuamente scrivendo che la repubblica Cisalpina non sarebbe in grado di resistere ad un solo reggimento di cavallerìa Piemontese, e che il re con un solo de' suoi battaglioni, ed uno de' suoi squadroni era più forte di tutta la Cisalpina unita.

Nè apparire che cosa importasse l'aggrandire la Cisalpina, perciocchè più s'accrescono i corpi eterogenei, e maggiori diventano le probabilità della dissoluzione. Ciò risguardare principalmente gli stati di Parma, i quali, se si unissero alla Cisalpina, siccome all'unione molto ripugnanti, altro effetto non partorirebbe che quello di avvantaggiare le sorti dell'Austria, e preparare la servitù d'Italia sotto il dominio dell'imperiale scettro di Germania. La libertà d'Italia dover nascere dall'esclusione degli Austriaci, nemici naturali della Francia, non dall'indebolire gli stati neutri, ed alleati naturali di lei. Restare adunque inutile il dare il ducato di Parma alla Cisalpina; doversi dare a chi non è forte abbastanza per dar timore agli amici della Francia, a chi è forte abbastanza per farsi portar rispetto; perdere, è vero, Genova qualche territorio, ma conseguirne altri alla sua integrità meglio conducenti, ed uscire oltre acciò da ogni servitù imperiale, ed acquistare titoli più sicuri sui feudi imperiali; non potersi, senza sollevar tutta Europa, unir Genova alla Cisalpina, non potersi per la ragione medesima, nè senza pregiudizio degl'interessi commerciali, nè senza far forza ai limiti naturali unirla alla Francia, quantunque a questo partito spignessero gli aristocrati scontenti allo essere esclusi per la nuova costituzione dai primi luoghi dello stato; doversi pertanto, ove Genova si volesse disfare, darne parte al re di Sardegna, parte alla Francia, o tutta darla al re, che cederebbe in iscambio alla Francia l'isola di Sardegna; opportunissima essere al dominio Francese la Sardegna, ricca per se, ricchissima, se venisse in mano di Francia. Di nissun momento essere Massa e Carrara alla Cisalpina, per essere spiaggia importuosa, e solamente povero rifugio di barche pescherecchie, di grande Guastalla per essere a cavallo del Po, per signoreggiare la navigazione del fiume, e per far sicura la comunicazione fra le due parti della repubblica situate sulle due opposte rive; torsele conseguentemente una misera parte, unita a lei per poca terra, darsele una parte ricca, opportuna, ed a lei per limiti naturali congiunta; sottomettere al dominio del duca di Parma la Toscana piacere alla Spagna, principalmente alla regina, di sangue Parmense. Per esso pareggiarsi vieppiù la potenza delle due emole prosapie di Parma e di Napoli, offerirsi alla prima la occasione di riguadagnarsi lo stato dei Presidj, internati nella Toscana, e sui quali pretendeva Napoli sovranità; soddisfarsi Madrid delle condizioni stipulate nel trattato d'alleanza, ed avere perciò la Francia più fondata ragione di richiedere dal re Carlo, facesse maggiori sforzi, acconsentisse più volentieri ad ulteriori accordi; quel tumore delle menti Spagnuole avere a compiacersi di un più alto titolo; e se Roma fosse per cambiar di sovrano, doversi lei dare piuttosto ad un principe di parte Spagnuola, e per conseguente unito alla Francia, che al re di Napoli, ed al gran duca di Toscana tanto congiunti di sangue, o di parentela, o d'opinione colla parte Austriaca. Ragionavasi ancora, che con questo si verrebbe a torre all'imperio d'Inghilterra il porto tanto importante di Livorno. Oltre a tutto ciò toccava il conte Balbo, e chi parlava per lui, che l'avere l'Austria acquistato il paese Veneto, la faceva più grande in Italia; essere perciò necessario crearvi nuova potenza contro nuova potenza, con dare alla repubblica Cisalpina un governo savio e forte, e con allontanare dall'Italia il principe Austriaco di Toscana, e con sostituire a lui un principe, che potesse entrar nella lega Italica destinata a frenare in Italia la potenza dell'imperatore; parere somigliante al vero, che avessero a sopprimersi in Alemagna gli elettorati ecclesiastici, e crearsi in luogo loro tre elettorati laici, dei quali uno sarebbe probabilmente protestante; da ciò ne nascerebbe, che l'Austria pruoverebbe l'autorità sua diminuita nel corpo Germanico, e volentieri vedrebbe, che uno degli elettorati nuovi cedesse in capo di un principe del suo sangue: il quale ordine crescerebbe il numero degli elettorati insino a nove, come erano innanzi che i due della casa palatina si riunissero in un solo. Pure per questo non acquisterebbe l'Austria la pluralità dei voti, che restar doveva in avvenire in favore della Francia. Meglio ancora sarebbe se l'elettorato di Colonia a questo ramo d'Austria, cioè al gran duca di Toscana, si concedesse, perciocchè la Francia avrebbe in tal caso sulla sinistra sponda del Reno un pegno, che in accidente di guerra potrebbe agevolmente occupare.

L'ambasciadore Piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo dimostrare, che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il beneficio di Francia, procedeva più avanti, forse poco prudentemente, perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte. Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche Italiane non potevano di per se stesse sussistere; che la parte dell'Austria vi era la più forte, ch'essa proromperebbe tostochè i Francesi levassero le forze loro, che erano il solo freno che la tenesse lontana da quei paesi: che forse la parte stessa democratica era prezzolata dall'Austria per impedire, che la Lombardia non fosse data al re di Sardegna; che se l'Austria conducesse i suoi disegni a compimento, sarebbe il re casso dal novero delle potenze d'Europa, e la Francia avrebbe, in vece di un amico fedele e che anche fatto più potente non potrebbe pregiudicarle, un vicino pericoloso, e nemico naturale del nome Francese. Necessaria cosa essere adunque, che si compensassero al re le perdite fatte, e che se gli assicurassero gli stati; il che meglio e più fermamente non si poteva fare che col metterlo in possesso della Lombardìa: offerire il re alla Francia un testimonio irrefragabile della sincerità sua, e della sua avversione verso il giogo Austriaco in questo, che dappoichè, dopo gl'inutili tentativi di ben quattro anni, erano i Francesi penetrati in Piemonte, ed era stato il re liberato dalla dominazione Austriaca, aveva egli tostamente fatto la risoluzione di gettarsi alla parte Francese, e presto l'Italia intiera era venuta in potestà loro: se il re non avesse giudicato conveniente di fidar tutte le cose sue ad un'intima connessione dei veri e reali interessi della Francia co' suoi, se per questa ragione non avesse accettato le durissime condizioni, alle quali fu posto; e se solamente, come poteva, perchè intatte ancora, e fornite di tutto punto erano, avesse atteso a difendere le sue fortezze, nè l'abilità, nè la fortuna di Buonaparte, nè il valore de' suoi soldati sarebbero stati bastanti a fare, che la vittoria alle armi Francesi si assicurasse; il che esser vero Buonaparte stesso pensava, e l'aveva affermato più volte.

Queste Piemontesi insinuazioni, che tendevano, secondo il costume dei tempi, a spodestare altrui, erano astutissime, siccome quelle che sempre toccavano quel tasto prediletto alle orecchie dei Francesi tanto desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia, e dell'aumento della potenza propria. Perciò erano udite volentieri, non già dal direttorio, sempre invasato da' suoi pensieri di rivoluzione, ma da chi stava a lato a lui, e molto con lui poteva. Le avvalorava anche con sue lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari esteri, male conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la spesa, che si facessero ammazzare quaranta mila Francesi per loro; errare il ministro in pensando, che la libertà potesse far fare gran cose ad un popolo, come affermava, molle, superstizioso, commediajo, e vile; volere il ministro, ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli; ma non saperne fare, non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse quindici centinaja di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze di diverse città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare, che a far guerra: il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più forte di tutta la Cisalpina; non permettesse, diceva, che qualche avventuriere, o fors'anche qualche ministro gli desse a credere, che ottanta mila Italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti Parigini, bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'Italiani: se i ministri Cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse all'esercito più di quindici centinaja dei loro, e più di due mila destinati a mantener il buon ordine in Milano, rispondesse loro, che dicevano bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser buone a dirsi nei caffè, e nei discorsi, ma non ai governi: romanzi esser quelle, che son buone a dirsi nei manifesti, e nei discorsi stampati; doversi ai governi parlar di un altro suono, perchè le falsità gli sviano, e le male strade gli fan rovinare; non l'amore degl'Italiani per la libertà e per l'equalità aver ajutato i Francesi in Italia, ma sì la disciplina dell'esercito, il valore dei soldati, il rispetto per la repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; avere ad essere un abile legislatore quello, che potesse invogliar dell'armi i Cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo si ordinerebbe bene la loro repubblica insino a metter su trenta mila soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di Svizzeri, ma per allora non vi si potere far su fondamento. Nè maggior capitale potersi fare dei patrioti Cisalpini e Genovesi doversi aver per certo, che se i Francesi se ne gissero, il popolo gli ammazzarebbe tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarj di niun conto sono e Genovesi e Cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia per avere un ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza Austriaca, che lo stringere amicizia col re di Sardegna, e fermare con lui un trattato d'alleanza.

Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era negoziato, quando ancora l'imperatore combatteva in Italia, e tuttavia erano gli eventi della guerra dubbj. Infine era stato concluso il dì cinque aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella della Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli erano, fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del continente, solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra ad altro principe, che all'imperatore di Germania, ed il re se ne stesse neutrale con l'Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i loro stati d'Europa, e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì esterni che interni, fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli, quaranta cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di Francia; partecipassero nelle taglie poste sui paesi vinti in proporzione del numero loro: quelle poste sugli stati del re cessassero; niuna parte potesse fare accordo col nemico comune, se non comune; si stipulasse un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più possibil fosse, avvantaggiasse, alla pace generale, o del continente le condizioni del re di Sardegna.

Questo trattato, che prometteva giorni più lieti e più sicuri al Piemonte, ed avrebbegli anche adotti, se meno perversi fossero stati gli uomini, o meno avversi i tempi, conteneva una condizione principalissima, e di tutto momento pel re, e quest'era la guarantigia degli stati contro i nemici sì esterni che interni, gli uni e gli altri pericolosi, i primi per la forza, i secondi per quella sequela delle cose Milanesi e Genovesi. Debbono i Piemontesi averne una perpetua gratitudine a Priocca per aver saputo far sorgere di mezzo a tanta tempesta una speranza così grande di salute; perchè, se il vantaggio dello avere per ausiliari diecimila Piemontesi non era da sprezzarsi per la repubblica di Francia, bene era molto maggiore pel sovrano del Piemonte la stipulata sicurezza degli stati, e per questa parte era il trattato più glorioso al principe, che alla repubblica. Restava, che i consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè già il direttorio l'aveva appruovato. Qui sorsero parecchie cagioni d'indugio, prima da parte del governo regio, che desiderava, che la ratificazione fosse susseguente alla pace con Roma, e che il suo ministro a Vienna ne fosse uscito e condotto in salvo, poi per parte della Francia, perchè a questo tempo stesso erano stati fermati i preliminari di Leoben; e siccome la principal condizione dell'alleanza consisteva nel far guerra di concerto contro l'Austria, pareva, che il ratificare, ed il pubblicare il trattato potesse sturbare le pratiche di fresco aperte con l'imperatore. Ma il re, sentiti i preliminari di Leoben, insisteva ostinatissimamente per la ratificazione, perchè aveva timore delle turbazioni interne, e sospettava, giacchè l'imperatore era stato costretto a chiedere i patti, che il direttorio si ritirasse da lui, e si stipulassero nei sorti negoziati cose contrarie ai suoi interessi. Temeva di restar solo esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più formidabili, quanto egli con maggiore sincerità e calore si era gettato alla parte Francese. Per questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti, e con mezzi più forti ancora che le ragioni, acciocchè il trattato si appresentasse per la ratificazione dal direttorio ai consigli. Secondava Buonaparte con le lettere i tentativi del conte. Badassero bene, scriveva, non essere punto sicure le cose coll'imperatore; ad ogni momento potersi rompere la guerra; se non ratificasse al trattato, per questo solo diventerebbe il re di Sardegna nemico, perchè si persuaderebbe, e con ragione, che la Francia volesse al tutto la sua rovina; per la medesima ragione, e dovendo tenere il re in grado di avverso alla Francia, sarebbe egli, Buonaparte, necessitato a mettere un presidio di due mila soldati in Cuneo, altrettanti in Tortona, altrettanti in Alessandria; avere conseguentemente l'esercito ad esser diminuito di sei mila combattenti necessari a custodire le piazze Piemontesi, e di più, di altri sei mila necessari a guernire le Milanesi: quest'erano i castelli di Milano e di Pavia, e la fortezza di Pizzighettone. Per tal modo, se non si ratificasse per parte della Francia il trattato, si perderebbero dieci mila Piemontesi, ottimi soldati, e dieci mila Francesi, destinati a tener sicure le spalle dell'esercito Italico, e ad allontanare accidenti sinistri in caso di sconfitta. Perchè non voler mandare ad effetto quello, che si era stipulato? Forse per lo scrupolo di collegarsi con un re? Essersi bene la Francia collegata coi re di Spagna e di Prussia. Forse il desiderio di sovvertire il Piemonte? Ma perciò fare senza strepito, senza mancar di fede al trattato, anche senza offendere la buona creanza, miglior mezzo essere (quest'era veramente pensiero Buonapartiano) il mescolare ai soldati di Francia diecimila soldati Piemontesi, fiore e parte eletta della nazione, e fargli partecipi delle vittorie Francesi; sei mesi dopo sarebbe il re di Piemonte detruso dal trono. Stringere la Francia con le sue forti braccia, qual gigante, e serrare, e soffocare un pigmeo: tal essere la necessità delle condizioni Piemontesi. Se ciò non s'intendesse, soggiungeva, non saper che farci, e se alla politica savia e vera, che si conveniva ad una grande nazione chiamata a gran destino, e che ha a fronte nemici potentissimi, si sostituissero le ciarle democratiche, non saper che farci, e niuna cosa potersi fare, che buona fosse.

A queste cose vere, e con sincerità fraudolenta dette da Buonaparte, rispondeva dal canto suo cose vere, e con sincerità apparente dette, Carlo Maurizio di Talleyrand: non volere il direttorio ratificare il trattato concluso col re di Sardegna; implicar contraddizione il far patti solenni con una monarchia, la di cui prossima distruzione potrebbe esser l'effetto di quanto la Francia aveva operato in Italia: sarebbene il direttorio accusato dello stesso procedere machiavellico, col quale aveva proceduto il re di Prussia verso la Polonia. Di più, il capitolo del trattato, che più stava a cuore al re di Sardegna, quello essere, per cui se gli faceva sicurtà del suo regno; ma non potere la Francia dare ai re questa sicurtà contro i popoli; un tale patto condurrebbe la Francia a far la guerra a quelli stessi principj pei quali aveva essa combattuto sino allora, ed ai quali era della maggior parte delle sue vittorie obbligata; diventerebbe il Piemonte posto tra la Francia e l'Italia, ambedue libere, quello che il suo destino volesse: ma non poter altro in ciò fare la Francia, che lasciare andar le cose al loro naturale corso. Conseguitarne da tutto questo, che l'esercito Italico non avrebbe i diecimila Piemontesi; ma niuna cosa poter impedire, che Buonaparte avesse dal Piemonte quanti soldati volesse; non mancarvi uomini disposti a combattere per la libertà sotto le insegne Buonapartiane; tutti i novatori, tutti i sovvertitori accorrerebbero, solo che Buonaparte muovesse la Cisalpina ad arruolargli, a soldargli, a fornirgli: avrebbesi a questo modo, continuava a dire Talleyrand, il piccolo esercito, che il re dovrebbe dare in virtù del trattato, e nissun obbligo si avrebbe ad un principe di casa Borbone (scrivo Borbone, perchè così trovo scritto). Forse il re medesimo si compiacerebbe di queste chiamate, siccome di quelle, che lo libererebbero da gente inquieta e pericolosa: questo consiglio utile alla Francia ritarderebbe la rivoluzione Piemontese: ma non importare, sì veramente che la Cisalpina pagasse: pagar già molto la Cisalpina, ma all'ultimo non esser che denaro: aver bene la Francia comprato la libertà più caro prezzo.

Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse mostrate appunto, perchè ei trovasse modo di ammollirle, o che le cose di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura coll'Austria, il trattato d'alleanza con la Sardegna era mandato dal direttorio ai consigli, e questi il ratificarono. Così, rescriveva un quinqueviro di Parigi a Buonaparte, avrebbe adempiti i suoi desiderj, e potrebbe stare a sicurtà sulle truppe Sarde; potrebbe mandar ad effetto i disegni, che sopra di esse aveva concetto, dar loro nuovi ufficiali, e preparare per tal mezzo quello, che in altro modo bisognerebbe effettuare, se la pace si facesse; conciossiachè in quest'ultimo caso, continuava a discorrere il quinqueviro, sarebbe forse incomodo impaccio, se il governo Francese si trovasse vincolato per una ratificazione, alla quale avrebbe acconsentito pel solo rispetto della guerra. Quest'era la lealtà del direttorio nel momento stesso, in cui stringeva, non che amicizia, alleanza col re di Sardegna. Che fede fosse questa io non lo so; questo so bene, che non era fede Italica. Da questo si vede, in quale conto si debbano tenere le protestazioni di lealtà, che in nome del direttorio andavano facendo, nelle loro allocuzioncelle accademiche, i suoi ministri in occasione degl'introiti loro ai re d'Italia, e principalmente a quel di Sardegna.

Mentre così, come abbiam raccontato, il governo repubblicano di Francia studiava modo di usare le forze del re di Sardegna durante la guerra, e di distruggerlo durante la pace, i semi venuti di Francia, e pullulati con tanto vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i frutti loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete, procedevasi alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse, oltre le opinioni dei tempi, le condizioni infelici di quel paese; imposizioni gravissime, quantità esorbitante di carta moneta, che scapitava del cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia eccessiva, e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami dei soldati repubblicani o di stanza nel paese, o di passo, le leve di genti, sì pei regolari che per le milizie molto onerose, l'orgoglioso procedere dei nobili, certamente intempestivo, stantechè da lui principalmente nasceva la mala contentezza dei popoli, e contro di loro specialmente si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava rimedio nè la natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i consigli prudenti dei ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al conte di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo, quanto svegliato d'animo. Amatore del bene solo pel buon ordine, odiatore del male solo pel mal ordine, indovinava gli uomini, e gli sapeva frenare. Cercatore di mercati assiduo, esploratore notturno di conventicoli, scopritore acutissimo di volti infinti, si vedeva che in lui più poteva la natura che l'arte, ancorachè l'arte potesse moltissimo, e se per debito spiava, spiava molto più per inclinazione. Della nobiltà non si curava, dei re poco, della libertà si rideva, della non libertà parimente, i patriotti perseguitava piuttosto per vanagloria dell'arte, che per opinione. Insomma ei fu uomo, non dirò già più tristo dei tempi, ma bene tanto astuto, quanto i tempi avviluppati, e se campo più largo alle abilità sue avesse avuto, che il Piemonte non era, avrebbe lasciato una gran pruova di quanto possa a far muover gli uomini a posta d'uomo il conoscergli. Fu accusato di sangue, di ruberìe, di ricchezze illecite. Punì qualcheduno, ma sospinto dalla rabbia altrui; fu continente da quel d'altri, morì coi beni paterni non aumentati. Un Bonino, cameriere del marchese di Cravanzana, ed un Pasio, materassajo, furono sostenuti, come di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per alla Venerìa a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta gente, trovarono nissuno. Si disse, un Santini, spia di Castellengo, avergli messi su, poi traditi; ma non fu vero, e Castellengo non era uomo da simili giuochi, non che avesse scrupolo, che veramente non aveva, ma gli parevano inezie sanguinose per niente. Intanto l'astio delle due parti vieppiù s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regj a Novara con lacerar di forza certe nappe d'oro, che i giovani Novaresi portavano sui cappelli: fuvvi gran tumulto, e qualche ferita. Tumultuava il popolo a Fossano, pretendendo il caro dei viveri, e faceva oltraggio alle case del conte San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usurajo: poi i sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di libertà, preso principio dalla bottega di un panattiere, che non voleva vender pane. Questi erano cattivi segni di un peggior avvenire; ed appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il livore un caso molto lagrimevole; che un medico Boyer con un compagno Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso, e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù, che possono capire in mortali uomini. Era egli certamente amico di libertà, ma per lei, non per lui: aveva l'animo innocente, e dell'innocenza prima; il mal fare odiava più che la morte, ed il mal fare degli altri il muoveva piuttosto a compassione che a odio; tanto era la natura sua dolce e comportevole. Amici e nemici piangevano le sue disgrazie. Egli solo, come se l'animo suo albergasse in altra miglior regione che questa non è, non rimetteva dalla dolcezza e serenità consuete. Eppure tanto amore lasciava nell'estremo supplizio!

I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chieri e Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano. In Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè i novatori, prese improvvisamente le armi, combattevano i soldati regj, che in numero di mila cinquecento vi stanziavano, e gli facevano prigioni con insignorirsi intieramente, non solo della città, ma ancora del castello. Poi chiamavano a libertà le terre vicine, in aiuto i patriotti lontani: Canale ed Alba romoreggiavano da vicino, Mondovì da lontano. Poco stante si udiva di nuovi romori a Biella, che oppugnata da una banda di novatori guidati da un conte Avogadro, e venuti parte da Cambursano e da Pollone, parte dalla valle di Mosso, fu tosto ridotta in estremo pericolo; perchè mentre i soldati regj combattevano gli assalitori da una parte, gli altri sforzavano il comandante ad arrendersi con dare in mano loro armi, e vettovaglie. Al tempo medesimo nella già tentata Novara prevalevano i regj, ma fu più insidia che onorevole vittoria; conciossiachè i soldati a ciò spinti da parecchi ufficiali, andavano facendo molte grida di libertà per fare scoprir i libertini: un solo fu colto all'agguato, perchè gridò, e non così tosto ebbe gridato, che restò ucciso. Nissun altro si scopriva, perchè avevano conosciuto l'inganno. Ma il moto, come suole avvenire, non poteva terminarsi di leggieri: i soldati correndo alla scapestrata incominciavano a mettere a sacco le case di coloro, che erano in voce di desiderar le novità; poi saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città non andasse tutta a ruba. Un Seminoli, che fabbricava orologi, un Martinez gioielliere ne andavano con la peggio. Ho per testimonj uomini gravi, i quali raccontano, essersi veduto il dì seguente un ufficiale portar in dito l'anello della moglie del saccheggiato Martinez. La qual cosa io nè affermo, nè nego; basta bene, che il farlo veramente, ed il dirlo falsamente erano degni ugualmente di quei tempi.

Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa dal popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di libertà, o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re, o per odio contro i novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo si faceva sangue, o si temeva che si facesse. Già si sospettava di Torino; ma ottomila fanti, e duemila cavalli chiamati in fretta per sussidio della regia sede, e posti a campo sullo spaldo della cittadella minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte stesse della città regia udirsi un romor confuso d'armi e d'armati: erano i Moncalieresi, che levatisi a romore, e sovvertita in Moncalieri l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo di andar più oltre a tentar Torino. Eransi i Moncalieresi a ciò mossi principalmente dai romori di Asti e di Carignano, e dalla stretta dei viveri, parte vera, parte esagerata dagli spaventi popolari, parte con vivi colori descritta dai novatori, levati a sedizione, e corsi sulla piazza per cui si ascende al castello, creavano tumultuariamente una immagine di reggimento popolare, non conoscendo bene nè che cosa si volessero, nè qual pericolo portassero in tanta vicinanza della sede della metropoli ottimamente munita d'armi e di munizioni. Sogliono i popoli sollevati nei primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto i loro maneggi per tirar le cose a se, ricorrere, e far capo a personaggi autorevoli per dottrina e per virtù; il che lascia poi la solita coda dei martirj dei buoni, non solo abbandonati, ma ancora dati in mano ai persecutori da quei popoli medesimi, che gli avevano fatti capi delle imprese loro. Viveva a questi tempi in Moncalieri un uomo dottissimo, e tanto buono quanto dotto, dico Carlo Tenivelli, autore elegante di storie Piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi, avverso per natura, siccome quegli che Italianissimo era, da quanto venisse d'oltre Alpi, ed oltre a ciò di costume molto indolente e non curante, non avendo attività alcuna se non per iscrivere storie, non aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e molto meno quelle che si assomigliassero alle Francesi. Divoto alla casa di Savoja, dedito, anche con singolare compiacenza, ai nobili, non era uomo, non che a fare, a sognar rivoluzioni. Per me, quando considero la natura sua, e quella del La Fontaine, celebrato favolatore di Francia, mi pare, che non mai chi crea tutto, abbia creato due nature tanto l'una all'altra somiglianti, quanto quelle di Tenivelli e di La Fontaine, solo ed unicamente in ciò differenziandogli, che l'uno era formato per aver ad essere uno storico egregio, l'altro un favolatore eccellente. Suonavano l'armi e le grida tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli non se ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni. Ma i sollevati avvisandosi, che il buon Tenivelli tornasse in acconcio di ciò che desideravano, tanto buono egli era, ed alla mano con tutti, lo andavano a levare di casa, e per forza il portavano in piazza, senza che egli ancora si avvedesse, che cosa volesse significare tanta novità. Insomma condottolo sulla piazza, e fattolo montar sulle panche, gli dicevano: “Fa, Tenivelli un discorso in lode del popolo”, ed egli, che eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo: poi gli dicevano: “Tenivelli tassa le grasce, che son troppo care”, ed ei tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che mi vien le lagrime in pensando al fine, che il fato gli apprestava. Tassate le grasce, ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano, come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino. Scrivono alcuni, che Tenivelli gli guidasse, ma non fu vero; e se fosse stato, sarebbe certamente stato guida poco acconcia, siccome quegli, che mezzo cieco essendo, appena vedeva lume.

In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava per la guerra civile, e che il suono dell'armi contrarie si udiva per fin dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo, scoprendosi in questo, qual differenza sia fra uno stato enervato, qual era quel di Venezia, uno stato male armato, qual era quel di Genova, ed uno stato forte e bene armato, qual era quel del Piemonte. Il giorno stesso, in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re con un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei giudici ordinari sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli. Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville di Moncalieri, il che era più facile, e più pronto per la vicinanza, e pel gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai soldati, in ciò insistendo massimamente il conte di Sant'Andrea, recentemente creato governator di Torino, buon soldato, e che sapeva quanto i buoni soldati valessero contro i popoli tumultuanti, andassero contro i ribelli, e gli vincessero. Non poterono i sollevati sostenere l'impeto delle compagnìe regie, e in poco d'ora si disperdettero; tornava Moncalieri sotto la consueta divozione.

Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando, che quel che aveva fatto, fosse male, non che delitto, se ne veniva quietamente in Torino, e quivi tornava sui soliti studj, come se gli accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo, o di un altro secolo. Passava arrivando tra file di soldati minacciosi, che nol conoscevano, e grande era la sicurtà sua: tanta era in lui l'astrazione e la fissazione negli studj, tanta la bontà, tanta l'ignoranza degli affari di questo mondo. Ma gli amici gli dicevano: “Tenivelli, che hai fatto? o fuggi, o ti nascondi, se no, tu sei morto”. Non la sapeva capire: tornava nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa di un soldato Urbano, che faceva professione di libertà; il soldato per prezzo di trecento lire il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri, e condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non cambiava nè viso, nè parole. L'innocenza della vita il confortava, non era coraggio il suo, perchè il coraggio suppone uno sforzo, ma una mansuetudine, una equalità d'animo, tali che l'aspetto della vicina morte in modo alcuno non turbava. Introdotti gli amici piangevano, ed ei gli confortava. Raccoltosi, scriveva una lettera a sua sorella, il suo unico e diletto figliuolo Carlo, ancor fanciullo, raccomandandole. Poi con la verità paragonando il fallo che gli era imputato, e che a sì cruda ed a sì acerba morte il traeva, ed in mente recandosi tutta la vita sua, e quel che aveva fatto, e quel che aveva scritto, e più ancora quello che aveva in animo di fare e di scrivere ad onore del re e dei nobili, ed a gloria di una patria, che già aveva illustrato con gli scritti ed onorato con le virtù, rimetteva alquanto, in sì estrema sventura, dalla consueta mansuetudine, e scriveva, un'ora prima che andasse a morte, un sonetto pieno di spirito poetico, di pietà verso Dio, di sdegno contro i suoi percussori. Condotto sulla piazza di Moncalieri, gli fu rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche.

Va, mio maestro, che conforto emmi della tua morte il poter raccontare ai posteri le tue virtù, e se nell'altra vita conservano le anime presso il pietoso Iddio memoria, siccome credo, di quanto hanno operato nella presente, non tu ti pentirai, spero, dello avermi ammaestrato, nè io mi pentirò dello aver collocato nella più intima, e più ricordevol parte dell'animo mio i tuoi puri e santi erudimenti; imperciocchè ama il cielo, e ricompensa così l'amore dei maestri, come la gratitudine dei discepoli. Tu mi desti più che i parenti miei non mi diedero, poichè non la vita del corpo, ma quella dell'anima coi civili insegnamenti mi desti; e morendo ancora per atroce caso, mi mostrasti, come si possa concludere una innocente vita con una generosa morte. Così e vivendo e morendo a me fosti di utili precetti, gli uni pur troppo amorevoli, gli altri pur troppo funesti, fonte, ond'io durante questo mortal corso apprendessi nella prospera fortuna a temperarmi, nell'avversa a confortarmi, e se chi leggerà queste mie storie, potrà giudicare, ch'io non mi sia del tutto indegno discepolo di un tanto maestro, tu ne goderai nel celeste tuo seggio, ed io mi crederò di non aver impiegato indarno il tempo e le fatiche mie.

Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio. Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso, e per temperare un furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar adito al pentimento, e forza contro i renitenti, che si perdonassero le offese a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i sudditi si armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile per l'effetto, feroce per l'esecuzione: perchè i contadini, gente ignorante e fanatica, commettevano enormità degne di eterne lagrime, non portando più rispetto agli aristocrati che ai democrati, nè più ai nobili che ai plebei. Sanguinosa era per ogni parte la terra del Piemonte. Pure da questo editto conseguiva il governo gran parte dell'intento; perchè i novatori, interrotte le strade, non potevano più nè accordarsi, nè accorrere gli uni in ajuto degli altri.

Siccome poi per pretesto principale di tanti movimenti sfrenati si allegava la carestia dei viveri, ed anche era andata la stagione molto sinistra pel grano e per le biade, si facevano provvisioni sull'annona, e fra le altre, che nissuno potesse negar grano, o qualunque biada al pubblico, ove le volesse comprare al prezzo comune: ancora, che gli affitti dei terreni coltivati a riso le diecimila lire, que' dei terreni coltivati a grano e ad altre biade, le cinquemila non potessero passare; il qual consiglio era diretto ad impedire i monopolj, fonti di caro nei viveri, di sdegno nei popoli.

Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava, era il disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze, e della cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista, gli uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste del Piemonte. Si sforzava il governo, premendo tanto i tempi, a rimediare ad un pregiudizio sì grave con obbligare, insino alla somma di cento milioni, con pubblico editto ai possessori dei biglietti, per sicurezza del loro credito, i beni degli ordini di Malta, di San Maurizio e Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare, eccettuati i benefizj vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando a tanta pernicie, diminuiva, poco dopo, il valore della moneta erosa ed erosomista, e al tempo medesimo creava, con autorità del papa, una tassa di cinquanta milioni sul clero; sopprimeva, pure con autorità del pontefice, i piccoli conventi, e le chiese collegiali. Ordinava inoltre, che si esponessero all'asta pubblica le abbazìe, ed altri benefizj di patronato regio, e che i fondi di commercio pagassero il dieci per centinajo, gli stabili il quattro. Poi la tassa sul clero, insolito a portar i carichi dello stato, non riscuotendosi, ordinava che la sesta parte dei beni ecclesiastici e militari forzatamente si vendesse. Dai rimedj stessi si può argomentare della grandezza del male. Pure pochi credevano, che fossero per bastare, e forse nemmeno quelli che gli usavano.

Miravano questi provvedimenti alle rendite dello stato, ed al far tollerabile il vitto del popolo; altri se ne facevano per mansuefar le opinioni, buoni in se perchè giusti, ma insufficienti perchè i novatori a niuna cosa, che venisse dal re, volevano star contenti. Toglieva il re con nuovo editto a' nobili la facoltà che avevano di nominare i giudici delle terre, e voleva che le spese dei processi criminali, che prima delle sentenze erano a carico loro, abuso enormissimo, si addossassero alle finanze. Statuiva ancora, che le bandite, ed i forni costretti fossero, ed intendessersi soppressi, e così ancora fossero, ed intendessersi soppresse le primogeniture ed i fidecommissi, e che i beni feudatarj si convertissero in allodiali, e si soggettassero alle tasse. Creava infine nuovi luoghi di monti, volendo che in loro si potessero investire i biglietti di credito, e la moneta erosomista.

Con tali consigli sperava di poter fare appoggio allo stato che pericolava. Ma due rimedj assai più efficaci di questi gli apprestava il cielo, che per istrano destino voleva che la monarchìa Piemontese non cadesse, se non dopo che avesse pruovato tutte le amarezze di una lunga e penosa agonìa. Fu il primo l'ajuto dei propri soldati, l'altro l'amicizia di Buonaparte. Le truppe regie virilmente combattendo, e condotte dal conte Frinco, ricuperavano Asti. Già Biella, Alba, Mondovì, Fossano, e Racconigi nell'antica obbedienza rimettevano: già Carignano, Moretta, ed altri luoghi vicini a Torino ritornavano per forza al consueto dominio, e già non si aveva più timore, che le valli di Pinerolo abitate dai Valdesi, sulle quali non si stava senza qualche sospetto, tumultuassero, solo alcune teste di novatori più ostinati o più coraggiosi, facevano qua e là qualche resistenza. Ma toglievano loro intieramente l'animo le lettere di Buonaparte scritte al marchese di San Marsano mandato a Milano ad implorare ajuto alle cose pericolanti, e che a considerato fine furono pubblicate dal governo regio. Recavano le Buonapartiane lettere, che la repubblica di Francia, era soddisfattissima del governo del re, che non solamente non doveva sua maestà aver timore della Francia, ma che il generalissimo era parato a fare quanto sapesse desiderare per assicurarla, e per restituir la quiete ad una corte, che aveva dato testimonianze vere de' suoi buoni sentimenti verso la Francia; che alcun pensiero non aveva di mandar in Piemonte la legione Lombarda, di cui il re temeva per esservi dentro molti novatori Piemontesi, e che si mostrava incitatrice a cose nuove; che solo aveva in animo di mandar un battaglione Polacco, ma che neanco questo manderebbe, se al re dispiacesse; che già quel Ranza, promovitore di scandali in Piemonte coi suoi scritti, aveva fatto arrestare; che finalmente era desideroso di testimoniare a sua maestà l'amicizia, che la repubblica di Francia aveva per lei, ed il desiderio suo proprio in contribuire che ella vivesse contenta e felice. Così Buonaparte diede volentieri al re di Sardegna quel sussidio, che con pretesti vani aveva ostinatamente negato a Venezia. Della quale differenza la cagione sia manifesta a chi si farà a considerare le cose da noi fin qui raccontate.

Qual fosse l'amicizia della repubblica di Francia verso il re di Sardegna, di sopra si è veduto, e si vedrà anche maggiormente in appresso. Quanto all'ufficio di Buonaparte, era buono e lodevole, e sarebbe stato anche più, se prima che entrasse in Piemonte, e dopo che vi era entrato, non avesse, secondando le intenzioni del direttorio, con parole ed esortazioni efficacissime stimolato i democrati a muoversi, ed a far rivoltar lo stato, mostrando anche loro lettere di un quinqueviro che risolutamente affermavano, non essere mai la repubblica di Francia per far la pace col re, ed anzi essere intenzione di lei di torgli lo stato. Queste furono le parole del generalissimo, questi gli scritti del quinqueviro: per le une e per gli altri avevano dato i democrati Piemontesi il denaro loro al capitano di Francia per ajutare il suo ingresso in Piemonte, ed ei se lo aveva preso, e ne aveva fornito i soldati delle cose più necessarie. Intanto le lettere di Buonaparte partorirono l'effetto che se ne aspettava. I novatori, già rotti dai soldati regj, ed ora caduti dalle speranze degli ajuti di Francia, posarono intieramente. Domati i democrati, si faceva passo dalle battaglie ai supplizj: erano giusti, perchè contro i ribelli, ma sì frequenti, che parevano piuttosto vendetta che giustizia. Di quattordici si prendeva l'estremo supplizio a Biella; un abbate Boffa fu del numero; di più di trenta in Asti, degli avvocati Testa, ed Arò, dei fratelli Berruti, e di un Celotto di men chiaro nome; nè Moncalieri stava senza sangue, oltre quel di Tenivelli. Vidersi più di dieci giustiziati a Racconigi; poi si soprastava per intercessione del principe di Carignano, dolente di veder quella sua terra piena di sangue. Notossi fra i giustiziati un giovane Goveano di natali onesti, ed apparentato con famiglie di buona condizione. A questo tratto fu molto biasimato, anzi lacerato il governo, come di una cosa enorme, e questa fu, che il re avendo ordinato, che si perdonassero ed in dimenticanza si mandassero i fatti di Racconigi, fu il supplizio susseguente al perdono. Affermavano in contrario i difensori del giudizio, che Goveano, non per delitti politici, ma per comuni era stato condannato dal consiglio di guerra. Ma questi delitti comuni, alla realtà dei quali da una parte ripugna la natura onesta del giovane, dall'altra dà fede l'autorità di una sentenza, in occasione dei delitti politici, e per loro erano nati, e con loro talmente mescolati, che meramente politici e formanti con essi un medesimo corpo avrebbero dovuto stimarsi da chi avesse più mirato ad una giusta sopportazione, che al rigore; e le perdonanze si debbono piuttosto allargare che restrignere. Certamente il fatto di Goveano portò con se un gran terrore, ed una gran compassione, e la fede molto meglio si sarebbe serbata, se si fosse perdonato a Goveano; imperciocchè tra delitti politici e non politici commessi a Racconigi, non si era fatta distinzione nell'editto del perdono, e l'infelice giovane già ridottosi in Francia sui primi fervori, si era, per sua fidanza nelle reali parole, restituito nella sua patria. Certo fu Goveano colpevole di grandi enormità contro lo stato, poichè era stato capo di ribelli; ma la fede di un monarca debb'esser più forte di qualunque reato. Il peggio che si potesse giustamente fargli, era, poichè sulla fede del re era venuto, che sulla fede medesima là fosse, dond'era venuto, ricondotto. A Chieri le palle soldatesche ammazzarono venti persone in un giorno; l'avvocato Roccavilla fu fatto passar per l'armi a Saluzzo, l'avvocato Fuggiani a Moncalieri. Tanti supplizj frenavano pel presente, preparavano rivoluzioni per l'avvenire; avrebbero raffermo uno stato intatto, indebolivano uno stato scosso, insidiato, e circondato da ogni parte da esempj pestiferi.

La moltiplicità dei supplizj non isvolgeva gli animi dall'infelice Boyer, perchè chiaro per la santità dei costumi, chiaro per le dipendenze della famiglia, faceva tutta la generazione intenta a lui. Una giunta mezzana tra militare e civile il processava. Pareva a tutti, essendo i soldati fedeli, incredibile che due giovani, se non fossero del tutto scemi, avessero concetto il disegno d'impadronirsi, come n'erano imputati, nella capitale stessa del regno delle armerìe reali e della cittadella. S'offerivano testimonj pronti al carcere per le difese, insistevano per pruovare, essere impossibile il delitto. Non furono ammessi, perchè si sospettava, che i testimonj amassero meglio servire alle amicizie ed alle opinioni, che alla verità. Pure quell'avere negato le difese parve a tutti, se non se agli arrabbiati, ed era veramente cosa incomportabile. Fu il condannar più crudele per l'occasione offerta di salvar un giovane, al quale tutti inclinavano con amor singolare. Castellengo fra i giudici, Priocca fra i ministri opinavano per la mansuetudine, il primo, perchè gli pareva che il sangue di quel giovane non importasse, il secondo per questo stesso ed anche per compassione. Fu Boyer col suo compagno Berteux sentenziato a morte: ambidue giustiziati sugli spaldi della cittadella. Leggo nei ricordi dei tempi, che il conte di Sant'Andrea, governatore di Torino, pascesse da una casa vicina la sua vista del giovane moriente: il che, non avendone certezza, lascio in dubbio. Se non fosse dei tempi, affermerei esser falso, perchè Sant'Andrea non era uomo di desiderj immani. Bene fu vero, che alcune dame e cavalieri, a tanto di durezza conducono le civil discordie, si lasciarono trasportare al volersi godere un piacer tanto crudo. La morte del Boyer contristava tutta la città, e la rendeva attonita e paventosa lungo tempo.

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